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Autore: _Frame_    08/12/2019    4 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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N.d.A.

Questo capitolo avrei voluto pubblicarlo ieri, considerando che è stato il Settantottesimo Anniversario dell’attacco alla base di Pearl Harbor e che avrei voluto far coincidere la data storica con quella di pubblicazione. Quando mai mi ricapiterà un’occasione del genere? Ma, ahimè, nonostante ce l’abbia messa tutta non sono riuscita a terminare in tempo la revisione, quindi mi infilo nel mio angolino della vergogna, mangiandomi le manine, e aggiorno oggi come di consueto.

Capitolo lunghetto ma uno di quelli che più mi sono divertita a scrivere, quindi spero possa essere di vostro gradimento. (^-^) Perdonatemi se ho evitato di spezzarlo, ma da anni ho sempre avuto in mente di creare il cliff-hanger proprio sulla scena con cui l’ho terminato e, facendo slittare la parte finale al capitolo dopo, avrei rovinato tutto. Chissà se quest’anno Babbo Natale mi porterà davvero un po’ di capacità di sintesi?

Penultimo capitolo prima della pausa natalizia! Gli auguri ce li facciamo fra due settimane, nel frattempo... buona lettura!

 


211. Elliott e Lockard

 

 

And the rockets’ red glare, the bombs bursting in air,

Gave proof through the night that our flag was still there.

O say, does that star-spangled banner yet wave

O’er the land of the free and the home of the brave?”

 

(The Star-Spangled Banner, Francis Scott Key)

 

 

 

 

Il soldato semplice George Elliott pigiò l’indice sulle ultime briciole di panino alla senape, ripulendo le increspature dell’involucro di stagnola che giaceva fra le carte della documentazione radar. Si succhiò il polpastrello, assaporando gli ultimi schizzi della sua triste cena, e reclinò il capo all’indietro, levando lo sguardo al tettuccio della stazione. Emise un sospiro sconsolato. Sabato sera, tutti a divertirsi al porto, a mangiare frittura, a bere succhi all’ananas, ad ascoltare musica, a ballare con le ragazze. E noi qui a fissare il vuoto. Si sfilò l’indice dalle labbra, passò la mano sotto l’archetto delle cuffie, lasciandole cadere attorno al collo, e si sporse fuori dalla sua postazione.

Restrinse le palpebre attraverso l’oscurità della sera inoltrata e, oltre la cima del promontorio che cadeva nell’oceano, inquadrò le luci del porto sbriciolate lungo le frastagliature della costa, raccolte nell’insenatura che abbracciava Pearl Harbor. Tese l’orecchio. Il sussurro del vento tiepido e dolciastro trascinò fino a lui l’eco della musica che stavano strimpellando al porto e a bordo delle corazzate. Pizzicate alle corde di chitarra che ondeggiavano come quelle acque, i battiti delle mani che accompagnavano le grasse e fragorose risate dei marinai sciacquate dalle sorsate d’alcol, dei cocktail tropicali lasciati scivolare sui banconi distribuiti lungo la spiaggia colorata dalle lanterne e dalle fiaccole a olio.

Gli occhi di Elliott luccicarono di avvilimento. Sapevo che non avrei dovuto farmi dare il turno proprio di sabato sera.

“Ne arrivano altri?”

Colto alla sprovvista, Elliott sobbalzò. “Eh?” Fece ruotare la sua seggiola e tornò con lo sguardo nella penombra della stazione radar, dove il riverbero azzurrino delle apparecchiature illuminava il profilo di Lockard chino sul suo lavoro. “Che dici?”

Lockard finì di scarabocchiare qualcosa sulla griglia dei rapporti. “Se arriva altra gente.” Si sfilò un padiglione delle cuffie dall’orecchio e rivolse un ghigno sarcastico a Elliott. “Seratina più affollata del solito, eh? E poi dicono anche che qua alle Hawaii non facciamo altro che girarci i pollici da mattino a sera.”

Seratina affollata? “Ah. No, sai, stavo...” Elliott riavvicinò la seggiola al ripiano dei pannelli e scostò il cavo delle sue cuffie. “Mi stavo solo chiedendo se prima abbiamo fatto bene a indirizzarli verso il porto. E se riusciranno, sì, a...” Scosse le spalle. “A trovarlo in mezzo a tutta questa confusione. Proprio di sabato sera devono succedere questi guai...”

“Ma quali guai, fossero questi i guai. E comunque...” Lockard rimise il tappo alla penna, pareggiò le carte del rapporto e abbandonò le spalle sullo schienale. Le mani intrecciate dietro il capo e una gamba accavallata all’altra. “Di certo non può aver lasciato Oahu, quindi prima o poi lo troveranno. E se non lo trovano, pazienza.” Fece dondolare il piede. I suoi occhi, attraversati dal riverbero azzurro dei sonar, assunsero una sfumatura glaciale. “Noi non rispondiamo di certo agli ordini di quei due.”

Elliott non seppe trattenere una risata. “Sì, stasera ci sono più paesi ammassati su questo sputo di terra che su tutte le colonie asiatiche messe assieme.”

Lockard gli rise dietro, riassorbì il fiato con un sospiro. “Aah.” Si strofinò il naso. Anche lui rivolse al soffitto uno sguardo sognante, cullato dalle luci multicolore delle lanterne appese fra le ghirlande del porto anziché abbagliato dalla sfumatura azzurrina dei sonar. “Non vedo proprio l’ora di finire il turno.”

Elliott annuì. Stronfiò le unghie sui pantaloni, senza però riuscire a scrostarsi di dosso un brivido che gli era scivolato sotto l’uniforme da quando America si era allontanato dalla stazione radar, da quando se n’era andato trascinandosi dietro quell’aura nebulosa di pensieri riflessa nei suoi occhi che quella sera gli erano apparsi più scuri e distanti, nostalgici, così diversi da quelli crepitanti di energia che erano soliti illuminare l’ambiente e ravvivare ogni ombra.

“Però, sai...” Elliott raccolse le carte dei panini, le appallottolò e diede una spolverata alle briciole per evitare che finissero sulle apparecchiature. “Effettivamente questa sera non aveva una gran bella faccia.”

“È per questo che lo abbiamo spedito al porto a rinvigorirsi, no?”

“E tu ci saresti andato?” rincalzò Elliott. “Con un’espressione del genere, l’ultima cosa di cui io andrei in cerca è il macello del sabato sera. Sul serio tu credi che sia tutto a posto?”

“Non dovrei?” Lockard fece spallucce, rivolse uno sguardo distratto al sonar che non rimandava alcun eco. “E poi perché dovrebbe preoccuparmi in questo modo?”

Elliott gli scoccò un’occhiataccia di rimprovero. “È pur sempre la nostra nazione. Insomma...” Dentro di sé corse il viscido formicolio di un disagio che non gli apparteneva e che allo stesso tempo non riusciva a sputare fuori dall’anima. “Penso sia normale che anche noi sentiamo che c’è qualcosa che lo turba. E vorrei solo capire di cosa si tratta.”

Lockard rise di gusto. “Amico.” Si posò la mano sul petto. “Certe volte io ho difficoltà persino a capire cos’è che turba me, figuriamoci qualcun altro.”

“Forse abbiamo fatto male a separarci da lui. Forse avremmo dovuto seguirlo.” Elliott si pizzicò il labbro fra i denti, tornò a guardare fuori, a sprimacciare i pugni umidicci sui pantaloni, a stropicciare un’espressione incerta. “Forse...”

“Oh, insomma.” Lockard fece rimbalzare le spalle sullo schienale e si rimise dritto. “Si può sapere che vuoi sentirti dire?”

“Che anche secondo te non è andato al porto.”

“E dove vuoi che sia sparito? In mezzo alle piantagioni? Fuori da Honolulu è un mortorio completo.”

“Uhmm...” In mezzo alle piantagioni? Elliott fece roteare lo sguardo. Che assurdità. Ma se nemmeno quei due riuscissero a trovarlo sul serio? Oh, ma di che mi preoccupo? Che pericolo dovrebbe mai correre qua a Pearl Harbor? E anche se fosse un essere umano come noi, lui... Quel brivido inspiegabile tornò a pungerlo, a frenare i suoi pensieri, a trasmettergli quell’inevitabile morsa di soggezione che gli chiudeva lo stomaco ogni volta in cui si trovava davanti ad America, alla presenza fiera e irraggiungibile di una creatura che faceva parte di lui prima ancora di essere messo al mondo. Già, di cosa dovrei preoccuparmi? Lui non è un essere umano. Perché dovrebbe aver bisogno di noi? Eppure...

Sbirciò di nuovo fuori con la coda dell’occhio. Le luci lontanissime e traballanti sgretolate sulla costa, come costellazioni piovute dal cielo, e quelle appese fra gli alberi delle imbarcazioni che galleggiavano fra i moti delle onde, specchiandosi nei bassi fondali di Pearl Harbor.

Elliott abbassò le palpebre, si abbandonò a quella sensazione estraniante che lo guidava verso la presenza distante di America, verso quella parte di lui proiettata nell’anima della sua stessa nazione che ora vacillava nell’incertezza, desiderando solo raggiungerlo per placarne il turbamento. Si ritrovò succube di quel bisbiglio fiatato dietro l’orecchio che gli suggeriva di continuare a preoccuparsi per lui, di trovare un modo per raggiungerlo quando nemmeno i suoi simili avrebbero saputo farlo.

 

♦♦♦

 

Inghilterra incrociò le braccia al petto e si diede un’energica strofinata dalle spalle ai gomiti, incolpando la fresca brezza serale per quel brivido che gli era guizzato lungo la spina dorsale, pungendolo alla base del collo. Compì un rimbalzo sopra un marciapiede, schivò lo sfrecciare di una camionetta che gli era sgommata affianco inoltrandosi per le vie del porto, urtò le spalle di un gruppetto di marinai appena usciti da un locale, inciampò sulle gambe di una seggiola sistemata male affianco ai tavolini di un ristorante all’aperto, sventolò la mano per dissolvere una collosa nuvola odorante di frittura evaporata dalla finestra di una cucina interrata, e dovette ricredersi. Rivolse le colpe di quel brivido agli spasmi d’irritazione che pulsavano contro le sue tempie, fra i suoi denti serrati e attraverso le vene rigonfie del collo, maledicendosi per il fatto di essersi messo a rincorrere la presenza evanescente di America fra le stradine di una città portuale durante un sabato sera.

Fece schioccare la lingua fra i denti, masticò un brontolio che discese la gola traballante. “Stupido, stupido America.” Inghilterra accelerò il passo per attraversare la strada e risalire un altro marciapiede. “Quanto può volerci per sparire anche in un’isoletta del genere, percorribile sì e no in dieci minuti in linea d’aria? Giuro che quando lo trovo lo prendo per le orecchie e lo trascino a casa in quel modo, anche a costo di staccargliele.”

Canada frenò il passo sul ciglio della strada. Guardò a destra e a sinistra, ancora teso sulle punte dei piedi, rincorse Inghilterra tenendosi rannicchiato nelle spalle, zampettò a sguardo basso fra le luci dei neon proiettate sull’asfalto, e anche lui sbatté la spalla su un fianco estraneo. “Ah.” Ritirò il passo. “Scusi. Mi scusi.” Picchiò la schiena su un gruppetto di uomini fermi a fumare fra gli sgabelli di un bar, e le sue guance fumarono d’imbarazzo. “Perdonatemi, non vi ho...” Una coppia di marinai uscì dallo stesso bar, ubriachi di alcol e di risate, e uno di loro lo urtò, facendolo finire con le spalle al muro. “Who!” Canada si chinò, mortificato, e camminò all’indietro per liberare la strada. “S-scusatemi! Non l’ho...” Sdrucciolò con le suole giù dal marciapiede, inciampò, e si squilibrò verso un taxi in corsa.

“Occhio!” Inghilterra compì uno slancio e lo agguantò per la giacca prima che potesse finire investito. Soffiò un mezzo grugnito di sollievo. “Merda.” Gli diede un’aggiustata alla giacca. “Stai bene? Che razza di gente che gira.”

“I-io?” Canada premette lo sguardo a terra. “Uhm, sì.” Strinse le spalle sotto i colpi di mano con cui Inghilterra gli stava ancora spazzolando la giacca. “Cioè, grazie, uhm...”

Inghilterra si sporse, strizzò un pugno e lo sventolò contro il taxi sgommato via. “Pirata della strada!” Gli rispose un doppio squillo di clacson.

Canada si guardò alle spalle, si allontanò dagli uomini che passeggiavano lungo le strade, fuori dalle vetrine dei locali, sotto gli ombrelloni di paglia, e chinò il capo per nascondere un’espressione di disagio. “S-scusami, se c’è troppa gente finisco sempre per...”

