Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: sunonthesea    14/12/2019    2 recensioni
Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi
(è il periodo dell'anno giusto per scrivere una fanfiction su Jojo facendosi ispirare da una canzone di De Andrè)
Genere: Angst, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gyro Zeppeli
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa non è il tulipano
Che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
Ma son mille papaveri rossi

 

La tua famiglia ed io siamo sempre stati ottimi alleati da generazioni. Tutti i tuoi antenati ad un certo punto delle loro vite sono venuti da me, rasati e con un fiore al collo, giurandomi fedeltà eterna. E credevano davvero in quello che stavano facendo, erano davvero disposti ad essere miei sottoposti o, per meglio dire, miei messaggeri.

Messaggeri efficienti e fedeli, rapidi come angeli dalla reputazione di demoni.

Mi sono sempre stati utili per sciogliere intrighi, complotti. Sempre a me fedeli. Un patto infrangibile che prima o poi dovrai stringere pure tu.

 

Sei sdraiato nel giardino davanti alla tua casa, quella grande villa con un grande camino ma con sedie fredde, che fissi imperterrito le nuvole sopra il tuo capo. Le vedi rincorrersi l’una contro l’altra, scappare e scomparire come bambini che a volte vedi nelle piazze, spensierati, freschi di vita e con solo la terra che sporca di loro vestiti.

Abbassi lo sguardo: macchie rosse sono ancora sulla tua casacca, una sorta di monito che permea a poco dalla tua pelle, pronto a toccarla. Pronto a sporcarla.

I tuoi occhi verdi tremano. Li vedo bene, trepidanti e ancora pieni di un antico orrore.

Il primo incontro con me non è mai piacevole, ma ci saranno molte altre occasioni per abituarsi, non ti preoccupare.

 

Mi avevi scorto ai lati di quella stanza buia, illuminata soltanto dalla luce delle torce e dalle grida di quel povero disgraziato che ti erano rimaste tanto nelle orecchie. So che mi hai visto, Giulio. Non c’è motivo di vergognarsi per questo. Hai ritratto lo sguardo impaziente di vedere, impaziente di capire, mentre quell’uomo era posato sul legno mal piallato con violenti strattoni che tu in qualche modo sei riuscito a sentire sulle tue stesse spalle.

Hai udito il silenzio per qualche istante, talmente forte da darti l’impressione di sentire il tuo cuore battere contro il tuo petto, poi hai visto.

Hai visto quella sfera girare sulla schiena di quell’uomo, tuo padre pronunciare parole criptiche per poi alzare quella lama, scintillante alla luce fioca del fuoco, che repentinamente si era posata sul collo dell’uomo, un fragore di rottura che so che ti romba ancora nelle orecchie.

 

Lo so.

 

Tuo padre si era avvicinato a te con il suo solito fare sbrigativo, il cappuccio bianco come la mano di un cadavere ancora calato sul volto, porgendoti la lama, quella stessa lama che mi era servita come strumento. Gocciolava di rosso, che andava a macchiare come con scherno il pavimento e i tuoi vestiti. Gli stessi vestiti che la tua mamma quella mattina aveva posto con orgoglio sul tuo letto, tenendo lontano i tuoi curiosi fratelli.

Te la stava porgendo, gli occhi colore dell’acciaio che ti fissavano con quel sentimento di distacco inutile, dato che un legame non c’era mai stato, assieme ad un fazzoletto. Hai sentito un ronzio che avrebbero dovuto essere parole, per poi toccare con mano il peso il peso stesso del patto: la spada non era certo leggera.

Hai passato lo straccio con sdegno, gli occi di bosco che tentavano in ogni modo di dimenticare quell’orrendo spettacolo creando nella tua testa qualsiasi altra immagine:il calore delle braccia di tua madre...i giochi con i fratelli...il tuo cavallo...

Di tutti i giovani che ho assistito nel corso della mia lunga vita, tu sei di sicuro uno dei più particolari. Ami quel quadrupede più di tua madre e ami tua madre più della tua stessa vita, molto interessante. Davvero molto interessante.

