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Autore: The Custodian ofthe Doors    11/12/2019    4 recensioni
[Storia interattiva| Deathfic!| Ready? Start!| Iscrizioni chiuse]
In un epoca sorprendentemente di pace, quando nulla turba l'equilibrio del mondo e dell'umanità, il pericolo più grande non è altro che la noia di coloro che hanno e possono tutto.
*
“ Problemi in Paradiso?”.
*
Il foglio volteggiò lento nell'aria densa delle Praterie degli Asfodeli, lì dove sorgeva il muro che li divideva dai Campi di Pena.
L'anima guardò altri fogli colorati svolazzare oltre quelle alte mura scure, caduti dal cielo, forse da quello vero e non dalla volta rocciosa che faceva loro da soffitto.
*
E se è la vita dei loro figli quella che gli dei vogliono veder in gioco, non vi sarà nessuno che potrà impedirlo.
*
“Riuscirai a “sopravvivere”? Sarai in grado di ingannare Thanatos?
Questa è la sfida della morte.
Questa è la Death Race.”
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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[ ATTENZIONE! Il capitolo è particolarmente lungo, chiedo venia, leggetelo a più riprese]
 









VIII- Dogs.






I pantaloni scuri tiravano leggermente contro il ginocchio piegato, gli si stava addormentando la gamba, cosa per altro estremamente ironica, e aveva decisamente bisogno di sgranchirsela.
Era fermo nella stessa identica posizione da quasi un'ora, non che per lui fosse un record, certo, era stato immobile come una statua anche per molto più tempo e in situazioni peggiori, ma per qualche strano motivo quell'attesa lo stava logorando più del solito.
Il sole quel pomeriggio era alto e scottava sulla testa, nel retro del vecchio casale adibito all'accumulo dei mattoni e sacchi di calce non c'era un vero e proprio tetto sotto cui nascondersi dai raggi implacabili delle due, vi era giusto una pensilina che si protendeva oltre il muro scorticato del magazzino, puntando sbilenca verso lo spiazzo che collegava il grande deposito alla discarica poco distante.
Non era una bella zona quella, non perché ci fosse gente malfamata, o meglio, c'era anche quella, ma più che altro perché da quelle parti vi erano soprattutto stabilimenti industriali, grandi edifici in cui gli operai erano stipati a lavorare tutto il giorno, sfasci per auto e punti di raccolta di ferramenta, calcinacci, legname. Non era insolito vedere brutti ceffi camminare per quelle strade assolate, la gente che aveva avuto qualche problema con la legge, che aveva un aspetto un po' più intimidatorio non trovava facilmente lavoro, se poi eri anche un energumeno grande e grosso di solito ti ritrovavi a fare il muratore o un qualche lavoro di fatica.
In quel piccolo paese che tanto aveva dato e tanto aveva tolto, sia a chi lo circondava che a chi vi abitava, c'erano delle regole non scritte, delle superstizioni, delle idee innate che erano davvero difficili da combattere, così come in ogni altro posto del mondo.
Probabilmente se i loro antenati avessero visto com'era stata ridotta la bella penisola da chi era venuto dopo di loro sarebbero morti un'altra volta.
Lasciando scivolare via quei pensieri il giovane guardò il pregiato orologio da taschino che portava legato ai pantaloni più per far qualcosa che per controllare effettivamente l'ora.
Perché si era spinto sino alla periferia della capitale? Perché non se ne era rimasto al fresco, comodo, nel suo palazzo?
Il rumore di ferraglia gli fece alzare gli occhi davanti a sé.
Quello. Per quello era giunto sino a lì, abbandonando la confortevole ricchezza opulenta del centro storico, allontanandosi dal Tevere sino a giungere verso le campagne romane.
La vera domanda era: Perché l'altro si era andato a rintanare laggiù quando la sua “casa” si trovava nei quartieri popolari?
Ancora una volta la sua domanda ebbe veloce risposa: con tutta probabilità per colpa di quell'affare mezzo scassato dentro cui si era infilato.
Più vicino allo sfascio che al vecchio casale era parcheggiato – abbandonato probabilmente perché troppo pesante per essere spostato più in là – quello che poteva sembrare un pulmino, di quelli che venivano usati per spostare i militari. O visto il soggetto, le suore.
La vecchia corriera era veramente mal messa, la vernice bianca era scrostata, quella blu tendeva ad un pallido azzurrino che di certo aveva visto tempi migliori. Sotto il retro del trabiccolo si agitava una figura indistinta, scarpe di seconda mano, logore sul tacco e ben o male su tutta la suola, uscivano oltre il parafanghi ammaccato. I calzini che coprivano le caviglie secche erano bucati all'altezza del malleolo ed il cotone bianco si era ingiallito per l'usura, per le troppe volte che erano state lavate con poca gentilezza, in tarda sera, quando il loro proprietario non voleva far altro che andarsene a dormire e alle volte neanche le risciacquava bene, passando poi il giorno successivo a lamentarsi di quanto fossero rigide e gli grattassero i polpacci.
I pantaloni scuri erano leggermente corti, forse tirati per via della posa, sporchi di polvere, di terra e di qualche macchia nera che probabilmente era olio.
Il meccanico improvvisato imprecò a mezza bocca quando un suono metallico, uno stunc deciso, arrivò da sotto il veicolo. Una mano raschiò il terreno inutilmente, cercando di recuperare un bullone che rotolò veloce lontano dal giovane, fermandosi nel mezzo dello spiazzo.
Ade fissò il piccolo esagono di ferro sospirando mesto. Con una spinta si staccò dal muro e si avvicinò all'oggetto, raccogliendolo e soffiandoci sopra per pulirlo mentre l'altro, ancora sotto la corriera, imprecava ora a voce più chiara, cercando di tirarsi fuori da là sotto il più velocemente possibile.
Dalla corriera uscì fuori un ragazzino magro e dinoccolato, smilzo, dalla pelle olivastra abbronzata come quella di chi passa troppo tempo sotto al sole. I capelli neri erano unticci, non sapeva se per colpa del caldo, del sudore, della macchina o perché non si faceva un bagno come si deve da giorni. Probabilmente un'unione di tutte quelle cose messe assieme.
Il naso dritto era sporco di olio nero e il ragazzino si sfregò il dorso della mano sulla punta per togliere quel fastidioso prurito che lo perseguitava da un po'.
Con un gesto automatico si passò una mano tra i capelli, tirandoli indietro e appiattendoli, il palmo era grande e calloso, pieno di cicatrici di anni indistinti, le dita lunghe un reticolo di piccoli rigagnoli nerastri che rilucevano cangianti al sole diretto, le unghie corte sporche come pareva esser tutto in lui.
Non aveva più di quattordici anni, con quel visetto ancora bloccato tra l'infantile e l'adolescenziale, l'espressione furba e guardinga e, in quel momento, vagamente scocciata.
Si sfregò le mani sui pantaloni, la camicia un tempo bianca era ora marroncina di polvere ma lui parve non farvi caso.
Quando però gli occhi del giovane si posarono su di lui la sua intera figura ebbe un guizzo che Ade non avrebbe saputo identificare.
Conosceva quel moccioso da un anno ormai, l'aveva trovato, - no, l'aveva cercato lui stesso- per le vie del centro storico, mentre quello bighellonava e lui, invece, cercava il fu Pantheon, ora La Rotonda. La fantasia umana oscillava tra la geniale sorpresa e la banalità scontata.
In quel breve lasso di tempo, ad onor del vero giusto dieci mesi, il ragazzino era riuscito a diventare una spina nel fianco, una palla la piede, a crescere di ben otto centimetri e a farlo ridere più di quanto non avrebbe mai ammesso. Eppure non riusciva ancora a leggergli dentro, la sua mente rimaneva sigillata come una camera stagna, il suo occhio divino non scalfiva la superficie abbronzata di quella pelle ancora delicata ma incredibilmente solida.
Con le mani sui fianchi e l'espressione beffarda Giordano, Gio per gli amici, lo fissava sorridendo come un gatto steso al sole, con quella punta di naso macchiata di nero ed un paio di lentiggini spuntate da chissà dove a colorargli le guance. Così sporco e malconcio era ugualmente il riflesso di una felicità e di una spensieratezza che lui non aveva mai conosciuto. Al contempo, era tesoriere di segreti gravosi e verità nefaste che neanche lui sarebbe riuscito a sopportare con così tanta disinvoltura.
Pareva brillare quasi di luce propria alle volte e Ade non poté far a meno di attribuire questa sua qualità al suo retaggio divino.
Più tardi, forse quella stessa sera o anni dopo, si sarebbe reso conto che ciò che brillava tanto in Giordano – ancora non – Delle Vie non era la sua parte divina quanto quella mortalmente mortale.

« Che ce sei venuto a fa' fino a qui? I pinguini come te t'annoiano? » gli chiese con quella sua vocetta acuta e irritante. Perché tutti i quattordicenni del mondo mettevano su una voce pesante e inquietante e lui invece doveva mantenere quella da moccioso fastidioso?
Ade si strinse nelle spalle. « Forse dovrei essere io a chiederti cosa ci fai qui, in periferia, sporco come un barbone, a strisciare sotto una corriera rotta.»
L'altro imitò i suoi stessi gesti, mettendosi in posa e facendogli il verso come un pappagallo.
Il dio grugnì infastidito. « Sono serio, che ci fai da queste parti a macchinar con quella ferraglia?» domandò con più gentilezza.
Giordano allora gli sorrise. « Che c'è? Il grande Pluto non me riesce a legge nella mente? Non c'hai tutte le risposte a tutti i quesiti der monno?»
Ade alzò gli occhi al cielo. « Per la milionesima volta: non sono il tuo Dio, non sono onnipresente e onnipotente. Sono in grado di dividere la mia essenza ed essere in più posti contemporaneamente, conosco molte cose e sono in grado di scoprirne molte altre, ma non posso fare tutto e sapere tutto.»
« Allora te sei preoccupato pe' me!» trillò allargando il suo ghigno. « Scommetto che sei 'nnato a cercamme dalle sore ma non m'hai trovato, così hai usato i poteri tua e m'hai trovato qui, sbaglio?» gongolò avvicinandosi di un passo.
All'ennesimo sbuffo infastidito di Ade il ragazzino scoppiò a ridere e gli tese la mano.
« Mi ridai il bullone? Serve per la coppa dell'olio.» spiegò con una calma ed un'educazione completamente in contrasto con il comportamento spigliato di un attimo prima.
Con la solita incertezza Ade depositò l'oggetto sul palmo spellato dell'altro, ricevendo un piccolo cenno con il capo come ringraziamento.
« Da qua parte c'è na sedia, è un po' scassata, ma armeno non stai n'artra ora in piedi a fissamme.»
« Non ho passato un'ora in piedi a fissarti.» protestò il dio colto in fragrante.
« O sai sì, che pure se sto sotto a'a macchina e non te posso vedé in faccia riesco comunque a vedé e scarpe? »
« Chi ti dice che fossero le mie?»
Giordano sospirò come si fa con i bambini che si ostinano a tenere il loro punto. Poi si voltò di nuovo verso Ade e gli sorrise furbesco. « Perché è un'ora che stanno lì, sia quelle scarpe che quelle caviglie, perché poi si sono avvicinate per prendere il bullone e perché poi ho trovato te fuori. E perché sei l'unico a Roma, o comunque da ste' parti, che porta scarpe francesi.»
« Cosa sei? Un calzolaio?»
« Ho fatto pure quello, lo sai bene.»
Annuì. « E non so come abbiano fatto quelle persone a comprare delle scarpe fatte da un moccioso di- quanti anni avevi?»
« Undici, però ero bravo e facevo delle belle sole piatte, poi le rifiniture le lasciavo all'artigiano capo. C'ho guadagnato un po', con qui sordi c'ho comprato a pelle per sellino daa moto.» sorrise smagliante.
« Potresti ripararti le tue allora.»
« E co quale cuoio? Guarda che costa 'n occhio daa testa! Secondo te perché sto qui vicino ao sfascio? Così trovo i pezzi che me servono! Non te lo poi immagginà quanta roba a gente butta via che funziona ancora!» disse calcando in maniera eccessiva la b di roba.
Ade alzò a mala pena un sopracciglio: la gente buttava via altra gente, non si stupiva minimamente di quel mostro chiamato consumismo. Un giorno o l'altro gli avrebbe fatto fare una visitina al Tartaro, così avrebbe visto la “discarica divina”, magari ci trovava dentro qualcosa di utile, certo i rottami dei macchinari di Efesto sarebbero valsi più di qualunque lega mortale.
Seguendo il ragazzo fino alla corriera, Ade si vide bene dal poggiarcisi contro, lo guardò stendersi agilmente sulla schiena e trascinarsi sotto il motore.
« Ma si può sapere che diamine ci fai con questo ammasso di ferraglia?» si risorse a chiedere pieno di curiosità.
« La rimetto a nuovo, no? Che altro se no?»gli giunse la voce ovattata dell'amico.
« Questo lo potevo capire da me.» sbuffò infastidito, « Quello che non so è il perché.»
La risposta si fece attendere un po', come se il piccolo Gio ci stesse impiegando qualche minuto per riuscire a racimolare le parole per spiegare al meglio l'utilizzo di quella corriera data ormai per morta da tutti.
« Così posso andare al nord.»disse solo in fine.
Ade guardò fisso il punto in cui era sicuro si trovasse il viso del quattordicenne e come solo la vista di un dio può fare penetrò gli strati di lamiera fino a giungere a quel volto sporco e immaturo che ora non sorrideva più.
Era teso, serio. Era triste.
E per qualche assurdo motivo Ade non voleva in alcun modo vederlo in quello stato, per nessun motivo al mondo.
« Così hai deciso di impegnarti in un'impresa impossibile? Mi pare molto sensato. Perché non quel trabiccolo che chiami moto?»
« Perché c'è la neve su, non posso rischiare di scivolare sul ghiaccio e rompere tutto, poi come farei? In un paese che non conosco, con gente che non mi conosce e senza una lira. E poi ho quattordici anni, non posso ancora guidarla la moto, se mi fermano gli sbirri non solo me le suonano ma mi prendono pure la moto perché non ho un padre che possa andare a riprenderla al deposito. Magari se la prende uno di loro e non la rivedo più.»
Aveva abbassato lo sguardo, neanche avesse saputo che Ade lo stava guardando con così tanta attenzione.
« Se è per questo non puoi neanche guidare una corriera.» gli fece notare.
Gio batté le palpebre e abbozzò un sorriso. « Mi fermo sul bordo della strada quando arriva qualcuno e se mi chiedono qualcosa dico che sto aspettando che torni il capo che è andato per fratte.»
Ade sospirò e rinunciò all'idea di non sporcarsi la giacca poggiandosi di schiena contro il metallo bollente e la vernice scorticata.
« Hai un piano per tutto quindi.»
Giò annuì. « E già. E poi dentro alla corriera di posso caricare pure la moto. Continuo a ripararla in viaggio, la sera, quando mi fermo.» lo disse lentamente, quasi a scatti. Affondò i denti nel labbro e lasciò uscire un respiro pesante, tremulo.
« Qui dentro ci posso anche dormire. È più comoda di quanto non sembri, sai?»
« L'hai già provata?» domandò ironico il dio.
« Sì. Saranno due settimane che ci dormo… » lasciò la frase in sospeso, senza aggiungere altro e in quel momento Ade vide improvvisamente le occhiaie più pesanti, la tensione del collo, la curva della schiena. Due settimane? Perché dormiva lì e non all'orfanotrofio?
« Lo so a cosa stai pensando.» interruppe i suoi ragionamenti.
Forse non se ne rendeva conto, Gio, ma quando era triste, quando era giù di morale o doveva parlare di cose serie, delicate, che toccavano soprattutto la sua storia, la sua vita o un qualche cosa da lui reputato “sentimentale”, i ragazzino tendeva a parlare nell'italiano più corretto e privo di inflessioni che Ade avesse avuto il piacere di sentire.
Era un suono strano, ogni parola veniva pronunciata con la giusta intonazione, senza accenti, senza calate, senza ritmi tipici dei paesi del sud o strascicati come al nord. Era privo di qualunque identità, era un muro, uno dei tanti, che Giordano sapeva innalzare davanti a sé.
Gli voltò le spalle, smettendo di scrutare nella carrozzeria ammaccata e dandogli un po' di privacy in un momento di confessione come quello.
« Cosa?»
« Non ci sto più alla Divina Provvidenza. Non ci sto proprio più. Nel senso che non riesco a starci, che non fa per me, che non è il mio posto. Come se l'orfanotrofio fosse diventato troppo piccolo e io non riuscissi più ad entraci. Lo so che le suore hanno fatto tanto per me, lo so che mi hanno tenuto anche durante la guerra e quando i miei non c'erano, però lì sto solo ad ingombrare spazio, ci sono tanti altri ragazzini che hanno perso i genitori per colpa della Grande Guerra e che hanno bisogno d'aiuto. Io me la cavo da me.»
Ade lo ascoltò con attenzione, annuì. « Quindi sono due settimane che non stai più lì.»
Un verso strano gli fece voltare il capo verso le ruote sgonfie. « Gio?»
« Un po' di più.»
« Che vuol dire “un po' di più”? Hai detto che sono due settimane che dormi nella corriera.»
« Sì, perché sono due settimane che sono riuscito a prenderla. Dovevano portarla qui allo sfascio e distruggerla per rifondere il metallo, ma io ho chiesto se potevo prenderla e lo sfascia carrozze mi ha detto che mi avrebbe fatto un buon prezzo perché sa che sono uno che lavora sodo. Gli ho portato la metà di quello che avrebbe fatto rivendendo il metallo, più una stecca di tabacco.»
« Direi che è stata una truffa bella e buona, hai accettato senza sapere il prezzo?»
« Ma che, me lo ha detto e io gli ho detto che non potevo trovarli in breve tempo.»
« E?»
« E allora un po' ho lavorato per lui, così mi ha scalato metà somma. Sono bravo a fare affari, che ti credi?»
Il dio sospirò affranto. La verità era che Gio lavorava veramente sodo e Ade ci scommetteva che quello che il proprietario dello sfascio gli aveva detratto dal prezzo di base era molto meno rispetto a quanto avesse lavorato Giordano.
Certo, c'era da tener conto che con quella faccia beffarda entrava subito nelle simpatie di tutti, quindi forse gli era andata anche bene, ma non cambiava il fatto che avrebbe potuto procurarsi quel denaro in mille modi diversi, avrebbe potuto accumularlo per un viaggio in treno, anche se poi non avrebbe potuto portare la moto. Avrebbe potuto aspettare d'averla aggiustata, di aver l'età giusta per guidarla e nel mentre metter da parte i soldi per la traversata.
A guardare quella vecchia corriera Ade ebbe la sensazione che il ragazzino avesse investito tutto ciò che aveva per comprarsi una casa, non un mezzo.
Ma non stava scappando dalla sua bella e amata Roma, no, si stava preparando per una missione, per un viaggio di cui non conosceva ne data ne destinazione.
C'era però qualcosa che infastidiva il Dio dei Morti, qualcosa di sottile e caldo, che bruciacchiava come una tazza bollente tenuta in mano. Si annidava nel suo stomaco, risaliva sino ai polmoni, alla trachea e si iniettava veloce nella mente.
Sapeva cosa fosse, era un dio dopotutto e aveva una coscienza di sé che i mortali potevano solo invidiargli, ma voleva davvero ammetterlo? Voleva davvero concretizzare quel pensiero? Quella domanda?
Il quesito gli ballava sulla punta della lingua, spingendo per esser pronunciato e per ricever risposta.

« Perché non hai chiesto a me?»
Il silenzio che si era espanso per lo spiazzo brullo, abbracciato dallo sfascio immobile e dal magazzino dalle pareti scorticate, rimase sospeso nell'aria di giugno assieme ai primi rumori di un'estate in avvicinamento, gli odori dolci della frutta e dei fiori e quelli ferrosi dei rottami arrugginiti e delle macchie d'umidità del casale. Poi il rumore di qualcosa che struscia sul terreno.
Gio sgusciò fuori da sotto la corriera e rimase lì, a gambe incrociate, a fissarlo dal basso.
Tenne le mani serrate sulle caviglie, la testa inclinata, qualche ciuffo era scappato sulla fronte crucciata.
« Come?»
Un moto di stizza animò il dio e malgrado avesse l'aspetto di un ragazzetto di diciott'anni la sua aura cupa sarebbe stata avvertita anche da un comune mortale.
« Sono un dio, sono il Dio dei Morti, uno dei tre grandi fratelli. So fare cose che molti dei miei nipoti, dei miei pari, neanche immaginano. Se fossi venuto da me, se mi avessi detto che avevi dei problemi con l'orfanotrofio o che ti serviva un modo per arrivare su al nord ti avrei aiutato e ti avrei anche fatto risparmiare tempo, fatica e denaro. Potrei schioccare le dita e farti apparire a Milano, a Torino, a Venezia o anche a Parigi!» concluse rabbioso lanciando un'occhiata di fuoco al ragazzino.
Giordano però non parve minimamente spaventato, sembrava solo ogni momento più confuso.
I suoi occhi cangianti lo fissavano senza capire il perché della sua rabbia e della sua indisposizione.
« Perché siamo amici. Gli amici non si tirano nei tuoi guai a meno che non sia questione di vita o di morte. Non ti sopporto ogni giorno solo perché sei un grande e potente dio e potresti ricoprirmi d'oro. Mi stai simpatico, mi piaci, noi- »si interruppe, storse il naso in cerca di una spiegazione sensata, qualcosa che gli facesse capir al meglio il suo punto di vista. « Noi… siamo amici.» disse in fine con semplicità.
Moltissime volte Ade aveva sentito raccontare nei miti e nelle leggende della profondità e dell'oscurità che si nascondeva nei suoi stessi occhi. Erano stati paragonati a pozzi profondi, a nere pietre levigate, a caverne buie, all'oblio e al Tartaro stesso. Ma ora come ora, ci scommetteva, non dovevano essere troppo diversi dagli occhi di qualunque altro essere, sgranati per la sorpresa,
Senza saper cosa dire Ade continuò a fissare i riflessi caldi che splendevano sulla patina lucida dell'iride del ragazzino, boccheggiando come un pesce fuor d'acqua, come un fesso.

« T-tu… noi- pensi che- ? Mi reputi davvero… un amico? Mi reputi davvero un amico?» domandò con voce incerta.
E l'incertezza era una cosa dannatamente umana.
Così come lo era la spontaneità e anche la felicità.
Le labbra del ragazzo si tirarono in un arco ampio, scoprendo i denti leggermente storti, l'incisivo destro scheggiato sull'angolo. Si alzarono gli zigomi spingendo gli occhi scintillanti che s'assottigliarono, mentre le sopracciglia e la fronte tornavano a rilassarsi.
Uno scoppio di risa fresche, cristalline ma che al contempo già preannunciavano la risata rombante che sarebbe scaturita un giorno dal petto ampio di un uomo con la stessa faccia da schiaffi di quel ragazzino e lo stesso sguardo acceso.
« Certo che sei mio amico! Cos'altro se no? Ma che domande fai, oh?!»
Ade rimase ancora imbambolato, senza capacitarsi di come Gio lo stesse trattando, di come aveva sempre fatto: come una persona normale.
Il sinistro sorriso dei Dio dei Morti piegò il viso pallido di quel diciottenne che mai era esistito e che da millenni calpestava quelle terre. Si fece però più sincero e tiepido, scaldato da quella stessa luce che l'umano davanti a lui emanava.
« Allora cosa deve fare un amico per aiutarne un altro?» chiese mettendosi le mani sui fianchi e guardandolo dall'alto con una scintilla di sfida negli occhi.
Il ghignetto che Gio gli regalò quella tarda mattinata di giugno se lo sarebbe ricordato per sempre, così come le sue risate, i suoi gesti semplici, le battute in dialetto e le imprecazioni contro santi e dei senza distinzione alcuna. Così come avrebbe custodito gelosamente e per l'eternità quelle parole così genuine ed affettuose.
Quindi era questo ciò che gli era valsa tutta la sua immortale vita? Un amico che lo trattasse davvero come suo pari, che gli volesse davvero bene come se ne vogliono i mortali e come gli dei pare non siano in grado di fare?
Se ogni lotta, ogni tragedia, ogni vittoria e ogni sconfitta, tutta la storia, la sua per lo meno, culminava in quel momento, forse, si disse Ade, non era stato tutto sprecato.

« N'amico se sporca le mani! Te conviene tojete quaa' giacchetta da pinguino! Ao: o sai ch'è n'a chiave 'nglese?>»

Se lo sarebbe ricordato per sempre, anche quando quel sorriso non sarebbe più esistito.

 

 

 

Ma nei lontani anni '20 Ade non avrebbe mai potuto immaginare che un giorno, quel volto, sarebbe diventato proprio come il suo.
Non lo potevano sapere gli oracoli e neanche il Re degli Déi.
Non lo sapeva la Regina, non lo sapevano tutti coloro che erano in grado di scrutare il futuro.
E questo, perché neanche le Parche potevano farlo.

 

 

*

 

« Sti cani di merda- Ahio!»
Nathan si massaggiò la nuca voltandosi di scatto verso la sua destra. Eliza neanche lo guardava, la postura dritta e fiera di un soldato in missione, di qualcuno che non reputava minimamente importante ciò che aveva appena fatto. Ovvero rifilargli un coppino degno di sua madre.
Fissarla male fu del tutto inutile quindi, la donna continuò a scrutare l'ambiente circostante, soppesando il terreno, le piante rade e, benché non lo desse a vedere, tenendo d'occhio le cacciatrici argentate che ora camminavano sicure, in formazione, verso i cancelli monolitici.
La dea Artemide era a capo di quel piccolo drappello, probabilmente diretta alla Casa di Ade per conferire con colui che, a conti fatti, si era ritrovato il regno invaso dai suoi stessi abitanti.