“Stammi vicino.” Inghilterra gli raccolse la mano e rincalzò il passo, tenendoselo stretto sotto quell’aura protettiva che lo fece apparire più alto, le spalle più larghe e gli occhi più truci nei confronti degli uomini che incrociavano il loro cammino. “Restami vicino e non ti allontanare. Ci manca solo che perda pure te in tutto questo macello.”

“Oh. Uhm...” Canada si scoprì rincuorato da un piacevole tepore. Ci manca solo che perda pure te. Quelle parole lo rallegrarono, ravvivando il colore delle sue guance e la luce dei suoi occhi. “Sì.” Strinse di rimando la mano di Inghilterra e gli stette appiccicato alla spalla, lasciandosi guidare attraverso le luci del porto, i profumi asprigni dei giardini di palme e di pandani, le musiche strimpellate nei bar dove le ragazze intrecciavano danze e giravolte fra le braccia degli uomini in uniforme che ridevano assieme a loro. Le guance rosse d’alcol e gli occhi febbricitanti di euforia.

Inghilterra arricciò la punta del naso, nauseato dai profumi fin troppo dolci delle grigliate, delle palme da cocco, e dei liquori fruttati, e fece roteare lo sguardo ricordandosi il suggerimento dei due operatori di Opana. “Andare dove c’è più confusione, hanno detto, uhm? Glielo faccio vedere io chi...” Frenò il passo a un incrocio abbagliato dalle vetrine dei negozietti, strinse più forte la mano di Canada per non farlo trascinare via dalla calca attraverso cui non riusciva a distinguere nemmeno i volti delle persone, e optò per una soluzione più drastica. Inspirò un’avida boccata di fiato, gettò il capo all’indietro, e cacciò un urlo tonante. “Americaaa!” Corse, accostò la mano alle labbra, e gridò ancora. “America!” Indirizzò la voce fra i vicoli più stretti. “Maledizione a te, America! Dove diavolo sei? Rispondi!”

Qualcuno si girò, alcuni risero, altri filarono dritti senza badarci. Canada arrossì, mitragliato da quella grandine di occhiate. Stette al passo di Inghilterra, senza mollargli la mano, ma si tenne nascosto dietro la sua schiena.

“America!” strillò ancora Inghilterra. “Fatti trovare una dannata volta! Quanto mi devo sgolare prima che tu mi risponda? Se ti trovo ti tiro il collo!”

“Uhm.” Canada gli sfiorò la spalla con un indice, con un suo sussurro. “Forse dovremmo cercarlo dove c’è più...”

“Cibo!” Inghilterra fece schioccare le dita. Nei suoi occhi si accese il barlume di un’idea. “Ma certo, se io fossi America andrei in cerca di cibo, no? Come ho fatto a non pensarci? Vieni.” Con un salto trascinò Canada lungo un marciapiede in cui si mischiavano i profumi di frittura e di salse, e spiaccicò la fronte sulla vetrina di un ristorante. “America?” Solo qualche falcata più avanti e si ritrovò affacciato a un locale da cui usciva un profumo di gamberi in pastella e di pane all’aglio. “Sei qui? America? Merd...” Un altro gruppetto di uomini passò loro affianco, urtandoli, e trascinò entrambi dall’altro lato della strada.

Inghilterra e Canada sbatterono contro gli sgabelli di un bar all’aperto. Inghilterra picchiò la fronte su una delle lanterne che pendevano dal soffitto di paglia e si ritrovò con una ghirlanda di fiori impigliata fra i capelli. Strizzò i pugni, fumò di rabbia rischiando di incendiare i fiorellini scivolati davanti ai suoi occhi, e divenne paonazzo. “Ma guarda se...” Ingoiò un respiro e si abbandonò a un ultimo urlo esasperato che riecheggiò fino alla spiaggia. “Americaaa!

Una cameriera li raggiunse da dietro il bancone, compì una mezza giravolta e depositò davanti a loro, fra i bicchieri vuoti abbandonati dagli altri clienti, due piattoni fumanti. “Due Piatti America pronti per voi, cari.”

“Cos...” Inghilterra batté le palpebre, riguadagnò lucidità nonostante la ghirlanda di fiori a pendere attorno alla fronte. Piatti America? “No, no, no,” gesticolò verso la donna, “ha frainteso, noi non siamo qui per...” I suoi occhi caddero sul piatto. Impossibile anche per lui ignorare le narici solleticate da quel profumino. “P-per...”

Uova strapazzate spolverate da una generosa gettata di pepe, salsicce avvolte in striscioline di bacon lucido e dalla crosta bruna, due fette di pane tostato, una pannocchia grigliata e imburrata, sottaceti a parte, e tre frittelle di mele impilate vicino a una scodellina di sciroppo denso come miele.

Inghilterra diede un’annusata a quella delizia. Un crampo di fame gli torse le budella, la bocca si riempì di saliva, gli occhi luccicarono d’ingordigia. “Piatto...” Non si ricordava nemmeno l’ultima volta in cui aveva addentato un pasto decente. “Piatto America, ha detto?”

La cameriera annuì con un sorriso e passò uno strofinaccio umido sui bicchieri sporchi. “Per i nostalgici. Così tanti mesi lontani da casa, al di là dell’oceano, in un luogo e in un clima così diversi, ed è facile soffrire di nostalgia, anche se tratta di omaccioni come questi. In casi simili...” Alzò il mento per indicare i due piatti. “Non c’è niente di meglio che ritrovare i sapori di casa per consolarsi. Il bacon è squisito, glielo assicuro. È importato direttamente dal Montana. E anche le pannocchie, non sono mica locali, ce le spediscono dall’Indiana. Su, strafogatevi pure.”

Inghilterra e Canada si guardarono, ritrovandosi affacciati ai loro volti stanchi, fiaccati dal viaggio, dalla traversata del Pacifico dalla quale non si erano ancora ripresi.

“S...” Inghilterra borbottò a mezza voce. “Sapori nostalgici, dice?”

Lo stomaco di Canada brontolò e lui arrossì, affrettandosi a coprirsi la pancia.

Inghilterra sospirò. “Be’...” Scostò la ghirlanda di fiori caduta davanti ai suoi occhi e levò lo sguardo oltre il tettuccio di paglia del locale. Stagliata contro il cielo, scoprì una torre dell’orologio con su scritto ‘ALOHA’. Erano le nove passate. “È anche vero che l’ora di cena è passata da un pezzo,” farfugliò. “E noi che non mettiamo qualcosa sotto i denti da quando siamo saliti in aereo.”

Canada annuì, assecondandolo. “E poi sarebbe scortese rimandare indietro i piatti.”

“Già. Scortese.” Inghilterra si passò la mano fra i capelli e si lasciò cadere seduto su uno degli sgabelli. “E va bene, va bene.” Raccolse la sua forchetta e la sventolò con un’aria da bacchettone. “Ma appena finiamo di cenare ci rimettiamo subito a cercare America. Magari sarà a bordo di una delle corazzate, quelle su cui stanno suonando le orchestrine.”

Canada annuì e si sedette a sua volta. “Magari sarà America stesso a venirci incontro. A volte certe cose ti trovano da sole proprio quando smetti di cercarle.”

“Mhm.” Inghilterra si diede una stropicciata alle rughe infossate sotto le palpebre. “Dio, che voglia di bere. Se solo ci fosse...”

La stessa cameriera che aveva servito loro i piatti diede una spolverata al bancone con uno strofinaccio asciutto. “Qualcosa di fresco da bere, cari?”

Inghilterra non aspettava altro che sentirselo chiedere. Pescò dalla tasca un paio di monetine e le fece trillare sul bancone. “Il vostro drink più forte. Doppio.”

“Arriva subito.” La giovane rivolse un sorriso a Canada. “E per te, caro?”

“Oh.” Canada trasalì per lo stupore. Mi ha notato davvero? “Ecco, solo...” Strinse le gambe e chiuse i pugni sulle ginocchia. “Solo acqua. Se c’è.”

“Faccio in un secondo.”

Inghilterra corrugò un sopracciglio e squadrò Canada di sbieco. “Acqua?”

Canada arricciò una ciocca bionda all’indice, schivò il suo sguardo. “Non vorrei approfittarmene troppo.”

Inghilterra si guardò alle spalle, sospirò, scese dallo sgabello, e scostò un’altra ghirlanda di fiori. “Aspettami qui.” Si allontanò fra i tavoli, sparendo in mezzo alle luci delle candele traballanti che fiammeggiavano dentro vasi di vetro colorato.

Canada si guardò attorno – pochi clienti che bevevano, chiacchieravano, pescavano noccioline dai piatti, senza badare a lui – e si fece coraggio. Raccolse forchetta e coltello, affettò un pezzettino di frittella calda, la immerse nello sciroppo, e assaggiò un primo boccone che il suo stomaco reclamava a gran voce. Sorrise beato. La pastella così morbida e calda, spolverata di zucchero di canna, si sciolse in bocca assieme ai pezzetti dolcissimi di mela e al sapore speziato della cannella.

Ha ragione, considerò, soggiogato da una fitta di nostalgia. Questo sapore ricorda davvero casa.

Chiuse gli occhi e si ritrovò catapultato indietro di centinaia di anni, immerso nei ricordi dove lui e America erano piccoli e dove facevano merenda assieme con quegli stessi sapori di mela e cannella. Ricordi dove America esagerava sempre sbranando anche tre piatti di frittelle in un pomeriggio solo, offrendo però sempre dei bocconi a Canada quando a lui cadeva la sua merenda nel prato, o porgendogli il suo bicchiere quando lui rovesciava la sua limonata.

Il cuore di Canada si appesantì, trafitto da quella nostalgia, da quel desiderio di ritrovarlo, dal bisogno di saperlo al sicuro. America. Ti prego, non cacciarti in qualche guaio. Siamo tutti preoccupati per te.

“Ecco.” Inghilterra tornò a sedersi e poggiò qualcosa affianco al piatto di Canada.

Canada riaprì gli occhi, “Oh”, strappato dal ricordo, e si ritrovò davanti al bicchierone di un cocktail color arancio. Un succoso anello di ananas infilzato sull’orlo e della granella di cocco tostato a galleggiare sulla superficie assieme a una ciliegia al maraschino. “Questo è...”

Inghilterra inforchettò le sue uova strapazzate aiutandosi con una fetta di toast. “Prima hai detto che ti sarebbe piaciuto provare uno dei cocktail di queste parti, no? Be’, laggiù ne stanno spremendo di freschi.” Mangiò un primo boccone, farfugliò a labbra strette. “Quindi...”

La cameriera si ripresentò dietro il bancone. “A voi, cari.” Posò l’acqua per Canada e un drink bruno per Inghilterra.

Inghilterra gettò il capo all’indietro e risucchiò tre avide sorsate di seguito, a occhi strizzati. Sbatté il bicchiere sul bancone, “Aah, merda”, gemendo di sollievo e di dolore allo stesso tempo. Le sue guance si chiazzarono di rosso. Si stropicciò le palpebre, massaggiò le tempie, e sventolò un gesto trascinato contro il cocktail che aveva rimediato per Canada. “Se non ti va puoi anche riportarlo indietro.”

“No! C-cioè...” Anche Canada arrossì, non per la sbornia, e portò il cocktail alle labbra, sorridendo per il fatto che Inghilterra se ne fosse ricordato. Per il fatto che lo avesse ascoltato. “Ti ringrazio, Inghilterra. Tanto. È stato un gesto gentile.”

Per un po’ cenarono in silenzio. Lo stridere delle posate intervallato alle sorsate che Inghilterra strappava al suo drink.

Canada si scoprì preda di un inaspettato appetito. Dopo aver annaffiato le frittelle con lo sciroppo, divorandole in poche forchettate, sgranocchiò anche la pannocchia grigliata e imburrata. Raccolse anche lui le uova strapazzate con il pane tostato e sporco dello sciroppo che era gocciolato dalle frittelle – era squisito lo stesso –, e le alternò ai bocconi di salsiccia foderata di bacon. Anche il cocktail era delizioso. Fresco, dolcissimo e non eccessivamente alcolico. Si sentì rimesso al mondo.

Inghilterra mangiò solo una salsiccia e spiluccò dalle sue uova, senza finirle. Una volta prosciugato il suo drink ne ordinò subito un altro. Aveva bisogno di bere, aveva bisogno di sciacquare via quei brividi che gli bruciavano nello stomaco, di soffiare via quella nuvola di pensieri che gli stava brontolando sopra la testa da quando aveva messo piede a Oahu.

Alle loro spalle, qualcuno accese una radio, spargendo note ondeggianti in mezzo alle risate, al battere dei tacchi sul pavimento di legno, al trillare dei bicchieri, e al vociare sempre più fitto e squillante.

“Abbiamo finito le noccioline!”

“Un altro giro, quaggiù!”

“Ehi, non scolatevelo tutto, lasciatecene un goccio.”

“Un altro giro per voi, dolcezze. Offre la casa.”

“Alzate la radio ché non si sente!”

