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Autore: _Lightning_    17/12/2019    4 recensioni
[INCOMPIUTA]
«Mi sembrava che ne avessi bisogno,» sussurra Natasha, con voce velata, e Tony sorride appena a quello sfoggio di spavalderia che sanno entrambi essere inutile.
«Decisamente,» non la contraddice, ma aumenta un poco la stretta e sente la sua farsi quasi disperata a sottolineare quanto ne avesse bisogno anche lei.
Come se quell’abbraccio potesse alleggerire il dolore di entrambi, o fonderlo in modo da renderlo più comprensibile, meno oscuro.
Non sa se Natasha lo stia trascinando verso il basso per piantare un ormeggio sicuro, o verso l’alto, a fluttuare incerto a mezz’aria. Ma sfiora la terra con la punta dei piedi e rimane lì, in equilibrio, in bilico con lei.

In un universo in cui lo schiocco ha reciso e distrutto legami, chi è rimasto è costretto a ricostruirli, ritrovarli, o crearne di nuovi, con il costante interrogativo di quanto sia giusto andare avanti quando ci si è lasciati così tanto dietro.
[pre-Endgame // Hurt-comfort // IronWidow + Pepperony // PoV Tony]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera, Pepper Potts, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Violenza
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.8.

Controllo


 
“Someone tell me I’m dreaming
The freaks are rising up through the floor
Everything I believe in
Is telling me that I want more, more, more”


[Bag It Up – Oasis]



Gennaio 2019, Complesso dei Vendicatori

Spaesamento.

È questa la prima sensazione che prova Tony non appena varca la soglia della palestra del Complesso. È l’ambiente chiuso più ampio in cui abbia messo piede negli ultimi mesi, e una parte di lui trova più invitante il prato esterno privo di confini o mura – se solo non ci fossero un metro di neve e una temperatura polare a ostacolare qualunque tentativo di esercizio fisico.

Qui si sente minuscolo, con un soffitto troppo alto sopra la testa che gli dà esatta misura della propria grandezza irrisoria, e c’è così tanto spazio racchiuso in troppo poco – confinato, compresso – che sembra imporgli di percorrerlo tutto da cima a fondo. Fuori ci sarebbero solo la linea d’ombra del bosco, la sponda grigia del fiume, le collinette lontane. Barriere naturali che non chiedono di essere raggiunte, al massimo osservate a distanza. Deglutisce e si chiede cosa abbia avuto in mente quando ha progettato questo posto, pur sapendolo. È una palestra per supereroi, quella, che deve permettere di volare a un’altezza ragionevole a chi ne è in grado e offrire una distanza di lancio, corsa e combattimento opportuna a tutti gli altri. Una palestra inutile, al momento.

Si pente di aver seguito Natasha. Ha ceduto per sfinimento dopo tre giorni d’insistenze da parte sua, quando ha minacciato di prenderlo di peso e trascinarlo là dentro per la collottola. Non sa perché pensa di potersi permettere di essere così autoritaria con lui, ma non è esattamente nelle condizioni fisiche o mentali per potersi opporre. Ha comunque il vivo sospetto che sia Rhodey ad aizzargliela contro. Lui dopotutto ha già fatto la sua parte, per quanto possibile, e ora si limita ad osservarlo da dietro le quinte. Non hanno ancora davvero parlato, ma ci sono le schegge della sua promessa quasi infranta a rendergli dolorosa ogni parola che tenta di rivolgergli. Quelle, e troppi vuoti che lo fanno inciampare a ogni passo.

«Quindi, playboy?» lo riscuote Natasha, con un colpetto secco sul suo bicipite non più così tonico quasi a sottolinearne il decadimento. «Idee?»

Tony non la guarda e trattiene un sospiro mentre si stropiccia le palpebre. Non ha dormito bene stanotte, tanto per cambiare, e gli attrezzi più invitanti al momento gli sembrano i materassini di gommapiuma in un angolo.

«Uh, dovrei correre, così ha detto Bruce,» risponde poi distrattamente, strizzandosi la pelle tra le sopracciglia.

Coglie uno sbuffo da parte della donna.

«Noioso,» dichiara, incrociando le braccia con contrarietà.