« Io di cani ancora non ne vedo nessuno, pensate che siano in zone specifiche e che dovremmo andare a cercarli?» domandò Cade con voce piatta.
Da quando era apparsa la dea, quando aveva raccontato loro della sua amica che aveva rinunciato all'aiuto di Artemide, il rosso era parso più cupo e spento del solito.
Si teneva sulla sue, rigido, in una postura quasi difensiva, cercando di controllare ogni direzione con lo sguardo e, al contempo, fiutando l'aria proprio come uno di quei segugi che nessuno di loro riusciva a scorgere.
Nathan non sapeva il perché di quel brusco cambio di comportamento, o meglio, poteva immaginarlo, ma dubitava che fosse tutto per colpa dell'apparizione di una dea che, a conti fatti, Cade non aveva neanche mai incontrato.
Per un attimo rimase a fissare il giovane cercando di capir qualcosa che fino a quel momento gli era sfuggito: cosa c'era di strano in Cade il rosso?
Aggrottando le sopracciglia si rese conto di non sapere il suo cognome. Forse glielo aveva detto quando si era presentato, così come aveva fatto Elizabeth, o forse no. Nathan non lo ricordava, assolutamente, e si maledì per questo. I suoi fratelli avevano avuto ragione da vendere, quando qualcuno non gli interessava troppo non prestava la minima attenzione a nulla che lo riguardasse.
Ma anche qui si annidava una mezza bugia: in verità Cade lo interessava, lo interessava eccome. C'era qualcosa che non quadrava in quel ragazzo, oltre al fatto che fosse più grande di lui ma non lo sembrasse minimamente. La cosa principale che l'aveva infastidito, fin dall'inizio, era il suo comportamento sfrontato e spigliato con tutti, aveva superato la fila, fatto lo splendido e sicuramente se non si fosse andato a schiantare contro Eliza avrebbe superato anche la guardia imperiale. E questo era comunque normale, al campo c'erano centinaia di grandi eroi che si erano comportati così, da gradassi, lui stesso l'aveva fatto e ricordava benissimo la quantità di volte in cui i suoi fratelli avevano riso della cosa e i suoi amici l'avevano guardato senza speranze.
Il problema quindi non era il suo carattere di merda, anche lui ne aveva uno altrettanto di merda, il problema era quel cazzo di comportamento al limite del bipolarismo che si portava dietro: era un eliseo ma aveva scheletri nell'armadio degni di un dannato; era dalla parte giusta ma le Praterie influivano troppo su di lui. Si scordava le cose essenziali, ricordava le stupide. Lo insultava pesantemente e lo prendeva in giro con leggerezza. Lo accusa di essere un invasore senza pietà e poi lo chiamava amico. Non si preoccupava di nulla e poi proteggeva quel ragazzino come se fosse sangue del suo sangue. Rideva e scherzava, raggiante come il sole, e poi diventava freddo come il ghiaccio.
Chi cazzo era quel dannato rosso?

« Ehi? Ti senti bene?»

Il soldato abbassò lo sguardo sul suo interlocutore e si ritrovò faccia a faccia con il bambino.
Okay, probabilmente se a sedici anni avessero chiamato lui “bambino” gli avrebbe spaccato la faccia a suon di pugni, ma tanto il bambino non poteva sapere come lo chiamava nella sua testa, quindi andava tutto bene.
Jonas lo fissava con un sopracciglio alzato, il volto abbastanza rilassato e lo sguardo curioso. I suoi occhi erano azzurri, limpidi, un qualcosa che Nathan avrebbe associato alla purezza e all'innocenza, così come i suoi capelli chiari e la sua pelle pallida, se solo non avesse avuto quei vestiti sporchi e logori addosso, se solo non ci fosse stato un collare di filo spinato ad ornargli il collo.
Cosa aveva fatto Jonas Friedrich per meritarsi i Campi di Pena?
Ancora una volta Nathan si disse che non avrebbe stentato a credere che fosse finito lì per colpa delle sue azioni, era cresciuto al Campo Mezzosangue, sapeva che ragazzini della sua età, o anche più piccoli, erano in grado di uccidere senza pietà e senza rimorso. Che Jonas avesse ucciso la persona sbagliata? Che fosse caduto vittima di avidità, ira, risentimento, invidia?
Nathan nella morte, così come nella vita, aveva un poco di decenza e di amor proprio, così come aveva avuto una buona educazione e lo scappellotto che Eliza gli aveva rifilato poco prima sarebbe stato il medesimo che gli avrebbe rifilato sua madre se, in quel momento, se ne fosse uscito con una domanda del tutto a cazzo e poco delicata come: che hai fatto per finire all'inferno?
Non dubitava che ci fosse una buona motivazione, solo che Jonas non gliela ispirava proprio.

E mi da al cazzo il fatto che forse il rosso già lo sa e che magari il ragazzino neanche glielo ha dovuto dire. O magari ancora non lo sa ma di certo lo capirà prima di me.
Roscio di merda.

« Stavo aspettando che arrivasse qualche battuta del cazzo da parte dello schizzato, lì, ma a quanto pare è ancora nel suo mondo.» indicò con il pollice Cade e vide Jonas annuire cupo.
« Lo hai notato anche tu allora.» disse sfregandosi i polsi. Le dita fini strinsero quella minuscola circonferenza per poi scivolare oltre il bordo slabbrato di un bracciale di stoffa. L'indice ed il medio si tesero allontanando il cordone dalla pelle tesa e cadaverica, muovendolo a destra e sinistra per poi serrarlo nella stretta delle dita.
Nathan rimase a fissare quel movimento come ipnotizzato, al polso fine del ragazzo si sovrappose quello ancora più fine di un ricordo fantasma, dita piccole e morbide, unghie fini e taglienti, tenute corte e pulite.
Un tepore lontano lo riscosse, gli occhi azzurri di Jonas, che cercava inutilmente di non mostrarsi troppo preoccupato per il comportamento dell'unica persona che si era mostrata gentile e pronta ad aiutarlo in ogni momento, la sua voce ferma ma leggermente graffiante… tutto gli ricordò anni passati, qualcuno che gli diceva di andare, che loro se la sarebbero cavata, di non preoccuparsi.
Era un formicolio che non riuscì a fermare, un'innocente richiesta del suo stesso cervello a cui non riuscì a dir di no.
Con lentezza, la stessa che si usa con un animale selvatico, Nathan alzò la mano e la posò sulla testa di Jonas, prendendolo del tutto di sorpresa e facendolo saltare sul posto.
Gli enormi occhi chiari del ragazzo lo fissavano sorpreso, la postura delle sue spalle era tesa e Nathan quasi si sentì in dovere di giustificarsi, di scusarsi, di spiegargli il perché di quel gesto così gentile e così poco da lui. Ma non poteva farlo, non poteva dirgli niente senza esporsi troppo. Eppure ne aveva avuto così tanto bisogno.

 

« Va tutto bene, non ti preoccupare. Andrà tutto bene, ci sono io ora.»

 

« Va tutto bene.» si ritrovò a dire con voce rauca, sentiva la gola secca e fu costretto a deglutire un paio di volte, messo sotto pressione dallo sguardo gelato del biondo.

Mi dispiace, so che potrebbe darti fastidio, so che sicuramente lo fa, che va bene se Cade ti tocca o ti consola ma non se lo faccio io, che non sono la persona giusta. Mi dispiace.

 

« Sssh, su non piangere. Mi dispiace, non so come si fa, devo ancora imparare. Ssh, mi dispiace, non voglio darti fastidio, voglio solo aiutarti. Lo so che non sono la persona giusta, ma non fare così… mi dispiace.»

 

Quel groppo gli si strinse ancora di più attorno al torace, facendolo quasi boccheggiare in cerca d'aria.

« Vedrai che non è niente. Cade è strano ma non è debole, avrà solo brutti pensieri per la testa.»
Era sbagliato, il suo intero comportamento lo era. Un attimo prima era il solito Nathan spaccone che insultava il rosso e l'attimo dopo si ritrovava ad ammettere la sua forza solo per far star bene un ragazzino.

Mi dispiace per te, perché sei sicuramente uno dei tanti di noi che non è stato salvato, non in tempo.
Mi dispiace perché probabilmente è la persona meno degna della pace eterna che ti sta facendo provare più di tutti quella stessa pace che mai hai visto.
Mi dispiace perché io sono l'eroe ma non riesco ad esserlo per tutti, a capire fino in fondo.

 

« Che razza di eroe che sono, eh? A quanto pare non riesco a fare tutto. Ci sono alcune cose in cui non sono per nulla eroico.»

 

Una voce in fondo alla sua testa sospirò, facendolo galleggiare in uno stato di stallo, come se stesse osservando quella scena da fuori, come se fosse lui ma non lo fosse davvero.

Non possiamo mai essere gli eroi di tutti.

Soffiò piano la voce. Poi con tono più beffardo:

È il tuo turno? Già cedi? Sei già arrivato al momento del crollo, Nathan Wright?
Mi sorprendi, figlio di Ares, prima ti fai cogliere impreparato dall'edera, tu che dovresti sapere quanto ogni cosa sotto l'influsso divino possa diventar letale. Poi ti fai salvare da una ragazza che non ha mai avuto un addestramento divino degno di questo nome. Ti fai battere dal rosso irlandese che dimentica le cose, che fugge nel labirinto ma ne esce prima di te, ne esce con un ragazzino spaventato che cerca di mostrarsi coraggioso. Ora, alla terza prova, crolli. E per cosa? È il suo sguardo che ti ha fatto cadere?

Nathan scosse la testa, la mano ancora ferma sul capo albino dell'altra anima, congelata, senza saper cosa fare. Perché era ovvio che se ci fosse stato Cade al suo posto Jonas si sarebbe lasciato scompigliare un po' i capelli ma poi si sarebbe ritratto infastidito, lamentandosi con il compagno e dicendogli di non rompere le palle, ma con lui… Nathan aveva capito che il ragazzino aveva problemi con le figure autorevoli, con l'autorità in generale forse, e che lui doveva ricordargli qualche insegnante, qualche figura di potere del suo passato e- la cosa lo infastidiva così tanto. Perché lo infastidiva così tanto?

Perché non sei l'eroe di tutti. Perché non tutti i bambini ti guardano con ammirazione. Perché ci sono ragazze che non sanno nulla del vostro mondo ma non ti trattano come l'eroe che eri, ci sono ragazzi che non fanno altro che tenerti testa. Non sei più il grande leader, vero?

Jonas incassò leggermente la testa nelle spalle ed uno scintillio attirò l'attenzione di Nathan.
La nebbia che l'aveva avvolto fino a quel momento svanì, ritornò di prepotenza nel suo corpo e la voce lontana, bassa e roca che gli aveva parlato dal fondo della sua coscienza fino a quel momento, produsse un suono sinistro che Nathan non poté far a meno di associare ad un ghigno sprezzante.

Qualunque cosa volesse quella voce da lui, l'aveva appena ottenuta.
 

Cos'è che ti fa crollare? Il fatto che tu non sia più l'eroe che sei stato? Il leader a cui tutti hanno sempre guardato? Crolli perché c'è chi non si fida di te ma di qualcuno che nasconde palesemente troppi demoni? È il suo sguardo che ti fa cedere, Nathan Wright?

O il tuo stesso riflesso?

Come uno schiaffo in pieno volto Nathan si ritrovò scosso nelle membra fredde e morte. I suoi occhi azzurri puntati dritti verso il girocollo di Jonas.
Perché un'anima dannata aveva un monile del genere? Così lucido, levigato, così perfetto e scintillante? Sembrava quasi-

Un dono divino.

O una condanna?
 

« T- ti senti bene?»
Jonas si sentiva rigido oltre ogni limite, il suo collo cominciava a dolere e quella mano, posta con delicatezza sulla sua testa, come la carezza impaccata di un uomo che non sa come dimostrare affetto, lo faceva sentire ancora più imbarazzato e inadeguato.
Per la gente normale quello era un gesto da niente, no? Perché a lui dava così fastidio? Perché ogni contatto umano lo innervosiva fino a farlo tendere come una corda di violino? Aveva quasi paura che il solo essere sfiorato avrebbe potuto far capire di sé tutto quello che le persone non dovevano sapere.
Nathan parve però riscuotersi, battendo le palpebre come se si fosse improvvisamente svegliato da un sortilegio e solo allora Jonas si rese conto che teneva lo sguardo puntato dritto sul suo collo. Sulla sua vecchia catena.
Istintivamente si portò una mano sul collare, bloccando parte di quei riflessi che le luci bluastre dell'Ade lanciavano sulla superficie lucida.
Il soldato annuì, sentì la sua mano contrarsi leggermente come se stesse lottando tra lo scompigliargli i capelli e il lasciarlo in pace. Apparentemente vinse la seconda.

« Sì, tutto bene. Il rosso avrà solo pensieri suoi, non ti preoccupare. Tra poco tornerà a scassare il cazzo come al solito.»

Jonas annuì, ancora bloccato in quello stato di stallo che l'aveva colto al tocco dell'altro.
Era stato lui, ne era certo, Nathan si era comportato in quel modo così strano e non da lui per colpa sua, del suo collare, del suo potere.
Retaggio divino, no?
Se ne stava rendendo conto poco a poco, ad esser onesti non c'aveva fatto subito caso, ma effettivamente gli capitava sempre più spesso di vedere cose, di sentire voci, suoni, sensazioni, profumi, che non esistevano, non in quel momento, non per gli altri.
Che non fosse una persona come le altre Jonas l'aveva sempre saputo, c'era una sottile e perpetua coscienza di sé che differiva da quella conscia che ogni essere aveva, un istinto che gli suggeriva che c'era di più, che c'era sempre stato, che lui lo era, ma che non tutti potevano vederlo. Non avrebbe mai creduto, in vita, di essere un semidio. Certo: aveva delle doti speciali, era iperattivo, la sua mente viaggiava a velocità diverse rispetto al suo corpo, all'adrenalina che gli scorreva nelle vene, ai suoi riflessi; gli era capitato di veder testi in greco e gli era parso anche di capirli meglio di quelli in latino, malgrado li studiasse, di scorgere figure e esseri che non potevano esistere e che lui, solo per una frazione di secondo, riusciva a vedere in quel piano terrestre. Ma mai, mai per nulla al mondo avrebbe immaginato di essere un semidio. Di essere in grado di scatenare quelle visioni, quelle sensazioni. Di avere un potere che nessun altro possedeva se non un ignoto genitore divino che l'aveva messo al mondo con la stessa facilità ed incoscienza con cui si getta il seme di un frutto a terra dopo averlo trovato nella polpa succosa.
E mai, più di ogni altra cosa, avrebbe immaginato di poter influire a quel modo sulle anime che lo circondavano.
Ricominciando a torcesi le mani, Jonas si domandò se per caso anche il cambiamento d'umore di Cade non fosse dovuto a ciò che aveva visto, a quel ricordo lontano anni, decenni, secoli, che magari aveva riacceso nell'irlandese un antico rimorso, un rancore mai sopito verso la Dea.
Forse però si stava dando troppa importanza, forse in realtà a Cade giravano solo strani pensieri per la mente fantasma e Nathan aveva solo provato a fare la persona adulta della situazione che rassicura il ragazzino per poi rendersi conto che quel ragazzino aveva visto la luce prima ancora che lui venisse al mondo. Allora il soldato si sarebbe sentito imbarazzato, stava all'atto pratico carezzando la testa ad uno che sarebbe potuto essere suo padre e quindi non aveva più saputo cosa fare. L'occhio gli era caduto sul dannato collare e poi, al movimento della sua mano, si era ripreso e si era scostato tornando il solito di sempre.

Il mondo non gira attorno a te, Jonas, non è che tutto quello che succede è sempre colpa tua, lo hai scatenato tu o lo hai fatto tu. Non essere egocentrico, dannazione!

Ugh. Cominciava anche a parlare da solo? Magnifico, tanto era già morto, perché non cominciare anche ad avere problemi mentali? Così, giusto per non farsi mancare nulla.
Con un grugnito infastidito, maledicendosi da solo ed insultandosi per i film mentali che si faceva ogni volta, per come si complicava sempre la vita e si incartasse nei suoi stessi pensieri, Jonas incassò la testa tra le spalle, infilò a forza le mani in tasca e, con un broncio decisamente infantile che per fortuna non poteva vedersi, s'incamminò a passo pesante verso i suoi compagni, senza rendersi conto di essersi diretto proprio verso Cade.

 

 

*

 

Di tutte le dannatissime cose che potevano capitargli in quella cazzo di gara, dei fottutissimi cani infuocati erano sicuramente gli ultimi che avrebbe scelto.
Bestie di Satana, o di Ade, con zanne enormi e affilate, zampe gigantesche e artigli mortiferi che, non contenti della loro più che consistente massa muscolare, erano anche avvolti dal fuoco.
E che cazzo.
Se Eliza fosse stata in grado di sentire i suoi pensieri probabilmente avrebbe marciato indietro solo per picchiarlo, o per prenderlo a schiaffi sulla nuca come faceva con Nathan. Oh, e il biondastro si sarebbe reso conto che non era il solo in grado di sputar fuori volgarità di ogni tipo. Lui era stato un soldatino fedele al suo governo, immerso nei ranghi e nella spiccia brutalità dell'esercito, ma Cade era sempre nato nei bassifondi di Dublino, era cresciuto tra le strade sterrate dei vicoli, corso lungo le rive fangose del fiume e lavorato nei porti. Se non aveva lui la dizione perfetta di uno scaricatore non ce l'aveva nessuno.
Come se i dannatissimi cani non fossero bastati, poi, ci s'era messo anche quel teatrino del cazzo che avevano acchitato gli Dei per annunciare la prossima gara. Uno stronzo che dal nulla proclama le magnifiche gioie di una gara mortale tra morti, con tanto di possibilità di voto o quel che cazzo era, felice come se stesse gridando ai quattro venti la fine di una guerra. E come ciliegina sulla torta, ci si metteva quella mocciosa alta un metro e una mela che non faceva altro che ricordargli brutte cose e persone perse.
Che accoppiata di merda. Si poteva dire accoppiata se erano più di due le cose che ti infastidivano? Non lo sapeva con precisione, diamine, non era neanche mai andato a scuola, ma questo non cambiava il fatto che non gliene importasse di meno.
Con un gesto secco calcò di più le mani nelle tasche, stringendo il palmo ancora insanguinato e aperto attorno al coltellino da intaglio. Sentiva il bisogno di prendere a pungi qualcuno, di sfogare la sua frustrazione su un oggetto materiale e poco gli importava che fosse vivo, morto, umano o mostruoso. Se solo avesse potuto prendere a calci quel dannati mastini, farci un vero e proprio combattimento… e in vece no, neanche questo, quella stronza non gli aveva dato neanche la possibilità di accanirsi contro un mostro.
La verità era che stava per esplodere ed erano solo alla terza prova, gliene mancavano dieci per l'amore del cielo e di tutti quelli che ci stavano dentro. Gliene mancavano dieci e lui si era lasciato innervosire all'inverosimile già alla terza.
Aveva accumulato troppo, con tutta probabilità, prima la passeggiata nel nulla, tutti quei ricordi che si accavallavano, che sbiadivano, voci che diventavano sempre più lontane. Poi il labirinto, che se non avesse avuto un cono di luce costantemente puntato addosso avrebbe dato di matto non appena entrato tra quelle mura. Il fatto che l'avevano costretto a lasciare le sue armi, che non avesse più nulla di materiale con cui difendersi… non gli importava neanche molto dei guanti, li aveva trovati un giorno di tanti anni prima, durante una delle sue piccole escursioni. A pensarci adesso si domandò se non fosse stato proprio quel suo genitore divino o qualcuno della sua razza a lasciarli in quella stanza per lui, a farglieli trovare.

Lo ricordava più che bene, il rumore delle assi di legno che proveniva dal piano inferiore della locanda, i tacchi degli stivali dei soldati che battevano, che calcavano quel suolo come se gli fosse appartenuto. Ricordava il ciottolio delle stoviglie e gli schiamazzi, le grida degli avventori e gli squittii delle cameriere. Ricordava anche la porta da cui era entrato, la terza dopo le scale, quella con la serratura graffiata da anni e anni di occupanti ubriachi di ritorno da una serata di baldoria.
I guanti ramati, che ora sapeva essere di bronzo celeste, si trovavano in una sacca, vicino a quella dei vestiti dello stronzo che aveva preso a calci Niall.
Da quel vecchio e sporco pezzo di stoffa grezza proveniva un calore particolare, come se dentro vi stesse bruciando qualcosa, ma Cade al tempo non aveva un brutto rapporto con cose del genere e non c'aveva pensato troppo ad aprire la sacca e sbirciarci dentro.
Vi aveva trovato dei guanti, quegli stessi guanti in maglia di metallo, così simili a quelli delle vecchie armature, che ora pendevano dalla cinta di Jonas.
Cade gli lanciò uno sguardo. La prima volta che li aveva visti erano sporchi di terra e forse anche di sangue, brillavano fiocamente di una strana luce azzurrognola, della stessa intensità di una lucciola, malgrado sembrassero in tutto e per tutto dei normalissimi, anche se costosi, guanti in bronzo.
Allora li aveva presi senza farsi troppe domande, attirato dalla loro aura come lo sarebbe stata una falena con una candela, inconsciamente consapevole di aver un legame con quell'oggetto, che in un modo o nell'altro venivano entrambi dallo stesso luogo.
Gli erano serviti più di una volta, avrebbe mentito dicendo il contrario e non ne aveva motivo, non a sé stesso. Aveva imparato a sue spese che non funzionavano su tutti, che se prendeva a pugni qualcuno con quei cosi al massimo non si scorticava le nocche ma comunque colpiva solo con la pura forza delle sue mani.
Malgrado ciò, malgrado avesse difeso i suoi amici da mostri che lui vedeva da una vita e che loro vedevano per la prima volta, malgrado gli avessero permesso di proteggere chi amava anche quando credeva che tutto fosse finito, quei guanti per lui non avevano lo stesso valore del coltellino o del cerchio di metallo che teneva nella sua sacca assieme a qualche bottiglia.
Averli lasciati all'entrata di quell'inferno di edera non lo aveva toccato tanto quanto ritrovare un ragazzino di appena sedici anni steso a terra, immobile, con gli occhi chiusi, in attesa di un'altra imminente fine.
Era stato un colpo al cuore, forse uno dei più terribili che aveva dovuto sopportare fino a quel momento. Gli aveva ricordato cose del suo passato che non avrebbe mai voluto rivedere. Gli avevano ricordato quelle maledette quattro giornate che gli avevano strappato la vita, la speranza, la famiglia e la libertà.
Se chiudeva gli occhi e si concentrava un poco poteva ancora sentire i rumori delle suole di cuoio dei soldati Inglesi che marciavano per le strade, poteva ricordare il suono dei colpi dei fucili, le porte buttate giù a calci, le grida terrorizzate delle persone, donne, bambini, uomini… aveva imparato che la paura era di tutti, che non c'entrava nulla l'esser un vero uomo o un fifone, vedersi potar via la propria famiglia, i proprio figli, vederseli riconsegnati cadaveri, era devastante per tutti, lo era sempre stato e sempre avrebbe continuato ad esserlo.
Poteva annusare l'odore della polvere da sparo, quello delle case in fiamme, i brividi che gli schiocchi del legno gli davano. Sentiva l'odore del sangue e quello della pioggia che cadeva copiosa dal cielo.
C'era un vago ricordo, un ragazzo della sua età, i capelli scuri e lo sguardo malinconico, di chi sa che sta andando a trovare la sua fine. Guardava verso l'alto, al riparo sotto una tettoia mal ridotta, mezzo fradicio e sporco di terra. Sente un sospiro, poi la voce lontana di quel ragazzo:

 

« Guarda, piove così tanto che pare che il cielo voglia cancellare dalla faccia della terra tutte le atrocità che vi vengono compiute. Piange anche lui, Cade, se c'è qualcuno lassù sta piangendo assieme a tutti noi sui corpi dei nostri fratelli.»

 

Era suo amico. Era uno dei suoi più cari amici. Cade non ne ricorda il nome. Il volto, i capelli corti e scuri, la pelle cotta dal sole, piena di macchie, di cicatrici. Gli occhi sa per certo fossero di una sfumatura calda, accogliente. Era bello tornare alla casa base dopo una giornata di lavoro e trovare il suo sguardo gentile ad accoglierti, a chiederti se stessi bene prima ancora di chiederti se fossi riuscito o meno nel tuo compito. Si preoccupava sempre prima delle persone. Prima i Liberty e poi la missione del giorno. Prima la famiglia e poi tutto il resto.
Era uno dei suoi più cari amici, Cade lo sa, lo sente nelle vene asciutte e sotto la pelle fredda e morta. Sa che lo ha amato come ha amato tutti i suoi fratelli. Sa che probabilmente è stato lui a soccorrerlo, perché erano assieme quella mattina. Cade lo sa, sa che avrà fatto tutto ciò che era in suo potere per salvarlo. Sa che avrà resistito fino a quando il suo cuore non aveva cessato di battere prima di abbassare la testa e piangere. Sa che anche lui lo amava, che lo reputava suo fratello, che lo reputava parte della sua famiglia, sia di quella che si era scelto che di quella che gli aveva imposto il fato, che era allo stesso livello dei suoi veri fratelli così come lo era per lui.
Cade lo sa, ma non riesce a ricordarsi il suo nome.
Quello che ignora è se il suo amico sia sopravvissuto alla rivolta o sia caduto come lui, se ad un certo punto, sulle strade sporche, c'era stato anche il suo di corpo, travolto dalla carica dei soldati, dalla corsa di una carrozza. Sperava vivamente di no.
Lì nell'Ade tutto si mischiava, tutto sfumava. Nel labirinto il buio, il percorso intricato, peggiorava solo la situazione. Certo, Cade aveva un asso nella manica, ne aveva più di uno a dire il vero, ma la fortuna, la magnifica fortuna irlandese, non l'aveva mai aiutato molto se non per le cose più stupide e superficiali, e sapeva per certo che non l'avrebbe aiutato a vincere quella gare.