Hai pensato alle onde che vedevi dalla finestra della tua stanza appena sveglio, alla neve vista solo una volta nelle alte terre del nord e le colline placide che andavano dietro ai monti come il velo di una sposa. Hai pensato ai paesaggi infiniti che avevi visto in quelle riviste che rubacchiavi dalle stanze dei domestici: le lande infinite dell’America, le montangne volanti dell’Oriente e le cascate tuonanti dell’Africa. I pasticcini alla fragola. La pizza con il formaggio che veniva posata sulla tavola la domenica. Pensavi a tutte quelle cose meravigliose, ed io le vedevo.

Tuttavia ogni volta che abbassavi gli occhi lo scintillio purpureo del sangue li colpiva, mentre un conato di vomito risaliva sempre di più attraverso la tua gola, pronto a fare la sua uscita come un attore sul palco.

Senti ancora quel sapore nauseante e acidulo nella tua bocca, i papaveri selvatici che ti donano ombra in quel riposo vigile e i capelli di sabbia impazienti di crescere sparsi sull’erba dorata. Il vento non ti turba, sfiorandoti le gote con la stessa delicatezza delle dita di una vecchia e lasciandoti tanti baci invisibili sulla pelle diafana, come a tentare di portare via i tuoi pensieri, oltre l’oceano quasi.

-Io non voglio fare il lavoro di mio padre. Non voglio uccidere le persone. Non voglio- dici al balocco che stringi tra le dita, un vecchio orsetto rosa pallido appartenuto al nonno di tuo nonno, pensando che lui ti riesca ad ascoltare, che ti riesca a compatire e magari riesca a prendere vita come nelle fiabe e darti consiglio. -Voglio scappare, andare via da qui prima di essere costretto a tagliare teste a destra e a manca- con la coda dell’occhio guardi un punto imprecisato attraverso il campo, per poi tornare a guardare le nuvole -andrò oltre l’oceano, andrò via davvero, un giorno-.

Che ragazzino bizzarro. Sette anni di scuola alle spalle e altri undici davanti, e vuoi buttare tutto nel mare per un po’ di sangue? Andiamo, quando tuo padre aveva la tua età non si faceva mica questi problemi, e tuo nonno il primo giorno di apprendistato era già stato in grado di decapitare una donna adultera con un solo colpo. La tua inettitudine mi sta atterrendo, Giulio. Mi stai davvero deludendo.

Ti metti seduto, guardandoti intorno: la tua casa in lontananza ti pare una di quelle casette dove tua sorella Isabella fa vivere le sue bambole intrecciando sogni d’amore tra i lunghi capelli rossi, o una di quelle scatole dove tuo fratello Tommaso ripone gelosamente i suoi disegni. Ti sembra così piccola in lontananza, così vuota quasi. La solitudine ti avvolge come una coperta e ti copre la bocca, impedendoti per qualche istante di respirare. Il sole si beffa di te mentre inizia a gettarsi oltre il porto, l’oscurità che prende il suo posto indossando il suo abito migliore.

Lo senti il vento freddo del mare, Giulio? Lo senti entrare nelle ossa e scavare nel tuo cuore, solleticandoti il collo come se stesse per tagliartelo? Lo senti, Giulio? E ti piace? Ti piacciono le mani dei morti che ancora sbracciano come folli prima di venire sedati per sempre? Ti piacciono i nasi mozzati, i seni strappati e gli occhi bucati? Ti piacciono? Li riesci a sentire vicino, senti l’odore dei condannati, quel sudore misto a lacrime? Lo senti, lo senti tutto questo?

Prendi un bel respiro, come a scacciare ulteriormente un qualcosa dalla tua testa, iniziando a correre verso il tuo nido.

Corri, corri. Tanto ci rincontreremo, prima o poi. Nessuno può sfuggire a me.



Cadesti in terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che il tempo non ti sarebbe bastato
A chiedere perdono per ogni peccato



Cadi sulla terra arsa dal sole con del piombo nel petto, la sabbia e l’acqua che circondando la tua testa di fanno da cuscino mentre la vista inizia ad appannarsi.

