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Autore: _Lightning_    03/12/2019    5 recensioni
[INCOMPIUTA]
«Mi sembrava che ne avessi bisogno,» sussurra Natasha, con voce velata, e Tony sorride appena a quello sfoggio di spavalderia che sanno entrambi essere inutile.
«Decisamente,» non la contraddice, ma aumenta un poco la stretta e sente la sua farsi quasi disperata a sottolineare quanto ne avesse bisogno anche lei.
Come se quell’abbraccio potesse alleggerire il dolore di entrambi, o fonderlo in modo da renderlo più comprensibile, meno oscuro.
Non sa se Natasha lo stia trascinando verso il basso per piantare un ormeggio sicuro, o verso l’alto, a fluttuare incerto a mezz’aria. Ma sfiora la terra con la punta dei piedi e rimane lì, in equilibrio, in bilico con lei.

In un universo in cui lo schiocco ha reciso e distrutto legami, chi è rimasto è costretto a ricostruirli, ritrovarli, o crearne di nuovi, con il costante interrogativo di quanto sia giusto andare avanti quando ci si è lasciati così tanto dietro.
[pre-Endgame // Hurt-comfort // IronWidow + Pepperony // PoV Tony]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera, Pepper Potts, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Violenza
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y


 



.6.

Lancette


 


Soffiate via la polvere dai vostri orologi, sono rimasti indietro. 
Aprite le tende pesanti che vi sono tanto care – 
non lo sospettate nemmeno, ma là fuori sta già albeggiando.
A. I. Solženicyn

 

 

Gennaio 2019, Upstate New York, Complesso dei Vendicatori


Natasha si mette al posto di guida della sua Audi e Tony non protesta, visto che ha ancora più alcol che sangue in circolo. Si addormenta dopo pochi minuti quasi senza accorgersene, sprofondato nel sedile del passeggero con brandelli di sogni aggrappati alle ciglia.

Quando lei lo riscuote brusca, si trova a fissare i folti boschi dell'Upstate New York che circondano il Complesso. Il cielo è ancora grigio di neve, e ve n'è un generoso strato a smussare i pendii delle colline e le punte svettanti degli alberi smossi dal vento. Un ricamo bianco e freddo, appuntito come il gelo che gli pizzica la pelle e i fiocchi che si posano contro il vetro, frastagliati. Il fragore delle fronde richiama l'oceano con una stilettata dolceamara.


Scolla la fronte dal finestrino appannato e sente l'altra portiera che sbatte; si scosta appena in tempo dalla propria prima che Natasha la apra con decisione, rischiando di farlo ruzzolare giù dall'auto. Lui si districa dalla cintura di sicurezza e gli sembra di sentirsi infinitamente peggio di appena un'ora prima, ma scende comunque dalla macchina, senza trattenere una smorfia quando il suo piede affonda nella neve sul ciglio della strada con uno scricchiolio umido. Recupera la borsa e sente un cipiglio involontario che gli increspa la fronte, irrigidendola. Caccia le mani nelle tasche con un gesto brusco, stringendosi nelle spalle col mento affondato nel bavero, gli occhi socchiusi contro l’aria frizzante.

«Freddo?» chiede Natasha, perfettamente a suo agio nel suo habitat naturale.

«Odio la neve,» bofonchia lui tra i denti senza offrire chiarimenti, e si affretta a portarsi sull'asfalto cosparso di antigelo, sempre accartocciato su se stesso come una foglia secca.

Ha un brivido che sembra più una scossa elettrica e ha il sospetto che quelli siano in realtà primi sintomi dell'astinenza. Si trova automaticamente a desiderare un sorso di whiskey e deve dirottare a forza i propri pensieri, conscio che diventeranno solo più insistenti col trascorrere del tempo. Ci è già passato, e sapere cosa lo aspetta non lo rallegra. Sente lo scatto della serratura e le luci dell'Audi lampeggiano, dandogli un segnale per iniziare a incamminarsi verso l’entrata principale Complesso. Attraversa il patio di cemento esterno a passi cadenzati, sovrapposti a quelli più leggeri di Natasha subito dietro di lui, e sfoggia più sicurezza di quanto non senta.