«Sfondi una porta aperta,» replica Tony, avviandosi comunque verso i tapis roulant. «Non sei obbligata a farmi da balia, comunque: puoi anche andare a fare qualcosa di più interessante… tipo girare video in cui spieghi come uccidere qualcuno in venti modi diversi con una limetta per unghie,» aggiunge con voce svogliata e un cenno speranzoso del capo verso la porta.

Natasha sorride enigmatica.

«Ho dei passatempi più interessanti,» ribatte, staccandosi dal suo fianco per dirigersi a passo spedito verso uno dei sacchi da boxe appesi vicino ai tapis roulant.

Tony si lascia sfuggire un mezzo sorrisetto nel vederla avvolgersi con gesti esperti le fasciature protettive sulle nocche, e nota solo adesso che sono comunque escoriate. Nota solo adesso molte cose, incluso il fatto che le sue occhiaie sembrano essersi accentuate, nel corso di quella settimana. E che è dimagrita più di quanto avesse pensato, ora che la vede senza indumenti larghi addosso.

«Rabbia repressa?» le chiede, senza troppa ironia.

«Molta,» replica secca lei, assestando al contempo un gancio ben piazzato sul lato del sacco, con una forza che avrebbe probabilmente sfondato la cassa toracica a un essere umano.

Tony si morde l’interno della guancia e non ritiene necessario commentare la cosa. La capisce fin troppo bene, e in effetti anche lui sente il bisogno di uno sfogo fisico per tutto il coacervo di emozioni che gli ribolle dentro. Magari correre un po’ non è poi un’idea così malvagia. Osserva ancora per qualche secondo Natasha che si avventa accanita contro il suo avversario immaginario, con una furia controllata che raramente le ha visto esternare. Si chiede a chi stia pensando, mentre massacra quell’agglomerato di cuoio e gommapiuma, e crede di avere già una risposta. Sono tutti vittime dello stesso carnefice.

Si passa una mano tra i capelli e si decide a salire sul tapis roulant impostando una velocità moderata che non rischi di ucciderlo entro i primi cinque minuti. È stato fin troppo ottimista, perché ne resiste a malapena tre prima di ritrovarsi sfiatato e di dover scendere con delle acute fitte alla milza. E lui che credeva fosse il fegato, il problema. Si poggia di schiena alle sbarre dell’attrezzo, una mano premuta sul fianco e la testa gettata all’indietro, e sa che Natasha lo sta guardando di sottecchi mentre martoria quel povero sacco da boxe.

«Già finito?» gli arriva infatti, dopo circa un minuto in cui crede di aver sudato tutti i liquidi presenti nel proprio corpo.

Non risponde e si attacca alla propria borraccia, prendendo una lunga sorsata dal vago retrogusto di vodka. Ce ne ha messa giusto un bicchierino – forse due, forse tre – per un litro d’acqua, tanto per ingannarsi, ma sa che Bruce lo strozzerebbe comunque, a vederlo. È ancora intento a bere quando si accorge che la sequenza ritmata di nocche che si abbattono sul cuoio è cessata. Si ritrova Natasha di fianco, con uno sguardo indagatore stampato in faccia che non promette nulla di buono.

«Me ne dai un sorso? Ho dimenticato la mia,» chiede, con nonchalance eccessiva, per essere spontanea.

Tony impreca tra i denti, e si chiede come diavolo abbia fatto a capirlo – perché ovviamente l’ha colto in flagrante nei suoi patetici tentativi di attenuare quell’astinenza bruciante. Deglutisce e si stacca dalla borraccia, stringendola con fare un po’ troppo possessivo fuori dalla sua portata.

«Nah, non ti conviene: mononucleosi, me l’ha diagnosticata Bruce,» inventa, alzando le spalle con un sorrisino di sfida glaciale e un gesto generico verso di sé.

Natasha lo ignora totalmente e allunga fulminea un braccio, quasi strappandogliela di mano. Prende subito una breve sorsata, assaporandola come fosse diventata d’improvviso una sommelier e alzando poi le sopracciglia con falso stupore nel distinguere il retrogusto alcolico.

«Beccato,» commenta solo, impassibile, per poi tendergliela di nuovo.