Qui si fa sul serio, qui devo vincere io, volerlo io. Cadere e rialzarmi, rimanere in piedi anche se mi pugnalano alle spalle.

Poteva farlo, aveva abbastanza volontà e fiducia in sé per riuscirci. Cazzo, ne aveva anche troppa di fiducia in sé stesso! Ma con la fiducia si affrontano solo situazioni da cui prima si sarebbe scappati, con la fiducia non salvi le persone, devi saperlo fare di tuo. Cade ne era capace, dopotutto.
Quando nel labirinto aveva visto Jonas a terra, pronto alla morte, incapace di rialzarsi e rimettersi a combattere, Cade aveva visto il suo amico. Aveva visto Niall, Ion e Laughlin, Gofrahyd, suo fratello Dioman, i gemelli Chataoir e Aengus. Aveva visto Esti e Feme, Riona, Agnes, Aoife, Briana, Roisi e Roisin, che s'arrabbiavano tanto quando la gente sbagliava a chiamarle e loro altri ci si divertivano così tanto a farlo apposta.
Per un terribile momento aveva visto sua sorella. Il suo popolo riverso per le strade.
Questo, questo probabilmente era quello che l'aveva colpito più duramente di quelle due prove, quello che l'aveva fatto vacillare e credere che la storia si sarebbe ripetuta ancora.
Ma si era dovuto rimboccare le maniche, cacciare in profondità i pensieri negativi e i ricordi dolorosi, proprio come faceva in vita, proprio come gli aveva insegnato sua madre.

 

« Sorridi sempre, tesoro mio. Sorridi e non far vedere agli altri quanto ti abbiano fatto male. La gente gode del dolore che provoca agli altri, ma se tu sarai abbastanza forte da stringere i denti, da rialzarti ancora una volta, toglierai loro tutto il potere. »

 

Cadi, soffri e perdi, lascia che i tuoi amici vedano ciò che stai provando ma fa in modo che capiscano che puoi risollevarti da tutto.
Sorridi e sii positivo, non c'è nulla che non si possa risolvere, non c'è nessuna situazione che non si possa volgere a tuo favore.

 

Cade strinse i denti. Doveva solo chiudere tutti quei pensieri in un angolo scuro della sua mente, non ci doveva pensare, doveva continuare a cercare, trovare e vedere il lato positivo.
 

Anche quando piove a Dublino, la città sembra confondersi con il cielo grigio, l'umidità ti entra nelle ossa e ogni passo che fai è come affondare nel fango, puoi trovare qualcosa di bello. Devi solo ricordati quanto è divertente correre sotto la pioggia e saltare nelle pozzanghere.

 

Quindi ora doveva concentrarsi su quello: cosa c'era di bello nello stare chiusi in una gigantesca prateria bruciacchiata e fumante, senza un solo punto per nascondersi o arrampicarsi, con tante di quelle anime che neanche poteva contare e con dei cazzo di mastini in fiamme pronti a sbranarti?
Oh, perché Cade questa cosa l'aveva notata, loro i dannati cani non potevano ferirli, ma mica ai cani era vietato ferire, sbranare, mutilare o eliminare per sempre loro.

« Maledetti cani.»
Con una smorfia infastidita in volto l'irlandese lanciò uno sguardo al suo assolutamente mal assortito gruppetto.
Nathan se ne stava tutto imbronciato come un bambino a fissar male il nulla.
La ragazza delle praterie si guardava attorno con noncuranza, come se non gliene fregasse nulla di possibili mastini infuocati pronti a saltar fuori dal nulla e mangiarsela.
Il piccolo Jonas, dalla posa curva della sua schiena e dalla testa incassata nelle spalle, come minimo doveva essersi di nuovo perso in qualche turba mentale delle sue. Alle brutte sapeva che un pugno in pancia risolveva tutto, doveva solo tenerlo d'occhio e intervenire subito se necessario.
L'unica che, come sempre, sembrava perfettamente presente a sé stessa e concentrata era Elizabeth e per una volta che Cade non aveva né voglia di discutere con qualcuno né di rispondere a battutine del cazzo, la soldatessa sembrava proprio far al caso suo, di certo, ragionare un minimo sulla prova l'avrebbe aiutato a non pensare ad una vita che non gli apparteneva più.

 

« Vedi nulla, Elza?» Il nome sbagliato gli scivolò fuori dalla bocca senza neanche rendersene conto.
Eliza si voltò di scatto verso di lui, pronta rimproverarlo per l'ennesima volta, ma non appena lo guardò in volto la sua espressione mutò.
C'era qualcosa di molto simile alla preoccupazioni nelle iridi verdi della donna, qualcosa che Cade cercò inutilmente di ignorare.
« Pensi che pos- »
« Che hai? » chiese lei stroncandolo sul nascere.
Cade si strinse nelle spalle. «Non so di cosa tu stia parlando, Elza, ma- »
« Non prendermi in giro. Non sono stupida, ti vedo. Hai qualcosa che non va, non fai le tue solite battute stupide, non provochi Nathan e non stai importunando Joans. Cosa ti prende?»
Il rosso sbuffò irritato. « Fammi capire: quando faccio tutta quella roba mi rimproveri perché la faccio e quando non la faccio mi rimproveri perché non al faccio?»
Anche la donna sbuffò, ma il suo parve più un grugnito infastidito che altro. « Di solito ti “sgrido” perché i tuoi comportamenti non sono consoni né per l'ambiante in cui ci troviamo- »
« Cazzo, l'inferno ha delle regole di bon-ton? Devo essermi perso l'editto!»
« - sia perché ti deconcentri tu e deconcentri gli altri. Ma è il tuo carattere e in queste ore, o giorni, che abbiamo passato assieme me ne sono fatta una ragione.»
Cade alzò un sopracciglio, scettico, senza dir nulla. Eliza grugnì ancora.
« All'incirca.»
« Ecco, sii sincera.»
« Io lo sono sempre. Per questo ti chiedo per l'ennesima volta: cosa c'è che non va? Non saremo amici per la pelle e cose del genere, ma ti assicuro che puoi fidarti di me.»
Lo sguardo smeraldino della giovane donna si fermò dritto e sicuro negli occhi solitamente vispi dell'altro.
Avevano una sfumatura quasi simile, forse quelli di Eliza erano giusto un po' più scuri. Cade li fissò di rimando e poi distolse l'attenzione. Se l'avesse guardata negli occhi aveva quasi la sensazione che la figlia di Nike avrebbe potuto leggergli l'anima.
« Allineamento di eventi di merda. Contenta?»
« Modera il linguaggio. » l'ammonì subito. «Ma sì, contenta. C'è qualcosa che possiamo fare per cambiare la situazione?»
Quella domanda arrivò completamente inaspettata. Cade non poté far a meno di tornare a guardarla con gli occhi sgranati, l'espressione sorpresa che fece sogghignare Elizabeth con fare canzonatorio.
« Che c'è? Solo tu puoi andare in soccorso della gente e aiutarla a star meglio? Da quel che mi risulta siamo una squadra, attualmente, e per quanto ne so in questi casi ci si aiuta a vicenda. »
Contro la sua volontà e senza provare minimamente a nasconderlo, Cade sorrise di rimando alla compagna, passandosi la mano sana sulle labbra, come se se le stesse pulendo da quel velo di malinconia e rabbia che l'aveva avvolto fino a quel momento.
« Sei una donna piena di sorprese, Elizabeth.»disse con voce più sicura.
La stessa scintilla di sorpresa che prima aveva animato il rosso saettò veloce nelle iridi lucide della mora.
Sogghignò ancora. « E non hai ancora visto nulla, Grifone.»

 

 

*

 

Doveva ammettere che quella strana tensione che s'era andata a formare tra i membri di quella mal assortita combriccola la stava vagamente infastidendo, nonostante quello che aveva pensato in precedenza.
Il problema non era il rosso che non parlava con il ragazzino o non faceva battute di cattivo gusto al soldato, o Eliza che non li riprendeva e li divideva malamente – era da poco che stava con tutti loro assieme e già aveva capito l'andazzo generale, magnifico – ma quella sorta di cupa aura che aveva avvolto le coppie mischiate.
Il soldato che consolava il ragazzino, gli aveva addirittura messo una mano in testa, e Jane non dubitava che il biondino odiasse il contatto fisico tanto quanto lo odiava lei.
Aveva visto come Nathan avesse cercato di fare l'adulto della situazione senza però riuscirci, per un attimo le aveva ricordato suo padre che, impacciato, cercava di consolare il figlio di un nobil uomo che era inciampato e caduto a terra. Non che suo padre non sapesse farci con i bambini, ma quello era un “signorino”, qualcuno che proveniva da un livello sociale più alto del loro, e il buon vecchio Oliver era pur sempre un uomo del popolo.
C'era stato poi un attimo in cui le era sembrato di vedere un riflesso brillare negli occhi azzurri del figlio di Ares, qualcosa che doveva averlo colpito particolarmente perché poi i due si erano divisi in modo veloce e spiccio.
Ora il bambino se ne stava tutto accartocciato su sé stesso a pensare a Dio solo sapeva cosa e il soldato, similmente, se ne stava tutto impettito dando le spalle a tutti loro.
Dall'altra parte il rosso malpelo era stato di pessimo umore fin quando non aveva parlato con Eliza. Non aveva dubitato neanche per un secondo che la donna sarebbe stata in grado di risolvere velocemente qualunque problema avesse l'altro, ma vederli così complici le aveva dato una fitta di fastidio.

 

Gelosia, Ladybug, credo che sia questa la parola giusta.

 

A sentire quella voce Jane si volse di scatto verso le sue spalle. La conosceva, sapeva a chi apparteneva, anche perché in tutta la sua morte c'era stata una persona sola che l'aveva chiamata in quel modo.
Cercò con lo sguardo l'uomo dal cappotto nero, quello che le aveva dato il biglietto per la gara, quello che lei ancora custodiva gelosamente all'interno della sua camiciola sporca, ma di lui non c'era traccia alcuna.
Si era quasi dimenticata di quell'oscuro figuro che era apparso nel mezzo delle Praterie subito dopo quel flash di luce dorata, che pareva saper tutto e conoscere ogni cosa, ogni risposta giusta. Era stato lui a chiamarla “Ladybug”, coccinella.

Come mi chiamava papà…

Quel pensiero la congelò sul posto: come poteva, l'uomo in nero, sapere qualcosa che lei stessa credeva di aver dimenticato?
Per tutta la durata di quel loro breve scambio di opinioni Jane aveva avuto l'impressione di parlare con un essere del tutto differente da lei. Non avrebbe potuto dire con certezza che fosse un Dio o un semidio o un'altra delle strane creature partorite dalla mente contorta delle divinità, ma ciò di cui era stata certa fin da subito era la sua potenza. L'aveva avvertito, sentito sottopelle come la scossa che prendeva di tanto in tanto quando toccava del metallo: al tempo la suora superiora le diceva di stare in guardia e farsi subito il segno della croce perché quel dolore, come la puntura di tanti aghi, era il diavolo che cercava di ferirti. Ora Jane sapeva che non era così, sapeva che nessun diavolo voleva rubarle l'anima anche perché tutte, nessuna esclusa, finivano dirette all'inferno. Non c'erano paradiso e purgatorio, c'era solo l'oblio oscuro dell'Ade e anche se qualcuno poteva dirsi fortunato, vivendo quell'eterna vita da fantasma nei Campi Elisi, tutti loro erano costretti sotto il medesimo cielo di terra, rocce e radici secche.
Non c'era poi così tanto bel vedere all'altro mondo, neanche per i beati.
Jane aveva preso in considerazione che quell'uomo fosse un'anima potente, morta nella gloria e quindi libera di girare l'Ade come più gli pareva, aveva anche i biglietti per la Death Race con sé, doveva aver un qualche ruolo di spicco o per lo meno essere abbastanza affidabile agli occhi degli Dei affinché gli dessero un compito così delicato come reclutare concorrenti nell'unico posto in cui nessuno ricordava neanche d'esser morto. Era poi altrettanto sicura che nessun Dio si sarebbe sporcato le mani addentrandosi nella foschia solo per staccar un biglietto. Forse ci sarebbe stata una divinità nei Campi di Pena, ma da dove veniva lei proprio no.
Ma allora, cosa ci faceva quell'uomo lì? E cosa ci faceva ora nella sua testa?
Credeva di averlo sentito parlare ma di lui non c'era traccia, quindi doveva per forza esserselo immaginato. O magari, proprio come aveva pensato, l'uomo nero era nella sua testa.
Con una smorfia tesa Jane fece un giro su sé stessa, osservando con attenzione tutto ciò che la circondava. Non voleva avere qualcuno che giocava con la sua mente, non voleva aver nessuno a sussurrarle nell'orecchio come gli spiriti maligni tentatori da cui veniva sempre messa in guardia.

 

« Le streghe entrando di notte nelle case non protette, si avvicinano ai letti delle giovani e cominciano a sussurrare e bisbigliare malefici, seminare pensieri oscuri, impuri. La loro lingua è lunga e viscida come quella dei serpenti e te la infilano nelle orecchie per riempirle della loro voce velenosa. Ti entrano nella testa e poi, senza che te ne rendi conto, ti dicono cosa fare, ti comandano, ti costringono a far cose brutte e alla fine il tuo corpo non è più tuo, sei completamente del demonio e l'unico modo per liberarti, per purificarti dal male, sono le fiamme sacre del Signore. Allora per scacciare il diavolo non basta ucciderti e seppellirti, dandoti pace come ogni povera anima, non basta neanche bruciar le spoglie, il diavolo così si salva lo stesso. Per uccidere anche lui bisogna bruciati, bruciarti viva.»

 

Un fischio assordante trapassò la testa di Jane. La ragazza si portò le mani alle orecchie, il padiglione pieno di brividi, pieno di quell'assurda ed inesistente sensazione di qualcosa di viscido e bagnato che le scivolava attorno alla conchiglia, dentro nel timpano, nel cervello.
Membra invisibili si avvolsero attorno alle sue gambe, scivolando oltre la gonna, sulle braccia, attorno alla vita e al collo. Era di nuovo dentro al muro d'edera, era di nuovo soffocata, era di nuovo immersa in quella marea di foglie fredde e umidicce che ora si erano trasformate in lingue di serpente e saliva velenosa che le ustionava la pelle. Sentiva l'odore della pelle bruciata, dell'epidermide che si accartocciava, si lacerava scoprendo muscoli e tendini, arrivando alle ossa bianche e secche, trasformandole in carbone fumante.
La terra cominciò a tremare sotto i suoi piedi, un tremolio vago, lo stesso che avrebbe potuto produrre la marcia di un esercito.
Qualcuno, annidato nel fondo della sua testa, le sussurrò di aprire gli occhi e di guardarsi attorno, di tornare attenta.
La strega che giocava con la sua mente – il diavolola costrinse a spalancar le palpebre e rendersi conto che nulla di ciò che sentiva stava succedendo davvero, che anche se sua madre e tutta la sua stirpe poteva vedere cose che gli altri neanche immaginavano, premonizioni, visioni di un futuro che forse mai si sarebbe realizzato davvero, non era quello il caso.
Ma la terra sotto i suoi piedi continuava a tremare anche mentre la ragazza riprendeva lentamente coscienza di sé, contatto con una realtà che per i vivi non era tale. Battendo le palpebre Jane cercò di uscire da quello stato di sonnolenza e di confusione in cui era caduta, guardando senza vederli davvero i minuscoli sassolini della prateria brulla vibrare.
Cercò con lo sguardo i suoi compagno di disavventura, trovando Nathan intento a scrutare l'orizzonte nella direzione opposta alla sua , Eliza parlare probabilmente di strategia con Cade, di fianco a loro Jonas annuiva di tanto in tanto e poneva qualche domanda. Fu proprio il ragazzino a ricambiare il suo sguardo, forse sentendosi osservato.
Gli occhi azzurri di Jonas si sposarono da lei alle sue spalle, sgranandosi forse per lo stupore, più probabilmente per il terrore.
Jans si volse con lentezza, sulla linea vaga della steppa si alzava in lontananza un denso fumo nero. Il tremolio si intensificò, ora i sassi saltavano sulla terra secca e crepata, andando ad aprire tutto un nuovo dedalo di spaccature e fratture friabili come sabbia.
Un suono acuto e persistente si fece avanti tra le nubi fitte, il latrato di un animale, di un branco intero. Tutte le anime davanti a loro cominciarono ad indietreggiare, spinte da quelle ancora più avanti che urlando cercavano di scappare il più lontano possibile dalla carica spietata di una marea di teschi bianchi infuocati.

A quanto pare non sarebbero dovuti andare a cercarli, alla fine.

Con voce atona, per una volta non per disinteresse ma spezzata dal panico che galoppava furioso nel suo petto come quei mostruosi esseri, Jane non riuscì a tener le labbra chiuse.

 

« Arrivano i mastini.»

 

*


 

Quando la terra aveva iniziato a tremare Lea aveva temuto che potesse trattarsi di un terremoto, alzando subito lo sguardo verso la volta rocciosa con la paura di vedersi crollare in testa qualche pezzo di superficie.
Chissà se così avrebbe potuto vedere il cielo, chissà quanto in profondità si trovavano in quel momento.
Era durato tutto pochi secondi, un attimo dopo Úranus l'aveva afferrata saldamente per il polso e l'aveva tirata via, cominciando a correre proprio come aveva fatto nel labirinto.
Lea fissava la sua schiena mastodontica senza riuscir a dir nulla. Lei era abbastanza alta, anzi, era decisamente troppo alta per essere una donna, questo era ciò che le avevano sempre detto le suore quando era ancora una bambina di otto anni che svettava sopra quelle di dodici. Glielo aveva detto anche suo fratello, ridendo divertito, che così non sarebbe mai riuscita a trovare marito, non nel loro paese per lo meno, dove la media maschile era sul metro e settantacinque. Se lo ricordava quel tono scherzoso, quel dirgli che avrebbe dovuto imparare una lingua straniera così avrebbe potuto conoscere un uomo alto quanto mano quanto lei.
Giuseppe aveva avuto ragione da vendere: gli uomini oltre le Alpi erano decisamente più alti dei loro compatrioti itallici. Eppure neanche la stazza enorme di Úranus, la sua schiena ampia ed i bicipiti gonfi che si vedevano sotto la vecchia camicia riuscivano a farla sentire più sicura, neanche il sapere che era “bravo con gli animali” riusciva a farla tremare di meno. Il rumore delle zampe artigliate dei mastini infernali le rimbombava nelle orecchie, la scuoteva nel profondo così come la carica di quelle bestie scuoteva la terra.
Il ragazzo la tirava senza posa, cercando di farle mantenere il suo passo, ma lì non c'erano svolte dietro cui nascondersi, non c'erano muri che si spostavano e che aprivano nuove vie di fuga. Davanti a loro c'era solo l'infinità finita dell'Area Cani e centinaia di migliaia di altre anime che correvano spaventate come loro.
Come poteva una cosa così terrificante essere una prova per tornare in vita? Come pretendevano che tutti loro superassero quell'ostacolo immenso?

Non lo fanno infatti, vogliono che il numero dei contendenti cali, vogliono che più anime possibili spariscano.

Con un groppo in gola Lea accelerò il passo, anche contro la volontà dei muscoli freddi che le tiravano nelle cosce. Se fosse stata ancora in vita avrebbe giurato che le si stesse formando tanto di quell'acido lattico che mai aveva avuto in tutta la sua intera esistenza. Ma non era così, non poteva più produrre cose così semplici e banali come dell'acido lattico o del sudore, non potevano più, nessuno di loro.
Allora perché le sembrava di star sentendo più caldo? Che il respiro le mancasse, che i suoi muscoli fossero stanchi? Perché le sembrava di veder un triangolo di sudore allargarsi lentamente tra le scapole di Úranus?
La figlia di Apollo ebbe un brivido di terrore del tutto diverso da quello che l'aveva attanagliata un attimo prima. Non erano più i mastini infernali quelli che la preoccupavano ma il ricordo vago di una conversazione avuta una vita fa. Non quella in cui era viva, in cui il suo sangue scorreva veloce nelle vene; ma quella in cui aveva camminato scalza sull'erba morbida dei Campi Elisi, la vita in cui aveva litigato con un cretino che credeva di saperne più di lei di fiori e che poi non ne conosceva i nomi, quando ogni giorno, o quello che credeva esser tale, raggiungeva le alte mura bianche dove le anime buone e giuste dimoravano e chiedeva ad un saggio ed onorevole uomo dal volto sereno se per caso non fosse arrivato un certo Giuseppe Pozzi. Una vita in cui quello stesso onorevole uomo dagli occhi a mandorla le porgeva uno stilo per firmare un documento, per poi porgerlo al suo compagno.

 

« … Siamo pur sempre delle anime nell'Ade e per contratti così importanti l'inchiostro mortale non basta. I contratti nell'aldilà si firmano con il sangue.»

 

La domanda le sorse spontanea e normale così come non lo era stata a suo tempo: se i contratti nell'Ade si scrivevano con il sangue, loro, che erano morti, con quale avevano scritto?

Con il sangue di chi? Il mio? Ma sono morta, non ne ho più.

Mosse a disagio il polso, aprendo e chiudendo la mano come se improvvisamente la sentisse intorpidita, come se non le arrivasse il giusto afflusso sanguigno. Úranus voltò appena la testa, lanciandole uno sguardo di scuse a allentando la presa quel tanto che bastava per permettere a Lea di non esserne infastidita: non voleva farle male ma era chiaro nella mezza luna di viso che compariva sopra la spalla, tra la barba rossa, che non l'avrebbe lasciata andare del tutto, che non l'avrebbe fatto finché non sarebbero stati al sicuro.
Ma Lea non aveva la minima intenzione di scostarsi, i pensieri che le avevano affollato la mente le avevano messo ansia e inquietudine, le avevano fatto dimenticare per un attimo i mastini e gettata nel dubbio. Ritrasse leggermente il braccio solo per far scivolare la propria mano nella presa sicura di Úranus, aggrappandosi a quel palmo grande e calloso come una vita fa aveva fatto con quello di suo fratello, con la speranza ed in fondo anche la sicurezza che l'altro avrebbe ricambiato la stretta.
Star vicino al ragazzo del nord era una continua altalena: c'erano momenti in cui si sentiva al sicuro, protetta da un muro invalicabile che era la presenza pacata e massiccia del giovane. Altre volte invece la gettava nel panico, nell'oblio di ricordi sbiaditi e rimembranze ormai dimenticate.
Cosa diamine era? Era il potere del suo padre divino? Ma chi?

« Resisti Elena, si stanno già disperdendo. In molti sono stati così folli da affrontarli subito in un faccia a faccia. Dobbiamo solo allontanarci un altro po' e poi riavvicinarci con cautela ad uno di loro.»
La voce di Úranus era affaticata, come se quella corsa sfrenata lo avesse davvero sfiancato, come- esattamente com'era successo nel labirinto.
Stavano faticando. Stavano faticando entrambi, cazzo.
La giovane strinse i denti fino a digrignarli. Non doveva pensarci, doveva concentrarsi su altro, sulla sfida, solo su quello. Doveva entrare nella sua modalità seria e diligente, quella precisa ed efficace che assumeva sempre quando arrivava un paziente in studio e la paura e il timore d'agire doveva esser accantonato, quando aveva imparato che spesso agire anche senza sapere cosa fare di preciso era meglio che rimanere immobile a vedere qualcuno soffrire, morire.
Lucidità: era tutto quello che le serviva in quel momento. Lucidità e concentrazione.

« Lea.» disse solo, allungando la falcata per arrivare al fianco del suo compagno.

 

« Forza Elenù! Usale quelle gambe lunghe! Che ce le hai a fare se poi non corri?»
« La fai facile tu! Sei allenato, cacchio! Io no!»
« Ma tu hai quelle zampe da fenicottero dalla tua! Allungale bene! Corri Elenù!»
« Lea! È Lea!»


 

« Come?» chiese il ragazzo senza fiato.
Elena lo guardò con uno sguardo deciso e sprezzante. « É Lea. Elena non mi piace, mi ci chiamavano le suore dell'orfanotrofio, dicevano che era il nome di una santa e che dovevo esser fiera di portarlo. Quindi, per favore, chiamami solo Lea. »
Úranus continuò a guardarla per un attimo senza sapere cosa dire. Stavano scappando dai mastini infernali e lei pensava al fatto che non volesse farsi chiamare con il suo nome per intero? A ben guardarla e soprattutto a sentire il tono della sua voce, pareva quasi che si fosse fatta forza in un qualche modo. Magari aveva pensato a qualcosa che le aveva dato nuova energia, un po' di fiducia di cui sembrava necessitare moltissimo a tratti. Úranus non lo sapeva ma sinceramente non gli importava neanche troppo, se serviva per farla essere più attiva e presente tutto andava bene.

« Certo, perdonami. » le disse allora.
In tutta risposta Lea gli regalò un sorriso allegro e smagliante, di quelli che gli aveva fatto appena usciti dal malefico labirinto, ed Úranus si sentì quasi confuso da quel repentino cambio di aura.

Figlia di Apollo, bello come il sole, saggio protettore delle arti e della medicina e al tempo stesso spietato arciere, in grado di accecarti fino a bruciarti gli occhi, capace di portare morte e pestilenze.
Duplice faccia così come la sorella Luna.

Decise che non si sarebbe messo a sindacare sulla cosa, a porsi altre inopportune domande. Strinse la presa sulla mano piccola e morbida della ragazza e con uno strattone le fece tagliare la strada ad un paio d'anime mal ridotte che inciamparono sui loro stessi passi e ruzzolarono a terra, le loro grida coperte dallo scalpitio generale.