“Aah, magari tutte le serate fossero così,” esclamò un marinaio che indossava l’uniforme con la mostrina della Corazzata Tennessee. Avvolse un braccio tatuato attorno al collo del vicino. “Sono così su di giri che ballerei persino con te.”

Il suo compare rise. “E te lo sto forse negando?” Lo prese sottobraccio e lo trascinò in un ballo piroettante in mezzo ai tavoli, assecondato dalle risate delle ragazze, e dal battere di mani degli altri marinai.

“Ehi, ehi, sentite questa,” esclamò un’altra voce dalla parte opposta del locale. “C’è una rissa al Kale-Kale!”

“Oh, oh, questa non me la perdo.”

“Aspetta, aspetta, prendiamo l’auto.”

“Io prendo la macchina fotografica, altroché!”

“E l’ultimo che arriva raccoglie le scommesse!”

Un’accozzaglia di passi ruzzolò sul pavimento di legno, il gruppetto di sagome sgusciò fra tavoli e seggiole, sfilò sotto le ghirlande di fiori e i nastri di lanterne colorate, e il vociare dei marinai si allontanò assieme al rombo di qualche auto appena messa in moto. Sotto i tettucci di paglia rimasero pochi altri clienti, voci più morbide accompagnate dalla musica della radio che continuava a suonare densa e mielosa come quei cocktail alla frutta che scivolavano di mano in mano sul bancone principale.

Inghilterra tornò col muso basso sul suo drink, dopo essersi voltato, e scosse il capo con disapprovazione. “Aah, marinai...” Pescò delle arachidi dalla ciotola delle noccioline, le schiacciò con un pugno e prese a smangiucchiarle. “Anche se siamo dall’altro capo dell’oceano, ci troviamo pur sempre negli Stati Uniti.”

Canada arrestò la sua fettina di toast fra le labbra, esitando davanti a quelle parole, e rimise il boccone nel piatto. Di nuovo il pensiero di America gli chiuse la pancia in un nodo di apprensione, facendogli passare la fame. “Tu credi che America stia bene? Sì, che sia...” Tornò a stringersi nelle spalle, a incrociare le gambe contro lo sgabello. “Che sia al sicuro anche se non riusciamo a trovarlo da nessuna parte?”

“Vedrai che starà bene.” Inghilterra ruppe altre noccioline. “Qui è in mezzo alla sua gente. Chi meglio di loro può essere in grado di proteggerlo e di sorvegliarlo? Saranno anche un branco di bifolchi troppo presi dai bagordi del sabato sera, ma rimangono sempre dei militari e questa è pur sempre una rispettabile base della Pacific Fleet. È gente che sa quello che fa. Ecco, tieni.” Spinse il suo piatto affianco a quello ripulito di Canada. Aveva lasciato le frittelle, una salsiccia, la pannocchia, e non aveva nemmeno toccato lo sciroppo. “Finisci pure il mio, fintanto che non si raffredda.”

Canada accettò senza protestare. Intinse una fettina di frittella nello sciroppo e tornò a guardarsi attorno, a esplorare l’ambiente che si era acquietato, meditando su quelle ultime considerazioni. Dei militari...

Gli uomini a passeggio per le vie del porto, quei loro visi sorridenti e quelle loro risate contagiose nonostante le uniformi militari, le braccia muscolose strette attorno alle spalle dei compagni, e i gesti gentili con cui aggiustavano le giacche sulle schiene delle ragazze.

“Però è un posto carino, vero?” Sulle labbra di Canada tornò a sbocciare un sorriso mite e spontaneo. “E sono tutti così amichevoli. In fondo...” Sospirò a lungo. “È bello sapere che queste persone sono ancora in grado di sorridere e di essere ottimiste nonostante la guerra.”

“Già,” borbottò Inghilterra. “Chi se lo sarebbe aspettato, eh?”

“Uh? Che cosa?”

“Questo.” Inghilterra riappoggiò il suo drink. Nonostante il rossore dell’alcol a imporporargli le guance, il suo sguardo si fece buio, gli occhi grigi e distanti, annebbiati da un velo di dolore e malinconia, come quando si prendeva una sbornia triste. “Che crescendo con uno scorbutico come me, America sarebbe comunque diventato una nazione così...” Fece oscillare il ghiaccio contro il vetro. “Così...” Si morse il labbro. “Gioiosa.” Tracannò un altro sorso.

Canada schiuse le labbra in un sospiro e ammutolì. Non disse nulla e non riprese a mangiare. Rispettò quel silenzio sceso fra loro, lasciò che Inghilterra vi trovasse conforto.

Inghilterra schioccò la lingua sul palato, dopo l’ennesimo sorso, e scrutò fra le sfumature brune del liquore finché anche i suoi occhi si fecero densi e liquidi. “Ma penso sia normale,” borbottò. “America dopotutto ha sempre posseduto una personalità troppo forte per lasciarsi influenzare persino da me che gli sono rimasto affianco fin da quando era così piccolo da arrivarmi al ginocchio. Al ginocchio.” I suoi occhi brilli assunsero un luccicore languido, trascinato nei più profondi ricordi sepolti in fondo al cuore. “Una volta era così piccolo da arrivarmi al ginocchio.” Scosse il capo e continuò a bere, a straparlare. “Quando ho cominciato a crescerlo, ancora prima di impormi di proteggerlo dal mondo, dalle altre nazioni, e dalla crudeltà della nostra stessa esistenza, la prima cosa che ho fatto è stata giurare di proteggerlo da me stesso.” Gracchiò una risata amara. “Cosa sarebbe diventato...” Le sue unghie stridettero sul vetro. “Cosa sarebbe diventato crescendo con uno come me? Guidato da una nazione così superba, individualista, schiva e cinica, diffidente persino della sua stessa ombra, e...” Raccolse fiato. I suoi occhi vacillarono sotto le luci traballanti delle lanterne. “E infelice. Non volevo questo per America. Non volevo condannarlo a questo futuro, non volevo contagiarlo con tutto il male e il dolore con cui avevo convissuto nelle miei centinaia di anni più di lui. Ero terrorizzato che potesse succedere. Riesci a crederci?”

Canada annuì lentamente, senza emettere fiato.

“Ma non è successo,” disse Inghilterra. “America ha da subito seguito la sua strada ed è diventato ciò che voleva, ciò che era davvero. Anche se ci ho messo anni e anni a realizzarlo, è stato questo il mio orgoglio più grande: vederlo seguire la sua strada. Anche se all’inizio mi ha fatto soffrire. America non è uno stupido.” Pescò un’altra arachide dalla ciotola. “Non è un debole e tantomeno un ingenuo quando si tratta di guerra.” La ruppe sotto il pugno. “Ha semplicemente un modo diverso di affrontarla rispetto a me. A volte persino io finisco per dimenticarmelo, per infuriarmi, per dargli contro. Ma lo faccio solo perché sono così dannatamente preoccupato per lui e perché ancora adesso, certe volte, mi viene da pensare che tutto sarebbe più semplice se lui fosse ancora alto quanto un mio ginocchio, in modo da poterlo prendere e proteggere per non...” Le parole gli morirono a fior di labbra, e per quell’istante ci fu solo il fruscio distante della musica, il traballare delle lanterne sulle sue guance lucide.

Inghilterra spinse un gomito sul tavolo, si prese la fronte, massaggiandosi le rughe stropicciate sotto le ciocche, e scosse di nuovo il capo. “Io e America abbiamo un concetto di guerra molto differente, dopotutto. Be’, anche un concetto di vita molto differente. Forse sono io quello che sbaglia, forse sono io quello che dovrebbe fidarsi di lui, delle sue idee, dei suoi ideali. Se solo non fossi così dannatamente orgoglioso da rifiutarmi di mettermi in discussione...” Il gonfiore bluastro che cerchiava le sue palpebre si rifece tetro e pesante, riversando nei suoi occhi tutta quella tristezza e quella malinconia che gli stagnavano nel cuore. “Eppure vorrei solo che America capisse che anche se io non sono d’accordo con le sue idee, anche se a volte mi arrabbio e ci litigo per certe sue decisioni, lo faccio solo perché ho paura per lui, e perché non voglio che soffra quanto ho sofferto io per diventare quello che sono, e perché voglio...” Si morse il labbro, chinò il capo, si nascose sotto l’ombra calata sul volto. “Voglio solo che lui sia in grado di essere una nazione...” Si corresse. “Un individuo più felice di me.” E prosciugò il suo liquore fino all’ultima goccia.

La frittella infilzata dalla forchetta di Canada si era ormai raffreddata. I suoi occhi si aprirono davanti a quella confessione, a quelle parole che avevano suscitato in lui un moto di commozione. Avvolto dalla luce del locale, ingobbito sul suo nuovo drink – la cameriera gli aveva versato subito un altro giro –, Inghilterra gli apparve più fragile e anziano, eppure così tangibile e umano. “Con...” Canada si schiarì la voce, posò la forchetta. “Con America parli mai di questo? Di come ti senti nei suoi confronti?”

Inghilterra fece spallucce, tornò a stropicciare quell’espressione da sbornia storta. “Naah, che senso avrebbe? America non è tipo da star dietro a chiacchiere del genere. E poi non voglio mostrarmi vulnerabile davanti a lui, non più. Io...” Strinse le dita sul bicchiere, il suo braccio tremò, il suo sguardo si rifece scuro e rigido, sulla difensiva. “Io non voglio più mostrarmi vulnerabile davanti a nessuno.” Un’altra sorsata, un altro giro ordinato alla barista, un’ennesima sbornia capace di stenderlo anche dall’altro capo dell’oceano. Tutto regolare.

Canada si abbandonò a un altro sospiro sconsolato. Raccolse anche lui il suo cocktail tropicale, succhiò una sorsata smangiucchiando l’anellino di ananas, e levò lo sguardo al cielo trapuntato da un vaporoso sciame di stelle brillanti tanto quanto le luci che gremivano le vie del porto e le acque della rada.

Le lancette della piccola torre dell’orologio avanzarono di un rintocco.

Scoccò la mezzanotte.

 

♦♦♦

 

7 dicembre 1941

Largo delle Isole Hawaii, 275 miglia da Oahu

Bordo della Portaerei Akagi

 

I gruppi di piloti uscirono dalle loro cabine, svuotarono gli hangar dove avevano trascorso le ultime ore della nottata a terminare i preparativi, si riversarono nei corridoi della portaerei, mescolarono i passi senza spostare gli occhi fissi davanti a loro, già proiettati sul loro obiettivo, concentrati sulla loro missione, e abbottonarono le ultime chiusure delle giacche felpate, aggiustando i baveri attorno al collo.

In una delle sale di raccoglimento, alcuni di loro si insaponarono il viso, si sciacquarono guance e occhi lisciando le sottili rughe d’ansia contratte attorno alle palpebre. Seduti assieme ai compagni, qualcuno scriveva una lettera a casa. Alcuni consumarono le loro ciotole di sekihan che era stato servito come ultimo pasto, altri sorseggiarono il loro sakè caldo, versarono del liquore in piccole bottigliette da riporre nell’abitacolo del loro aereo come buon augurio. I giovani piloti sfilarono a turno davanti ai piccoli altari scintoisti allestiti fuori dalla sala, giunsero le mani, chinarono il capo, mormorarono brevi mantra, strascichi di preghiere propiziatorie, mentre altri rivolsero quelle stesse parole al proprio hashimaki. I piloti baciarono la fascia su cui era ritratto il simbolo del Sol Levante, la allacciarono attorno al capo, e si rivestirono di uno sguardo nuovo, inarrestabile, duro di determinazione e brillante di coraggio. L’orgoglio del loro paese.

Giappone attraversò quei corridoi, quelle sale, invisibile fra i mormorii e i respiri dei piloti che, pur non notandolo, gli trasmettevano ogni loro palpito, ogni loro brivido e ogni loro sussulto, ogni scossetta del loro animo teso d’impazienza. Fremeva assieme a loro.

Giappone strinse le mani giunte dietro la schiena. Le palpebre socchiuse, il passo saldo, il battito del cuore lento e regolare, il suo animo sospeso in uno stato di quiete elettrica che gli bruciava nel sangue. La posizione è raggiunta. Il nostro convoglio è fermo, nascosto e protetto. Ma prima di far decollare lo stormo della prima ondata aerea devo assicurarmi che la rada di Pearl Harbor sia effettivamente libera e che non ci sia alcuna protezione sul porto.

Tornò a isolarsi, ad allontanarsi dal profumo di sakè, da quello delle giacche di pelle dei piloti, da quello di nafta di cui erano pregne le pareti dei corridoi.

Distese una mano davanti a sé, spianò l’aria, spalancò il pannello luminoso su cui brillavano i grappoli di luce del suo convoglio, e pigiò il tocco su uno dei sommergibili che avevano guidato e protetto le portaerei durante la traversata del Pacifico.

Far addentrare un sommergibile tascabile nella rada sarà estremamente rischioso e potenzialmente fatale, ma necessario. Abbassò le palpebre. Ma questo è solo il primo vero rischio che correrò nel preludio di questa guerra. America...