Tony alza gli occhi al cielo scrollando il capo, ma sente anche un’ondata di bollente vergogna arrampicarsi dal collo in volto, come un bambino a dieta a cui viene scoperta la riserva segreta di merendine sotto al letto. Tira rigidamente le labbra, trattenendo la risposta sarcastica che vi aveva fatto capolino e sapendo di non potersi permettere di pronunciarla. Non si è mai sentito così debole in vita sua, e ritiene di averne viste abbastanza da far impallidire un veterano di guerra. Era più sicuro di sé sulla sabbia di Titano, a dispetto di tutto. Abbassa lo sguardo e prende la borraccia senza incrociare gli occhi di Natasha, che non si è ancora schiodata da lì. Potrebbe rinfacciarle che è lei a passargli l’alcol sottobanco, ma sa che non è questo il punto. Non si tratta di coerenza o moralità: sono due concetti troppo fumosi per entrambi. Stuzzica con un’unghia il tappo del contenitore, causando un irritante suono metallico, e cerca di forzarsi a parlare.

«Tu hai la tua, vero?» le chiede, con un breve sospiro.

«Certo,» risponde, con un cenno verso la propria postazione.

«Non corretta,» si assicura poi, piegando la bocca in una smorfia indecisa se tramutarsi in un sorriso ironico.

«Non oggi, no,» replica disinvolta lei, alzando appena le spalle.

«Ti spiace dividerla?» si obbliga a chiedere infine, in fretta, e il solo gesto di rinunciare a quella sorta di rete di sicurezza lo fa sentire come se avesse un improvviso, disperato bisogno di quell’intruglio annacquato.

Non ritratta comunque la richiesta, ignorando il lieve fremito che gli attraversa le mani e la morsa allo stomaco che gli ricorda quanto saranno tremende le prossime ore senza neanche un surrogato a cui attaccarsi. Sente già salire la nausea, e sa che non può ancora chiedere altro diazepam a Bruce. Si rassegna a dover semplicemente stringere i denti, in attesa della successiva dose d’alcol palliativo sotto supervisione di Natasha.

«Facciamo a cambio,» replica lei dopo un istante di riflessione, sequestrando di nuovo il contenitore dalle sue mani. «Non vorrei rischiare di nuovo di prendermi la mononucleosi,» lo prende in giro poi, con un sorrisetto furbo che gli fa di nuovo roteare gli occhi.

«Ti sbrighi ad andartene o vuoi che te la attacchi in altri modi?» la minaccia, per poi inclinarsi repentinamente verso il suo viso in un gesto giocoso.

Lei svicola via agile con una mezza piroetta sulle punte, il volto illuminato da un sorrisetto decisamente soddisfatto per la missione compiuta.

 
§
 

Gennaio 2019, Complesso dei  Vendicatori

La faccia di Thanos.

Un altro montante, così potente che sente un dolore sordo alle nocche e forse stavolta se le è quasi rotte. Carica comunque il colpo successivo: un diretto che gli si scarica lungo le gambe ben piantate a terra, facendogli vibrare le ginocchia.

La faccia di Thanos, di nuovo. Sfigurata, sanguinante.

Serra i denti, perché non è abbastanza, non è abbastanza: vuole distruggerla del tutto, vuole ridurla in poltiglia e incassargli il naso, disarticolargli la mandibola, far scomparire i suoi occhi porcini; ma ogni volta quel volto si ricompone beffardo di fronte a lui, ghignante, intaccato solo da quel taglietto ridicolo che è riuscito a infliggergli sullo zigomo violaceo a suon di pugni ferrei.

Torce all’indietro il busto e sferra un violento calcio che fa ondeggiare il sacco e tintinnare la grossa catena che lo sorregge, per poi arrestarne il movimento con un pugno nel mezzo dell’imbottitura che chiude mentalmente quella sequenza di combattimento.

E poi ricomincia, con più foga, le braccia fuori allenamento che bruciano e dolgono e sembrano volersi staccare dalle spalle. Gli pulsa la milza, acute stilettate di dolore che si espandono nel suo addome, ma non si ferma. Abbatte i colpi sul cuoio del sacco e sente le ossa di Thanos che si spezzano, la carne tumefatta, come se senza armatura potesse mai davvero scalfire il Titano. Ad ogni vibrazione sente qualcosa che si lacera dentro di sé, uno strappo che si allarga invece di ricucirsi, dei punti di sutura malfatti vicino al cuore che saltano uno dopo l’altro.