« Attento!»
« Lasciale stare! Mi spiace per loro ma dobbiamo allontanarci dalla carica principale!»
« Hai qualche idea?»
« Le ali. La parte laterale del branco, lì i mastini dovrebbero già essersi dispersi in parte.»
Lea annuì e cercò di stargli dietro il più possibile, aggrappandosi comunque a lui e facendosi trascinare senza troppe lamentele dalla pura forza bruta dei muscoli del giovane.

 

Úranus schivò altre anime, continuando a tagliar loro la strada come faceva ormai da quasi dieci minuti, cercando di non guardarsi indietro. Gli spiaceva, probabilmente erano solo mortali e non avevano la più pallida idea di come affrontare dei cani infuocati, ma in quel momento non poteva permettersi di pensare ad altri, doveva solo concentrarsi e mettere in pratica quegli insegnamenti così preziosi che suo padre gli aveva donato e che tante volte gli erano stati utili durante la caccia.
La prima regola era “mai affrontare un branco”. Nel fitto del bosco in cui aveva abitato c'erano branchi di lupi, orsi solitari, famiglie intere di cinghiali e anche di cervi, qualche capriolo e tantissimi stormi. Era difficile vivere assieme a tutti quei predatori e quei gruppi così stretti, veloci, forti. Prendere un cervo avrebbe assicurato a lui e sua madre cibo per mesi forse, un cinghiale anche, un capriolo pure, ma oltre alla pericolosità della loro carica, dei loro zoccoli e a quella non insignificante delle zanne dei cinghiali, ciò con cui si doveva combattere era la loro velocità, era lo scatto. Erano gli altri membri del branco che, forti della loro unione, del loro numero, ti caricavano tutti assieme per eliminarti, per eliminare il pericolo.
Con i predatori la cosa era solo peggiore: i lupi ti puntavano, ti aggiravano e poi ti accerchiavano. Mandavano avanti i più forti per sbranarti, per abbatterti e poi, dopo aver preso la loro parte, lasciare i resti al branco.
Úranus era ben consapevole che durante i suoi primi anni di caccia solitaria se non fosse stato per suo padre, per quella mano benevola che teneva sempre sul suo capo, avrebbe incorso fin troppe volte in trappole del genere. Ora non c'era più lui, pronto a comparire in ogni momento di difficoltà, costantemente attento al richiamo di una sua preghiera. Stringendo la mano di Lea come forse aveva fatto solo con quella di sua madre, Úranus cercò di rimanere calmo, di entrare in quello stesso stato mentale in cui scivolava centinaia di anni prima accovacciato dietro ad un albero muschiato, camminando leggero sulle foglie secche e su quel mondo in miniatura che era il suolo ed il sottobosco di una qualsiasi foresta.

Mai affrontare il branco, mai tutto assieme, dividi et impera.

Scartò velocemente a sinistra, adocchiando una zona più libera, dove solo pochi mastini camminavano quieti o ringhiavano alle loro prede. C'erano dei corpi a terra ma il giovane si impose di non guardarli: erano anime, non potevano averli dilaniati e se anche fosse stato lui non doveva vederli, non doveva uscire dalla sua modalità da caccia.
Un grosso mastino se ne stava seduto sulla steppa arida, la coda dentellata oscillava tranquilla spazzando la polvere scura del terreno, deboli fiamme fuoriuscivano dalle sue narici ogni volta che sbuffava.

Individua la tua preda. Poniti in una condizione di superiorità, di vantaggio, rispetto a lei.

« Lì, riesci a scorgerlo?» chiese abbassando il tono e cercando di portarsi alle spalle del mostro.
Úranus si guardò attorno con attenzione, cercando di non esser preso di sorpresa da nessuno.
Lea di fianco a lui, la mano ancora stretta saldamente alla sua, annuì voltandosi a destra e manca per controllare anche lei che non ci fosse nessun altro mastino in vista.
« Sì, cosa proponi di fare? Sei tu quello bravo con gli animali.» provò a sorridergli.
Il giovane le restituì un sorriso tremulo e storto, che non fece altro che far ampliare quello della ragazza.
« Sai, alle volte mi sembra che tu non sia abituato a sorridere.»
Un leggero rossore si propagò sugli zigomi del nordico, sbucando da sotto la barba folta. « Non sono abituato a confrontarmi con molte genti.» disse rallentando quasi fino a fermarsi « Io e mia madre non vivevamo al villaggio, la nostra casa era nel folto del bosco.»
« E non avevi amici?»
L'altro scosse la testa. « Non- non erano molte le persone che avevano desiderio di essermi amiche. Molti abitanti del villaggio venivano da mia madre per comprare erbe medicinali e spezie ma… temo che quando ero in vita, in quegli anni, le persone non vedessero troppo di buon occhio quelli come noi. »
« I semidei?» chiese Lea lanciando uno sguardo nervoso al mastino che ancora riposava a terra. Era palese che fosse interessata a scoprire qualcosa sul suo passato ma che al contempo temesse di distrarsi troppo ed estraniarsi dalla situazione.
Úranus la capiva e anche se la buona ragione gli suggeriva di interrompere il discorso, di rimandarlo ad un altro momento, sentiva anche il bisogno di raccontare, di dire a qualcuno com'era vissuto, com'era sua madre, il loro villaggio, il bosco, gli sguardi diffidenti delle persone. Tutti i villici non si fidavano fino in fondo di loro, sua madre era abile a trovar erbe e a riconoscerle, a conoscerne gli utilizzi, ma c'era sempre questo velo di superstizione, questa voce leggera come il vento e pesante come le rocce, che ricordava a tutti, in un sussurro insidioso, come le streghe utilizzassero quelle stesse erbe per le loro pozioni. Era quindi una conseguenza logica quella che portava tutti a pensare che, se Mjöll era così brava con esse, poteva aver qualcosa a che fare con quell'oscura gente.

E invece era solo l'amante di un Dio della mitologia greca. Così distante eppure così vicina alla vostra idea di soprannaturale.

Quelle voci non lo avevano mai disturbato finché quel dubbio, quel “poteva” divenne un “sicuramente”.
« No. Io sapevo di essere un semidio, conobbi mio padre, mi crebbe assieme a mia madre, ma gli altri lo ignoravano. Mi dicesti che anche il tuo paese era cristiano, credo tu quindi non debba faticare molto per immaginare come si sarebbe comportato l'intero villaggio con me e ancora prima con mia madre se avessero anche solo sospettato che portasse in grembo il figlio di un Dio che non era quello da tutti conosciuto e adorato.»
Lea abbassò lo sguardo. « Nel mio paese c'era la sede della religiosità cristiana, so bene di cosa stai parlando, certo. Mi spiace, sembra che tu abbia avuto una vita dura.» sospirò tristemente.
« Non ho mai avuto molti amici, temo di non averne avuti per niente, è per questo che posso apparire… » lasciò la frase in sospeso, senza sapere come continuare. Si volse a guardarla imbarazzato, portandosi la mano libera dietro al collo, come se quel gesto potesse toglierlo d'impaccio.
Lea gli sorrise con più dolcezza. « Impacciato? Beh, sembra che tu non sappia proprio come comportarti alle volte.» ridacchiò. « Ma sei sempre gentile ed educato, ti preoccupi di tutto e ti prendi responsabilità e rischi che non tutti si prenderebbero per una sconosciuta. Se vuoi la mia opinione te la stai cavando benone. E sei anche molto galante!» alzò le loro mani, ancora intrecciate, e gli fece l'occhiolino.

Se Úranus fosse stato ancora in vita probabilmente l'avrebbero scambiato per un'aragosta, ma per sua fortuna la barba incolta lo nascondeva abbastanza bene.
Sentì l'improvviso bisogno di lasciare la mano della ragazza ma qualcosa gli diceva che a quel punto non aveva senso, sarebbe sembrato soltanto più imbarazzato di quanto già non fosse.
Quanta differenza facevano duecento anni nessuno poteva capilo davvero, se ai suoi tempi avesse tenuto la mano di una giovane per così tanto tempo, senza che servisse per aiutarla in qualche modo, sarebbe stato immediatamente sgridato o chiunque avrebbe creduto che fosse la sua promessa sposa.
Per Lea invece sembrava solo una cosa abbastanza normale. Quando avrebbe avuto un po' più di coraggio le avrebbe chiesto come si viveva nella sua epoca. Sperando di non farle ricordare cose spiacevoli.
Provò a darsi un contegno e risponderle in modo decente ma uno strano formicolio attirò la sua attenzione. Girandosi con cautela Úranus si ritrovò a fissare gli occhi incandescenti del mastino che fino a quel momento era stato sdraiato davanti a loro, quello che tecnicamente stavano cercando di prendere di sorpresa.
Stringendo leggermente la mano di Lea indicò con la testa davanti a sé, cercando di trasmetterle con lo sguardo l'importanza di non fare strani movimenti e soprattutto di non farli velocemente.
Un avvertimento che evidentemente dovette andare a buon fine perché la ragazzi si volse con la stessa lentezza che aveva avuto premura di usar lui.
Il grosso mastino continuava a fissarli senza batter ciglio, Úranus dubitava anche che ne avessero ad esser onesto, con una calda scintilla infuocata nelle iridi scure. Dalle narici larghe uscì una fiammata aranciata che andò a mala pena a sfiorare il terreno. Seduto eretto il mastodontico cane era alto più di Úranus stesso e l'enorme testone pareva esser all'incirca largo quanto le sue spalle. Sembrava indossare un teschio sul muso dal pelo corto e nero, come una maschera da combattimento che gli copriva testa, occhi e la parte superiore del muso. Non vi erano zanne attaccate all'osso esterno, bastavano le sue, quelle nella bocca vera, a meter ansia a chi gli stava davanti.
Ma quel mastino, nello specifico, neanche la stava mostrando al dentatura.
Con il capo leggermente inclinato e gli occhi spalancati fissava le due anime come se si stesse domandando che diamine stessero combinando lì dietro, cosa volessero da lui e perché confabulavano in quel modo.
Una volta suo padre gli disse che ogni essere è senziente, tutti quanti pensano, ragionano, si pongono quesiti e prendono decisioni. Magari non lo facevano allo stesso modo degli uomini, magari non c'erano parole precise e sensate nella loro mente, ma sensazioni, colori, suoni, profumi ed istinti. Ogni animale parlava se solo si era in grado di ascoltarlo ed Úranus, come unico e più grande dispiacere sul fronte dei suoi poteri divini, rimpiangeva di non esser riuscito a prender anche quel tratto dal suo divin genitore. Quella era probabilmente l'unica cosa che aveva sempre invidiato al padre, l'unica cosa che aveva sempre disperatamente sperato di poter fare per poi scoprire di esserne incapace: non si poteva ereditare tutti i poteri di un Dio, ci si doveva accontentare di quelli che capitavano, come i premi di una ruota della fortuna.
Purtroppo per lui, Úranus aveva ottenuto probabilmente i più terribili.
Il mastino mosse la coda con pigrizia, facendola rimbalzare mollemente a terra e sbuffando un'altra fiammata. Dal suo pelo nero si alzavano vapori grigiastri, fumo leggero ma costante, specie in prossimità delle creste ossee che fuoriuscivano dalla pelle.

« Ci sta fissando? Perché non ci attacca?» chiese Elena avvicinandosi inconsciamente al compagno.
« Credo siano le stesse domande che si sta ponendo lui.» rispose fievolmente Úranus. Poi deglutì, era arrivato il momento di agire, doveva solo decidersi a muoversi.
« Non sembra pericoloso… o per lo meno non sembra volerci sbranare.» continuò l'altra inclinando la testa proprio come stava facendo il mastino.
« Ci sta valutando. Credo.» tentennò lui. « Dobbiamo fargli capire che non vogliamo fargli del male.»
« Pensi che sia della stessa idea anche lui?»
« Non posso dirlo con certezza, ma per ora sembra più incuriosito che deciso ad attaccarci. Se ci comporteremo con cautela potremmo riuscire a mantenerlo mansueto.»
Un verso strozzato lasciò le labbra della giovane. Úranus le guardò di sfuggita solo per un attimo, prima di riportare completamente la sua attenzione sul mostruoso cane.
« C'è qualche problema?» domandò leggermente innervosito, forse perché anche Lea cominciava ad esserlo e lui poteva ben percepirlo. Solo che se ci riusciva lui allora ci riusciva anche il mastino.
« Cerca di mantenere la calma. Sei mai andata a caccia?» provò a bassa voce.
Lea fece di nuovo quel suono. « Non mi hanno insegnato a tenere in mano un'arma, cosa ti fa pensare che sia mai andata a caccia? Sono una donna.»
« Mia madre dovette cacciare per un certo periodo, prima che io diventassi abbastanza forte per farlo al posto suo. »
« Epoche diverse, ricordi? Sta continuando a fissarci, ma non le batte le palpebre?» chiese ancora più nervosa. Essere guardati con insistenza da un cane gigante alto due metri non era proprio una di quelle cose che la metteva a suo agio, soprattutto perché non se lo aspettava. Se il mostro avesse ringhiato o provato ad attaccarli, se fosse stato quanto meno con le orecchie dritte, in posizione di difesa, allora sarebbe stata più a suo agio. Ma il mastino li osservava, li studiava, aspettava che fossero loro a fare la prima mossa, come-

Come se sapesse che uno di noi può comunicare con lui.

Lea volse di scatto la testa verso Úranus. Fu più forte di lei, non riuscì a far un movimento lento e controllato ed il mastino alzò il muso, colto alla sprovvista.
L'islandese la guardò allarmato, aprendo la bocca per dire qualcosa ma venendo brutalmente interrotto dalla compagna.
« Sta aspettando noi.» disse sicura. « Sa che non vogliamo fargli nulla, sa che con noi può, ehm- discutere? Che lo capiamo? O almeno che uno di noi lo fa. Qualcuno bravo con gli animali. Ti prego, dimmi che uno dei poteri di tuo padre è che può parlare agli animali.» chiese con voce quasi supplichevole.
Úranus la fissò battendo le palpebre, l'espressione perplessa probabilmente simile a quella del mastino stesso che, muovendo la coda ad un ritmo diverso, cominciava ad averne abbastanza di tutta quella situazione di stallo.
« Io… sì, uno dei poteri di mio padre è proprio quello di comprendere il linguaggio animale- » e Lea sorrise raggiante, « ma purtroppo io non ne sono in grado. »
« Cosa?» esclamò scioccata.
« Mi dispiace, sono mortificato ma… non è un potere che ho ereditato. » sussurrò il giovane abbassando al testa e riportando insistentemente lo sguardo sul mastino.
La ragazza non replicò ed Úranus seppe per certo di averla delusa in un qualche modo. Così come sapeva che, ugualmente in un qualche modo a lui oscuro, voleva redimersi ai suoi occhi e dimostrarle che non era solo un tipo inquietante che faceva scappare le persone urlando e si portava appresso un'aura di sottile paura che contaminava tutto.
Prendendo un respiro profondo lasciò la mano di Elena, quella che non si era reso conto di aver continuato a stringere per tutto quel tempo, deglutì e fece un piccolo passo verso il mastino, piegandosi sulle ginocchia e allungando destra, il palmo rivolto verso l'altro ma non troppo distante dal terreno.

 

« Se vuoi avvicinare un animale qualsiasi, fatti prima odorare. Gli animali percepiscono le intenzioni anche all'odore che un altro essere emana. Protendi una mano ma tienila bassa, dove possono vederla, dove può esser tenuta sotto controllo. Sottomissione. Seppur apparente.»

 

Úranus deglutì ancora, prendendo respiri profondi solo dal naso, cercando di stabilizzare un battito cardiaco ormai inesistente.
Il mastino infernale fermò il movimento della propria coda osservando attentamente quelli dell'umano davanti a lui.

« Va tutto bene. » iniziò piano il giovane, « Non voglio farti del male, puoi fidarti di me. Non ho alcuna intenzione di ferirti, la Dea Artemide vigila sulla mia parola. »
Parlando con voce bassa e gentile Úranus si avvicinò sempre di più alla bestia che lentamente, con cautela, abbassò il muso per annusargli la testa.
Lea ebbe un sussulto e cacciò un mezzo grido quando il mastino si alzò in piedi sulle quattro zampe e torreggiò su Úranus come un adulto con un passerotto, sbuffando una lunga e corposa fumata grigia sul suo capo.
Úranus socchiuse gli occhi cercando di non chiuderli del tutto, di non privarsi completamente della vista del mastino malgrado quel fumo lo stesse facendo lacrimare. Tossì piano e cercò di rimanere il più immobile possibile mentre il bestione lo annusava ovunque.

« Non ti ferirò, te lo giuro. » disse ancora azzardandosi ad alzare un poco la testa.
Non aveva ereditato il potere di comprendere gli animali, ma sapeva come trattarli, riconosceva i movimenti, i suoni, la tensione che si propagava per l'aria circostante. Il mastino infernale forse non si fidava del tutto di lui, ma sembrava stesse capendo che non era una minaccia, per lo meno, non all'attuale momento.
Avrebbe tanto voluto voltarsi ed assicurare Lea che andava tutto bene, che non doveva farsi spaventare dai movimenti dell'animale, che era normale per loro far gesti bruschi, muoversi velocemente. Sapeva però che non era ancora il momento, che il mastino avrebbe potuto prenderla male. O almeno era quello che aveva pensato finché il tartufo bollente del cane non gli si infilò sotto la maglia, premendo senza pietà contro il fianco scoperto.
Con un moto di brividi che non riuscì a controllare Úranus fece un salto indietro portandosi la mano al punto colpito, facendo nuovamente saltare Lea che, esattamente come prima, cacciò un urlo che probabilmente, in un'altra situazione, dove l'aria non fosse stata piena di centinaia di migliaia di altre voci urlanti, si sarebbe sentita per tutta l'area cani.
Úranus si voltò di scatto verso di lei, lo sguardo allarmato, pronto a dirle di no, di star zitta anche se ormai era troppo tardi.
Sentì il suono secco di un grande peso che s'alzava da terra per poi ricadervi sopra con violenza. Il terreno tremò leggermente e Úranus pregò, non per la prima volta, che qualunque cosa sarebbe successa dì li a poco non facesse troppo male.
Un forte e potente wolf gli esplose nelle orecchie, il rumore degli artigli che affondavano nel terreno e quello costante di una frusta che si agitava in aria come se- come se stesse-

-scodinzolando?

Davanti a lui Lea teneva le mani premute sulla bocca, gli occhi sgranati e l'espressione di qualcuno che stava assistendo all'ultima scena che avrebbe potuto immaginare.
Quando Úranus volse la testa, senza aver il coraggio di girarsi del tutto, rimase incredulo tanto quanto la sua compagna, sbattendo le palpebre davanti al grosso, pericoloso e attualmente completamente in fiamme, mastino infernale che, con il sedere in aria ed il muso quasi poggiato a terra, lo fissava scodinzolando.

« Sta… ?» mormorò Lea incerta.
« Credo di sì.» rispose con lo stesso tono.
« Quindi non- ?»
« Non penso.»
« E pensi che, invece- ?»
« Voglia giocare?»
« E con cosa… ?»
« Un ramo?»
« Gli basta dici?»
« Un tronco allora?»
« O un osso. Anche se dovrebbe essere enorme, tipo di elefante?»
« Non- non so cosa dirti.» ammise in fine il ragazzo lasciando cadere le spalle e girandosi completamente verso il mastino.
A quel gesto il cane fece un salto in avanti e poi uno indietro, abbaiando e continuando a scodinzolare.
Lea si avvicinò titubante ad Úranus, poggiandogli una mano sul braccio e rimanendo nascosta dietro di lui.
« Forse vuole, non so… cosa si fa ai cani? Un grattino?»
Úranus la guardò scioccato. « Vuoi che vada a grattare le orecchie del mastino?»
« Al cane di uno dei miei vicini piaceva se gli grattavi la schiena, proprio all'attaccatura della coda.»
« Elena- volevo dire, Lea, capisco di esser stato io a dirti che sono bravo con gli animali, ma ciò non vuol dire che sia anche immune al fuoco.»
La ragazza osservò imbarazzata la testa ossuta e fiammeggiante del mastino e si chiuse leggermente nelle spalle. « Hai ragione, perdonami.» si scusò nascondendosi ulteriormente dietro di lui, se per la vergogna o la paura, Úranus non sapeva dirlo.
Il mastino abbaiò per l'ennesima volta e i due furono costretti a riportare a lui tutta la loro attenzione.
Úranus sospirò pesantemente e si fece forza da solo.
« Se rimarremo fermi non lo sapremo mai. Proverò ad avvicinarmi, tu rimani qui.»
« Ricorda sempre che so come curare le bruciature.» disse velocemente Lea.
Lo sguardo crucciato che ricevette in risposta la fece sorridere ancor più imbarazzata di prima.
« È un lato positivo. Scusa, sono solo ansiosa.» borbottò in fine.
Úranus annuì piano e poi si voltò verso il cane dell'Ade. Era ironico che fosse proprio lui, di sua spontanea volontà per altro, ad avvicinarsi ad un mastino in fiamme, ma non aveva molta scelta, i suoi trascorsi non dovevano in alcun modo precludergli qualsiasi tipo d'azione, anche se quel colore così intenso e brillante gli feriva gli occhi e riapriva vecchie ferite nel suo animo. Non poteva permettersi di aver la stessa paura che aveva avuto in vita, di temere ancora quel dolore atroce e devastante.
Doveva aver coraggio e come aveva sentito dire spesso alle anime più moderne nei Campi Elisi: o la va o la spacca.

 

*

 

Quella sala era sempre stata una delle più belle che i loro palazzi ospitavano. Le volte erano alte, sesti acuti così incredibilmente gotici da esser quasi fastidiosi. Il marmo nero scolpito con maestria ospitava giochi di luce bluastra come i fuochi fatui che illuminavano l'Ade, vi brillavano di tutti quei piccolissimi cristalli e pietre diverse che componevano quel materiale tanto bello e pregiato quanto raro. Erano striate verdi e violacee, blu, azzurrine, rosate alle volte, pareva una pozza di petrolio che, cangiante, rifletteva ogni più piccolo raggio.
Il pavimento pareva un'unica ed infinita lastra, tagliata in un colpo solo da una montagna monolitica dalle mani di un gigantesco essere. Non era marmo però, malgrado fosse nero anch'esso non c'erano giochi di luce e riflessi, l'opacità dell'onice era perfetta, come la vista attraverso una sfera smerigliata, distorceva le figure e le immagini, una controparte perfetta di quel soffitto e quelle mura scintillanti.
Entrare nella Sala del Trono di Ade era come entrare nella reggia di un re minatore, come addentrarsi in una caverna piena di diamanti e pietre preziose. Forse era davvero così, forse quelle minuscole pietrine incastrate nella trama fitta del marmo non erano minerali semplici ma scintillanti pietre dure e rare, tutte quelle che la controparte romana del suo padrone poteva evocare a sé.
Plutone era il dio del sottosuolo e di tutto ciò che esso racchiudeva, che fossero beni materiali o anime, il suo palazzo ne era immagine perfetta.
Era una continua illusione quella che permeava le lande dell'oltretomba e che andava rispecchiandosi in ogni cosa, dalle luci mistiche dei fuochi galleggianti all'arida verità delle terre brulle; erano un'illusione i prati infiniti, coperti dalla Foschia che non permetteva a nessuno di capire dove finisse e dove iniziasse l'Ade. Era un'illusione l'opulenza preziosa di Plutone che si scontrava contro la povertà cruda della morte.
Illusione era anche il nome di quella stanza, così scura e nera, dove gli archi di marmo che delimitavano la sala non ti permettevano di capire se oltre di loro ci fosse un corridoio o un muro.
Nessuno aveva mai osato chiedere, nessuno aveva mai osato avvicinarsi ad uno di quegli archi e varcarlo, o almeno provarci.
Nessuno, tranne una persona.
Artemide posò lo sguardo sulla grande meridiana che si trovava al alto sinistro della Sala del Trono, dove un sole fantasma gettava un'ombra magica oltre la punta di metallo, di grezzo ferro dello Stige, scandendo i minuti in quel luogo senza tempo.
Non sapeva da quanto aspettava il suo venerabile zio, non aveva la più pallida idea di cosa stesse facendo il dio in quel momento, ma quella stasi la stava innervosendo. Non che non vi fosse abituata: era una cacciatrice lei, attendere il momento propizio era ciò che meglio le riusciva, ma in quel caso specifico l'attesa la stava tenendo lontana dal controllo della sua prova.

E per tutto il tempo in cui io non sarò lì a vegliare sulle anime chiunque potrebbe intervenire e fare il bello e cattivo tempo.

Ovviamente pensava ad una persona specifica, non c'era dubbio alcuno che quel suo allontanamento doveva esser stato motivo di gioia per quell'essere e non solo. Il grande rialzo al centro della sala, quello su cui era posto l'enorme trono nero dall'alto schienale, adornato con un sontuoso drappo cupo, era vuoto. E lo sarebbe rimasto per ancora molto tempo temeva, tanto quanto sarebbe bastato affinché l'altro facesse tutto ciò che voleva.
L'aveva fatta accomodare nella Sala del Trono, come da protocollo, come se quella fosse una visita ufficiale e in fin dei conto lo era, ma Artemide più di una volta si era recata da suo zio per questioni inerenti i semidei e le missioni, le profezie, e mai, mai, Ade l'aveva trattata in quel modo, formalmente. Che fosse per le centinaia di orecchie, di occhi, di telecamere, pronte a riprendere e mandare in mondo visione ogni singola parola che pronunciavano? No, Efesto non era così stupido e neanche così avventato da inserire spie nel palazzo di Ade, anche perché l'ultimo che aveva provato a spiarlo non era finito per nulla bene.
Artemide sospirò portandosi le mani dietro la schiena, poi davanti, incrociate al petto.
Non sapeva cosa fare e questo le dava incredibilmente fastidio.
Arricciò il naso e poi fece un gesto secco con la mano, un mal rovescio nell'aria che ebbe il potere di lacerarla e lasciare uno strappo lattiginoso nel nulla. Un secondo e quel bianco opaco si frammentò in una serie infinita di minuscole immagini. Un altro gesto della mano e la dea ingrandì quello in cui un enorme mastino nero e fiammeggiante scodinzolava felice davanti ad un ragazzone dai capelli rossi e la barba incolta. Artemide alzò un sopracciglio prima di ricordare, come in un flash, chi fosse l'anima, o meglio, di chi fosse figlia.