Spalancò gli occhi proiettati sul fondo dell’oceano, fosforescenti, fusi con la vista del sommergibile, e respirò con il suo fiato d’acciaio, facendosi carico delle vibrazioni delle sue turbine, simili a fusa attraverso i polmoni, e del peso del suo cuore meccanico.

Ti sono più vicino che mai.

 

♦♦♦

 

7 dicembre 1941

Pearl Harbor, Isola di Oahu, Hawaii

Bordo del Cacciatorpediniere USS Ward

 

Passi incalzanti picchiettarono sul pavimento della cabina delle comunicazioni, rimbombarono contro le orecchie del tenente comandante, e turbarono la quiete suo sonnellino.

“... sicuri? Non potrebbe essere...” Voci altrettanto scosse si sovrapposero, rimbalzarono fra le pareti sommerse dalla penombra. “Sì, sì, provvediamo, provvediamo.”

“Confermano?”

“Sì, hanno appena richiesto l’allarme generale.”

“Santo Cielo...”

Il tenente comandante risucchiò un respiro dalle narici, sollevò l’orlo del copricapo che si era calato davanti agli occhi e scoccò uno sguardo ancora insonnolito ai suoi sottoposti. “Cosa sta succedendo?”

I sottoufficiali levarono gli sguardi dalle apparecchiature, uno di loro annuì e riagganciò la cornetta del telefono, un altro distese la strisciolina del messaggio cifrato appena stampato, accigliandosi, e un altro ancora si rivolse al comandante. “Un messaggio urgente dal Condor, signore.” Anche lui aveva gli occhi ancora arrossati, appesantiti dal sonno e allucinati per quella scossa improvvisa che lo aveva svegliato. “Hanno avvistato un oggetto sospetto a ovest della loro aerea di dragaggio.”

Il comandante sollevò le sopracciglia con uno scatto. “Un oggetto...”

“Un periscopio che si stava lasciando dietro una scia, signore. Almeno questo è quello che dicono. Credono...” Il sottoufficiale deglutì. Le guance bianche e la fronte imperlata. “Credono possa trattarsi di un sottomarino in immersione.”

“E sembra intenzionato a entrare nella rada,” aggiunse un altro.

Il comandante si alzò dalla sua postazione e indossò la giacca che aveva abbandonato sulla seggiola. “Coordinate?”

“Rotta ovest,” rispose il sottoufficiale, “venti magnetico, velocità venti nodi. Distanza circa un miglio dall’ingresso del porto.”

Il comandante sollevò un polsino e scrutò le lancette del suo orologio. Erano le tre e quarantadue del mattino. “Date l’allarme generale.” Alzò la voce per farsi udire da tutti i marinai presenti nella sala comandi. “Allarme generale. Equipaggio ai posti di combattimento. Aprite le valvole a tutta potenza, seguite la rotta indicata dal Condor.”

L’eco delle sue parole rimbalzò di bocca in bocca. “Allarme generale!”

“Valvole aperte, spingete i motori al massimo!”

“Rotta ovest, venti magnetico, tutti ai posti di combattimento!”

Suonò una campana, le valvole sottosforzo ruggirono, il Ward soffiò un grugnito rauco, destandosi dal sonno come gli uomini del suo equipaggio, e solcò le acque della rada boccheggiando fra le creste d’onda, a caccia del suo nemico.

Il comandante giunse le mani dietro la schiena, indurì la postura, corrugò la fronte, e increspò le folte sopracciglia bianche, aguzzando lo sguardo sugli schermi azzurrini delle apparecchiature.

Affianco a lui, uno dei sottoufficiali rabbrividì. “Signore, cosa...” Stropicciò uno sguardo incerto e preoccupato. “Cosa crede possa essere? Può trattarsi davvero di un sommergibile?”

Il comandante scosse la testa. “Non ne sono sicuro. Ma qualsiasi cosa stia minacciando la sicurezza di Pearl Harbor andrà incontro all’unica sorte che gli spetta...” Contrasse le mani giunte. “Essere eliminato.”

 

.

 

Dopo l’ennesimo giro di lancetta, il sonar del Ward non rimandò alcun eco. Spianò la superficie ovale del quadrante un’altra volta, e un’altra ancora, e non sorpassò alcun lampeggio, alcun puntino, alcuna sbavatura di luce.

Il sottoufficiale che era rimasto impalato affianco al tenente comandante, il fiato in gola e il volto di gesso affacciato alle apparecchiature, emise un sibilo. “Non c’è niente.” Dai suoi occhi trasparì un’espressione perplessa, quasi delusa.

Il comandante grufolò uno sbuffo, schioccò un cenno ai radaristi. “Ricontrollate.”

“Signore,” gli rispose uno di loro, “il sonar non rimanda alcun eco in nessuna direzione. È chiaro che...” Si strinse nella sua incertezza. “Che potrebbe essersi trattato di un errore.”

Il comandante scosse il capo, si massaggiò il velo di barba incolta, strofinandosi una guancia, e corrugò la fronte con un sospiro. I pensieri sempre più fitti e indistinguibili attraverso la nebbia di sonno che ancora gli sporcava la mente. “Richiamate il Condor. Ordinate di ricontrollare, chiedete loro di tenerci informati su qualsiasi altro movimento sospetto. In quanto a noi: per ora cessiamo i posti di combattimento.”

“Sissignore.”

“Ma non mi piace.” Il comandante si rifece cadere sulla poltrona, bevve dalla sua tazza di caffè ormai freddo. “Non mi piace per niente.”

Il sottoufficiale sollevò un sopracciglio. “Signore?”

Il comandante depositò la tazza dopo una smorfia di disgusto, intrecciò le mani davanti al volto colorato dalle luci delle apparecchiature. “Possibile che si sia trattato solo di un abbaglio da parte dell’equipaggio del Condor? Anche se avessero commesso un errore, non lo so...” Scosse di nuovo la testa. “Ho comunque un brutto presentimento.”

Il sottoufficiale sbirciò alle sue spalle, allentò il colletto della giacca, tossicchiò impacciato. “Signore, e se fosse il caso...” Si chinò a mormorare alla spalla del comandante. “Se fosse il caso di informarlo?” Non ci fu bisogno di specificare a chi si stesse riferendo. “Di metterlo al corrente di quello che sta capitando? Magari...” Esitò. Poggiò un cauto passo in quel territorio fin troppo irraggiungibile. “Lui saprebbe come comportarsi. Saprebbe dirci cosa fare.”

Il comandante colse al volo quella scintilla di complicità. “Avvisarlo?”

Cigolio di una seggiola che viene ruotata. “Ma avvisarlo per cosa?” s’intromise la voce di un secondo sottoufficiale. “Per un abbaglio? Se ci fosse davvero un sommergibile a solcare le acque della rada, allora sarebbe ben visibile.”

“P-però...”

“E poi non sappiamo nemmeno dove andare a cercarlo,” disse ancora il secondo di loro. “A quest’ora, poi...”

Uno degli altri marinai lasciò scivolare il tocco dal nastro di carta su cui erano stampati i codici cifrati e sollevò la mano per intromettersi. “Questa sera era salito all’osservatorio di Opana, almeno così mi hanno detto. Forse è ancora là, dato che stanno aspettando l’arrivo dei B-17 dalla California, e...”

“E va bene, va bene.” Il comandante levò i palmi, quasi in segno di resa. “Ma niente allarmismi insensati, sono stato chiaro? Non voglio che lo spaventiamo inutilmente, è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno.” Ruotò la sua seggiola e scoccò un’occhiata buia al ricevitore del telefono. “Chiamate quelli di Opana.”

 

♦♦♦

 

Lockard fece scricchiolare la presa sul ricevitore del telefono, corrugò la fronte attraverso cui pulsò una rigonfia vena d’irritazione, e masticò un grugnito scocciato. “E come possiamo sapere dove sia andato a imboscarsi a quest’ora? Non siamo mica...” S’interruppe, le labbra ancora socchiuse, e lasciò blaterare quelli dell’Army Information Center. “Sì, sì,” annuì, “è stato qui tutta la sera ma è sceso a Honolulu a trascorrere il resto della nottata.” Scosse le spalle, soffiò uno sbuffo al soffitto, ruotò la seggiola. “Non lo so, saranno state le cinque, le sei.” Diede un tamburellare di dita al tavolo. “E allora forse è a Pearl City.” Schiacciò il pugno fra le carte e alzò la voce. “No che non lo abbiamo cercato. Non sapevamo nemmeno che fosse sparito! E poi non possiamo lasciare incustodita la postazione, stiamo lavorando tanto quanto voi, sapete? Non...” Si rimangiò il fiato. Il rossore sbiadì dalle sue guance e il suo timbro di voce si rifece pacato. “Certo.” Più rispettoso. “Certo. Mi scusi. Sì.” Lockard diede una strofinata alla nuca e annuì. “Sì, provvediamo, signore. A lei.” Riappese l’apparecchio e cacciò un sospiro rassegnato. Si stropicciò il viso segnato di stanchezza e irritazione, strofinò le nocche contro gli occhi. “Be’, proprio quando uno pensa che la serata non possa degenerare ulteriormente...”

Elliott smise di far tamburellare la penna fra le carte, dopo aver tenuto l’orecchio teso sulla conversazione ma senza essere riuscito a cogliere la voce dell’interlocutore dall’altro capo della linea. “Chi era?”

“Quelli di Fort Shafter,” grugnì Lockard. “Hanno ricevuto un allarme dal Ward che a sua volta lo ha ricevuto dal Condor. Pensano che un sommergibile sia entrato nella rada.”

“Un...” Elliott fece cadere la penna. “Un sommergibile?”

“Sì.” Lockard strinse le braccia al petto e gli rivolse un’occhiata d’intesa. “Vogliono che lui sia informato, ma non lo trovano da nessuna parte. Pensavano fosse qua con noi, ma io gli ho detto che è sceso a Honolulu. Loro mi hanno detto che non è a Honolulu, che non si trova da nessuna parte, nemmeno a bordo delle corazzate, e ora vogliono che glielo portiamo là. Ma cosa diamine dobbiamo fare se non si trova? Tirarlo fuori dal cilindro?”

Elliott corrugò le estremità delle sopracciglia, di nuovo colto dallo stesso brivido che lo aveva attraversato solo qualche ora prima. “Non è a Honolulu, hanno detto?” Si riaffacciò a quelle immagini che non era ancora riuscito a schiodarsi dai pensieri. I suoi malinconici occhi azzurri, quello sguardo perso e distante, quel modo di guardare lontano, oltre il promontorio, anziché di concentrarsi sugli schermi, e quell’aura appesantita che si era trascinato dietro allontanandosi da Opana. “Te l’avevo detto che non mi sembrava in vena di starsene in mezzo alla confusione.”

“Be’ non può aver lasciato l’isola, questo è poco ma sicuro.”

“E allora dove potrebbe essere andato?”

“Cosa vuoi che ne sappia?” Lockard gli rifilò un’occhiata più fredda e tagliente. “Eri tu quello con il sesto senso, no?”

“Sesto senso...” Elliott si voltò a guardare fuori, affacciandosi alla notte che in un paio d’ore sarebbe sfumata nei colori rosati dell’alba. Le luci della baia si stavano diradando, ampie ombre si erano allungate fra le piantagioni, l’eco della musica si era abbassato, sormontato dallo scrosciare delle onde rimestate dalla brezza proveniente dal Pacifico, da quella quiete elettrica che sfrigolava attraverso il respiro stesso di Oahu.

Il mio sesto senso...

Elliott socchiuse gli occhi, inspirò i profumi selvatici dell’isola, quelli ferrosi provenienti dal porto, e si lasciò circondare dalla voce di quel richiamo, da quel battito che ora giaceva in solitudine, distante da tutto, eppure al centro di ogni cosa.

Seppe cosa fare. Seppe dove andare.

 

♦♦♦

 

Il brivido di una minaccia sorse dalla palude del suo sogno, emerse proprio come l’ombra di una creatura marina che solca acque sporche e limacciose, che serpeggia indisturbata scivolando in un territorio da violare, in cui torcersi e seminare una scia di sangue.

Quella presenza estranea e ostile gli circondò le caviglie, risalì le gambe, premette sul petto e si aggrovigliò alla gola, bloccandogli il respiro. Gli soffiò un alito viscido e minaccioso dietro l’orecchio, facendogli accapponare la pelle.

America indurì i muscoli intrappolati in quella guaina soffocante, strizzò i pugni e irrigidì le spalle, dando uno strattone di lato. Si prese la gola. Spalancò la bocca ma le sue labbra non riuscirono ad appendersi ad alcuna sorsata d’aria, inghiottirono solo un forte sapore di sangue che gli diede la nausea. La vista si tinse di rosso, si chiazzò di lampi neri. Le orecchie fischiarono, le vertigini lo attorniarono, e il tambureggiare del suo cuore martellò attraverso la gola soffocata.