«Stark,» sente la voce di Natasha, più vicina, lontana, oltre la cascata del sangue che gli romba nelle orecchie.

La ignora, troppo preso dalla sua vendetta astratta e dipinta col sangue del suo nemico, troppo immerso in fantasie cruente che non l’hanno mai sfiorato in tutta la sua vita – nemmeno in Afghanistan, nemmeno con Stane, nemmeno con Killian.

«Tony,» lo chiama Natasha, più forte, e sente la sua mano che gli stringe decisa la spalla impegnata a caricare il colpo. «Ti stai facendo male,» aggiunge, come se quello fosse un motivo valido per fermarsi.

Lui rilascia comunque quell’ultimo colpo, svicolando in parte dalla sua stretta, e si paralizza così per qualche istante, con le nocche immerse in sangue e carne devastata esistenti solo nella sua mente, il fiato che gli sibila tra i denti. Poi lascia scivolare via il pugno, le braccia di nuovo molli lungo i fianchi. Natasha riaggiusta la presa e vi aggiunge quella simmetrica dell’altra mano, a tenergli entrambe le spalle che si alzano e si abbassano rapide, la maglietta incollata alla pelle. Rimane lì ansimante, con le mani che gli dolgono e le sopracciglia così contratte da indolenzirgli l’intero volto. Deglutisce rumorosamente e si passa un palmo fasciato sulla fronte, poggiandola brevemente contro il sacco e rifiutandosi di voltarsi a guardare in faccia Natasha.

«Fine primo round,» commenta soltanto, tra un respiro spezzato e l’altro, e sta tremando da capo a piedi mentre si scosta dal sacco – solo un sacco di cuoio nero, non il corpo martoriato di Thanos.

«Stai bene?» chiede Natasha, neutrale, e sembra molto dubbiosa su quel fatto.

Ma lascia scivolare via le mani e gli permette di allontanarsi a occhi bassi, un passo malfermo alla volta. Afferra la borraccia e finisce di bere una lunga sorsata d’acqua pura prima di decidersi a risponderle.

«No,» dice secco, con voce arrochita per lo sforzo. «Forse,» le concede poi, e stringe e rilassa ripetutamente i pugni doloranti che probabilmente gli diventeranno lividi.

Scioglie le fasciature e stende le dita, trattenendo bruscamente il respiro per la fitta scricchiolante che gli risale l’avambraccio. Ha decisamente esagerato, e non si sente del tutto padrone di sé. L’istinto ancestrale di riprendere a sferrare pugni e calci lo divora, e la rabbia continua a risalirgli le vene a ondate, dei piccoli tsunami che gli si abbattono sul cuore.

Questo è decisamente più appagante della corsa, ma risveglia in lui delle sensazioni finora inibite, sepolte sotto tutta l’apatia e la prostrazione in cui si è rifugiato. Non sa se disseppellirle sia un bene o un male. Non sa se stia davvero meglio. Se quella sia energia positiva o negativa, se sia normale provare il desiderio di fare a pezzi il mondo per poi riassemblarne tutti i pezzi scomposti. Ma ne ha paura, in un certo senso che non sa spiegarsi, ha paura di quanto siano potenti quelle emozioni che lo attanagliano.

Scuote la testa a scacciar via quei pensieri, posa la borraccia e si pianta le mani sui fianchi, prendendo grossi respiri per ossigenare muscoli e cervello. Si sente già sfinito. Non è in forma, per niente: gli si contano ancora le costole e ha le anche aguzze, ma la settimana di allenamenti intensivi gli ha fatto almeno recuperare un po’ di fiato. Molto intensivi, perché la sua voglia di bere è molto intensa e preferisce farsi prendere un infarto piuttosto che avere una ricaduta.