« Oh, non hai ereditato il giusto potere da tuo padre, ma a quanto pare te le cavi lo stesso.» sogghignò divertita. Ma il sorriso durò poco sul suo volto, nel preciso istante in cui riconobbe una delle discendenti divine di suo fratello il suo sguardo si indurì.
Erano molti i figli di Apollo, davvero tantissimi, ed erano molti quelli scomparsi e riapparsi durante la scorsa gara, alcuni perduti per sempre probabilmente. Se per qualcuno di essi ciò era positivo, per altri decisamente meno. Artemide ricordava fin troppo bene i figli più problematici del suo divino gemello, alcuni di loro erano riusciti a diventare eroi immortali, a trovare la propria via, un posto nel mondo, altri semplicemente si erano ritirati a vita privata, ai meno fortunati era toccata una morte improvvisa, che fosse durante uno scontro, una, guerra o una profezia. C'era chi aveva scelto il lato sbagliato, chi era stato corrotto dallo stesso animo violento che albergava in suo fratello, chi aveva sterminato popoli e chi aveva dato il nome alle costellazioni. E per sua esperienza personale, Artemide poteva dire con certezza che chiunque fosse finito tra le stelle non aveva mai fatto una bella fine.
Alzando lo sguardo al soffitto, nero e denso come la pece, Artemide si domandò quando altri esseri sarebbero divenuti immortali nel cielo, che fosse per memoria o per monito, chi sarebbe stata la prossima anima sacrificata al culto di Urano?
Un brivido le passò sulle spalle coperte dal piumino candido, il vago ricordo di voci roche e profonde, lontane come lo era la morte per lei, che chiedevano d'esser ascoltate, che chiedevano giustizia, che chiedevano libertà. Le stelle… nessuno di loro avrebbe mai potuto comprendere fin in fondo quanto fossero mistiche e potenti. Sperava solo che il giorno in cui il mondo se ne sarebbe accorto fosse il più distante possibile. Dovevano già occuparsi di un essere incontrollabile, non potevano preoccuparsi anche di altri, avrebbero perso di sicuro.

Un po' come temo stiamo facendo ora.

Chiudendo gli occhi argentati la dea cercò di mettersi in contatto con il suo astro, di aprire il suo pallido occhio su quel mondo che ora non poteva vedere, scrutando il suo stesso riflesso in una laguna nell'entroterra indiano, così bello eppure così effimero, come ogni cosa nel mondo mortale.

« Non dovresti pensar troppo al cielo, qui nell'altro mondo più agogni l'aria pura e la luce degli astri e più ne senti la mancanza, credimi.»
La voce bassa e lenta del Dio dei morti gli sfiorò delicata le orecchie, insinuandosi dentro la sua immortale coscienza e trasmettendole un senso d'abbandono, di disperata ricerca della libertà che lei, in tutta la sua esistenza, mai aveva provato. Era il grido agognante di un essere nato nella fulgida luce dell'oro e dei bianchi marmi che si era visto relegare per ben due volte in un antro oscuro dove neanche il più piccolo raggio poteva penetrare. Il ventre di suo padre prigione come le volte nere di quella cripta in cui viveva, eterno monito del suo posto.
Il più grande dei fratelli lontano nella più remota delle celle.
« Ed è possibile farlo?» domandò riaprendo gli occhi e scrollandosi di dosso quella viscida sensazione di oppressione.
Davanti a lei Ade si stagliava alto e fino, un cupo figuro dalle pallide membra che risaltavano ancor di più in tutta quell'oscurità. I lunghi e lisci capelli neri gli adornavano il viso come una tenda pesante, coprendolo così come facevano le vesti che indossava. Non era un abito di sartoria, qualcosa di mortale e mondano come ciò che indossava Zeus, come avrebbe fatto Apollo stesso e come alle volte facevano Poseidone, Ermes e Dioniso. Erano i loro abiti tradizionali quelli che portava, una lunga veste grigio cupo ed un drappo nero con un decoro a greca anch'esso grigio. Non portava gioielli sulle braccia parzialmente coperte dal drappo, non aveva anelli ed i suoi sandali erano semplici e neri come ogni cosa in quel palazzo. C'era solo un unico punto di luce ed era dato dalla sua corona, che delicata cingeva la fronte alta ed i capelli, un anello nero e lucido fatto d'intrecci e nodi, al cui centro spiccava una pietra ovale, così levigata da potervisi specchiar dentro. Le ci volle un attimo per capirlo ma poi la sua mente le trasmise chiaramente la natura di quel gioiello.

Tomalina nera.

Non era una pietra chissà quanto preziosa, non una di quelle che le genti di ogni epoca avevano premuto per avere. Ciò che c'era di importante in quella pietra era il suo significato.

Protezione.

Il Dio dei Morti necessitava di proteggersi, di schermarsi da tutto il dolore e le sofferenza che impregnavano il suo regno e tutti i suoi abitanti. Proteggersi dalla morte stessa.
« Ti interessa davvero, Artemide?» le rispose con tono piatto.
La dea drizzò le spalle con un misto di stizza e irritazione, ma dopotutto era una dea diretta e non poteva ignorare una domanda altrettanto diretta e provocatoria.
« Dovrò passare qui un po' di tempo, la terza prova è la mia, zio.» disse con alterigia, cercando di mettere formalità in quel discorso che già pendeva dalla parte dell'uomo.
Ade non parve molto colpito da ciò. « Sei sopravvissuta a cose peggiori presumo.»
Si mosse lentamente verso il suo trono, salendo con calma mortale quei gradini levigati che rialzavano l'imponente seduta dal resto del pavimento. L'altissimo schienale pareva fondersi con il muro, pareva esser esso stesso muro e sostegno di quella sala, il pilastro che reggeva il Palazzo di Ade. Ade stesso era quel pilastro ed Artemide lo sapeva fin troppo bene: quando un Dio cade cade anche tutto ciò che ha edificato, che ha creato. Ogni volta che Ade si sedeva sul suo trono la sua aura divina rinforzava quelle pareti di marmo, le lucidava, le aggiustava. Faceva splendere le superfici, costruiva nuove stanze, ne distruggeva di vecchie e ormai inutili, sollevava dal nulla una nuova ala, inspessiva la cinta muraria del Palazzo e quella Nera che racchiudeva i Campi di Pena. Gettava un occhio nell'abisso del Tartaro e respingeva a fondo tutte le amenità che cercavano costantemente di risalirlo.
Ade si sedeva sul suo trono e l'oltretomba diventava sempre più forte, sempre più grande, sempre più mistico ed antico come lo era il suo padrone.
Lo vide sedersi con leggerezza sul morbido rivestimento di seta, finissima eppure resistente come le volte del suo palazzo. Si sistemò la veste con un gesto consumato, poggiando poi stancamente i polsi sui braccioli d'osso e ferro nero. In quella posizione, con le spalle dritte, i lunghi capelli, la corona attorno alla fronte ed i polsi, solo quelli, poggiati in modo da tener i palmi rivolti verso il soffitto, Artemide rivide per una frazione di secondo un uomo mortale nella carne ma non nello spirito, un martire che aveva affrontato la crudeltà dell'uomo per dimostrargli che vi era del buono e della luce ovunque, che era stato sacrificato all'altare dell'odio e della paura, dando vita ad un moto di speranza che avrebbe scosso ogni popolo. Quello stesso uomo che tanto aveva fatto per poi veder il suo culto sporcato e calpestato, usato da altri uomini, sporchi nelle loro mani tanto quanto nei loro animi, tutto per far il loro gioco, per piegare il mondo alla propria volontà.
Il potere, il potere che tanto aveva dato e tanto aveva preso. Ma era così, no? Quanti tiranni avevano usato i loro di culti per soggiogare le proprie genti e quelle vicine? Quanti nell'Antico Egitto avevano sacrificato innocenti per aver i favori di divinità potenti? Ogni religione nasceva con il più alto e nobile dei fini, ma come tutto ciò che l'uomo toccava veniva poi corrotto e corroso fino a passar da speranza per i popoli a gabbia e frusta per quegli stessi che tanto avevano creduto e sperato.
Moltissime volte Artemide si era chiesta quale fosse lo scopo di metter al mondo nuovi esseri, nuovi culti, se poi gli esseri umani erano in grado di prosciugarli da ogni cosa buona e renderli un'arma contro i loro stessi fratelli, ma spesso a quel punto ricordava la sua famiglia, i suoi divini parenti, e si rendeva conto che forse, tra tutte le religioni presenti al mondo, la loro era quella che offriva più veridicità: gli Dei dell'Olimpo erano come gli uomini, preda delle stesse passioni, gli stessi sentimenti, lo stesso odio e cattiveria.
Nessuno di loro era puro e perfetto. Ognuno di loro si era bagnato nel sangue di miliardi di esseri di ogni tipo.
Ade, per quanto in quel momento potesse sembrargli il figlio degli uomini, non era diverso da tutti gli altri.

« Cosa posso fare per te, nipote.» chiese con quella sua voce laconica che molti aveva fatto uscire fuori di testa.
La dea della caccia strinse in denti per un attimo ed avanzò di qualche passo, fino a trovarsi davanti al trono. Ad un gesto di Ade una poltroncina dalla linea tondeggiante apparve proprio dietro di lei, come un silenzioso invito ad accomodarsi e spiegarsi con tranquillità.

« Credo tu possa immaginarlo.» iniziò lei sedendosi. Poggiò le mani sui braccioli e carezzò distrattamente la stoffa pregiata, di un color violaceo pesto, come un livido doloroso.
« Le tue richieste e le condizioni della tua gara sono state disattese?» domandò il dio.
Artemide scosse la testa in un movimento secco. « No, l'Area Cani è stata allestita esattamente come richiesto, i mastini si sono mantenuti al limitare opposto della zona fino al fischio d'inizio e Eolo ha anche avuto il tempo di fare quel suo stupido discorsetto. E tra parentesi, zio, penso che parecchie anime si siano risentite di quella storia dei voti.»
« Non è stata una mia idea, sai che è un'imposizione di Afrodite, ha battuto abbastanza a lungo e abbastanza intensamente i piedi affinché Zeus l'accontentasse pur di non sentirla più strepitare.»
« Afrodite sa come ottenere ciò che vuole, che sia con le buone o con le cattive.»
« Assolutamente.» soffiò con tono basso. « Cosa ti ha turbata allora? »
La dea ci pensò per un po', perché di turbamento vero e proprio non si poteva certo parlare, ma qualcosa che le era saltato all'occhio c'era di sicuro.
« Ho visto un paio di semidei particolari. Tre di essi di genitori che raramente hanno figli.» il sopracciglio destro che si alzava come a dire “ e a me interessa perché… ?” la fece continuare sbuffando. « Uno di questi è solitamente troppo coinvolto, l'altro è praticamente impossibile che riesca ad avvicinare una mortale con facilità e l'ultimo è spesso troppo impegnato.»
« Non mi sembra ci sia nulla di strano. Afrodite ed Eros sono costantemente troppo coinvolti e malgrado non si possa dire lo stesso del figlio, la madre ha uno stuolo di progenie mortale che fa concorrenza solo ad Ermes e a tuo fratello.»
« Uhg, ho visto anche un paio di figli suoi che non mi hanno convinto molto.» borbottò infastidita.
« Per quanto riguarda il problema dell'avvicinare difficilmente i mortali, ti ricordo che possiamo assumere le forme che vogliamo- »
« C'è sempre l'aura, per quanto possiamo nasconderla spesso anche i- »
« e che la volontà di un mortale nell'unirsi a noi è superflua. Tu più di tutti dovresti sapere come il consenso spesso non sia richiesto.»
Artemide digrignò i denti rabbiosa, mentre un moto di disgusto si apriva in lei.
« Non è una giustificazione… »
« Non voleva esserlo, è una costatazione dei fatti. Ricorda come sono nati molti di noi, ricorda cosa ha dovuto subire chi porta una corona.» disse fissandola con sguardo penetrante, riportandole alla mente quanto sporco ci fosse dietro a quelle bianche colonne che reggevano l'Olimpo.
« Quanto all'essere troppo occupati, malgrado sia una pratica per te non molto comune, so per certo che come tutti noi sei in grado di dividere il tuo divino essere e trovarti in più posti contemporaneamente.» concluse unendo le mani e portandole davanti al viso. « Quindi, cosa ti turba davvero? »
Artemide sospirò. « I loro poteri.»
« Abbiamo affrontato semidei di ogni portata, ad alcuni di loro abbiamo anche concesso l'immortalità.»
« Se tornassero sulla terra sarebbero pericolosi.»
« Solo loro? C'è un figlio di Vulcano che ha fatto beni danni nel Labirinto, lo hai visto? E quel figlio di Giove? La figlia di Nemesi che ha strappato gli occhi a quei mortali? Di loro non ti preoccupi? Non credi che potrebbero fare enormi danni una volta tornati in superficie?»
L'altra batté le palpebre. « Dimmi che con “Figlio di Giove” non ti riferisci a chi credo tu ti stia riferendo.»
Il sorriso che si aprì sul volto pallido di Ade fu inquietante e lugubre, come una maschera funeraria grottesca.
« Non hai saputo le nuove?» le chiese solo.
« Merda!» gracchiò chiudendo gli occhi e viaggiando veloce con il suo spirito, risalendo i piani infernali fino a sbucare dalle porte dell'Ade ed espandersi sulla terra mortale come una nube di gas. Quando riaprì gli occhi le sue iridi erano pallide e vuote come il riflesso della luna.
« Non credevo di vedere questo giorno tanto presto.»
Ade annuì. « Ti preoccupano ancora quei semidei? Hai intenzione di eliminarli?»
« Non dire sciocchezze!» si riprese velocemente, battendo il pugno sul bracciolo imbottito. « Non ho intenzione di barare in alcun modo, tanto meno di dirigere questa gara, di infrangere le regole, di fare ciò che voglio, anche se questa fosse la cosa più sicura da fare per il futuro. Abbiamo grandi eroi di sopra, se ce ne sarà bisogno se ne occuperanno loro.»
« Mandando così al diavolo l'intero senso di questa gara, quello di non crear ancora problemi ai nostri figli.»
Artemide lo guardò con serietà, una domanda spingeva contro le sue labbra e ormai sapeva di non poterla più trattenere. « È davvero per questo che è stata indetta?»
Lo sguardo che gli restituì suo zio era freddo come la pietra di quella sala. « L'abbiamo fatto perché alcuni di noi non sanno cosa fare quando non ci sono disgrazie e si stavano annoiando. Zeus per una volta ha avuto la buona idea di risolvere la cosa prima che degenerasse. Qualcuno ha trovato la giusta soluzione per non far altre morti inutili.»
Era quell' “altre” che pesava più di ogni altra parola in quel discorso, più dell'accusa di essere così pigri e oziosi da annoiarsi quando il mondo era in un periodo di pace – divina e semidivina almeno – e prosperità.
« È chi l'ha proposta che mi preoccupa.» si arrese finalmente a dire. « Hai visto cosa succede, cosa ha fatto… »
« Hai le prove che sia stato lui?» le domandò freddamente.
« No, ma non può essere stato nessun altro!» gridò alzandosi in piedi. « Alcune anime sono scomparse! I più pericolosi criminali dilaniati da essere invisibili! Altri che noi avevamo condannato ma che lui ha sempre difeso si sono salvati da fini certe, così come eroi che noi osannavamo ma che lui ha sempre odiato sono stati sconfitti brutalmente a confronto con mortali senza nessun potere! Ade, per l'Olimpo, sta facendo ciò che vuole e nessuno di noi si sta chiedendo il perché o fa nulla per fermarlo!»
La sua voce rimbombò per la Sala del Trono, insinuandosi negli archi e scomparendo in un eco infinito.
Un brivido la scosse: quindi ogni arco conduceva da qualche parte, era un labirinto quel dannato palazzo, un intricato gioco di canali e condutture, di corridoi oscuri da cui non sapevi cosa sarebbe fuoriuscito. Artemide sentì chiaramente centinaia di migliaia di voci ripete le sue parole, ridere sommessamente, sospirare, gemere per il dolore. Erano le anime imprigionate nei drappi sparsi per tutto il Palazzo, coloro che si erano dimostrate così orribili in vita da non meritare neanche i Campi di Pena ma l'infinito supplizio dei Palazzo di Ade, costrette per l'eternità a contorcersi nel dolore, filate e tessute assieme le une alle altre per esser contaminate dal disprezzo e dalle colpe delle proprie vicine.

« Cosa vuoi che ti dica, esattamente? »
Quel tono disinteressato, laconico che Ade aveva usato fino a quel momento si trasformò in una calma piatta e fredda.
La dea deglutì. « Vuoi farmi credere che non sai nulla? Che non ti ha detto nulla? »
Ade si produsse in una smorfia tra lo schifato e il divertito. « Non hai neanche il coraggio di dire il suo nome?» le prese in giro.
L'altra digrignò i denti. « Giordano Delle Vie. » ringhiò a voce bassa.
« Cosa?»
« Sai cos'ha in mente Giordano? Atena mi ha torturato con le sue supposizioni, ma non siamo arrivate a nulla di sensato.»
« Questo perché non lo avete mai capito. E pensare che un tempo tu gli stavi così simpatica… » sospirò scuotendo la testa. « Che Atena non riesca a comprendere le sue azioni è normale, ragionano su due frequenze completamente diverse.»
« Ha sempre usato la testa anche lui, malgrado spesso si sia fatto trasportare dai sentimenti e dall'istinto. »
« Assolutamente vero, ma la sottile differenza tra lui ed Atena, tra lui e tutti noi, è che Giordano pensa come un mortale.» si fermò un attimo per guardarla dritta negli occhi, « Malgrado possa sembrare assurdo, viste le premesse.»
« Che abbia sempre vissuto come un mortale, un mortale vero e proprio, neanche come un semidio, è cosa risaputa da tutti. Ma tu gli sei vicino più di chiunque altro, come puoi non immaginare neanche- »
« Puoi chiederglielo tu.» la interruppe. « Puoi andare da lui e chiedergli se è il responsabile della scomparsa di quelle anime, se ha qualcosa in mente, se c'è qualcosa di più dietro a tutto ciò, a quello che ha detto pubblicamente.»
Era una sfida, una provocazione bella e buona che entrambi sapevano non sarebbe mai potuta andare a buon fine. Anche se Artemide si fosse presentata con le più sincere e pacifiche intenzioni Gio non le avrebbe detto una sola parola di quello che avrebbe voluto sentirsi dire, o forse l'avrebbe fatto proprio per irritarla, per darle a bere una verità palesemente falsa.
« Sono finiti i tempi in cui correvo per i boschi assieme a lui, ora a mala pena mi tollera.» mormorò lei abbassando la testa.
Non vide lo sguardo di suo zio e forse per lei fu meglio così, ma sentì il tono della sua voce, le sue parole spietate e dirette, come le sue stesse frecce.
« Sai perché ti odia. Non posso dargli torto.» disse solo.
L'altra strinse i pugni frustrata. « Non è stata colpa mia! Non posso far sempre tutto allo stesso modo, non posso esserci sempre. Sono tra le divinità più impegnate, costantemente a caccia. Sono io quella che toglie dalle spalle dei semidei le missioni più pericolose contro i mostri! E quella volta più di tutte le altre non potevo far nulla!» scoppiò rialzando la testa, gli occhi argentati ardenti di una rabbia derivata tutta da un fallimento che le aveva tolto qualcosa che aveva imparato a dare per scontato.

E le cose che diamo più per scontate sono quelle che lasciano il vuoto più grande quando scompaiono.

Ade la guardò con biasimo. « L'amava come fosse sua, in un certo senso lo era. Non puoi aspettarti che tutto torni come prima, certe ferite hanno bisogno di tempo per guarire»
« Ma lo capisci anche tu che c'è qualcosa che non va, vero? Capisci che non lo ha fatto solo per non uccidere nessuno! Che c'è qualcosa di più grande e pericoloso che si nasconde dietro a tutta questa storia.» glielo chiese con voce quasi supplice, pregandolo di venir a ragione non per un suo interesse personale ma per qualcosa di più grande, per un bene supremo che non lo aveva mai guardato davvero ma che in quel momento necessitava del suo intervento, della sua di mano benevola che lo proteggesse da qualunque cosa Giordano Delle Vie stesse macchinando.
Il dio dei Morti però non sembrò minimamente toccato dalle sue parole, rimanendo algido e impassibile come i bei volti delle statue nei mausolei.
« Ovviamente. Soprattutto perché di morti, in questa gara, ce ne sono davvero molti.»
« Non far stupide battute! È una situazione seria e delicata!»
« Non ne faccio.» rispose duro. « Sono sparite per sempre migliaia di anime, cancellate dalle Terre dell'Ade così come dalla faccia della Terra, lo hai detto tu stessa. Così come avrai notato l'ombra che si aggira per le mie lande.»
Artemide sospirò stremata da quella conversazione. « Allora perché non fai nulla?» chiese infine senza la speranza di ottenere una risposta veritiera.
Gli occhi di Ade, neri e freddi come le pietre d'onice, parevano ora quegli stessi archi che adornavano la Sala del Trono, capaci d'esser null'altro che una mera illusione così come infiniti corridoi, cunicoli contorti in cui chiunque si sarebbe perso.

« Perché nessuno può. Né io né te.»

Erano solo un accenno, una piccola anteprima, dell'abisso del Tartaro.

« E soprattutto, perché non voglio.»

 

*

 

In tutta la sua vita non avrebbe mai creduto che un giorno, nella morte, si sarebbe ritrovata a fissare con sconcerto un gigantesco cane che, sdraiato con le zampe all'aria, attendeva che lei gli grattasse la pancia. E soprattutto, non si sarebbe mai sognata che il problema principale sarebbe stato come carezzarlo visto che andava a fuoco.
I mastini infernali continuavano a farle paura, quelle sporgenze ossee e quelle fiamme d'intensità diverse, il fumo che fuoriusciva dalle narici, tutto continuava ad essere spaventoso e potenzialmente mortale. Se non fosse che lei era già bella che morta. Ma da un pezzo ormai. E pure in modo non troppo felice.
Elena allungò la mano titubante per poi ritrarla velocemente quando, scorta dal mastino, questo cominciò ad agitarsi per l'impazienza.

 

« Guarda che se continui a muoverti non ce la faccio a farti i grattini, sei già enorme e malgrado io sia alta non riesco a superarti, se poi ti agiti in questo modo mi brucio invece di farti le coccole! » Non si sarebbe mai sognata neanche di discuterci con un mastino e di farlo sotto lo sguardo divertito di un ragazzone dalla barba rossa.
« Stai entrando in sintonia con lui, freme per aver una carezza, accontentalo. » Le disse con voce morbida Úranus.
Lea alzò un sopracciglio. « E bruciarmi un braccio? »

« Non eri tu quella che sapeva curare le bruciature? » domandò lui retorico.
La ragazza lo guardò sgranando gli occhi e facendo una “o” perfetta con la bocca, l'espressione divertita, piacevolmente sorpresa da quella che era palesemente una battuta.
« Úranus! Mi stai prendendo in giro?!» chiese allegra.
L'altro si strinse nelle spalle. « Non mi permetterei mai, sai che non sono persona da queste cose. » ma il sorriso che gli tirava leggero le labbra sembrava dire l'esatto contrario.
Da quando era cominciata la gara poche volte avevano avuto l'opportunità di esser così tranquilli e rilassati, per quanto lo si potesse esser nel cercare di far le coccole ad un cane in fiamme. In effetti il problema principale non era il mastino in sé, ma il fatto che, qual ora provasse una forte emozione, emanava dal suo stesso corpo fuochi più o meno intensi. Ve ne era comunque uno abbastanza costante attorno al collo e Lea poteva giurarci che la medaglietta fosse proprio in quella fiammata aranciata che fuoriusciva dalla pelle nera.