America si dimenò ancora. Slanciò un ginocchio, ma il suo calcio rimase ingessato in quella morsa che lo aveva intrappolato per le caviglie. Gettò il capo all’indietro, spalancò la bocca per gridare, per vomitare quel peso schiacciato sul petto, e non emise alcun suono.

Il grido non era suo, era della terra, del vento, dell’oceano che invocava aiuto, che piangeva a gran voce chiamandolo...

“Signore?”

 

.

 

America spalancò gli occhi e batté la nuca sul suolo erboso, finendo ribaltato su un fianco.

Lo sguardo mite e un po’ spaurito del Soldato Elliott si chinò su di lui, materializzandosi attraverso la sua vista nebulosa. “È...” I suoi lineamenti scomposti e sdoppiati assunsero nitidezza, plasmarono una profonda espressione di turbamento. “È sveglio, signore? Si sente...”

“Sì!” America tirò su le spalle di colpo ma tornò a picchiare un gomito a terra, colto da una vertigine improvvisa. Una stanghetta degli occhiali gli scivolò dall’orecchio, le ciocche di capelli s’incollarono alle palpebre umettate di sudore freddo, e le labbra secche tastarono il sapore dell’erba. “Sì, sì, sono sveglio, sveglissimo.” Si ribaltò per mettersi seduto. Il battito del cuore galoppava ancora in fondo alla lingua, un sapore metallico e stomachevole gli riempiva la bocca. “Cosa...” Aggiustò la montatura degli occhiali e tornò a inquadrare il profilo di Elliott in piedi davanti a lui. Batté le palpebre. “Cosa ci fa qui? Non mi dica che... oh!” Un bagliore gli illuminò lo sguardo, scrollò via la pioggia di brividi. “Non è che è già tornata la portaerei? Oppure i B-17? Mi sono perso qualcosa?”

Elliott raddrizzò la schiena dopo essersi chinato a toccargli la spalla e irrigidì un attenti. “Nossignore.” Lo sguardo fermo e composto. “Ma ci è giunto ordine di cercarla e di scortarla all’Army Information Center di Honolulu. C’è...” Strinse i pugni lungo i fianchi. “C’è stato un allarme, signore. Un allarme sottomarino.”

“Un sott...” Tornò il respiro strangolato, quel fetido alito minaccioso a gelargli il collo nudo ed esposto al morso del nemico, la sensazione di trovarsi in un fondale nero, di spalancare la bocca in cerca d’aria e di ingoiare solo acqua, di sprofondare in uno spazio buio, trascinato verso il basso dai muscoli appesantiti, stanchi di lottare. America si appese a un respiro d’aria, spingendolo fino ai polmoni, e si diede una strofinata alla gola per assicurarsi di non avere alcuna serpe attorcigliata al collo. “Chi ha dato l’allarme?”

“Il Condor e il Ward, signore,” rispose Elliott. “Il Condor ha individuato un oggetto sospetto nella rada, ma il Ward che era di pattuglia non ha emesso alcun eco. Anche il nostro radar non ha rilevato alcun segnale. Probabilmente si tratta solo di un equivoco, di un banale errore, forse di un malfunzionamento delle apparecchiature, ma volevano comunque che lei fosse informato e che monitorasse la situazione di persona.” La sua voce assunse una sfumatura mortificata. “Ci dispiace doverla disturbare proprio a quest’ora di domenica, e se lei si stava riposando...”

“Sono sveglio!” America riacciuffò la giacca che aveva accartocciato per appoggiarci la schiena sopra, se la gettò sulle spalle e infilò le maniche. “Avete fatto bene ad avvisarmi. E poi non riuscirei comunque a dormire se c’è davvero un allarme del genere. Ci penso io.”

Elliott annuì. “Molto bene.” Fece strada lungo la stradina che entrambi avevano percorso per risalire le piantagioni e affacciarsi al promontorio che dava su Kahuku Point. “Allora la scorto, signore.”

“In marcia!” America si strofinò le maniche della giacca per graffiare via il prurito dell’erba, l’umidità trasudata dal prato su cui aveva dormito, il tocco del venticello salmastro che lo aveva punzecchiato prima di addormentarsi, e si guardò attorno tendendo l’orecchio oltre lo scricchiolare dei loro passi, ancora preda di quella sensazione di pericolo imminente che gli bruciava lungo la nuca. 

Seguì il passo arzillo del giovane operatore, tese la mano davanti alla fronte per scrutare la strisciolina d’alba che già galleggiava fra le frastagliature dell’oceano, dove le stelle stavano sbiadendo, e gli venne in mente... “Come ha fatto a trovarmi? Intendo...” Accelerò il passo per portarsi al suo fianco. “Come faceva a sapere che fossi qui? Eravamo d’accordo che sarei sceso al porto.”

Nonostante l’oscurità, lo sguardo di Elliott s’illuminò di una limpida e genuina sincerità che sbocciò in un sorriso. “Istinto,” rispose senza malizia. “Ho solo seguito il mio istinto e ho subito capito che non l’avrei trovata al porto, signore. Non mi sembrava molto in vena di festeggiamenti, questa sera.” Sussultò, mordendosi il labbro, e rintanò lo sguardo contro la spalla, gesticolando per cacciare via quella confessione. “S-scusi, non mi sarei dovuto permettere di...”

“No.” America sorrise, rincuorato. “No, ha ragione.” Scosse il capo e rise, dandosi una strofinata alla nuca. “Questa sera non ero proprio in vena.” Un breve sospiro, un ultimo sguardo rivolto al tratto d’alba delineato all’orizzonte, e i suoi occhi raccolsero ogni sfumatura bluastra della notte che stava giungendo al termine. “Grazie.”

“Uh?” Elliott batté le palpebre, stordito. “Di cosa, signore?”

America rinnovò il sorriso. Il suo animo si schiuse nello stesso caldo sentimento di affetto e di riconoscenza che aveva provato passeggiando per le vie del porto, riconoscendosi nelle risa, nella gioia e nelle premure degli uomini che le abitavano e che le percorrevano. Fu grato per quel senso di appartenenza. Fu grato di essere la nazione che era. “Di averlo capito.”

Quello sguardo attraversò gli occhi di Elliott, facendoli brillare di una gioia inaspettata che li rese simili a due stelle staccate da quella notte ormai prossima al termine. Il giovane operatore s’infiammò di emozione, sorrise per quella confidenza, e diede un’aggiustata al copricapo. “Andiamo.” Incalzò il passo. “Ho parcheggiato la camionetta a pochi metri da qui. Saremo a Honolulu in un battibaleno, garantito.”

America lo seguì, lasciandosi guidare e trasportare, ma i suoi passi avanzarono appesantiti, intrappolati da quella sensazione di angoscia e di violazione ancora aggrovigliata attorno alle sue caviglie e alla sua gola.

Il suolo tremò di paura sotto i suoi passi, il vento sibilò terrorizzato dietro il suo orecchio, il respiro trasudato dalla vegetazione di Oahu lo mise in allerta scaricando sulla sua pelle incessanti scossette di allarme, e gli scrosci distanti delle onde singhiozzarono che qualcosa era in arrivo e che lui era in pericolo, che doveva proteggersi.

America non seppe più a quale voce dar retta.

 

.

 

“L’ho trovato!”

Elliott spalancò la porta ed entrò per primo nella saletta di comando dell’Army Information Center, a Fort Shafter, nel centro di Honolulu. Sventolò un braccio per catturare l’attenzione su di sé e si scostò per lasciar spazio al passo di America. “Eccoci, l’ho trovato,” esclamò di nuovo. “Abbiamo fatto più in fretta possibile.”

Gli ufficiali in uniforme bianca si scollarono dai monitor, raddrizzarono le spalle chine sui banconi dove erano distribuiti le carte e i fascicoli dei rapporti, uno di loro abbassò una cornetta, e quello con i gradi da tenente si alzò dalla sua seggiola, parandosi davanti a tutti. “Signore.” Ignorò la presenza del povero Elliott e rivolse il saluto solo ad America. “La ringraziamo per averci raggiunti nonostante l’ora, signore. Ci scusi se l’abbiamo disturbata, ma ritenevamo che dovesse essere informato immediatamente.”

America annuì. Gli occhi scuri e attenti, i tratti del volto così rigidi da apparire addirittura più adulti. “C’è stato un allarme, mi hanno detto. Un allarme sommergibile.”

Il tenente si tolse la mano dalla fronte e la giunse dietro la schiena. “Il primo allarme è stato lanciato dal Condor, signore. Ma ci sono delle novità.” Si rimise seduto, si fece passare le carte degli ultimi rapporti, sfogliando un paio di pagine, e tenne il segno fra le righe con l’estremità di una penna. “Ora anche l’Antares ha avvistato lo stesso oggetto nella rada, grazie a un Catalina di ricognizione che ha fatto luce con i bengala. Un oggetto piccolo e nero, più largo di un periscopio e più sottile di un sommergibile. Lo hanno avvistato nella rada mentre si lasciava dietro una scia.”

“Siamo certi del fatto che non si tratti di un’unità americana, signore,” s’intromise uno degli ufficiali presenti. “Quindi è chiaro che stiamo avendo a che fare con un sommergibile nemico. E forse sarebbe opportuno attaccarlo prima che possa risultare pericoloso.”

America rinnovò un cenno d’assenso. Si diede una rimboccata alle maniche, sgranchì le dita ancora intorpidite dall’umidità in cui aveva sonnecchiato, e raggiunse la sua postazione. “Ci penso io.” Si sedette. I suoi occhi puntarono le apparecchiature. I piccoli quadranti dei sonar si specchiarono sulle lenti. “C’è già un’imbarcazione in assetto da combattimento, mi hanno detto.”

“Sissignore,” confermò il tenente. “Il cacciatorpediniere Ward.”

“Bene.” America abbassò le palpebre, strinse i pugni sulle ginocchia, indurì le spalle, e si lasciò abbracciare da un’ombra, circondandosi di un’aura solenne che si distese come una mano fra le pareti della camera di comando. “Andrà bene.”

Cadenzò il fiato – uno, due, tre –, si isolò dal frusciare delle carte, dai cigolii delle seggiole, dallo schioccare dei passi degli ufficiali e dal brusio delle loro voci – uno, due, tre –, fino a che l’unico suono a battere nella sua testa non fu quello del suo cuore, fino a che le uniche presenze a circondarlo e a respirargli attorno non furono quelle delle sue imbarcazioni.

Riaprì gli occhi. Si ritrovò in piedi, proiettato in uno spazio nero e senza fondo.

America rivolse un palmo verso il basso, spianò l’aria davanti a sé, e srotolò il pannello che raffigurava il porto militare. Allargò il quadrante che conteneva l’area segnalata dal Ward, la sezione del Ten-Ten Dock fra Ford Island e Pearl City, e pigiò sul segnalino che raffigurava il suo cacciatorpediniere.

 

 

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Trasferimento

Ancoraggio

Comandi artiglieria

 

 

Scelse ‘Comandi artiglieria’.

Un respiro metallico lo attraversò impossessandosi dei suoi polmoni, si arrampicò dai piedi fino alle punte dei capelli, levando un vento elettrico che gli rizzò la pelle d’oca lungo le braccia, e la presenza del Ward gli colmò il petto, battendo all’unisono con il suo cuore. Su di lui si schiantarono le stesse onde infrante sullo scafo dell’imbarcazione, le turbine della sala macchine soffiarono attraverso le sue labbra vibranti, il bruciore della nafta si mescolò al sangue, correndogli nelle vene.

America batté le palpebre, lasciò che la visuale del cacciatorpediniere gli attraversasse l’iride, che il mirino calibrato si regolasse attorno alle sue pupille, e che la vista si tingesse di verde.

Strinse le mani, impugnò i comandi. E ora vediamo chi è il responsabile di tutta questa confusione.

Nella planimetria spalancata davanti al suo sguardo, sbocciò un lampeggio rosso che fiancheggiava la rotta del Condor, come gli era stato detto.

Eccolo.

America ci spinse l’indice sopra ed evocò un pannello verticale, la riproduzione di un sommergibile tascabile che non gli apparteneva. Sopra la cornice, l’insegna ‘???’ non gli permise di riconoscerlo.

America socchiuse un occhio e ritirò la mano, colto alla sprovvista. Non lo riconosce? Che strano. Che sia un sommergibile giapponese? Ma non ha senso. Si grattò dietro l’orecchio. Cosa cavolo crede di fare entrando da solo qui a Pearl Harbor? Sottrarre informazioni sulla Pacific Fleet? Spiarmi? Studiare il territorio? Oh, be’... Scosse le spalle, intrecciò le mani e tornò a dare una sgranchita alle falangi. Non starò di certo qui fermo a chiedermelo mentre lui fa i suoi sporchi comodi all’interno di un mio porto.