«Quanto tempo è passato?» si informa a qualche metro dalla porta d'ingresso in vetro, ostentando un sussiegoso disinteresse.

«Manchi da ottobre,» replica lei, senza scomporsi, fuori dalla sua visuale. «Siamo a metà gennaio,» aggiunge, forse realizzando il fatto che, no, non ne aveva idea.

È rimasto bloccato col conto a dicembre. Un dicembre infinito, di neve e freddo e Vigilie solitarie, con le lancette dell'orologio incastrate sullo stesso secondo, a ticchettare incessanti nella sua testa, un colpo secco ad ogni battito. Rivolge un cenno d'assenso a Natasha e lei si porta infine al suo fianco, sembrando improvvisamente più distaccata di quanto sia stata finora.

«Chi è rimasto?» le chiede ancora, senza decidersi a fare quell'ultimo passo che lo separa dalla maniglia.

Natasha lo scruta a fondo, con la parte inferiore del viso coperta dalla sciarpa vermiglia e qualche fiocco di neve intrappolato tra i capelli. Lui passa una mano tra i propri di riflesso, trovandoli umidi, e una parte di lui vorrebbe entrare là dentro solo per sfuggire al gelo.

«Steve e Rhodes. Bruce va e viene; ora credo sia da qualche parte sulla costa Ovest. Ci teniamo in contatto con gli altri a distanza, anche se ogni tanto si fanno vivi, soprattutto Nebula e Rocket,» sciorina senza esitazioni. «Thor si è barricato a Nuova Asgard, in Norvegia,» aggiunge come ricordandosene ora, a indicare che sia un evento di vecchia data di cui ha un vago ricordo anche lui.

Tony annuisce di nuovo e non chiede di Barton.

Può sopportare la presenza di Steve, se non è costretto ad averci a che fare troppo spesso. Dovrà forse scusarsi con Rhodey – sicuramente. Con Bruce non ha più avuto molto a che fare da Ultron, se non per il fugace incontro prima... prima di tutto. Non sa cosa pensare di lui. Rocket è uno sconosciuto, ma gli è sembrato il tipo che ha una parola di scherno per tutti, indistintamente, e non lo ritiene un difetto. Nebula gli ha salvato la vita, e non gli dispiacerebbe ingaggiare qualche altra partita di finger-football con lei, ora che non sta morendo – non di fame, almeno. Natasha... Natasha è sempre un'incognita, ma per ora sembrano entrambi disposti ad andare un po' oltre la reciproca sopportazione.

Si lascia scorrere in testa quei legami ingarbugliati mentre ancora non si decide ad aprire la porta, con la borsa che inizia a pesargli sulla spalla. Esita sulla soglia. Gli sembra una decisione oltremodo definitiva, come se varcare quel confine potesse far apparire un solido muro dietro di lui. Non di mattoni, né di cemento o acciaio: qualcosa di intangibile e infinitamente più resistente di qualsiasi materiale conosciuto. Barriere mentali, una serratura che si chiude a chiave per poi lanciarla lontano lui stesso, perché è a corto di alternative.

«Da qui fai da solo?» lo riscuote Natasha, e lui non si volta a guardarla.

Usa quel solito tono di voce neutrale, che fa sembrare tutte le sue domande delle affermazioni, ma l'aggiunta della sua mano che gli stringe appena il gomito aggiunge quella stilla di attenzione in più che potrebbe davvero esigere una risposta da parte sua.

«Sì,» dice, o forse lo pensa e basta, e l'aria fredda gli punge le labbra già screpolate. «Sì,» ripete nel dubbio, un po' più forte, e una parte di lui vorrebbe contraddirsi.

Muove un passo deciso e spinge la porta, superandola e lasciandosi lei dietro. Entra nella bolla di calore all'interno ed è scosso da un lieve tremito stavolta naturale, lieto di essere di nuovo al caldo. L'atrio è deserto, più anonimo di quanto sia mai stato, e sembra la sala d'attesa di una clinica privata, con troppe sedie imbottite e troppe riviste mai lette abbandonate su tavolinetti di vetro. Si sente tendere come una corda di violino, una tacca alla volta, ed è vicino al punto di rottura, terribilmente vicino. Vede fantasmi di cenere aggirarsi in quello spazio, e ha paura di battere le palpebre per timore di non vederli scomparire. Almeno le voci tacciono.