Úranus si era tirato indietro e l'aveva lasciata sola con il mostro, spiegandogli che fosse meglio così, che fosse lei a stringere più amicizia con il cane in modo da prendere la medaglia per prima.
« Non hai qualche consiglio, vero? » gli chiese Lea guardandolo con la coda dell'occhio.
Il ragazzone si strinse ancora nelle spalle. « Posso solo dirti che dovresti riuscire a calmarlo, ora come ora è molto emozionato anche solo all'idea di esser carezzato. Non devono ricevere molto amore i Mastini Infernali, spaventano le genti, le allontanano. Ma se riuscirai a fargli capire che deve mantenere la calma le sue fiamme dovrebbero abbassarsi. » le spiegò con un'espressione dispiaciuta, conscio di non poter far di più a meno che non si fosse avvicinato lui stesso.
Quella, ad esser onesti, era la migliore prospettiva che Lea potesse immaginare.
« Facciamo così, vieni tu qui, mi aiuti a calmarlo e poi io gli faccio i grattini sotto il mento. »
L'altro la guardò titubante. « Credi potrebbe funzionare? »
« Peggio non andrà di certo! Gli piaci di sicuro, magari anche più di me!»
Úranus scosse la testa. « Gli animali sono sempre più attratti da una mano gentile e le donne, di ogni età, appaiono sempre più amorevoli, più caritatevoli. Gli esseri di ogni specie lo percepiscono e si comportano di conseguenza.»
« Però tu sei speciale, no? »
Senza sapere cosa rispondere, perché no, lui non era speciale, non più di chiunque altro, ma in realtà sì, lo era perché era un semidio e perché suo padre aveva questa strana intesa con gli animali e la natura e- Úranus sospirò sconfitto e si avvicinò a passi lenti al mastino, che alzò subito la testa e si mise sdraiato composto fissando il ragazzo dai capelli rossi venirgli incontro.
Úranus alzò di nuovo le mani, per farsi vedere indifeso ed inoffensivo, e si abbassò al livello del mastino per farsi annusare nuovamente.
« Questa volta ti sarei grato se non infilassi il tuo muso sotto le mie vesti.» sorrise impacciato.
Sorprendentemente il gigantesco cane nero parve capirlo alla perfezione, perché allungò il muso oltre la sua mano e lo posò con uno sbuffo fumoso sulla gamba poggiata a terra.
I due semidei rimasero un attimo interdetti, indecisi su cosa fare, su come comportarsi, ma poi, lentamente, le fiamme iniziarono a diminuire d'intensità, a ad affievolirsi sino a scomparire.
Úranus batté le palpebre sorpreso.
« Non mi vuoi bruciare… » constatò in un sussurro che neanche Lea riuscì a sentire.
Gli occhi lucidi e profondi del mastino si fissarono dritti nei suoi, uno sguardo silenzioso ma incredibilmente carico di parole, qualcosa che il giovane aveva già visto centinaia di anni fa.
Con una stretta al cuore Úranus allungò una mano posandola sul muso del mastino in una carezza delicata e gentile, pregna di una malinconia che alle volte, anche nella morte, anche in ciò che c'era di più vicino al paradiso, lo colpiva ancora.

« Stai cercando di comunicare con me, vero? Cerchi di parlarmi, ma io non ti comprendo. Mi spiace, mi spiace tantissimo ma non posso udire la tua voce anche se tu odi la mia e la comprendi così bene.»
Il cane continuò a fissarlo e nessuno dei due, né il semidio né il mastino, si accorsero di quando Lea, sportasi con cautela, aveva aperto con delicatezza il moschettone che teneva una medaglietta rettangolare, dai bordi squadrati, appesa ad una catena di Ferro dello Stige.
La giovane si ritrasse con altrettanta lentezza, colta da una zaffata di profumo che le ricordò gli incensi che venivano usati in chiesa durante le messe, ai funerali, l'odore acre delle camere ardenti, come quella di Suor Silvia, un'anziana sorella del suo convento che era venuta a mancare quando lei aveva poco più di sei anni.
Con gli occhi lucidi di una nostalgia, di un dolore sordo, un rimpianto che non erano suoi o che forse lo erano stati, Lea si mise a sedere a terra, lo sguardo perso nel vuoto, senza riuscir a vedere davvero la terra brulla e battuta su cui era crollata.
C'erano dei flash accecanti dietro le sue pupille, come lo scatto di una macchina fotografica, che ti costringeva a tenere gli occhi spalancati e rimanere immobile per interi minuti nell'attesa che la pellicola s'impressionasse. Le pareva quasi di esser tornata piccola, di trovarsi ancora tra tutte quelle bambine nel giardino dietro i dormitori, quando tutte in fila e perfette nei loro grembiulini bianchi, attendevano che il fotografo sistemasse la camera ed il tre-piedi.
Per un lunghissimo minuto le girò la testa, vorticò come se l'avessero messa dentro una botte e poi spinta giù per una discesa, come si faceva con il vino. Quando riaprì gli occhi che non si era resa conto di aver chiuso, non era più negli Inferi ma di nuovo a casa sua, con i piedi ben piantati sul vecchio pavimento del corridoio che collegava i loro alloggi allo studio di Giuseppe. Le piastrelle erano grandi quadrati di pietra rosea piena di piccolissimi sassolini grigi, bianchi, neri, marroncini e trasparenti. Era bello quando il sole ci splendeva sopra, sembrava di trovarsi vicino ad una spiaggia, con i raggi che si riflettevano su tutti quei minuscoli cristalli. Giuseppe una volta l'aveva portata al mare, per una vacanza, ma solo una volta: Milano era troppo lontana dalla costa e all'aria aperta, con la calura e le brezza marina, potevano arrivare mostri da ogni dove.
Quella volta però suo fratello non le stava dicendo che non l'avrebbe più portata in vacanza, che non le avrebbe più fatto vedere il mare. Era cresciuta, era grande ormai, aveva quindici anni, una donna quasi, e Giuseppe la guardava con rammarico, dispiaciuto per qualcosa che forse aveva capito meglio di lei, che non voleva dirle ma che le avrebbe comunque raccontato. Gli occhi sempre così sicuri di suo fratello erano velati di malinconia, la stessa che le stava opprimendo i polmoni come il fumo di un camino intasato. Giuseppe la guardava e le diceva qualcosa che non avrebbe mai voluto sentire.

 

« Mi spiace Lea, purtroppo non c'è stato nulla da fare. »
« Ma noi- noi possiamo - »
« No. No, non possiamo fare nulla. »
 

Aveva tentennato, cercando le parole giuste per spiegarsi, per convincere suo fratello a fare armi e bagagli ed avventurarsi anche loro alla missione, ma l'uomo l'aveva preceduta.

 

« Non è scomparso, non è prigioniero, non è disperso. È morto, Elena, l'hanno ritrovato. Non possiamo fare più nulla se non bruciare un'offerta per la sua anima e pregare che i Giudici abbiano di lui buona cura. Non aver rimpianti, sorella, non avresti potuto comunque far nulla, né io né te, non era la nostra guerra. Questa è la vita di un semidio. Questa è la nostra vita.»

 

Il mondo girò ancora e ancora. Giuseppe scomparve in un vortice nero e fiammeggiante, mentre il pavimento lucido e lisci tornava ad essere terra e due braccia forti la sostenevano con delicatezza.
Quando il suo sguardo vacuo rimise a fuoco la realtà, Lea si ritrovò a fissare il volto preoccupato di Úranus ed il muso indecifrabile del Mastino Infernale.
Sentendo qualcosa di solido e fino stretto nella sua mano abbassò gli occhi ed aprì lentamente le dita: sul palmo pallido giaceva una targhetta su cui era raffigurato il profilo stilizzato di una donna con una corona sulla fronte ed un arco teso verso il cielo.
Per Lea la terza prova era ufficialmente finita.

 

*

 

 


Dopo un'iniziale carica in massa i mastini si erano calmati e dispersi un po' ovunque.
Alcuni sonnecchiavano tranquilli a terra, altri si divertivano a rincorrere povere anime terrorizzate, ce ne era persino qualcuno che, rilassato, si mordicchiava la coda cercando di pulire le scaglie ossee che vi fuoriuscivano.
Il problema quindi non era trovare un mastino per prendergli la medaglia, non era neanche prendere la medaglia di per sé. Il problema principale, assolutamente non calcolato da nessuno, era che i mastini non li puntavano, anzi, li scansavano proprio.

« Mastini di merda… »
« Hai detto nulla Cade?»domandò Jonas voltandosi verso l'altro.
Il rosso si profuse in un enorme e assolutamente falso sorriso angelico. « Assolutamente no, perché ? Senti le voci? Se ti danno dei numeri fortunati scriviamoli, così chi di noi torna su lì può puntare al gioco d'azzardo. La fanno ancora la corsa sui cavalli? Dimmi di sì!»
Jonas sospirò storcendo il naso ed ignorando completamente il compagno.
Non sapeva, sinceramente, se preferiva rivederlo così, bello pimpante, sornione e assolutamente inopportuno come sempre, o se gli mancava il silenzio che li aveva accompagnati per tutto l'inizio della gara.
Avevano corso per un bel po', cercando di scappare dai Mastini Infernali che erano arrivati in massa gli Dei solo sapevano da dove, quindi malgrado fossero stati tutti parecchio zitti erano comunque stati circondati dalle urla di tutte le altre anime che, terrorizzate, cercavano di fuggire nella calca generale.
Jonas doveva anche ammettere che se non fosse stato sempre per il tipo di fianco a lui, che un paio di volte l'aveva riafferrato per un braccio e trascinato in aria in un salto che aveva del fantastico, probabilmente si sarebbe schiantato addosso a qualche altro concorrente o si sarebbe fatto calpestare da un cane di fuoco.
Anche se questa volta non era stato minimamente imbarazzato dalla cosa, forse perché, in tutto ciò, nulla avrebbe mai potuto battere Cade che prendeva Nathan da sotto le braccia e lo sollevava in aria assieme a sé con un bellissimo coro di bestemmie provenienti dritte dritte dal biondo.
Sì, decisamente Nathan, il grande soldato ed eroe figlio di Ares, che veniva sollevato alla stregua di un moccioso scalpitante da Cade era ciò di più bello che avesse visto fino a quel momento.
Ora che le acque si erano calmate però, e che loro avevano finalmente ideato un piano per catturare i mastini, era sorto quel non piccolo problemuccio da niente.

Ci evitano. Neanche provano ad attaccarci o a ringhiarci, appena ci avviciniamo si alzano e se ne vanno, stiamo riuscendo ad aprirci un varco in mezzo a loro quando invece li vorremmo prendere.

Come fosse possibile e soprattutto perché era diventata la domanda del momento.

« Comunque, secondo me, gli sta sul cazzo il biondastro. Li fissa tutti male, come se li volesse scuoiare vivi. Ci credo che quelli ci evitano!» Disse indicando con il pollice il giovane alle sue spalle.
« Vaffanculo rosso!» arrivò subito potente e piccata la risposta di Nathan.
« Non ricominciate!» tuonò tempestiva Eliza.
La donna se ne stava ferma immobile, con le braccia incrociate, a fissare un gruppo di mastini che dormivano su quello che, presumibilmente, era diventato il loro punto di accumulo provviste. Non sapeva come fosse possibile ma pareva che i mastini dell'Ade potessero mangiare le anime, o per lo meno quelle in gara. Banchettavano tranquilli per i fatti loro, ma non appena si avvicinavano loro si alzavano e se ne andavano.
Assottigliando lo sguardo Eliza provò a fare qualche cauto passo avanti, non troppo lungo e soprattutto cercando di far meno rumore possibile. Dato che il mastino che aveva puntato non dava segno di essersi accorto di lei, si mosse ancora.

« Cosa sta facendo Elizabeth?» chiese Jane aggrottando le sopracciglia.
Nathan, a cui la ragazza aveva parlato praticamente nell'orecchio, saltò indietro imprecando a mezza bocca.
« Porca puttana, non spuntare fuori così all'improvviso!» le disse ringhiando.
Jane sogghignò sorniona. « Non dirmi che ti ho colto alla sprovvista? Ti ho forse spaventato?»
« Hai messo paura al biondastro? Andiamo, ragazza delle praterie, sei già abbastanza inquietante di tuo, se mi ti avvicini di soppiatto è ovvio che poi il bambino mi si stranisce!» proruppe divertito Cade rifilando a Jonas l'ennesima pacca che per poco non lo mandò lungo a terra.
« Che dici? La smetti tu invece di prendermi a pizze ogni volta?!» Il tono del ragazzo uscì spaventosamente simile a quello di Nathan, con la stessa intonazione rabbiosa che parve il ringhio di uno di quei mastini che nessuno di loro riusciva ad avvicinare. Cade e Jane se ne accorsero al volo, scambiandosi forse il primo sguardo d'intesa da ché si erano conosciuti.
« Uh, sembra che abbiano gli stessi modi di fare.» constatò la ragazza.
« Perché sono tutti e due biondi. Ehi, da te si diceva quella cosa sui biondi?»
« Cosa?»
« Che sono stupidi!»
« Dillo di nuovo, rosso di merda, e ti do un pugno così forte da romperti il naso!» tuonò Nathan.
« Stupido lo dirai a tua sorella!» gli fece eco Jonas assottigliando lo sguardo e serrando i pungi.
Sul volto pallido di Cade si aprì un sorriso che oscillava tra l'inquietante ed il minaccioso, qualcosa che Jonas non si era mai visto rivolgere, non dall'Irlandese.
« Beh, se la trovo da queste parti potrei anche provarci, peccato che non abbia la più pallida idea di cosa sia diventata da grande.»
Con una smorfia crucciata Jonas chiuse gli occhi maledicendosi da solo. Nathan, ora al suo fianco, storse la bocca e fece per dargli una pacca sulla spalla, per dirgli che non poteva saperlo, ma si bloccò a mezz'aria, il movimento interrotto dall'imbarazzo dilagante che si portava dietro da prima.
« Capita di spararla grossa, non farne un dramma.» disse comunque a bassa voce, osservando Cade voltarsi e trotterellare allegro verso Eliza che, nel mentre, continuava a piccoli passi ad avvicinarsi ad un mastino. Che fosse effettivamente felice però Nathan ne dubitava fortemente.
« No.» lo riportò al presente Jonas, « Lo sapevo invece.» tentennò per una attimo, sembrava volesse dir qualcosa di importante ma che ne avesse quasi paura, un dubbio che forse temeva Nathan avrebbe deriso.
Assumendo una posizione più eretta e sicura di sé, il soldato puntò lo sguardo dritto sulla schiena di Eliza e chiese con voce ferma, quasi fosse un ordine: « Cosa c'è?»
Jonas non lo guardò, rimase anche lui a fissar l'Irlandese e la figlia di Nike che si avvicinavano sempre di più e apparentemente senza problemi, al mastino sdraiato lì vicino.
« Tutta questa situazione.» iniziò con tono vago ed incerto, « Quando ho visto il cancello io- ero io quello ad aver problemi, non lui. Cade mi ha aiutato. Non so perché, ma lo fa sempre, sin da quando mi ha visto la prima volta. » sentiva un nodo alla gola, sentiva quanto fosse importante dire a Nathan che Cade era molto più di quello che appariva, che gli aveva salvato quella finta vita infinita che stavano vivendo. Al contempo sentiva anche di non dover dir tutto, di doversi tenere alcune cose, alcune impressioni per sé.
La verità era che di quel folle rosso aveva imparato, non sapeva bene come neanche lui, a fidarsi in modo quasi cieco, mentre del soldato ancora non si fidava, non del tutto, non per tutto. I soldati, ai suoi tempi, non erano belle persone, ti deridevano, ti facevano angherie di ogni tipo, ti spintonavano, ti insultavano e ti picchiavano. I soldati, ai suoi tempi, uccidevano il tuo vicino e tu dovevi star zitto e fingere anche di esserne felice. I soldati, ai suoi tempi, ti uccidevano e potevano farlo anche senza nessuna scusa, ma nel caso ne servisse una ne avevano sempre tantissime tra cui scegliere.
Nathan non era uno di quei dannati mostri vestiti di nero, ma non aveva la più pallida idea di come fossero diventati gli americani, di come fosse quel futuro che non aveva mai visto.
« Dice che è istinto da fratello.» borbottò Nathan.
Jonas sorrise amaramente. « E io sono riuscito a far una battuta su sua sorella.»
« Quindi ne aveva davvero una?» domandò quello senza reale interesse.
Il ragazzino annuì. « Più piccola, non so di quanto di preciso. Sperava di rivederla una volta tornato in vita ma… da quel poco che mi ha detto, non ci siamo più con i tempi.»
Nathan annuì. « Poi?» chiese ancora assottigliando lo sguardo per metter bene a fuoco Eliza che dava una manata sul petto a Cade per fermarlo dall'avvicinarsi troppo al Mastino Infernale.
« Da quando siamo arrivati sotto quel palco… quando ha visto le Cacciatrici credo, è diventato molto più cupo. Non so come si sia comportato con voi prima ma ho come la sensazione che questa prova non faccia per lui.»
« Correre dietro alle cose sembra piacergli. » rispose con un grugnito infastidito. « e anche trascinarsi dietro le persone a quanto pare.»
Jonas sorrise mesto. « Già. Non è bellissimo correre
Il silenzio che si frappose tra i due era inquieto, tipico di chi non sa cosa dire, non sa come dirlo.
Jonas continuò a guardare gli altri due compagni finché non si ricordò che in quella strana combriccola erano in cinque.
Volse la testa a destra e manca ma si rese conto ben presto che Jane era circa dieci metri dietro Eliza e Cade. La vedeva protesa in avanti, a bisbigliare qualcosa ai due impavidi probabilmente, senza però avvicinarsi come stavano facendo loro.
Nathan anche se ne accorse, gettò uno sguardo a Jonas, uno di nuovo a Jane e poi tornò alla sua posizione iniziale.
« Quando siamo arrivati qui, » iniziò attirando l'attenzione dell'altro, « quando il deficiente ci ha detto di fermarci perché stavi male- »
« Non stavo male.» rispose subito piccato.
« come ti pare- quando ci siamo fermati, comunque, la ragazza delle praterie ha detto che “non stavi male” per colpa del cancello, che ti ricordava quello dei Campi di Pena.»
In un secondo un freddo denso e umido avvolse Jonas, una sensazione di vuoto nello stomaco, la voglia di vomitare anche se non aveva più niente da rigettare, neanche succhi gastrici. Un leggero sudore freddo cominciò ad imperlargli la fronte, ad appiccicare la camicia alla schiena. Chiuse gli occhi e deglutì a vuoto.
Lo sapeva, sapeva che sarebbe arrivato il momento in cui uno di loro avrebbe chiesto spiegazioni, avrebbe preteso risposte. Era stato troppo fortunato fino a quel momento, aveva avuto modo di parlare solo con Cade che si era sostanzialmente fatto gli affaracci suoi, ma ora era con Nathan e lui non aveva l'aria di uno a cui sarebbe andato bene un “non sono affari tuoi”, e neanche l'aria di uno a cui potevi dire balle. Jonas non aveva il coraggio di guardarlo in faccia, di dirgli che sì, veniva dai Campi di Pena, non aveva il coraggio di dirlo a testa alta, di dire perché c'era finito, quale fosse il suo crimine, quale fosse il suo peccato, dove fosse stata reclusa la sua anima per l'eternità.

VIII Terrazza. Codardi. Coloro che in vita sono fuggiti anche da ciò che amavano per paura di non poterne affrontare le conseguenze, coloro che hanno abbandonato il campo per paura di morire, che hanno finto di non conoscere, non sapere, non vedere, non udire per paura di qualcosa di più spaventoso della dannazione eterna. Coloro che fuggono, da ogni tipo di evento.
Codardi.

Come me.

Voleva fuggire, andarsene il più lontano possibile da quel giovane uomo e dalle sue domande, non voleva vedere la pietà, il biasimo, l'orrore ed il giudizio negli occhi di un'ennesima anima. Voleva solo andarsene come il codardo che era e che sempre sarebbe stato.
C'era una rabbia repressa che gli batteva contro lo sterno, al ritmo impazzito di un cuore che non aveva più, qualcosa che si mischiava alla paura di essere giudicato, di esser allontanato e disprezzato, di non essere, ancora una volta, ciò che ci si aspettava lui fosse.
Avrebbe voluto urlare, battere i piedi, prendere a pungi quel bel biondo tutto serio e fiero e dirgli che lui non sapeva niente, che non poteva dirgli nulla, che non conosceva la sua vita. Avrebbe voluto dirgli tutte quelle cose anche se fino a quel momento Nathan si era limitato a far una piccola constatazione e non aveva aggiunto altro, aspettando con pazienza una risposta che forse non sarebbe mai arrivata.
Chiudere gli occhi, piangere disperato e gettarsi a terra sperando che nessuno lo vedesse.
Non voleva parlare, non voleva dire, non voleva ammettere.
Poteva tornare a casa ora?

« I-io… »
« Non so perché ci sei finito e- e non mi interessa.»
Jonas lo guardò allucinato, voltandosi di colpo e ritrovandosi a fissare il profilo aquilino del biondo.
Aveva tentennato? Il grande figlio di Ares? Cosa?
« Sono stato in guerra, ci sono morto, so che- ho visto persone rette e giuste fare un singolo passo falso e gettare al vento la reputazione e le azioni di una vita. Ho rivisto quelle persone qui negli Inferi, le ho viste giudicate colpevoli e gettate nella fossa solo perché come ogni essere umano hanno avuto paura in un momento di debolezza. » continuò a voce bassa, ben modulata, « Perciò, fintanto che ti comporti come si deve, che fai la tua parte, che non crei problemi, e dubito fortemente che tu possa crearne più di quel roscio del cazzo, allora continuerà a non interessarmi, però… che mi piaccia o no, che ci piaccia o no, ora siamo una squadra, dobbiamo contare gli uni sugli altri, arrivare ad esser solo noi in gara e poi combattere gli uni contro gli altri per far sì che l'anima più degna torni a camminare sulla superficie di questa terra. Non so neanche come sei cresciuto o da che epoca vieni, ma impara che quando hai un problema e fai parte di un gruppo, il problema diventa di tutti. Né io né Eliza ti diremo nulla, siamo entrambi pronti a darti un'opportunità, il beneficio del dubbio, ma sappi anche che alla prima mossa falsa ti ritroverai tra due fuochi.» quell'ultima frase l'aveva detta con un po' più di forza, come se stesse cercando di comportarsi come sempre, con lo stesso tono perentorio e arrabbiato.
L'aveva accettato, in un qualche modo, gli aveva detto che gli andava bene girare e combattere al fianco di un dannato, aveva… aveva semplicemente detto okay. Certo, poi l'aveva anche minacciato, ma questo era il minimo e-
« Anche se » si fermò, tenne lo sguardo su qualcosa, su qualcuno, e poi, finalmente, lo guardò negli occhi.
Una luce verde brillò nelle iridi ghiaccio di Jonas, una brezza lontana, profumata di fragole e acqua salmastra, gli arrivò dritta al cervello, come un lontano ricordo, qualcosa di amato e ormai perduto.
Dietro il ragazzino un campo coltivato costeggiava una vecchia casa coloniale dall'intonaco bianco. Sulle scale un cesto vuoto. In mezzo ai campi una figura sfocata, con una maglia chiara ed un cappello di paglia a coprire il capo scuro.

 

« Nathan? Mi dai una mano?»

 

Una risata sbiadita.
 

« Non è proprio il tuo forte fare discorsi lunghi ed articolati. Su, dai, dillo a parole tue, è sempre meglio quando dici le cose così come stanno, semplici, dirette.»
 

Clangore di metallo in lontananza, il vociare placido di decine e decine di voci, il suono fantasma di una cedra e di un flauto a canne.
 

« Non sono le persone forti quelle di cui devi temere l'ira. Ho imparato che spesso, le persone più spaventose e terribili quando s'arrabbiano, sono quelle che di solito sorridono sempre, quelle sembra non abbiano un solo problema nella vita e che invece tengono un peso enorme sulla schiena. Se hai un amico del genere non tradirlo: lui ti darà anche il cuore ma se tu glielo spezzi, lui spezzerà te.»
« Cazzo se non sei melodrammatica.»
« Cazzo se non sai come rovinare l'atmosfera!»

 

« Anche se, malgrado non mi piaccia ammetterlo e negherò di averlo detto anche a costo di finire io nei Campi di Pena, ho la vaga sensazione che quello che non ti conviene tradire sia proprio Cade.»
Jonas continuò a fissarlo in silenzio, abbassando il capo per poi rialzarlo subito dopo, animato da un qualche pensiero, uno spirito d'orgoglio che improvvisamente si era rifatto vivo in lui.
« Non sono quel genere di persona. » disse sfrontato. « Non è per quello che sono finito all'Inferno.»
Nathan annuì. « Buon per te, ma non fregare comunque il rosso.»
Un grugnito simile ad uno sbuffo divertito scappò dalle labbra pallide del tedesco.
« Il Grifone.» disse solo.
« Cosa? Che c'entra mo?»
L'altro scosse la testa. « Nulla, è solo il soprannome di Cade. Dice che lo chiamavano così.»
« Perché rompeva il cazzo come quelle bestie del demonio?» chiese infastidito.
Suo malgrado Jonas si ritrovò a sogghignare. « Ne hai conosciuti molti?»
« Un allevamento. Una missione di merda. Se il pazzo è stronzo solo la metà del nome che si è scelto allora siamo davvero nella meda.»
Facendosi scivolare le mani in tasca Jonas si strinse nelle spalle. « Non se l'è scelto, dice che glielo hanno dato.»
« E chi? Il grifone per i mortali è un essere mitologico forte e figo, chi è lo scemo che c'ha chiamato lui così?»
« E che ne posso sapere io?» sbottò infastidito. Poi tornò serio. « Ma forse sarebbe più logico chiedersi “perché l'hanno chiamato così”?»
Nathan gli lanciò un'occhiata di sbieco, pronto a rispondere quando un'imprecazione degna non del figlio, ma di Ares stesso, li costrinse a rigirarsi verso i loro compagni.

« MA PORCO DI QUEL DI-!»
« CADE!>

 

Jane se ne stava seduta a terra, le gambe piegate sotto il sedere e le braccia incrociate al petto. Con il capo voltato di lato e quell'espressione arcigna pareva la replica di un moccioso appena beccato con le mani nel barattolo della marmellata e sgridato a dovere.
Togliendo la marmellata, la verità non si discostava troppo dall'apparenza.
Il rosso malpelo non faceva altro che camminare avanti e indietro borbottando qualcosa in una lingua che non conosceva e che per quanto la riguardava poteva anche esser un qualche rito satanico.
Ugh, era lei la strega li in mezzo, doveva smetterla di farsi cogliere da quei frammenti di passato che le si accendevano nella mente come ciocchi scoppiettanti.
La cosa peggiore era che, per una volta, Cade aveva tutto il diritto di arrabbiarsi con lei e di lamentarsi a dovere.
Ignorando completamente l'Irlandese che imprecava in quello che, a questo punto, doveva essere proprio l'idioma delle sue terre natie, Eliza ne se stava ritta e pensierosa davanti a lei e gli altri due biondi, le braccia sui fianchi e l'aria di chi finalmente aveva capito qualcosa.