“Facciamo fuoco sui malvagi, baby?” America diede un colpetto alla lente sinistra, regolò il mirino calibrato e strinse la visuale sul sommergibile tascabile. “È l’ora della giustizia!” Distese il braccio tenendo la mano spalancata, flesse le punte delle dita, tastò l’energia calda e collosa del Ward accumulata all’interno del suo palmo, e sprimacciò quello sfrigolio scoppiettante fino a sentirlo pungere e crepitare lungo la pelle. Serrò il pugno. Sparando una prima bomba di profondità.

Il Ward sputò il suo colpo. Il siluro fendette le acque sfiorando lo scafo del Condor, e mancò l’obiettivo, esplodendo a vuoto. La lucina rossa continuò a lampeggiare al centro del Ten-Ten Dock.

Acc... America strizzò gli occhi, barcollò di un passo indietro per ammortizzare il contraccolpo, e si massaggiò la spalla che aveva ricevuto la dolorosa frustata del rinculo. Mi sono arrugginito? Che cavolo. Flesse il collo di lato, fece schioccare le giunture, tenne stretta la spalla facendo roteare il gomito, e tornò a strizzare il pugno sudato e formicolante per caricare un altro colpo. Andiamo, è praticamente già nella tana del lupo e non si sta nemmeno difendendo. Scagliò di nuovo il braccio davanti a sé, socchiuse la palpebra sinistra, e regolò di nuovo il mirino calibrato riflesso nella lente degli occhiali. Quanto potrà volerci per abbatterlo? Sparò un secondo siluro.

La bomba subacquea attraversò il Ten-Ten Dock in un bianco turbinio di spuma, perforò la corazza del sommergibile tascabile, vi esplose contro rigettando il grugnito brontolante dello scoppio sottomarino, dilatò un largo cratere di bolle incandescenti, e lo abbatté, facendolo sprofondare nel fondale della rada.

Il segnale luminoso si spense.

America ritirò il pugno contro il petto, in segno di vittoria, e fece guizzare le labbra in un sorriso smagliante. Centrato. Qualunque cosa complottasse di fare... Richiuse le palpebre, riassorbì il mirino facendolo scomparire dalle iridi e dalle lenti. Ora non sarà più un problema. Spalancò gli occhi trovandosi di nuovo fra le mura della sala comandi al Quartier Generale di Fort Shafter, di nuovo in compagnia di operatori e ufficiali della Marina anziché delle sue navi.

“Bersaglio centrato e abbattuto dal cacciatorpediniere USS Ward,” annunciò la voce del tenente. “Si conferma che è stato colpito e abbattuto un sommergibile operante nella zona proibita.”

Qualcuno esultò.

America reclinò il capo all’indietro, spalmandosi sullo schienale della seggiola, riaprì i pugni sudati facendo scricchiolare le falangi, riguadagnò qualche sorsata di fiato, e rabbrividì, schiacciato dall’improvvisa pesantezza che gli aveva impietrito i muscoli. Cavoli. Si aggrappò alla spalla indolenzita, massaggiò il braccio fino al gomito e risalì il collo, le pulsazioni del cuore lungo la giugulare. Solo adesso riesco a rendermi conto del tempo che è passato dall’ultima volta che ho combattuto. Forse dovrei rimettermi in forma.

“Signore?” Il viso intimidito di Elliott fu il primo a rientrare nel campo visivo, la sua presenza fu la prima a sfiorargli la spalla. “Sta bene, signore? È ferito?”

America, nonostante lo stordimento, mostrò il pollice, tutto impettito. “No problem, no problem. Era solo...”

“Purtroppo invece temo che un problema ci sia.” Il tenente si massaggiò la fronte corrugata. Gli occhi scuri rivolti ai sonar da cui l’eco del sommergibile tascabile era appena sparito. “Abbiamo appena abbattuto un sommergibile tascabile che è riuscito a insinuarsi nella rada nonostante la nostra copertura radar e nonostante tutte le imbarcazioni di pattuglia. Perché la rete sommergibile era aperta, si può sapere?”

“Quella non la chiudono mai, signore.”

“Allora dovremmo...”

“Era un sommergibile tascabile,” ripeté America a fior di labbra. Si strinse il mento, fece tamburellare il pollice sulla guancia, e tornò assorto nei suoi pensieri come quando si era ritrovato a scrutare il lampeggio rosso. “Uhmm, forse, forse...” In lui si accese un altro campanello d’allarme. “Forse c’è un dilemma ancora più grosso di cui preoccuparsi, allora.”

Il tenente gli scoccò un’occhiata altrettanto inquieta. “Signore?”

“Il sommergibile di lancio.” America distese un indice e gesticolò a mezz’aria. “Un sommergibile tascabile non può essere arrivato qua da solo, no? Allora dov’è il sommergibile da cui è partito? E se ne stessero tenendo pronti altri da lanciare, ora che abbiamo abbattuto il primo? Se ce ne fossero altri in agguato fuori dalla rada?”

L’aria fra le pareti della camera di comando si fece gelida e pesante, costringendo i presenti a ingoiare il fiato. I loro volti erano maschere di gesso sotto i riflessi azzurrini delle apparecchiature. Le gambe impietrite e neanche uno scricchiolio di suole a guizzare sul pavimento, a spezzare quel silenzio granitico.

“D-dobbiamo...” Uno dei sottoufficiali scosse il capo e si ricompose. “Dobbiamo dichiarare lo stato d’allarme?”

“No,” rispose il tenente. “Scateneremmo solo del panico inutile.”

America ebbe un guizzo. Inutile?

“Indiciamo comunque uno stato di bassa allerta su tutta la rada,” disse ancora il tenente. “Se dovesse infiltrarsi qualche altro sommergibile, questa volta saremo pronti a riceverlo.”

“Sorveglio io il porto.” America si rialzò dalla seggiola, lisciò le maniche che si era rimboccato prima di combattere, e spinse all’indietro la montatura degli occhiali. “Io vado a Pearl Harbor. Se qualcuno mi cerca, mi troverò nei pressi della Battleship Row per tenere d’occhio la situazione di persona. Voi nel frattempo state appiccicati ai radar e non perdete le comunicazioni con il Ward. Se avvistate qualcos’altro di sospetto, tenetevi pronti ad attaccare.”

“Sissignore.”

“In quanto a lei...” America si rivolse a Elliott. “Torni all’osservatorio di Opana. Se c’è un pericolo in agguato, voi due sarete sicuramente i primi a scoprirlo. Se qualcosa dovesse minacciare l’isola, venite ad avvertirmi immediatamente.”

Elliott annuì e batté un saluto sulla fronte. “Sissignore, agli ordini.”

Si separarono.

Camminando da solo verso Pearl Harbor, addentrandosi per le strade ancora buie e insonnolite, rischiarite solo dalle fioche e frammentate luci dei lampioni, America rivisse il brivido di quel piccolo scontro, l’ostilità trasmessa dalla presenza del sommergibile tascabile, il senso di pericolo che aveva provato sorreggendo fra le mani il battito metallico del Ward. Un sommergibile entrato nella rada, Pearl Harbor minacciata, e tutta questa situazione che... Solo un pensiero gli sfrecciò attraverso la testa, solo un’immagine lampeggiò nella sua mente, solo un volto latteo incorniciato da capelli corvini e animato da un paio di occhi cremisi che non gli appartenevano. Che sia opera di Giappone? Ma a che scopo? Vuole davvero attaccare qui? Via mare? No, no, sarebbe una pazzia bella e buona, perché io mi difenderei troppo bene. Qui a Pearl Harbor ho quasi tutta la Pacific Fleet a disposizione!

Catturato dai primi raggi rosati crepati attraverso le sfumature color indaco del cielo da cui le stelle stavano sbiadendo come lucciole morenti, America reclinò il capo all’indietro. Passò una mano attraverso le ciocche della frangia per liberare la vista. Che cavolo starà succedendo? E, senza saperlo, si affacciò alla sua prima alba di guerra.

 

♦♦♦

 

7 dicembre 1941

Largo delle Isole Hawaii, 275 miglia da Oahu

Bordo della Portaerei Akagi

 

Giappone spalancò gli occhi con un sussulto privo di dolore. Il rimbombo del contraccolpo che aveva centrato e affondato il sommergibile tascabile ancora a echeggiargli nel petto e nelle tempie. È a Pearl Harbor, realizzò. America... Strinse le mani sudate, succube di un singolo brivido di soggezione rotolato lungo le ossa. Si trova al porto.

Inspirò dal naso, trattenne l’aria increspando le labbra, flesse il capo prima contro una spalla e poi contro l’altra per sgranchire le vertebre, e si massaggiò la nuca. La trovò madida di sudore.

Allora si trova davvero a Oahu, pensò di nuovo, freddo, provando un lieve moto di sprezzo che gli torse la pancia in un nodo di nausea. Solo lui può aver guidato l’attacco che ha affondato il sommergibile. Ne ho percepito la presenza e l’energia, anche se non sono stato in grado di vederlo.

Abbandonò la postazione e uscì dal suo isolamento, diretto al ponte di lancio della Akagi attraverso cui già ronzavano gli scatti dei motori e i frullii delle eliche.

Forse è meglio così, dopotutto. Ora avrò la piena conferma che il mio attacco si riverserà direttamente sul suo corpo, come volevo fin dall’inizio. E questa aggressione sarà così poderosa che nemmeno lui potrà nulla per difendere se stesso e i suoi uomini.

Lo accolse l’aria fredda e salmastra del mattino, lo schiaffo del sole specchiato sull’oceano laminato da onde che erano scaglie d’acciaio, l’odore della gomma bruciata, dell’asfalto consumato, del fumo nero gorgogliato dai motori e rimestato dalle eliche, lo sventolio delle bandiere appese ai tralicci della portaerei, e il baluginare dell’intero convoglio di navi distribuito sulla linea d’orizzonte.

Il sacrificio del sommergibile è stato doloroso ma necessario. Ora ho la conferma che la disposizione delle imbarcazioni nella rada è la stessa che ho già registrato e studiato, e che le reti antisommergibili sono tutte aperte. Ora...

Giappone abbottonò l’ultima chiusura dorata della giacca, lisciò la stoffa nera lungo la manica, spremette il tocco sulla croce di ferro appesa al polso, caricandosi della sua energia e invocando la sua protezione, e rivolse gli occhi al mattino. Occhi rossi già tinti di tutto il sangue che le sue mani stavano per spandere su quello stesso cielo che si stava per spalancare per lui.

L’attacco può avere inizio.

 

.

 

Il ruggito degli aerei fece tremare la piattaforma di lancio su cui era allineata la flotta della prima ondata. Le gambe in corsa dei piloti calpestarono il fumo color piombo rigettato dai motori appena scaldati, ondate di quel vapore bruciato mulinarono attorno agli scatti singhiozzanti delle eliche, gli uomini guidati dagli sventolii delle bandiere bianche balzarono a bordo delle fusoliere, si accucciarono davanti ai comandi, calzarono gli occhialoni e si girarono a rivolgere gli ultimi cenni d’assenso ai copiloti.

Da terra, i serventi corsero a togliere le sospensioni dalle ruote degli aerei e a battere manate di buon auspicio sui siluri assicurati alle pance dei Nakajima.

Gli Zero aprirono la formazione, scivolarono lungo la piattaforma lastricata d’asfalto, attraversarono gli sventolii di bandiera bianca, superarono i saluti sbraccianti dei piloti e dei marinai rimasti a terra, “Banzai! Banzai!”, e spiccarono il volo, tuffandosi contro il cielo del mattino ancora un poco scuro. Spire di vento raccolsero il decollo della flotta aerea, sostennero le ali traballanti dei caccia e degli aerosiluranti, ne bilanciarono il volo, e li innalzarono sopra il mare mosso. Lo sciame si rimpicciolì – tante macchioline nere fra gli sbuffi di nuvole –, ronzò attraverso la foschia che ombreggiava le luci del mattino, e compose la formazione.

Giappone batté lo sguardo su cui era specchiato il Sol Levante tatuato sulle fusoliere verdi dei Nakajima. Riaprì gli occhi e si ritrovò affacciato al vero sole dell’alba appena sorto sulle acque del Pacifico, ai raggi sanguinei distesi come nastri lungo la superficie d’acqua, sguainati come lame fra le nuvole più basse. Il vento d’alta quota scosse le ciocche corvine contro le guance. Sostenuti dalla corrente che aveva innalzato anche il volo degli aerei, i piedi avanzarono di un primo saldo passo in mezzo alle nubi. Il ronzare dello stormo aereo fece crepitare l’aria sul suo viso, attraverso la sua nuca, sotto la sua marcia, e contro gli occhi socchiusi su cui si specchiavano le tinte rosse dell’albeggio.

Oahu apparve come un miraggio, una frastagliatura di terra verdeggiante avvolta dalla pallida nebbiolina del mattino.

Oahu...