È da mesi che non ha pensieri così lucidi e si aggrappa ad ognuno di essi anche se finisce sempre per ustionarsi, perché molto di rado sono bei pensieri. Annebbiarsi la mente di fatica è una soluzione decisamente più sana e meno deleteria che farlo con l’alcol, ma non è costantemente applicabile, a meno che non inizi a correre anche di notte e nel sonno. Per fortuna – non avrebbe mai creduto di poterla considerare una fortuna – Rhodey e Natasha lo sorvegliano a vista, e crede che anche Rogers e Banner abbiano ricevuto direttive ben precise nel caso dovessero pescarlo con una bottiglia di whiskey in mano. Per ora, si fa bastare i flaconi sempre più sporadici che gli recupera Natasha, solo un flebile placebo che gli concilia il sonno nei momenti più duri.

Si asciuga il volto con un panno, sfregandosi il principio di barba che sta ricrescendo fastidiosa e troppo lentamente, per i suoi gusti. È stato infine obbligato a quel gesto radicale per dare un senso alla massa incolta che un tempo era un pizzetto ben curato, ma non vede l’ora di riavere in faccia quel segno distintivo per sentirsi un po’ più Tony Stark e un po’ meno alcolista anonimo ripescato dal fondo del burrone. Natasha gli si avvicina circospetta, aggirandolo a un passo di distanza, per poi scrutare con occhio clinico le chiazze di un rosso vivo che spiccano sulle sue nocche.

«Forse devi fare un altro pit-stop da Bruce,» suggerisce, e porta i palmi sotto i suoi per sollevarli e mettere in evidenza le lesioni, sfiorandole coi pollici.

Lui annuisce di riflesso, senza alcuna intenzione di seguire il suo consiglio, per poi fissarla accigliato.

«Tu a chi pensi?» le chiede a bruciapelo, con un cenno del capo verso il sacco da boxe.

Lei alza le spalle e ritrae svelta le mani, come se potesse tradire i propri pensieri con quel semplice contatto.

«Dipende, ho una lunga lista,» risponde evasiva.

Tony scrolla appena la testa: è esattamente il tipo di risposta che si aspettava. Né spera di ottenerne altre, ma la scruta comunque da sotto le ciglia con fare insistente, con un’aria un po’ dispettosa a inclinargli il volto: punzecchiarla è un’ottima distrazione e lei sta quasi sempre al gioco, dando il via a gare d’astuzia per chi riesce a mettere per primo all’angolo l’altro con domande e insinuazioni scomode. Nessuno dei due pretende risposte reali o sincere, anche se a volte sfuggono ambigue tra le maglie di depistaggi, vaghezza e menzogne. A lui sta bene così, e presume anche a Natasha: non sono tipi da schiudere troppo spesso le porte dei propri pensieri, ed è meglio che ognuno rimanga con la propria chiave ben stretta in mano.

«Qualche favorito sulla lunga lista?» chiede quindi, con fare noncurante.

«Sei un genio: puoi arrivarci,» ribatte lei, sempre pronta a deflettere i colpi, veri o immaginari che siano.

«Riceverò mai una risposta diretta da te?» sbuffa lui tra il serio e il faceto, spezzando per un istante il gioco.

«Solo se non è qualcosa di personale,» sorride lei, disarmante. «Tu? A chi pensi?» sferra poi il suo contrattacco.

Tony medita per un istante se rivelarle l’ovvio, quel Titano che nella sua mente si rimpicciolisce per poi farsi invalicabile negli incubi. Poi solleva appena un angolo delle labbra in un sorrisetto scaltro, anche se rigido.

«Sei una spia: lo sai già,» la rimbecca, e lei sembra segretamente apprezzare quella risposta. «Secondo round,» dichiara poi, afferrando dalla panca i mezzi guanti imbottiti, che offrono decisamente più protezione delle bende.

«Ho un’idea migliore,» lo ferma lei, indicando il ring.

Tony sbatte i guanti l’uno contro l’altro con un rumore sordo e tentenna sul posto, colto alla sprovvista.

«Uh, non so se è davvero migliore,» ribatte, mantenendo un tono leggero, ma quel sottile filo di furia che gli fa tremare le vene sembra inspessirsi e contorcersi con spire serpentine.

«Perché no? Non ho avuto mai il piacere.»

«Ti ho vista in azione. In realtà è la prima cosa che ti ho visto fare,» rammenta poi, e tutto ciò gli sembra accaduto sette vite fa in un mondo parallelo. «Mi avevi quasi messo fuori gioco l’autista. Una... pessima prima impressione, signorina Rushman, non avrei mai dovuto assumerti,» specifica, sbarrando gli occhi a simulare orrore e pentimento.