« Eravamo arrivati praticamente davanti a lui, si era accorto di noi e ci stava guardando, ma pareva anche essersi reso conto che non eravamo una minaccia, che non gli avremmo fatto del male.»
« Non è come se potessimo scegliere se fargliene o meno, Artemide ha vietato di ferirli.>
« Ha vietato di ucciderli, il che è ben diverso.»
« Ne sei sicura? A me pareva avesse detto che non dovevamo proprio ferirli in alcun modo… »
« Quello che ha detto ha detto! Non è questo il problema!» sbottò Cade fermandosi solo per ringhiar malamente il suo pensiero.
Nathan alzò un sopracciglio. « Se ti rode il culo grattatelo.»
« Se volevo la tua opinione te la chiedevo!»
« Se non vi state zitti vi do un pungo in bocca a tutti e due!» lì zittì Eliza fulminandoli con lo sguardo.
« Non è colpa mia se al cretino girano le palle da quando siamo entrati qui.» borbottò il soldato con una smorfia.
« Mi girano solo perché, a quanto pare, questa prova del cazzo non la possiamo fare tutti assieme aiutandoci a vicenda, perché se no sarebbe troppo facile Dei dell'Olimpo! Ma saremo costretti a farla tipo in due! E poi voglio sapere come gliela facciamo prendere a lei la dannata medaglietta!» proruppe poi in direzione di Eliza indicando però Jane.
Jonas dal canto suo aggrottò le sopracciglia. « Qual è il problema quindi? Jane non può avvicinarsi ai cani?»
La figlia di Nike fece un gesto secco con la testa, ma fu di nuovo Cade ad intervenire:
« Esatto! Non è che puzziamo e per questo i mastini si scansano, è che non vogliono Lei! C'eravamo arrivati così vicino, non ci stava dicendo niente, ci guardava incuriosito. Poi arriva lei e BUM! Il dannato cane infuocato si alza come una furia e scappa. SCAPPA! » urlò calciando la terra.
Eliza lo guardò sospirando. « L'ha presa bene, sì.»
Il problema quindi era abbastanza semplice: i mastini dovevano fiutare in un qualche modo la magia di Ecate e per questo si defilavano non appena la figlia gli si avvicinava.
Nathan però scosse la testa, i mastini non avevano mai avuto paura dei figli di Ecate, quindi forse il problema non era da chi discendeva, ma da dove veniva.
« Potrebbe essere l'odore delle Praterie a dar loro fastidio.»
« Ma c'abbiamo camminato tutti, per ore o giorni che fossero. » disse Jonas.
« O minuti. Non sappiamo come passi il tempo qui.» gli fece notare Eliza.
« Allora cos'è ?»

« E se fosse l'aura?» La voce ancora un po' gracchiante di Jane fece catalizzare tutta l'attenzione su di lei che sogghignò sinistra. « Mi hanno detto che ho un animo un po' vendicativo, magari lo sentono e gli da fastidio.»
« O magari si sono solo resi conto che sei una pazza psicopatica, chi può dirlo.» sorrise Cade riavvicinandosi al gruppo.
Eliza lo guardò male. « Non ricominciare.»
« Era una congettura.»
« Però potrebbe essere.» intervenne Nathan. « Hai fatto qualche grande cazzata in vita? Ho hai un temperamento crudele, violento?»
« Se è per la violenza allora dobbiamo escludere anche te.» gli fece notare Eliza. « Ares è famoso per questo.»
« Nike no?» domandò curioso Jonas.
La mora scosse la testa. « Non necessariamente, mia madre è la Dea della Vittoria e si può vincere in molteplici modi. La violenza non è la risposta a tutto, se la ritirata porterà a vincere allora Nike appoggerà questa scelta. Che sia silenzio, rumore, quiete o tempesta, a patto che ciò porti alla vittoria, mia madre lo farà.»
« Mentre per Ares la vittoria è supremazia, schiacciare l'avversario, vincere la guerra e farlo nel modo più fisico, violento e totalizzante possibile. Ci sta, quindi gli sto sul cazzo pure io?»
« E sarebbe una novità?» sorrise Cade e prima che il soldato potesse replicare, « Però ho avuto la netta sensazione che i mastini schivassero un poco anche Jonas.» disse voltandosi verso il ragazzino.
Quello scosse la testa senza una risposta. « Se è davvero l'aura… »
« Tu ne hai una spaventosissima- Huuuuuuu!»
« Smettila di fare il coglione!»
« Smettila di fare il moccioso!»
« Smettetela tutti e due! Ancora una volta!»
Eliza li guardò malissimo, se fosse stata ancora viva star tra quei due le avrebbe fatto venire un'emicrania terribile, lo sapeva per certo.
Un movimento leggero fece voltare tutti nella direzione di Jane, la giovane si era seduta meglio a terra, incrociando le gambe sotto la veste logora, facendo ben attenzione che non un solo lembo di pelle fosse visibile sotto il tessuto sporco.
« Quindi? Voi che siete “grandi ed esperti eroi” avete un piano?»

 

 

« Che se me lo chiedi, è un po' un piano di merda.»
« Quando ci siamo conosciuti non le dicevi tutte queste parolacce, star con Nathan ti ha fatto male.»
Eliza alzò gli occhi al cielo e cercò di sciogliersi un poco le spalle con movimenti rotatori, indecisa se puntare il grande cane nero alla sua destra o alla sua sinistra.
« So che può sembrare assurdo, ma credo sia più probabile il contrario: sono io il più grande e sono anche quello che ha vissuto più in mezzo a persone del genere.»
« Ricorda che Nathan era un marinaio.»
« Era un soldato marinaio. Un bagnino all'atto pratico. Ehi! Perché diamine non l'ho chiamato ancora così? Si arrabbierà tantissimo!»
Eliza sbuffò, mastino di destra, deciso. « Ti piace così tanto far arrabbiare le persone?» domandò senza vero interesse.
Cade però annuì convinto. « Era il modo migliore per capire chi potevi- era il modo migliore per capire chi avevi davanti. Se provochi qualcuno lui reagirà in vari modi e questo ti darà la possibilità di scegliere come comportarti tu. Hai un vantaggio.»
La donna aggrottò le sopracciglia e si volse verso il compagno. « Perché dovevi capirlo? Che lavoro facevi?»
Era la prima volta che gli faceva una domanda così diretta e personale, ma tutto quel giro di parole, quella necessità di comprendere come reagirà una persona sotto pressione, l'aveva incuriosita, le aveva fatto accendere un campanello nella testa.
Cade si strinse nelle spalle e sorrise. « Vivevo alla giornata, io e i miei ragazzi facevamo lavoretti di tutti i tipi. Abbiamo lavorato anche al porto, era bello grande, attraccavano navi da tutto il mondo, ne partivano per andare in Asia, era divertente. Certo, se non conti che ti spaccavi la schiena… però rimediavamo sempre qualcosa dai vari carichi. Una volta abbiamo addirittura beccato delle spezie, il tipo che le aveva portate diceva che il carico era stato danneggiato durante la traversata ma a noi pareva più che buono. Ce lo diede come pagamento per il lavoro svolto, l'abbiamo rivenduto a prezzi da capogiro! Quella settimana abbiamo mangiato davvero bene.» raccontò tranquillo, incrociando le braccia dietro al collo.
Eliza annuì, non voleva chieder altro, entrare troppo nei particolari, malgrado quel ” i miei ragazzi” le avesse solleticato la mente.
Tornò a guardare il mastino, che li stava fissando di rimando e aveva alzato la testa, sbuffando una fiammata che scivolò sulla terra bruciacchiata ed accese qualche fiammella tra i sassi.
Non avevano un'arma per difendersi, se non si contavano i guanti metallici di Cade, che però sarebbero stati usati solo ed unicamente come protezione per prendere la targhetta e non per attaccare, ma alla fin fine, seppur divini, erano sempre cani, quindi il piano era cercare di calmare il mastino e rubargli la medaglietta senza scatenar trambusto.

« Io lo tengo a bada, tu avvicinati e prendi la medaglia.» disse sicura. Quando però non ricevette risposta fu costretta a girarsi e rimase piuttosto crucciata dall'espressione dell'altro.
Cade fissava il mastino immobile, pallido come solo un morto potrebbe esserlo ma troppo persino per loro, anime estinte. Sembrava che stesse per svenire da un momento all'altro, con quel leggero velo lucido di sudore che gli imperlava la fronte. Apriva e chiudeva le mani, solo quelle, pareva gli si fossero addormentate e non riuscisse più ad aver tatto.
Che diamine gli prendeva? Stava male anche lui?
« Cade? Cos'hai?» domandò preoccupata avvicinandosi a lui.
Il giovane scosse la testa. « Nulla.» disse troppo in fretta per esser vero.
Eliza continuò a studiarlo allarmata. Non poteva farla preoccupare anche lui, non più di quanto già non avesse fatto in precedenza. Erano gli unici in grado di avvicinarsi tranquillamente ai Mastini Infernali, solo loro due su cinque persone nella squadra, se fosse crollato anche Cade avrebbe dovuto far tutto da sola e non sapeva se la sua esperienza sarebbe bastata. Non senza ricorrere alla forza.
« Non mentirmi.» l'ammonì. « Hai problemi con i cani? È questo? Ti spaventano?»
Il verso di scherno che scappò dalle labbra violacee di Cade le fece tirare un sospiro di sollievo: se era ancora in grado di ridere anche della gente preoccupata per lui allora andava tutto bene. Quasi.
« Non dire assurdità! Non ho paura dei cani, anche se sono alti due metri e potrebbero mangiarmi in un boccone solo.» affermò incrociando le braccia al petto.

Sì, come no.

« Quindi cosa?» domandò ancora alzando gli occhi al cielo e guardandolo scettica.
Cade la fissò per qualche secondo, palesemente dubbioso sul da farsi. Poteva fidarsi di lei, no? Non era Nathan, non l'avrebbe preso per il culo per tutta la vita, o la morte, o quel che era…
Con una smorfia tirata Cade abbassò lo sguardo.
« Non dirlo a Nathan.»
Eliza batté le palpebre sorpresa. Aveva appena chiamato Nathan per nome? Ed aveva davvero abbassato lo sguardo? Non la stava più guardando, si… si vergognava?
« Puoi fidarti di me, credevo che oramai l'avessi capito.» gli disse comunque con tono più dolce. Sembrava che gli stesse per confessare qualche oscuro segreto, qualcosa legato alla sua vita passata oppure-

Alla sua morte?

Elizabeth rimase bloccata, drizzò la schiena ed aprì le spalle, pronta a qualunque confessione. Possibile che Cade fosse morto per colpa di alcuni cani? Durante la guerra le era successo spesso di sentir girare storie terribili, soldati che avevano visto Sudisti lasciare i propri schiavi in pasto ai cani. Si diceva che altri ancora ferissero gli schiavi e poi li costringessero a correre nei campi o nei boschi per poi liberare i segugi e lasciar che li portassero da quelle povere persone, come una comune battuta di caccia, come se stessero andando a procurarsi di che vivere. I cani trovavano gli schiavi feriti, li rintracciavano grazie all'odore del sangue, sentivano i rami schioccare sotto il peso dei loro passi affaticati, udivano i lamenti di dolore, quelli di terrore, le lacrime che non riuscivano a trattenere.
Che quella fosse stata la stessa fine di Cade? Dio, sperava di no… però, non aveva ferite gravi, non vedeva cicatrici al collo, non ne aveva viste sulla braccia e di solito i cani da caccia miravano alla giugulare, o prendevano gli arti perché le prede si rannicchiavano su sé stesse.
Ma dopotutto, neanche le sue di ferite si vedevano più, magari erano state rimarginate da qualche guaritore degli Elisi.
Cade accennò un sorriso senza gioia, spiando di sottecchi il mastino che ora non li guardava più, ma teneva le orecchie dritte, pronto a captare qual si voglia movimento.

« Non sono i cani. Fanno paura così grossi ma- anche io ho combattuto, per la mia città, anche io sono stato “in guerra” in un certo senso. Non come la tua o come quella di Nathan non- non in quel senso. Ma ho visto di peggio. Mi piacciono pure i cani. Sono enormi ma so che posso affrontarli, sono troppo veloce e loro troppo grossi, non mi starebbero dietro.» disse con una punta di arroganza che fece accennare un sorriso anche ad Eliza.
« Cosa ti turba allora?» chiese allungando una mano per sfiorargli il braccio.
Quel semplice tocco, così naturale, così leggero, parve quasi rilassare il giovane.

Contatto umano. Cade ha sempre detto di aver avuto tanti amici. Deve farlo sentire a suo agio essere vicino a qualcuno, condividere gesti come questi.

Con quella consapevolezza poggiò la mano sulla giacca vecchia e scolorita del compagno, stringendogli la spalla ed incoraggiandolo a continuare.
« Quello. Mi innervosisce quello.» sussurrò in fine, come se avesse appena confessato il suo crimine più grande, indicando qualcosa di fronte a loro.
Eliza si volse un secondo, solo per mettere a fuoco l'oggetto di tanti problemi. Non appena capì di cosa stava parlando rafforzò la presa, non poteva credere che avesse resistito tutto quel tempo senza dir nulla, se la paura nei suoi occhi era la stessa che aveva provato fino a quel momento allora Cade era davvero molto più forte di quanto non credesse.
« È… è così che sei morto? Ascolta, non devi per forza fare questa cosa con me, chiederò a Nathan di aiutarmi, tu potrai prendere solo la tua targhetta e poi non pensarci più.» iniziò tentennante ma poi acquistò sicurezza, cercando gli occhi di Cade, chinando il capo per poterli intercettare e fargli capire quanto fosse seria.
Fu un peso che le si sollevava dal petto quando il ragazzo alzò lo sguardo e le sorrise sincero, un velo di imbarazzo, no, timidezza? A colorargli quelle iridi già così verdi ed accecanti.
« No. Non ce n'è bisogno. Posso farcela devo- solo, dammi un minuto. Ho affrontato di peggio, posso farcela. » poi mosse il naso, arricciandolo come un bambino, « Ma lo apprezzo molto.»
Eliza sorrise fiera d'esser riuscita in qualche modo a risollevarlo di morale.
« Abbiamo tutto il tempo del mondo.» gli ricordò rilassando finalmente la fronte crucciata.
Cade annuì. « Vero e- Eliza? Grazie. » disse sincero.
Si era resa conto, con un po' di fatica, che quella gara le aveva portato tanti problemi ma che l'aveva anche fatta sorridere più di quanto non facesse da una vita, da tutta la vita.
Con l'ennesimo sorriso a tirarle le labbra Elizabeth alzò il mento fiera e sicura come lo era sua madre.
« Credevo che tu più di tutti dovessi saperlo: gli amici servono anche a questo.»


Cade non poté far altro che scoppiare a ridere.

 

*

 

Doveva ammettere che quando Eliza gli aveva detto di rimanere indietro con la tipa inquietante e con il moccioso, Nathan se ne era leggermente risentito. Le argomentazioni della donna però erano state fin troppo giuste e logiche, qualcosa che il biondo non aveva e al contempo aveva incredibilmente apprezzato. Qualcuno lì in mezzo che, oltre a lui, pensasse seriamente ad una strategia era solo un bene. Anche se suddetta strategia implicava lui bloccato a far da balia alla strega mezza sega, perché dopo quella magnifica bussola magica Jane non aveva dato segno di voler utilizzare ancora la sua magia, quindi per logica conseguenza significava che era una mezza sega in combattimenti o simili; e con il bambino del nord, che avrebbe potuto spezzare solo con un braccio, che pareva costantemente in preda a cambi d'umore più violenti di quelli di una donna incinta, che veniva dall'Inferno propriamente detto e che, gli Dei soli sapevano il perché forse, aveva una collana lucidissima, di metallo probabilmente, argentea, che pareva un filo spinato, legata a quel collo da cerbiattino che si ritrovava.
L'unica cosa che avrebbe potuto peggiorare quella situazione sarebbe stato Cade. Che sì, non era neanche degno di esser etichettato come anima ma direttamente come cosa.
Il rosso non gliel'aveva mai detta giusta ed era ironico che Nathan riuscisse a fidarsi molto di più di un dannato che di qualcuno che veniva dagli Elisi. Alla fine dei conti però, se proprio doveva esser sincero con sé stesso, e almeno con la sua stessa coscienza gli conveniva esserlo, poteva dire che più che non fidarsi proprio di Cade non riusciva a capirlo fino in fondo. In quelle due prove, poi, non si era mai sbottonato su temi davvero importanti: chi era il suo genitore divino?
Chiamando di nuovo in causa quella logica che lo infastidiva da un bel po', Nathan qualche opzione ce l'aveva.
Per prima cosa era sfrontato da morire, reggeva il confronto con lui, che era un figli di Ares e di solito intimoriva tutti, ma anche con Eliza che era figlia di Nike, e di solito ci pensavi sempre due volte prima di metterti contro una figlia della Vittoria. Questo significava per forza di cose, almeno per lui, per cosa aveva imparato al Campo, che il genitore divino di Cade doveva essere uno dei Grandi Dodici. Escluse a priori Ade, perché se quel coglione era un figlio del Dio dei Morti all'ora il fato era proprio una puttana e il karma pure, entrambi con un pessimo senso dell'umorismo. Però no, niente Ade, sicuro a palla.
Escludeva anche suo padre, Nathan avrebbe riconosciuto al volo un suo fratello. Non poteva essere figlio di Atena, Artemide andava eliminata in ogni caso, Era pure, dubitava fortemente di Apollo, perché sapeva riconoscere anche quegli stronzetti, come la biondina con cui litigava sempre per le piante. A proposito di piante: Demetra assolutamente no. Efesto neanche, era troppo stupido Cade. Afrodite… mh, forse? Aveva un certo fascino con cui aveva ingannato un bel po' d'anime sorpassandole in fila, quindi non era da escludere, per di più, Afrodite era una Dea ben più antica di molti altri, forse… ma in caso non fosse stato figlio suo ne sarebbero rimasti ben pochi: Ermes e Dioniso erano ottime possibilità. Il Dio dei ladri sarebbe stato un padre perfetto per quel farabutto, ma era anche vero che Cade era in grado di farti impazzire anche solo girandoti attorno…
Questo però non spiegava i grandiosi salti che riusciva a spiccare. Dioniso era il dio dell'ebrezza e poteva portare i suoi adepti a far cose straordinarie, ma da qui a sollevare un ragazzone come lui, in volo, per oltre dieci metri, con una semplice spinta delle gambe, non era possibile. A meno che non fosse una menade e non ci fosse luna piena. Dubitava.
Ermes era già più logico: uno svelto di mano come lui – aveva visto come giocava con quel coltellino – che sapeva sempre che direzione prendere, come districarsi in un labirinto in cui ogni via era intricata e sconclusionata… solo il dio dei viandanti poteva concedergli una grazia del genere.
Lui o…
Incrociando le braccia al petto Nathan scosse la testa. Non poteva essere un figlio di Zeus, nel modo più assoluto. Certo, questo avrebbe spiegato la sua capacità di “volare” letteralmente, quelle leggere correnti che l'avevano sfiorato alle volte e anche quella sua aria da superiore che tirava fuori di tanto in tanto, ma non voleva assolutamente neanche contemplarla come idea.

Malgrado sembri la più probabile…

Perso nei suoi ragionamenti Nathan ci mise un po' per rendersi conto di un rumore completamente fuori luogo in posto del genere.
Risa.
Erano trattenute, sfuggivano in piccoli singulti divertiti, seguiti da tonfi pesanti e costanti, il fruscio di un lazzo che mulinava nell'aria. Cosa diamine era?
Incuriosito il giovane si volse a cercare la causa di quel suono così sbagliato e rimase interdetto a fissare la scena che gli si parò davanti: un Mastino Infernale se ne stava in posizione di salto davanti a qualcosa coperto dall'enorme massa del mostro. Teneva il sedere alto, scodinzolava ad una velocità tale da sembrare le pale di un elicottero. Alzava il muso sbuffando fumo e poi lo riabbassava fissando l'oggetto del suo interesse, saltando di tanto in tanto per incitarlo a muoversi.
Quando il mastino scartò di lato Nathan ebbe lo scorcio veloce di una figura alta e chiara, sia nella pelle che nel vestiario, così come nei capelli corti che le solleticavano a mala pena le spalle.
Poi il mastino le fu di nuovo davanti e non riuscì a veder null'altro.
Che il cane infernale stesse cercando di attaccare un'anima? Ma più che altro pareva giocarci, pareva divertirsi, come se aspettasse il lancio di un bastone da riprendere. E quei suoni poi, sì, erano decisamente risa divertite. Ma chi cazzo si sarebbe mai divertito a star faccia a faccia con un enorme cagnaccio pieno di protuberanze ossee e- un attimo: e il fuoco?
Battendo le palpebre velocemente si rese conto che quel mastino non aveva lingue di fuoco addosso, non aveva neanche quei maledetti spuntoni sulla schiena e sulla coda, sembrava quasi che li avesse ritirati per non far male alla ragazza con cui stava giocando.
Un colpo di tosse lo costrinse a distogliere lo sguardo: Jonas lo guardava curioso dietro a Jane, che a braccia conserte lo osservava con un sopracciglio alzato e l'aria di una che voleva sapere cosa diamine stesse facendo fermo imbambolato a fissare un mastino da cui, tecnicamente, si sarebbe dovuto tener lontano.

« L'ordine non era quello di star lontani dai mastini?» chiese con voce strascicata.
« Io non prendo ordini da nessuno.» la freddò subito Nathan.
« Tranne che da Elizabeth, a quanto pare.» sogghignò Jane socchiudendo gli occhi.
Il soldato fece lo stesso, ma solo per poterla guardar male. « Senti un po' - »
« Quella ragazza sta giocando con un mastino o i fumi dell'Ade cominciano a darmi alla testa?»
La domanda scioccata di Jonas interruppe la sicurissima discussione che sarebbe uscita fuori di lì a poco, qualcosa che di solito sarebbe successo con Cade ma che, a quando pare, poteva esser perfettamente sostituito dalla figlia di Ecate.
Attratta dalle parole del ragazzino anche Jane si volse ad osservare la scena surreale davanti a loro.
Per un attimo stettero tutti e tre in silenzio a fissare il mastino scodinzolante che abbaiava allegro a chissà chi, ma così come le tre anime studiavano senza parole il mostro così lui si accorse ben presto di loro.
Si mise improvvisamente in piedi, ritto e sicuro, con le orecchie alzate ed il muso puntato verso la volta rocciosa a fiutare qualcosa che loro potevano solo immaginare.
Era come una chiazza d'olio che si apre sull'acqua, scie distinte che si mescolavano per creare un composto ancor più denso e riconoscibile, che odorava di semidei, di poteri divini, di discendenze scomode e violente. Un miscuglio di tre Dei che assieme avrebbero potuto far solo danno, che portavano in sé l'oblio e la follia, la guerra ed il sangue, il dolore ed il rimpianto.
Le protuberanze ossee che fino a poco prima erano stati solo lievi decori sulla spina dorsale s'alzarono con prepotenza, lasciando una fumata di vapore che proveniva direttamente dal corpo bollente della bestia. Una fiammata improvvisa si espanse dal collo, inghiottendo la catena a cui sarebbe dovuta esser attaccata la medaglia, scivolando giù sulle zampe e su sul muso.
Il Mastino Infernale ringhiò prepotente contro le tre anime che, di reazione, fecero un salto indietro. Nathan si portò istintivamente davanti ai due, aprendo le braccia e schermandoli per quanto possibile da un attacco. Ma il mastino non si mosse, rimase lì a fissarli digrignando i denti e lasciando che dense gocce di bava traslucida colassero giù dalle fauci appuntite.

« No! Che fai? Cattivo mastino! Lascia stare le anime!»
Una voce femminile richiamò con decisione l'animale, che mantenne ugualmente la posa stoica e feroce ma diminuì un poco l'afflusso di fiamme al collo.
Nel silenzio che seguì quella breve e blanda sgridata si espanse il rumore costante dell'Area Cani, lasciando intercorrere abbastanza tempo affinché Nathan si rendesse conto di conoscerla quella voce, di conoscerla anche bene.

« Cazzo, dimmi di no.» disse a denti stretti chiudendo per un attimo gli occhi. Non poteva essere così fortunato, se l'era letteralmente chiamata.
« Cosa no? » domandò Jane guardandolo malamente, sospettosa come in ogni sua azione e parola.
Anche Jonas si sporse in attesa di risposte, malgrado fosse chiaro come il sole che il suo unico desiderio fosse quello di correre il più lontano possibile da un mastino che li puntava come fossero prede.

Ma prima che il soldato potesse dire alcun ché, la voce femminile rispose con lo stesso identico tono.