Giappone distese le braccia, divaricò le mani, e raccolse fra le dita tutto il peso della prima ondata di aerei che stavano volando verso l’isola. La sua ombra s’infiammò di nero e si ingigantì, carica della minaccia che stava per abbattersi sugli interi Stati Uniti. Restrinse le punte delle dita – un tremore risalì il braccio schiacciato dal peso dello stormo – e isolò un solo Nakajima di pattuglia. Reclinò il polso di lato, spinse il pugno in avanti, si abbassò di quota e fece avvicinare il bombardiere alle coste dell’isola.

Guardò attraverso i suoi occhi.

Il verdeggiare dell’isola, i promontori scoscesi gremiti dai filari delle piantagioni, le città raccolte a chiazze sulla costa, i tetti rosati dei bungalow militari, le piste asfaltate delle basi aeree, la disposizione delle navi che luccicavano nella rada.

Con la mano libera, Giappone sfilò la pistola segnaletica dal fodero allacciato al fianco, sollevò il braccio e mirò la sommità del cielo. “Tora, tora, tora.” Sparò il bengala, divise il cielo con una sfrecciata azzurra.

Scortati dal feroce ruggito dei caccia Zero, gli aerosiluranti si abbassarono per portarsi sulla linea d’attacco, e quell’improvviso abbassamento di quota gli spalancò un vuoto in pancia.

Trascinato anche lui dal volo calante dei tuffatori, Giappone rinfoderò la pistola segnaletica, si concesse un ultimo istante di silenzio contemplativo prima di scaricare l’inferno su Pearl Harbor.

Tutto è compiuto, il mio destino e anche quello di America è segnato, non c’è più modo di tornare indietro.

Il mirino calibrato roteò nell’iride rossa, inquadrò la Battleship Row, e allargò il campo restringendosi sulle singole navi disposte nella rada.

 

♦♦♦

 

7 dicembre 1941

Pearl Harbor, Isola di Oahu

Hawaii

 

“Hanno abbattuto un sommergibile tascabile?” esclamò Lockard. “Ma allora...” Strinse le mani sulle ginocchia e boccheggiò un sospiro strozzato tornando a qualche ora prima, a quando aveva ricevuto la chiamata da Fort Shafter e aveva risposto ringhiando alla voce dall’altro capo del ricevitore, giudicandola un’assurdità. “Allora era vero. L’allarme, intendo. Avevano ragione.”

“Sì,” annuì Elliott. “Ma il Ward lo ha abbattuto quasi subito e non ci sono stati altri allarmi o altri avvistamenti. Almeno finché io sono rimasto lì.”

“Uhm.” Lockard si strinse il mento e arricciò un angolo delle labbra. Quasi si pentì di essere rimasto a sorvegliare la stazione e di aver spedito Elliott a recuperare America. “E non hanno nemmeno dato l’allarme generale? Che sia...” Tamburellò l’indice sulla guancia. “Prudente da parte loro?”

Elliott si strinse nelle spalle, accostò una mano alla bocca per sventolare via uno sbadiglio, e andò ad accasciarsi sulla sua seggiola. “Sarà che è domenica per tutti e che non hanno voglia di preoccuparsi troppo. Piuttosto...” Diede una sbirciata all’orologio da polso. Erano le sette passate. “Che sia ora di chiudere bottega anche qui?” Si stropicciò gli occhi stanchi e infastiditi dai tiepidi raggi di sole mattutino che gli avevano schiaffeggiato la faccia durante il ritorno a Opana. “Ormai è quasi ora.”

Lockard annuì e si girò a pescare il ricevitore del telefono. “Chiamo la base, avverto che stiamo arrivando e dico che ci facciano trovare la colazione pronta.”

“Ooh, le frittelle, magari?” Elliott si dondolò sulla seggiola. Gli occhi lucidi e sognanti, le labbra umide di gola, il sapore zuccheroso delle frittelle a sciogliersi sulla sua lingua. “Chiedi che ci preparino le frittelle.”

Lockard ridacchiò. “Le hai già mangiate ieri.”

“Se si tratta di frittelle, allora nel mio stomaco c’è sempre spazio a prescindere e...”

“Who, who, fermo, fermo, fermo un attimo.” Lockard girò la sedia, diede un colpo di gambe per trascinarsi contro il ripiano delle apparecchiature, e accostò la faccia al monitor di uno dei sonar. Il telefono ancora in mano, la bocca socchiusa in un muto gemito di stupore, le sopracciglia crucciate, lo sguardo vitreo, e un lampeggio nebuloso a specchiarsi nell’azzurro delle sue iridi. “E questo cos’è?”

“Cos...” Elliott smise di dondolare. “Cos’è cosa?”

“Guarda.” Lockard gettò l’indice sul radar. “Eco!”

“E...” Elliott incassò il peso granitico di quella parola che gli sprofondò nello stomaco come un pugno, facendogli dimenticare della colazione e delle frittelle. “Eco?” Anche lui trascinò la seggiola e appiccicò lo sguardo allo schermo.

Sul bordo dell’ovale, nella parte più alta, la lancetta roteante evidenziò una serie di macchie luminose ancora sfocate ma ben allineate. La zona di luce lampeggiò a ogni spianata dell’asticella, si spostò da sinistra a destra, e cominciò a riempire l’intero campo del radar.

“Cos...” Elliott si umettò le labbra. Sapevano di ferro e sale. “Cos’è?” soffiò, a corto di fiato. “Aeroplani?”

“Ma no, impossibile,” lo stroncò Lockard. “Se fossero aerei sarebbero dei semplici puntini, ma questi...” Accostò una mano al radar, senza toccarlo. “Questo è un vero e proprio sciame. Non ho mai visto una cosa simile.”

“Echi parassiti?”

“Escluso. L’ordine geometrico è fin troppo preciso. Forse...” Lockard deglutì, una riga di sudore gli rotolò lungo la guancia. “Forse è un guasto.” Calma, si disse. Non c’è ragione di perdere la calma, c’è sicuramente una spiegazione razionale. “Controlla che le apparecchiature funzionino bene, svelto.”

“Non c’è niente di guasto,” ribatté Elliott. “Le apparecchiature hanno funzionato bene tutta la notte.”

“Allora regola l’illuminazione, così vediamo meglio. Presto.”

Elliott eseguì.

Si creò un buon contrasto di luce, ma non c’era nulla di buono in quello che si era materializzato nello schermo. Macchie gialle in formazione geometrica dirette a velocità incalzante verso le coste di Oahu.

“S-sono...” Elliott rabbrividì, perse colorito in volto, e accostò una mano alla bocca. Non seppe cosa pensare. “Sono aerei.”

I freddi occhi di Lockard rimasero inchiodati al radar, a quelle macchie sempre più numerose, ai lampeggi sempre più dilatati. “I calcoli.” Schioccò le dita verso Elliott. “Calcola un grafico, dobbiamo capire a che distanza sono, dobbiamo prendere le coordinate.”

Elliott si affaccendò e scribacchiò più in fretta che poteva. La mano tremante e gli occhi vacillanti d’incredulità davanti ai risultati. “Sono a centotrentasette miglia di distanza.” Ingoiò fiato e forza. Smettila di tremare. Smettila di tremare, per Dio, smettila di tremare. “Direzione nord, tre gradi est. È una flotta aerea. Volano a centoottantadue miglia orarie.”

Lockard strinse i denti fino a sentire lo scricchiolio della mandibola discendere la gola e fargli traballare il pomo d’Adamo. Ma che diamine...

Riagguantò il telefono, fece cadere il ricevitore fra le gambe, lo riprese ingarbugliandosi con il cavo, e lo accostò all’orecchio prima ancora di aver finito di comporre il numero. “Qui Lockard dall’Osservatorio di Opana, Passatemi l’Army Information Center.” Fece oscillare la seggiola a destra e a sinistra, si asciugò il sudore sulla fronte, sbuffò, e prese a tamburellare le dita sul tavolo.

Elliott non riuscì a scollare lo sguardo dallo schermo, dal suo stesso riflesso dilatato nell’ovale sempre più gonfio di luci lampeggianti.

La voce di Lockard, dapprima solo un eco ottuso dalla confusione che gli ronzava nelle orecchie, si fece secca e nitida. “Sì, sì, una grande flotta di aeroplani in direzione nord, tre gradi est, a centotrentasette miglia da Oahu. Cos... no, non possono essere i B-17, non li stiamo aspettando da quella direzione, e comunque... sì. Sì, certo che le apparecchiature funzionano! Cosa...” Il suo tono si mitigò. “Nessun allarme? Ma tenente...” Un sospiro sconfitto. “Sì.” Elliott lo vide annuire con la coda dell’occhio. “Sì, ho capito. Certo. Agli ordini, signore.” Riagganciò. La mano ancora aggrappata al ricevitore fu scossa da un tremito.

“Cosa dicono?” gli chiese Elliott.

Lockard fece schioccare la lingua fra i denti. “Che secondo loro abbiamo avvistato male.” Si rimise a braccia conserte. “Che non c’è alcun motivo di preoccuparsi e di dare l’allarme, e che è categoricamente impossibile che qualcosa del genere si stia approcciando a Oahu. Come se io e te fossimo ciechi, per Dio!”

“Sta continuando a spostarsi.” Elliott si scansò per fargli vedere. “Sempre da sinistra verso destra. Ora sono a sessantadue miglia, circa.”

Lockard si riavvicinò. “Vanno velocissimi.” Lo stesso terrore di Elliott luccicò anche nei suoi occhi sgranati. “Dannazione, sono...” Scosse il capo, si passò una mano fra i capelli, diede un’energica strofinata sotto il colletto, e indurì le dita aggrappate alla nuca. Si aggrappò a un’ultima speranza. “Dove lo hai lasciato?”

“Eh? Chi...”

“Lui,” digrignò Lockard. “Lui dove...” Rallentò il respiro. “Dove si trova, adesso?”

“Oh.” Elliott si ridestò, afferrando al volo, e indicò fuori dalla stazione. “È a Pearl Harbor, e questa volta per davvero. È andato a monitorare la situazione di persona perché anche a lui non convinceva la faccenda del sommergibile affondato dal Ward. Credo che sia...”

“Dannazione.” Lockard si rialzò facendo sbattere la sedia contro il ripiano. “Metti in moto la camionetta.” Indossò la giacca, infilò la manica sbagliata, la sbatacchiò, e rigirò la stoffa. “Raggiungiamolo subito. Forse almeno lui ci darà retta e saprà cosa diamine fare.”

“Sì.”

Corsero entrambi alla camionetta, Elliott al posto di guida, mise in moto e partì con una sgommata che si lasciò dietro un gonfio nuvolone di sterrato. Imboccarono la via del ritorno.

Lockard si sporse dal finestrino abbassato, si prese in faccia la sberla d’aria, e fece tamburellare le dita sul portellone. Gli occhi affilati rivolti al cielo e un mezzo broncio a crucciargli le labbra. “Proprio alla fine del turno di domenica mattina devono succedere questi macelli. Robe da pazzi.”

“Oh, be’,” fece Elliott, “sempre meglio che...”

“Fermo, frena.” Lockard gli arpionò un braccio, facendolo sobbalzare.

“C-cosa?”

“Fermati,” ripeté Lockard. “Spegni il motore. Non senti...” I suoi occhi rimbalzarono fra le cime scoscese stagliate contro il cielo che quella mattina era terso, senza nemmeno una nube. “Cos’è che fa tutto questo chiasso?”

Elliott svoltò un’ultima curva, frenò e spense il motore. Anche lui si sporse dal finestrino abbassato, trattenne il fiato e tese l’orecchio.

Un ronzio discese il cielo, sempre più vicino, sempre più intenso. Innalzò un vento elettrico che scosse ampie ondate smeraldine lungo la distesa d’erba e ululò in faccia ai due soldati.

“È...” Elliott rientrò nell’abitacolo. “Un ronzio. Api? Motori?”

Lockard spalancò il portellone, uscì tenendosi però con i piedi in bilico sul sedile, e si appese al tettuccio della camionetta.

“Ehi, cosa...” Elliott si tese verso di lui. I suoi occhi tornarono due lucidi specchi di tensione. “Joseph?”

Joseph Lockard, invece che rispondergli, spalancò gli occhi davanti al ronzio piovuto davanti al suo sguardo.

Una flotta di aerei allineati in perfetta formazione bucherellò l’azzurro del cielo, attraversando la raggiera di luce proiettata dal sole appeso fra i promontori verdeggianti di Oahu. Il ronzio perse quota, spalancando un boato fragoroso, e lo sciame s’infilò fra i pendii scoscesi, sfiorandone le pareti di roccia. Gli aerei color mostarda proiettarono le loro ombre lungo il prato scosso dal loro passaggio, inclinarono l’apertura alare, slittarono verso sinistra volando rasoterra, aumentarono la velocità e sfrecciarono sopra la camionetta, costringendo Lockard a ripararsi la testa e a tirarsi di nuovo dentro l’abitacolo. 