«È rimasto tutto come prima,» lo informa Natasha, che nonostante tutto è ancora qui. «Inclusa la tua–»

«No,» scatta subito Tony, con un nodo al cuore e un altro fantasma troppo conosciuto che gli si para davanti, frutto di quelle poche volte che hanno dormito insieme al Complesso.

Trova a tentoni la scatoletta di velluto attraverso la tasca della giacca e si pente di averla presa.

«No, preferisco... avevamo delle stanze singole libere per i futuri Vendicatori. Prendo una di quelle,» conclude, passandosi con forza una mano tra i capelli, facendosi quasi male. «So dove andare, dopotutto questo posto è mio,» sbotta poi, avviandosi a passo di marcia verso le scale, con le ginocchia rigide che protestano per la lunga immobilità.

Crede di sentirla sospirare appena, senza per questo commentare. Gli rimane di nuovo quel "grazie" impigliato tra petto e labbra, ma non si gira nemmeno a guardarla.

 

§


 

Dal modo in cui lo guardano Steve e Rhodey la prima volta che scende in sala comune, quella sera stessa, capisce che il suo arrivo era atteso. Cerca di assumere una postura spavalda, ma le spalle sembrano pesare una tonnellata e rimangono leggermente incurvate. Ha cercato di camuffare la propria magrezza indossando una tuta grigia, morbida e senza pretese, ma sa che è comunque evidente e si sente sotto esame come un bue al macello.

«Bentornato, Tony,» lo accoglie subito Steve, quasi accorato, prima che lui possa dire qualcosa.

Lui si rigira una risposta acida in bocca, assaporandola, poi la ingoia limitandosi a un cenno del capo verso il soldato, che abbassa lo sguardo annuvolato per quella reazione schiva. La sua stazza lo rende meno evidente, ma anche lui è dimagrito; si è lasciato anche ricrescere la barba, che cela in parte il volto più smunto.

Tony cerca Natasha, ma non la vede e si sente esposto, persino con Rhodey là vicino. O meglio a studiata distanza, perché si ferma a un paio di passi da lui, con un "Tones" sommesso a mo' di saluto che gli fa capire quanto abbia avuto paura di non rivederlo. E quanto adesso sia troppo arrabbiato con lui per dire o fare di più. Accetta in silenzio anche quel saluto, con un’occhiata un po’ tremante che abbraccia il volto dell’amico, poi si unisce spontaneamente ai preparativi per la cena.

Steve e Rhodey parlottano tra loro del più e del meno e Tony fatica a tenere il loro passo. Parlano di un evento di beneficenza a New York organizzato da May per inizio febbraio, parlano di una partita di hockey a cui Steve vuole portare Cassie sabato prossimo, parlano del fatto che devono comprare più waffles istantanei perché Natasha fa continua razzia delle loro scorte, e Tony non riesce a seguirli. Non riesce a traslare nel suo mondo di fantasie labili quei discorsi reali e tangibili. Premono contro le pareti del suo spazio onirico, ma rimbalzano via. Il suo orologio continua a ticchettare sullo stesso secondo impedendogli di uscire dal quadrante.

Si concentra quindi nell'apparecchiare la tavola come se stesse trafficando coi delicati componenti delle sue armature, tentando di estraniarsi di nuovo, ma non trova più la propria spina da staccare. Si sente troppo lucido e al contempo avverte un lieve tremito alle mani sommato a nausea. Sarà una notte orribile, lo sa già, ma cerca di focalizzarsi sulla cena, che sarà probabilmente il secondo pasto decente che fa in quei mesi.

«Tony?» si sente chiamare, e dal timbro ha il sospetto che non sia la prima volta.

Alza lo sguardo, e Steve lo sta fissando interrogativo.

«Per te va bene?» gli chiede ancora.

«Uh, sì,» risponde lui di riflesso, ignaro di cosa stia parlando, poi scrolla il capo in un'ostentazione di noncuranza, poggiando al contempo l'ultima forchetta con troppa forza. «Certo, certo, qualunque... mi va bene tutto,» dice in fretta, sentendo i palmi sudati e il sospiro profondo, deluso, di Rhodey che lo fa barcollare.