« Oh no. No, no, no no… non posso essere così sfortunata!»
Da dietro l'enorme cane nero uscì una ragazza dalle vesti moderne, quanto meno più vicine al vestiario di Jonas e Nathan. Indossava dei pantaloni dal taglio maschile, le scarpe di cuoio erano basse ma decorate con dei disegni punzonati, i fili delle stringhe ormai rovinati dal tempo e dalla morte. Ma non erano i pantaloni o la camicetta a risaltare in lei, non tanto quanto i suoi corti capelli biondi, con un lungo ciuffo a penderle sul viso prontamente ricacciato dietro l'orecchio. Il naso dritto formava una linea continua con la fronte, a guardarla di profilo pareva una di quelle antiche statue greche che Jonas aveva visto sui suoi libri e ai musei, una di quelle che Jane aveva a mala pena visto in qualche tomo della chiesa, che Nathan invece aveva potuto vedere anche in televisione, nelle mostre, nelle foto.
Doveva essere alta più di un metro e settanta, o almeno quello era ciò che Jonas si ritrovò a pensare vedendola di fianco al mastino, ma ogni pensiero sfumò via quando si ritrovò a fissare le iridi verdi della giovane. Erano di una tonalità così chiara da sembrar verde acqua, un colore tenue ma brillante, sicuramente sbiadito dalla morte e dal tempo.
Quella era già la terza persona con gli occhi verdi che incontrava e per qualche motivo fu l'informazione più importante che registrò.
La ragazza continuò a fissare Nathan e a farlo anche con un certo cipiglio infastidito, che i due si conoscessero? Che avessero vissuto assieme? Magari… gettò uno sguardo a Jane, cercando di capire se lei, figlia di Ecate, Dea della magia, fosse riuscita ad intuire qualcosa che Jonas poteva solo sospettare, ma anche la ragazza delle Praterie guardava l'altra anima sorpresa e imbronciata quasi quanto Nathan.

« Uhg, di nuovo lei… » borbottò a bassa voce.
Nathan però la sentì perfettamente e fece scattare la testa verso di lei. « La conosci?» domandò duro, come se la conoscenza o meno della nuova arrivata da parte di Jane potesse determinare quanto simpatica o meno la loro compagna potesse essergli.
Jane annuì. « In un certo senso… sono arrivata alla Casa di Ade con lei e un suo amico.»
« Jane? Sei riuscita ad uscire dal labirinto allora.» l'espressione sollevata della giovane durò poco, poi mutò in qualcosa di pericolosamente simile a quello che era lo sguardo di sua madre quando faceva qualcosa che non doveva. Jonas ne fu quasi inquietato, erano identiche dannazione.
« Quando sono uscita non ti ho vista. Se non fossi scappata avremmo potuto affrontare la prova assieme, spero sia andato tutto bene.» lo disse quasi come una provocazione, neanche sapesse che l'altra, in effetti, aveva avuto qualche problema tra i muri d'edera.
Letteralmente.
Jane arricciò le labbra in una smorfia quasi schifata. « Non avevo detto che avrei fatto la prova con voi, né che vi avrei aspettati per entrare nel labirinto. Non ho armi, sarebbe stata solo una perdita di tempo star in fila con voi.»
Le due donne si guardarono intensamente per alcuni secondi, prima che il mastino decidesse di far presente a tutti che era lì anche lui e che non bisognava abbassare la guardia. Allungando il collo nerboruto in avanti mostrò le zanne e ringhiò nella direzione di Jane, infastidito dal tono che aveva usato verso quella che, a quanto pareva, era la sua nuova compagna di giochi.

« Buono, buono.» lo carezzò subito la bionda per calmarlo.
Nathan si lasciò sfuggire un verso sprezzante. « Un Mastino Infernale che si fa ammaestrare da una figlia di Apollo, questo sì che è il colmo.»
Quella lo fulminò con lo sguardo. « Credo che il colmo sia che io ci gioco, con un Mastino Infernale, mentre tu non sembri neanche intenzionato a catturarne uno. Cosa c'è? Se non usi la forza bruta e non ti imponi di prepotenza su nessuno non sei capace di far nulla?» rispose a tono senza paura.
Il mastino, al suo fianco, spostò lo sguardo su Nathan come se avesse improvvisamente cambiato obiettivo.
Le cose si stavano decisamente mettendo male e non c'era neanche Eliza a calmare quel pazzo di un soldato.
A quanto pareva, per quella volta, la voce della ragione che fermava il riottoso guerriero e la ragazza inquietante, sorprendentemente uniti contro un “nemico” comune, sarebbe stato proprio lui.
Jonas prese un respiro profondo e si apprestò a far qualcosa che di solito non era da lui: far da pacere, parlare con calma e lasciar fuori i sentimenti per poter arrivare ad una soluzione pacifica. Niente botte di testa, colpi di matto, niente mordersi la lingua o lasciarsi intimidire dalla faccia astiosa di Nathan, dall'aura inquieta di Jane.
Fece un passo avanti, cercando di scostarsi da dietro il soldato, ma non appena lo fece quello lo riafferrò per un braccio e se lo ritirò dietro.

« Rimani dietro di me e non t'avvicinare a quel cazzo di mastino.»
« Pulisciti la bocca! Non posso credere che quella santa donna di tua madre non ti abbia insegnato a parlare.» scattò la bionda quasi schifata dal vocabolario di Nathan.
« Tu lascia stare mia madre!»
« Allora tu parla come ti ha educato, non come un volgare bruto da taverna!»
« Ma chi ti credi di essere, arcerina da strapazzo!» in ringhio di Nathan non superò quello del mastino ma fu abbastanza perché una vaga sensazione di rabbia si spandesse attorno a lui. Era forse il potere di suo padre?
Quella che, apparentemente, era una figlia di Apollo, non si fece minimamente toccare da quell'onda irosa che il suo nemico emanava e fece addirittura una passo avanti, agguerrita e seria come se vi fosse abituata, come se non avesse paura di affrontare qualcuno palesemente più forte di lei. Forse aver un Mastino Infernale al proprio fianco era una garanzia non da poco, ma Jonas aveva la vaga sensazione che anche in caso contrario la donna si sarebbe comportata allo stesso modo.

« Oh, ma certo, se non insulti non sei in grado di parlare, mi pare giusto. Sei sempre il solito schifoso borioso energumeno tutto muscoli e niente cervello che non sa sostenere una discussione civile!»
La tensione cominciava ad essere troppa, neanche la fuga dai mastini gli aveva messo tanta ansia quanto veder Nathan attaccare in quel modo una sconosciuta. Che diamine di problemi avevano avuto quei due? Che fossero stati al famoso Campo Mezzosangue assieme? Pareva che la bionda conoscesse persino la madre del soldato, che la conoscesse così bene da sapere che lo aveva educato come si doveva. Che razza di rapporto o legame c'era tra di loro?
Attualmente i problemi di Jonas erano altri, ma non poté evitare di porsi certe domande. Guardando Jane capì che la ragazza non l'avrebbe aiutato in nessuno modo e che anzi, probabilmente il momento in cui si sarebbe decisa ad aprir bocca sarebbe stato solo per metter altro carico su quella situazione già di per sé pesante.
Aveva già detto che rimpiangeva l'assenza di Eliza e Cade? Dio santissimo, Cade! Persino lui sarebbe stato in grado di stemperare quella situazione… beh, in effetti il rosso gli aveva dato prova d'esser in grado di far un po' tutto… va bene, non era quello il momento per pensarci, neanche a quelle cose, doveva concentrarsi, fare la persona matura e calmare tutti, come si era deciso a fare prima. Magari questa volta riuscendoci davvero.
Mentre i due continuavano ad urlarsi contro ed il mastino alzava sempre di più l'intensità delle sue fiamme, Jonas lanciò uno sguardo veloce a ciò che lo circondava: farsi prendere in fallo da un altro mastino proprio in quel momento sarebbe potuto esser fatale, sia perché li avrebbe potuti sbranare, sia perché Nathan, in un moto di rabbia, avrebbe potuto ferire, o peggio uccidere, il Mastino Infernale, e allora c'avrebbe pensato Artemide a fargliela pagare.
Non vide nulla però, la zona pareva stranamente tranquilla, neanche vi fosse un'invisibile campana di vetro a proteggerli, a delimitare l'area entro cui erano. Non c'era nessuno se non loro, il mastino della ragazza bionda ed un'altra anima che camminava a passo sostenuto all'incirca nella loro direzione.
Si strofinò le mani sui pantaloni, cercando di asciugare quel sudore fantasma che gli era calato addosso alla sola idea di doversi intromettere tra quelle furie sempre più animose e propense alla lotta. Dio, sperava solo che Nathan non si gettasse addosso alla donna, temeva proprio che il cane di quella sarebbe stato decisamente più veloce a reagire. Represse l'istinto di giocherellare con il suo bracciale di stoffa, quello di grattarsi la nuca, di sfregarsi il naso e anche il prurito sul piede che lo implorava di tamburellarlo a terra, di sfogare un poco di quella tensione che si era insinuata anche nelle sue membra.
Con una spinta di puro orgoglio e testardaggine, dicendosi che no, non poteva fare il frignone proprio in quel momento, che doveva fare la sua, che poteva imporsi su qualcuno e portarli alla ragione anche perché, cavolo!, quella volta ne aveva a palate di ragione! Non potevano mettersi a litigare in quel modo nel mezzo di una gara, tra sconosciuti o conosciuti che fossero, vicino ad un mastino, rischiando di scatenare un putiferio tale da richiamarne altri cento di dannatissimi mastini!
Jonas schivò facilmente il braccio ancora teso di Nathan e lo affiancò afferrandolo saldamente per una spalla.
Il mastino fissò subito lo sguardo cupo su di lui, Jane piegò la testa curiosa come un'inquietante avvoltoio che aspetta di veder che fine farà la sua preda, l'anima solitaria che vagava per le praterie si avvicinava sempre di più, un vento inesistente soffiava quieto tra le loro gambe, la scossa elettrica fu così forte che Jonas non ci mise che un attimo per lasciar andare il compagno, ma ormai era già troppo tardi.

« Nathan! La vuoi piantar- AH! » ritraendosi di colpo Jonas portò la mano al petto e la strinse con l'altra, percorso da un dolore acuto e velocissimo che lo scosse da capo a piedi.
La ragazza si zittì immediatamente, lo sguardo verde acqua che scattò veloce e critico dall'arto offeso del più piccolo all'espressione illeggibile del più grande.
Jonas ebbe la sensazione d'esser sotto esame, ma non giudicato in sé, come anima e persona come avevano fatto tutti coloro che l'avevano incontrato là all'altro mondo, bensì esattamente come faceva un tempo il suo medico ogni qual volta si presentasse al suo studio per colpa di una delle sue crisi. Era uno sguardo analitico, medico.

Figlia di Apollo, Dio protettore dei medici e della medicina.

L'occhio attento della giovane però si soffermò solo per poco su di lui, poi la sua attenzione fu tutta su Nathan che, immobile, la fissava ad occhi sgranati.


La bionda non batté ciglio, rimase ad occhi aperti ad osservarlo, ma Nathan non vedeva più ciò che gli stava accadendo attorno.
Lentamente quella fastidiosa figlia di Apollo chiuse le palpebre e le riaprì con ancor più letizia, come una sirena ammaliatrice che scopre lentamente il suo sguardo ipnotico, il fascino mortale. Le iridi verde acqua erano ora verdi come i prati, come i campi di fragole, contornati da folte ciglia nere, corte ma fitte, una cornice di fili scuri che si andavano mischiandosi a qualche ciuffo scappato dall'acconciatura di fortuna fatta solo per aver un po' di pace da quel caldo torrido che aveva preso Washington nell'estate dei suoi ventun anni. Il volto dolce, l'espressione beffarda ma rilassata. Era così bella, così bella e così lontana. Rimaneva così poco tempo e ora Nathan lo sapeva, sapeva perfettamente cosa sarebbe successo di lì a poco, come il suo mondo sarebbe cambiato nel giro di due anni, come si sarebbe piegato a leggi che mai avrebbe potuto infrangere, a eventi che mai avrebbe potuto impedire.
Avrebbe voluto dirglielo, dirle ogni cosa, avvertirla di ciò che sarebbe stato.
Voleva allungare la mano e toccare quelle braccia abbronzate, quelle mani callose, con le unghie sporche di terra. Voleva sentire il suono della sua voce, il modo in cui l'avrebbe schernito e ripreso, come si sarebbe messa a ridere e gli avrebbe detto di non fare il cretino, di pensare prima di agire.
Pensare. Pensare sempre, mai buttarsi nella mischia a testa bassa senza sapere cosa fare, mai lasciare che la furia oscurasse la ragione, soprattutto in guerra. E loro due, di guerra, ne sapevano molto, no?
Il tempo è fermo, l'aria sfuma, le immagini sbiadiscono. La donna davanti a lui è un miraggio, lentamente muta per diventare un riflesso piccolo e lontano. Nei meandri dei suoi ricordi una bambina dalle ginocchia graffiate tira su con il naso mentre si pulisce il volto dalle lacrime. Allunga la mano e finalmente lo guarda negli occhi.

 

« Lucy. Mi chiamo Lucy.»

 

Il tempo è fermo, l'aria sfuma e le immagini sbiadiscono. La bambina davanti a lui è solo un miraggio che lentamente muta e diviene il riflesso di una tenda nera in una stanza buia.
Il rimorso e il dolore sono forti solo come l'amore che lo legava a quell'anima, un baluginio che rimbalza da una superficie fredda come il ghiaccio – dolore, ansia ad una lucida come l'argento – amore, rimpianto – in un ritornello infinito, finché un'anima pietosa non l'avvolse in una stretta sicura, ponendogli le mani sugli occhi e costringendolo a chiudergli, a non vedere.
 

Oh, Nathan Wright, in che brutto intreccio che sei capitato. Hai capito ora?

 

L'ombra si spostò con calma mortale, lasciando che il corpo del giovane soldato cadesse a terra a peso morto, alzando quella polvere secca e sporca che ricopriva il suolo.
Jonas fece per muoversi in avanti, per afferrare il compagno che improvvisamente gli appariva come una marionetta a cui erano stati tagliati i fili, ma il ricordo della scossa che l'aveva attraversato solo ponendogli una mano sulla spalla lo fece tentennare un attimo di troppo.
Jane, alle spalle dei due, fece automaticamente un passo indietro piuttosto che uno in avanti per frenare la caduta del compagno, certa di non voler toccare nessuno così come del fatto che il figlio di Ares fosse troppo pesante per lei.
Inconsciamente entrambi chiusero gli occhi per non veder l'impatto di quella figura improvvisamente così inanimata, così morta… ma non vi fu nessun suono sordo, nessun rumore se non quello di uno sbuffo particolarmente pesante, l'espressione classica di qualcuno che si ritrova a sostenere un peso non indifferente.
Jonas e Jane puntarono lo sguardo sul soldato, calamitati da qualcosa che non era successo, rimanendo entrambi sorpresi, immobili, senza saper cosa fare.
La ragazza bionda, quella che pareva volesse solo saltare alla gola di Nathan e picchiarlo fino a fargli entrare un po' di sale in zucca, si era sporta in avanti con una velocità sorprendente, afferrando saldamente il giovane per la vita e lasciando che tutto il suo peso le gravasse addosso. Si sistemò meglio, facendo in modo che il capo di Nathan ricadesse sulla sua spalle e poi, lentamente, fletté le ginocchia per accompagnarlo a terra.

« Ehi! Riesci a sentirmi? Sei cosciente? Nathan? Se riesci a sentirmi ma non a parlare muovi la mano, o stringila. » la sua voce era sicura e calma malgrado avesse un'inflessione perentoria, una serie di ordini nascosti dietro a domande. Un medico, pareva esattamente questo: un medico che soccorre il suo paziente.
In un secondo tutto l'astio che aveva dimostrato verso il biondo svanì in favore di una serietà ed una professionalità che quasi stonavano con l'aria ribelle e irascibile che aveva sfoggiato prima, il confronto era quello tra un'adolescente arrabbiata ed una donna capace e competente.
Adagiò Nathan a terra e gli sistemò immediatamente la testa, tirandogli con sicurezza il volto verso l'alto, distendendo il collo neanche dovesse assicurarsi che le sue vie respiratorie fossero libere. Le vecchie abitudini erano sempre le più dure a morire. Premette due dita sulla giugulare del ragazzo per poi mormorare qualcosa che sembrata tanto un insulto verso sé stessa e spostare le mani sulla sua fronte.


« Lea? Cosa succede? Sei ferita?»

Troppo intento a fissare i due, Jonas non si era reso conto che quell'anima che prima vagava nelle loro vicinanze era finalmente arrivata sino a loro, fermandosi però ad una certa distanza, come se avesse paura anche solo a far un altro passo.
Jonas poteva capirlo, il timore che avvicinandosi potesse peggiorare le cose più di quanto già non lo fossero… perché era colpa sua se ora Nathan era riverso a terra, il corpo abbandonato come se ogni terminazione nervosa fosse stata troncata di netto. E Jonas lo sapeva che non ne avevano più di terminazioni nervose, che non era davvero il suo corpo quello riverso a terra ma solo la forma un po' più densa della sua anima, sapeva che non era morto, che non poteva esserlo, non per così poco, però- però era colpa sua, era tutta colpa sua. La scossa. Nel momento in cui aveva poggiato la mano sulla sua spalla era tutto precipitato, dal dolore che aveva sentito forte e chiaro, un dolore fisico, come di qualcosa di rovente che ti penetra la palle –

come un proiettile

– un male vero, reale e poi Nathan era crollato e lui non aveva neanche avuto la forza di prenderlo, terrorizzato all'idea che sarebbe potuto succedere di nuovo, che avrebbe potuto soffrire ancora, come aveva fatto per tutti quegli anni nella sua maledetta Terrazza. Non aveva avuto la forza d'animo di farlo, il coraggio. Non importa se poi il suo peso l'avrebbe sopraffatto, non c'aveva neanche provato, per paura, non aveva neanche fatto quel dannato passo, non aveva allungato le braccia perché il pensiero di risentire quel male aveva superato la sua coscienza che gli gridava di aiutare il compagno, di fare ciò che di sicuro Nathan avrebbe fatto per lui, perché era giusto, perché era così che si faceva.
Aveva avuto paura.
Un brivido lo percorse mentre qualcosa cresceva veloce e lento dentro di lui, alternandosi come la marea che si abbatte contro la spiaggia, un movimento atavico, inevitabile nella sua tempistica che si espande nell'avvenire per poi scattare, risucchiare tutto verso il centro del mare, veloce e letale come solo l'oceano può essere, impossibile da domare, da placare, impossibile da fuggire.
Lo riconobbe come uno schiocco, sì, uno schiocco, proprio come quello che faceva il suo bracciale quando era ancora nuovo e l'ansia e la paura e il terrore e la paranoia non l'avevano consumato come una fiamma consuma una candela, come le onde consumano la battigia. Uno schiocco secco nella sua mente e sapeva perfettamente cosa gli stava succedendo.
Un attacco di panico, stava avendo un altro attacco di panico. Cazzo, ne aveva avuto uno forse due ore fa, forse tre, non lo sapeva, come diamine funzionava il tempo in quel posto maledetto? Ancora non l'aveva capito, ancora non sapeva, lui non- perché gli mancava l'aria? Era morto, non ne aveva bisogno, non ne aveva bisogno, eppure…
Jonas aprì la bocca ma non per parlare, solo per cercare di prendere più aria possibile, di rimanere sveglio lucido, presente.
Con uno sforzo terribile si costrinse voltarsi verso Jane, l'unica cosciente che conoscesse, l'unica persona che avrebbe potuto infondergli un po' di calma mostrandogli la propria, ma anche lei pareva presa da qualcosa, rigida e fredda nella sua posa, con gli occhi torbidi puntati sull'anima appena arrivata, sgomenti di un terrore simile ma completamente diverso dal suo. Che stava succedendo? Perché stavano tutti male? Era stato lui? Era stata la scarica elettrica che aveva dato a Nathan? Aveva innescato qualcosa nell'aria che aveva contagiato tutti loro, che li aveva resi deboli e allucinati, indifesi in un recinto di bestie infuocate- il mastino! Dov'era finito il mastino della ragazza bionda? Gli girava così tanto la testa, non riusciva a vederlo, non riusciva a voltare lo sguardo senza che la nausea premesse forte sulla bocca dello stomaco, nella gola, persino nella fronte e nelle orecchie.
Sentiva solo vaghi suoni, un brusio di sottofondo, le interferenze della radio di suo nonno, parole bisbigliate in una lingua che non conosceva.
Non riusciva a respirare, era tutta colpa sua, ancora una volta non era stato all'altezza della situazione.

 

Lea concentrò il suo potere sulla fronte del figlio di Ares, cercando di capire cosa fosse successo.
Volse a mala pena la testa verso Úranus, continuando però a tenere lo sguardo puntato sul volto quasi evanescente dell'altro.

« Sto bene. Stavo litigando con questo deficiente quando si è bloccato e mi ha fissato allucinato.» spiegò spiccia.
Úranus annuì ma non le si avvicinò, accostandosi piuttosto al mastino e cercando appoggio in lui. Il grande cane nero lo sostenne senza problemi, abbassando il muso per odorarlo e sincerarsi che stesse bene.
« Ha combattuto prima di arrivare qui?» chiese a gran voce Lea senza però ricevere risposta. La donna alzò così gli occhi e si fece scappare una mezza imprecazione: anche i due amici del cretino parevano star male, che avessero tutti e tre incontrato qualcuno che li aveva maledetti? O forse avevano ferito uno dei Mastini Infernali e questa era la punizione di Artemide?
Doveva capire alla svelta cosa fosse successo o non sarebbe stata in grado di far nulla.
Con un respiro profondo si occupò per prima cosa di Nathan, esaminando tutte le sue funzioni vitali. Era ovvio che le avrebbe trovato completamente azzerate, ma nella morte aveva capito che alcune sensazione, durante la guarigione, non erano troppo dissimili da quelle che le provocava curare un essere vivo. Così il leggero sfarfallio che la loro anima emanava all'altezza del petto e del torace in generale era associabile a quel pulsare continuo che ogni organo aveva in vita; le onde che emanava la testa non erano altro che riflessi di risonanza di una coscienza a contatto con una realtà concreta, per quanto morta. Il soldato stava bene, nessuna delle sue “funzioni vitali” era intaccata ma tutte erano rallentate, così come lo sarebbero state se fosse stato addormentato, come i pazienti sedati, come qualcuno svenuto per un forte sforzo.
Dannazione, sarebbe stata già la seconda anima che faceva rinvenire da uno svenimento, solo che la prima era stata-
Alzò di scatto la testa verso Jane, il suo volto congelato da qualcosa che solo lei poteva vedere, qualcosa che solo lei poteva udire.
Ripercorse in modo veloce e vivido quella scena che pareva esser avvenuta giorni addietro, quando aveva incontrato Jane e le aveva chiesto se sapeva come arrivare alla Casa di Ade, quando lei le aveva risposto con quel “no” secco e poi aveva fissato impunemente e senza paure Úranus.
Úranus che riesce a mettere in fuga un guerriero di certo più capace di loro, che anche solo standole vicino le procurava una sensazione di ansia, di inquietudine, che le faceva risentire frasi e suoni di una vita passata, che era al suo fianco, maledettamente vicino, quando la sua mente era saltata indietro nel tempo.

Úranus che non mi ha ancora detto chi è il suo genitore divino ma che, adesso, sono più che sicura sia la causa di tutto ciò.

« Calmati!» gridò verso le sue spalle. « Úranus ho bisogno che tu ti calmi. Dev'essere successo qualcosa, il ragazzino ha toccato Wright e lui si è bloccato, poi tu ti sei avvicinato e lui è crollato. Siete voi due, tu e il biondino! Cerca di calmarti, non posso farlo rinvenire se continui ad essere agitato, va tutto bene, non sono nostri nemici, non ci faranno del male. Siamo solo noi due che non ci sopportiamo dagli Elisi!» cercò di imprimere più sicurezza e fermezza nelle sue parole, volse il capo e intercettò gli occhi freddi del compagno, solo per un istante prima di distogliere lo sguardo, prima che la sua magia colpisse anche lei.

Fidati. Fidati di lui e il suo eco non ti colpirà. Non cedere alla paura. Fidati di lui e fidati di te stessa.

« Perdonami.» la voce di Úranus le giunse flebile ma incredibilmente gentile come ogni cosa pronunciata da quel giovane.
Sentì dei passi alle sue spalle e d'improvviso un peso che non si era resa conto d'avere le venne sollevato dalle spalle.
Vide Úranus superarla e giungere davanti al ragazzino, poggiandogli delicatamente la mano sulla spalla e spingendo quel tanto che gli serviva per fargli drizzare la schiena.
« Respira ragazzo, fai respiri profondi. Sei al sicuro… » il suo mormorio si perse nel tono basso e morbido che assunse e Lea non poté far a meno di sorridere a quella scena.
Le aveva accennato a suo fratello, Úranus le aveva detto che non aveva avuto la gioia di poterlo vedere ma non metteva in dubbio che sarebbe stato un ottimo fratello maggiore e che quel ragazzino, così piccolo e fino, dai lineamenti ancora acerbi e delicati, che forse poteva aver quindici- sedici anni, ispirasse un profondo senso di protezione, specie verso chi era stato così devoto alla propria famiglia.
Lentamente il biondino parve riprendersi, far respiri profondi proprio come Úranus gli suggeriva, e tornare con i piedi a terra, ancorato a quella realtà ultraterrena in cui erano costretti.
Jane crollò invece a terra con un tonfo morbido, la veste le si gonfiò come un palloncino ma la sua faccia allucinata, ringraziando gli Dei ben diversa da quella sconvolta di prima, ed il suo sbattere le palpebre stordita, fecero tirare a Lea un enorme sospiro di sollievo.
Un formicolio appena accennato le attraversò i palmi della mani, la magia curativa di suo padre che si attivava finalmente libera d'agire al meglio, le ci volle davvero poco per far convergere quel potere caldo e avvolgente verso la fronte ed il torace del soldato.
Nathan aprì lentamente gli occhi, battendo le palpebre confuso proprio come stava ancora facendo Jane. Pareva che qualcuno l'avesse appena buttato giù dal letto a calci e non riuscisse a metter a fuoco ciò che lo circondava. Lea seppe perfettamente quando vi riuscì per due motivi: perché era un'infermiera esperta e perché l'espressione che apparve sul suo volto quando si rese conto che non solo era svenuto ma che era stata lei stessa a “salvarlo” fu impagabile.

 

« A quanto pare sei bravissimo a cadere come una pera oltre che a non distinguere i fiori.»

 

 

 






   
 
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