Alla fine ci incontriamo di nuovo, piccolo Giulio. Sei più grande di come ti ho visto l’ultima volta: i tuoi muscoli hanno preso una forma ben precisa come il tuo volto, squadrato come quello di tuo padre, ed i tuoi capelli non hanno dato segno di voler smettere di crescere selvaggi. E dei tuoi denti? Cosa ne è stato, amico mio? Che fine hanno fatto quelle perle bianche come il latte, rimpiazzate da quel rozzo metallo? E cosa ci fai qui, a poche miglia da Nuova York? Cosa ci fai qui, a combattere una battaglia senza inizio e con una fine già scritta nel nuovo continente?

Non pensavo ci fossero uomini ancora così pazzi da inseguire i sogni da infanti.

Senti qualche ronzio in lontananza, parole che si mischiano a suoni, urla e pianti. I ricordi iniziano a sciogliersi sulla spiaggia come le tue sensazioni. Cosa hai fatto prima? Cosa stai facendo ora? Chi è quel ragazzo a pochi passi da te che singhiozza e grida come una belva ferita, pronunciando il tuo nome come se fosse una parola magica scritta su qualche oscuro rotolo? Chi è? Di chi è quel nome che sta pronunciando?

Volti la testa sforzandoti -sento lo schioccare dei tuoi tendini sotto i miei piedi- per poi vedere due personaggi dialogare, borbottare qualcosa in una lingua che pensavi di conoscere, ma che ora come ora di sembra totalmente incomprensibile.

Scommetto che ti eri impegnato molto nel cercare di imparare l’inglese, figliolo. Hai il brutto vizio di impegnarti troppo in cose frivole da quando eri un marmocchio con il moccolo al naso.

Gli zoccoli del tuo cavallo fedele scalpitano come impazziti, un richiamo o forse una preghiera per obbligarti a montarlo ancora una volta. Correre tra i papaveri ancora una volta. E tu vorresti, sì. Vorresti davvero tanto. Vorresti alzarti e correre da lui, correre da quel ragazzo biondo e digli che va tutto bene, che sei in ottima forma. Però non puoi, bloccato dalle tue debolezze così dannatamente umane.

Il sangue continua a scorrere rapido dalla tua ferita, e tu inizi a sentire il freddo. Ti sembra di essere ritornato a quando avevi tredici anni, vero? Quando per la prima volta hai sentito i miei passi e hai visto il mio volto. So che ti stai ricordando di me. So che adesso stai inziando ad avere paura.

Con un suono strozzato dici un nome in quella lingua straniera, un nome che hai pronunciato molte volte in questi mesi. Vuoi che quel ragazzo stia vicino a te mentre inizi a sentirti sempre più debole. Mentre inizi a pensare a tutte quelle persone che si sono sentite nella stessa situazione anche per colpa tua. Tutti gli strattoni, tutti gli ordini e tutti gli sguardi lanciati agli uomini incappucciati che hanno iniziato a non farti più così tanta paura come quando eri un bambino.

Un cucciolo non può avere paura del mastino.

Il senso di colpa striscia nelle viscere come una biscia che continua a stringere, mentre lievi singhiozzi cominciano ad uscire dalla tua bocca sanguinante. Non hai più molto tempo, ti conviene fare in fretta.

E mentre il grano ti stava a sentire
Dentro alle mani stringevi un fucile
Dentro alla bocca stringevi parole
Troppo gelate per sciogliersi al sole



All’improvviso il borbottio straniero si interrompe, e dei passi improvvisi iniziano a sentirsi farsi sempre più vicini. Quel ragazzo si butta affianco a te, le ginocchia a pochi centimetri dalle tue guance e gli occhi stellati umidi di lacrime. Balbetta qualcosa cercando di alzarti la testa, e tu lo vedi sfocato. Senti le sue parole disperate entrarti nella testa e restare lì sedute, incomprese e troppo bagnate per scaldarti.

Mi perpecisci affianco a te e ci guardiamo dritti negli occhi, prima che io te li chiuda per sempre.

Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa non è il tulipano
Che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi





   
 
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