«Ti stavamo chiedendo se vuoi venire a New York sabato prossimo, all'evento di beneficenza del FEAST,» dice Rhodey, chiaramente ripetendosi, e Tony si sforza di sostenere il suo sguardo. «Ci saranno May e Happy e...»

«Ho appena risposto di ,» lo interrompe secco Tony, alzando un sopracciglio e mantenendo il punto per principio. «Non ho di nuovo perso la facoltà di parola,» aggiunge sarcastico, sbuffando dal naso e poggiando di malagrazia i tovaglioli al centro del tavolo.

Una morsa gelida gli stringe il petto, dietro la sua facciata spavalda. Non vede May da quando è tornato. Senza Peter. Non vuole ripensare al loro incontro: ci sono state troppe urla e troppe lacrime e troppe accuse e preghiere e abbracci così stretti da essere dolorosi, da lasciargli lividi sulla schiena che ora sente dolere di nuovo.

Coglie l'occhiata rassegnata che si scambiano di sfuggita gli altri due e sceglie di ignorarla, così come li ignora per il resto della cena a cui Natasha si unisce in ritardo, senza una parola né un saluto. Tony capta un grado di tensione in più quando lei si siede a tavola, e ripulisce il proprio piatto con rinnovata velocità a dispetto del poco appetito, così da alzarsi per primo e lasciare la sala comune, lanciandosi dietro uno svogliato, laconico "'notte" strappato tra i denti. Cammina rumoroso per poi fermarsi a portata d'orecchio. Lascia passare qualche secondo e poi li sente avviare una fitta conversazione in cui è certo di captare il proprio nome. Serra gli occhi, ripiegando il mento sul petto e si lascia sfuggire un sospiro tra le labbra piegate in una smorfia amara. Riprende a camminare facendo volutamente stridere le scarpe sul pavimento, notando con tacita soddisfazione come le loro voci si arrestino di colpo a quel suono.

Si rifugia in camera sua, che non è davvero camera sua, in quanto spoglia e priva di qualsiasi personalità. Meglio così, conclude, svestendosi con le mani che adesso tremano innegabilmente. Sente tornargli su la cena, troppo abbondante per il suo stomaco rattrappito, e rinuncia a mettersi subito a letto, mettendosi semi-seduto sul pouf nell'angolo con un lamento frustrato. Si copre gli occhi con le mani, a scanso di possibili allucinazioni, e sente i suoi piedi che cercano di guidarlo verso la porta quasi reagissero a una forza magnetica, alla ricerca di un sorso d'alcol. Si affonda le dita nelle orbite cercando di attenuare il mal di testa e ottenendo l'effetto contrario.

Rischia quasi di ignorare il bussare alla porta, prendendolo per il proprio cervello che si schianta a ripetizione contro le pareti interne del cranio. Quando realizza che non se lo sta immaginando, non gli riesce di formulare una risposta comprensibile, ma il suo gemito basso e dolorante sembra bastare al visitatore, perché la porta si schiude, facendo filtrare una lama di luce all'interno. Distingue tra le dita a mo' di sbarre la sagoma di Natasha, che sembra stringere qualcosa in mano.

«Chiudila,» bofonchia irritato facendo un cenno scattoso verso la porta, con gli occhi che lacrimano per quel fievole cambiamento di luminosità.

«Sei già fotosensibile,» commenta lei pragmatica, avvicinandosi al suo angolo.

«Sono anche in mutande, se è per questo; hai davvero poco rispetto per la privacy altrui,» replica lui in pilota automatico, con una mano che scende a ovattare parzialmente la propria voce.

«Hai mai avuto una privacy?» lo rimbecca pronta lei, e sente che gli piazza sul ventre qualcosa di freddo, di vetro. «E comunque dovresti coprirti, hai la febbre,» aggiunge, sfiorandogli la fronte con le nocche.

Tony la ignora e abbassa lo sguardo a fissare l'oggetto: distingue una bottiglietta di Jack Daniel's, di quelle da viaggio che entrano in un palmo.

«Sei diventata la mia spacciatrice?» chiede, con un tremito nella voce e le dita che si contraggono sul vetro nell'impulso di aprirla, la gola che già gli brucia. «Non lo voglio, Romanov,» bofonchia, ma non molla la presa sul flacone.