Lockard calò il braccio. Le sagome degli aerei schizzarono attraverso il lucido bagliore dei suoi occhi, il loro ronzio lo assordò facendogli battere i denti e tremare le viscere, il vento sollevato dal loro volo gli scosse i capelli corti, le ombre della flotta si ammassarono in successione e oscurarono il suo viso già nero e tetro di terrore. Lockard sudò freddo, il cuore a martellargli in gola e il petto schiacciato dal peso di quelle ombre che avevano tappato ogni spicchio di azzurro, che avevano raggelato il tepore del mattino.

Il cielo si fece rosso, la luce del sole divenne una colata di sangue, la terra investita dal boato prese a tremare e cacciò un latrato di orrore sotto i piedi dell’uomo.

“Che Dio mi fulmini.”

Erano le sette e cinquantacinque di domenica mattina.

 

♦♦♦

 

Le labbra di Inghilterra emisero un mugolio basso e trascinato, e il suo fiato si condensò sulla superficie del bancone unta del liquore ormai seccato che aveva versato la sera prima. Inghilterra strinse le braccia incrociate, voltò il capo schiacciando una delle ghirlande cadute dal tetto di paglia del locale, spremette l’altra guancia fra i gomiti, impastò le labbra secche e amare, e raccolse i pugni sotto il mento, urtando i piatti impilati fra l’ammasso di bicchieri che aveva prosciugato prima di cadere addormentato. Arricciò la punta del naso. Lo penetrò l’odore dolciastro dei cocktail, quello dei fiori caduti, del liquore versato, quello di grasso bruciato di cui erano unti i piatti sporchi, ma anche quello più speziato della cenere di sigaro proveniente dagli altri tavoli.

Una botta di emicrania lampeggiò dietro le sue palpebre abbassate e gli diede il voltastomaco. “Uurgh, ma che diavolo...” Inghilterra si strinse la fronte, massaggiò le increspature del viso stropicciato da quella smorfia di dolore, e sfarfallò le ciglia umide. Mise a fuoco il bancone del locale, le lanterne spente, la fosca luce umida del mattino distribuita fra i tavoli vuoti e frastagliata dall’ombra delle palme scosse dalla brezza aspra di salsedine. C’era silenzio. Solo un leggero vociare proveniente dalle stradine, l’eco distante delle onde del porto, qualche campana squillata a bordo delle navi ormeggiate sulla rada, e lo sfregare delle setole di una scopa sul pavimento. Che razza di sbornia. Ma quanto ho bevuto ieri? Inghilterra scostò l’ammasso di bicchieri sporchi di liquore, impilò un piatto sugli altri, e si girò.

Canada gli dormiva affianco, anche lui appollaiato sul suo sgabello. Le braccia incrociate sul bancone, uno sbuffo di sciroppo a sporcargli le labbra sfumate dell’arancio del cocktail, un fiore rosa intrecciato alle ciocche arruffate sulla sua espressione assopita e beata, e gli occhiali sollevati sulla fronte.

Lo colse un moto di tenerezza che soffiò via il pulsare dell’emicrania e il groviglio della nausea. Ieri sera. Di nuovo Inghilterra si massaggiò la fronte e spalmò entrambe le mani lungo il viso. Cosa diavolo è successo ieri sera? Ci siamo fermati a cenare qui, ci hanno dato le salsicce e le frittelle, e poi... Divaricò le dita, sollevò lo sguardo, andò in cerca della torre dell’orologio, della scritta cubitale ‘ALOHA’. Cos’è che ci siamo detti? Se solo non avessi bevuto così tanto...

Lo trovò. Erano le sette e cinquantasei di mattina.

“Oh, merda!” Bastò la botta di quella realizzazione per far rimbalzare indietro uno schiaffo di emicrania. “È tardissimo!” esclamò Inghilterra. “Perché è così tardi? Canada!” Lo scosse. “Canada, svegliati, è tardi, è mattina, ci siamo addormentati!”

Un sussulto fremette attraverso le labbra di Canada. “Mh. Tardi? Che...” Anche lui sollevò la guancia dalle braccia incrociate, si stropicciò le palpebre, raggiunse gli occhiali al terzo tentativo, dopo essersi sfilato il fiorellino dai capelli, e aggiustò le lenti alla radice del naso. “Che ore sono?”

“È l’ora di rimetterci a cercare quel citrullo prima che gli salti in testa di tornare a sparire e di lasciare le Hawaii.” Inghilterra balzò giù dallo sgabello, prese Canada per mano come la sera prima, e se lo trascinò dietro. “Vieni!” Entrambi ruzzolarono fuori dal locale, imboccarono una delle stradine che dava direttamente al porto, corsero calpestando le cartacce unte che qualche incivile aveva buttato fuori da un ristorante di frittura di pesce, e si tuffarono attraverso quella domenica mattina appena sorta su Oahu.

“A-aspetta...” Canada spremette la mano di Inghilterra per evitare di slacciarsi e di rimanere indietro. “Dove andiamo? Non sappiamo nemmeno dove...”

“Al porto,” esclamò Inghilterra. “Sulla Battleship Row, quella che affaccia a Ford Island. A quest’ora c’è sempre l’alzabandiera sulle corazzate, e forse lui è già là per assistere. Se non lo troviamo adesso, non lo troviamo più.”

Per le vie del porto incrociarono i visi insonnoliti dei marinai caduti addormentati come loro sugli sgabelli dei locali e che ora si stavano trascinando verso i bar, catturati dal profumo di caffè appena fatto. I negozi chiusi, le saracinesche abbassate, i neon spenti, i banconi dei ristoranti occupati dai piatti e dalle tazze della colazione anziché dalle caraffe di birra e dai bicchieroni di cocktail, qualche cameriera a spazzare il marciapiede spolverato di cenere di sigaretta, i civili a passeggiare all’ombra delle palme scosse dalla brezza mattutina, e qualche bambino a rincorrersi ridendo nei parchi, fra i fusti delle acacie.

Inghilterra e Canada raggiunsero il porto. Il fiato corto, i piedi infuocati, le gambe brucianti, le teste ancora gonfie di vertigini per la sbornia della sera prima. Gli occhi però si disfarono della nebulosa patina di sonno, schizzarono da un’imbarcazione all’altra, rapiti dallo sventolio delle bandiere, dalle marce dei marinai in uniforme bianca, dallo scintillio argentato dei tralicci, dalle increspature delle onde plumbee rispecchiate sugli scafi, e dal volo stridente di qualche gabbiano.

“Lo...” Inghilterra boccheggiò, corse in disparte per evitare di venire investito da una camionetta militare, e tese la mano davanti alla fronte, scavando con lo sguardo fra i raggi del sole. “Lo vedi?”

Canada girò lo sguardo a sua volta. “N-no.” Si portò più avanti, sul bordo della banchina, si alzò sulle punte dei piedi e tese anche lui la mano davanti agli occhi. “Ma...”

Uno squillo di trombe, il rullare di un tamburo, lo schianto secco e cristallino di un paio di piatti, e la banda militare a bordo della corazzata Nevada intonò l’attacco dell’inno nazionale americano.

Canada sollevò gli occhi, andò incontro al richiamo della musica vibrata fra le corde del suo stesso cuore, “Oh”, e lo trovò. “Eccolo.” Un lampo di sollievo gli illuminò lo sguardo. “America!” Tornò a prendere Inghilterra per mano, lo fece correre lungo la banchina, e sventolò il braccio sopra la testa. “America, siamo qui! Qui, America!”

A bordo della Nevada, i marinai si passarono il drappo ripiegato, le stelle e strisce, e lo affissero all’albero maestro rivolgendogli un saluto militare alla bandiera.

Inghilterra seguì lo sguardo di Canada, lo sventolio del suo braccio, il luccichio riflesso nei suoi occhi violacei, e lo trovò anche lui. America. Oh, meno male. Inghilterra si strinse la mano sul petto, abbandonandosi a un lungo sospiro con cui si liberò del peso della sbornia, della nottata trascorsa in una morsa d’ansia, delle giornate sfiancanti passate a rincorrere la sua presenza attraverso l’oceano. Meno male lo abbiamo trovato.Americaaa!” Anche lui sbracciò rapidi sventolii sopra la testa. “Dannazione a te, razza di scellerato, farci correre dall’altro capo del mondo! Siamo qui, America, qui!”

Dalla parte opposta della banchina, le mani nelle tasche, il capo reclinato all’indietro per seguire l’alzabandiera della Nevada, il passo cadenzato accompagnato da quello di qualche marinaio appena sceso dalle camionette arrivate dalle caserme e dai bungalow, America abbassò gli occhi.

Un battito di palpebre da parte sua, un’espressione attonita rimbalzata sul suo viso e fra le sue labbra schiuse in un “Oh” di stupore. America arrestò il passo, e la sua bocca compose un mormorio che né Inghilterra né Canada seppe decifrare da quella distanza. 

Le note dell’inno intanto cadevano solenni, riempiendo l’aria del porto.

O say, does that star-spangled banner yet wave...

Davanti ad America, la bandiera scivolò lungo l’albero maestro della Nevada, spiegò il suo drappo al vento, e lo nascose dietro uno sventolio di stelle e strisce.

O’er the land of the free and the home of the brave.

La musica della banda militare mascherò le basse vibrazioni di un ronzio in avvicinamento.

 

♦♦♦

 

Le note dell’inno nazionale appena intonato a bordo della corazzata Nevada ridestarono il passo che America stava trascinando lungo la banchina, ravvivarono la sua espressione ancora smarrita in una nuvoletta condensata dai pensieri della sera prima, dell’attacco del sommergibile, e pizzicarono attraverso le corde del suo cuore colto da un singhiozzo più caldo.

America si spostò per evitare i piloni della banchina, si riparò gli occhi per sollevare lo sguardo verso i marinai radunati sul ponte della corazzata, e sospirò. Aah, beati loro che si sono svegliati tranquilli, che hanno fatto colazione, e che non hanno idea di quello che è successo questa notte. S’infilò le mani nelle tasche, lasciò il capo a ciondolare fra le spalle. Dovrei avvertirli tutti? Dovrei dare davvero l’allarme generale? C’è stato pur sempre un tentativo d’invasione. Ooh, cavoli, perché queste cose devono succedere di domenica mattina? Per di più quando non ho avuto nemmeno il tempo di mangiare e di carburare il cervello. Chissà se ho tempo di...

“America!”

Quella voce fu una scossa dietro le orecchie, gli fece sgranare le palpebre e rizzare il capo con uno scatto. Credendo di essersi addormentato in piedi e di star sognando, America batté le palpebre.

Questa voce...

“America, siamo qui!” esclamò ancora quella voce. “Qui, America!”

Impossibile. È proprio...

Un braccio sventolante richiamò la sua attenzione, “Siamo qui, America!”, rivelando un dolce viso sorridente che gli era familiare tanto quanto il suo stesso riflesso.

Una calda e piacevole vampata di stupore risalì le guance di America, luccicando nell’azzurro dei suoi occhi che quella mattina erano bellissimi, cristallini come quelle acque tropicali. “Canada? Sei qui? Sei a Pearl Harbor? Oh, ma c’è anche Inghilterra.”

Americaaa!” Inghilterra si spremette al fianco di Canada, sollevò un piede contro il pilone cementato sulla banchina, gli sventolò un pugno contro e gridò con più ferocia. “Dannazione a te, razza di scellerato, farci correre dall’altro capo del mondo! Siamo qui, America, qui!”

America sollevò il braccio, facendosi notare da qualche marinaio di passaggio, e accostò la mano libera alla bocca. “Canada! Inghilterra!” Corse attraverso la banchina opposta alla loro. “Vi vedo!” La bandiera issata dall’equipaggio della Nevada gli scivolò davanti e coprì la sua visuale, lo sventolio del suo braccio. “Quando siete...”

Uno boato di ronzii esplose lungo la Battleship Row. Un’ombra frammentata – l’ombra di uno stormo – gli sfrecciò sopra la testa, rasentando i tralicci delle corazzate, oscurò il cielo del porto, e gli sbatté in faccia un violento schiaffo d’aria.

America tirò su gli occhi. Il braccio ancora alzato e la bocca socchiusa in quel grido spezzato fra le labbra.

Il volo degli aerei gli ronzò nelle orecchie, infrangendo le ultime note dell’inno americano. Un ultimo sventolio a stelle e strisce della sua bandiera si lasciò spiegare dalla manata di vento, si ritirò, accasciandosi sul traliccio, e scoprì le sagome dei bombardieri così bassi da scuotere con il loro passaggio i tralicci e gli stendardi delle navi.

Nelle profondità degli occhi azzurri di America si specchiò un’enorme sfera rossa, il Sol Levante tatuato sulla fusoliera color senape di uno degli aerei.

Il sole di fuoco che avrebbe bruciato su tutta la sua nazione, il sole che avrebbe sanguinato dai suoi cieli soffocandolo nell’incubo senza fine di quella guerra che ora stava per travolgere anche lui.

   
 
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