«Entrare in crisi d'astinenza e fare la cura del tacchino non mi sembra una buona mossa, [1]» ribatte lei, in piedi con le braccia incrociate, gli occhi appena distinguibili nella penombra. «Fai le cose gradualmente e prenditi tempo: non puoi essere in delirium tremens quando vedrai May.»

Tony quasi inghiotte un respiro a quell'affermazione e scosta appena la mano dal volto, strizzando gli occhi.

«Non penso che ci andrò davvero,» mormora, e non sa neanche perché lo stia dicendo a lei, considerando che lo riferirà immediatamente agli altri. «Non... non siamo più in buoni rapporti,» aggiunge, tornando a stringersi le tempie, e percepisce la cenere incollata ai palmi viscidi.

Forse la sente sospirare, ma lui non alza lo sguardo e serra la stretta sul flacone d'alcol, svitandone il tappo un millimetro alla volta in un movimento inconscio che non controlla del tutto.

«Sanno già che non ci andrai,» commenta poi Natasha, e il suo tono sembra farsi più gentile e privo d'accusa, come se forse, in fondo, avesse sperato nel contrario conscia che fosse vano farlo.

Gli passa una mano sulla guancia in una carezza un po' brusca, poi la sente uscire dalla stanza così come vi è entrata, un'ombra tra le altre. Gli si chiude di nuovo la gola attorno a quella parola impronunciabile, che forse lei non vuole neanche sentirsi dire, e la annega in quel misero sorso d’alcol.

 


 



Note:

[1] La "cura del tacchino" (Cold turkey in inglese, ovvero "tacchino freddo") consiste nel'astinenza improvvisa e volontaria da alcol/droghe, ed è di solito portata avanti chiudendo la persona dipendente in una stanza, lasciandola a smaltire l'intossicazione senza alcun surrogato né vere e proprie cure. Negli alcolizzati gravi, ciò porta solitamente al delirium tremens, rivelandosi spesso fatale.
NB. 
La somministrazione di piccole dosi d'alcol per lenire gli effetti dell'astinenza dallo stesso è una pratica controversa e generalmente sconsigliata. Mentre con gli stupefacenti è spesso adottata, con l'alcol si preferisce l'uso di benzodiazepine per attenuare gli effetti collaterali, onde evitare di cadere nel citato delirium tremens, che ha un tasso di mortalità piuttosto alto se non adeguatamente trattato.


Note dell'Autrice:

Cari Lettori, eccomi di nuovo qui!

Questa storia ha preso una piega un po' diversa dall'intento originale... quindi ecco a voi Tony alle prese col suo demone personale, almeno nei fumetti. Vi sarà sempre una commistione del MCU, base di tutto e preponderante, con stralci rarefatti presi dai comics, sia per Tony che soprattutto per Natasha, le cui vicissitudini rimarranno però sempre quasi del tutto in ombra.

Come promesso, il principio dietro ai titoli delle varie parti dovrebbe essere un po' più chiaro: abbiamo affrontato la "Dimensione x" e adesso arriva la "Dimensione y"... la prossima dovrebbe essere piuttosto prevedibile, ma con l'ultima (saranno quattro parti più epilogo) spero di sorprendervi almeno un poco. Insomma, abbiamo davanti agli occhi un piano cartesiano, con l'incognita (spero) di quel che si prepone di misurare. Ricordo che la denominazione degli assi è puramente convenzionale: potrebbero chiamarsi Gertrude, Anastasia e Genoveffa e aver comunque senso... in questo caso, contrariamente al solito, considero x l'asse verticale delle ordinate, e y quello orizzontale delle ascisse, col semplice intento di non far precedere la y alla x nella narrazione, che vanificherebbe il senso logico che vorrei dare loro e che chiarirò in seguito. Scusate la divagazione, ma trattandosi di Tony non potevo non gettare un po' di scienza nel minestrone :')

Ringrazio infinitamente tutti voi che avete commentato e aggiunto la storia alle liste finora, e spero continuiate a seguire <3 Avere feedback mi renderebbe felicissima, vista la natura "sperimentale" della storia, e ogni parola conta, davvero <3
Alla prossima, ovvero la prossima settimana,

-Light-

 

   
 
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