«Oh certo, è sicuramente la prima cosa che hai pensato quando mi hai vista,» rotea gli occhi lei. «O googlata,» aggiunge, assestandogli un piccolo pugno vendicativo sulla spalla nel passargli accanto, prima di avviarsi con fare deciso vero il ring.

Tony carica un sonoro sospiro, ma ritiene superfluo controbattere e rilascia invece uno sbuffo divertito.

«E date sempre a me del narcisista,» si lamenta soltanto, muovendo un paio di passi a seguirla, per poi arrestarsi.

Natasha è già salita sul ring, dando per scontato che lui le tenesse dietro. E lo farebbe volentieri, in realtà, se solo non sentisse un pungolo nello stomaco a frenarlo, uno strascico di paura irrazionale che gli occlude il cervello.

«Romanov,» la richiama, facendosi serio. «Lo so che adesso sembro... non so, allegro ed equilibrato e stronzate del genere, ma non so se riesco a... a boxare in modo amichevole, in questo momento,» replica, offrendo riluttante la propria scarsa stabilità emotiva.

Natasha si poggia sulle corde del ring, intrecciando le mani sotto il mento. Sembra ancora imperturbabile, anche se le sue sopracciglia sono inclinate in un’angolazione più dura del solito.

«Stark, mi sono allenata con persone molto meno delicate di te e non morirò certo per qualche livido. Sempre che tu riesca a farmelo,» lo punzecchia, ma sotto all’atteggiamento ancora scherzoso si cela una nota più composta, attenta, come se stesse camminando sul ciglio di un crepaccio nascosto.

Tony serra la mascella intuendo il riferimento implicito e cercando di troncare le associazioni mentali inevitabili legate al braccio metallico di Barnes [1]. Non commenta, limitandosi a scuotere la testa con le labbra strette in una pressa. Rimane piantato sul posto, i guantoni stretti in mano, e la rabbia lo scotta ancora dall’interno in vampate intermittenti. Non ha dubbi sul fatto che Natasha sia perfettamente in grado di tenergli testa, ma continua a pensare a quel singolo pugno non trattenuto, al calcio sferrato con troppa violenza e sa che anche non mettendo a segno neanche mezzo colpo si sentirebbe in difetto, meschino.

«Non sei un sacco da boxe,» si limita a dire, in tono semiserio, e sa che non deve aggiungere altro perché ha visto la foga con cui lei stessa scarica le proprie frustrazioni.

«No, ma magari ti evito di farti male perché sei troppo fuori di te per accorgerti di esserti rotto le nocche.»

Tony sospira, tentato e allo stesso tempo reticente; stringe appena i pugni constatando che, sì, probabilmente ha qualche microfrattura.

«Cosa dovrebbe essere? Una specie di addestramento Jedi?» commenta sovrappensiero

«Una specie,» replica lei, arcuando le sopracciglia con lieve sorpresa.

Quando realizza in ritardo da dove provenga quella nozione di cultura pop, Tony sente il fiato comprimersi in gola, e sa che non riuscirà mai più a guardare un film di Star Wars in vita sua. Non riuscirà più a fare una marea di altre cose, incluso passeggiare sulla spiaggia a Malibu o mangiare pop-tarts fino alla nausea, o passare di fronte alle vetrine con dentro abiti da sposa o seguire le linee geometriche di una ragnatela. Non senza quel dolore acuto sotto lo sterno che gli ricorda le schegge e il reattore.

Sente di nuovo un fiotto di rabbia che lo invade, mischiato a dolore debilitante. Un cocktail micidiale che gli strizza il petto e lo lascia stordito per un istante, col desiderio di avere una miscela alcolica reale in mano per annegarsi. Sa che dopo il prossimo round contro il sacco si ritroverà con una massa sanguinolenta al posto delle mani.

Sale sul ring senza quasi rendersene conto, con il volto che vibra tra lo scoppiare a piangere e il liberare un grido lancinante. Trema appena e sa di essere tutto tranne che indecifrabile, agli occhi della spia, ma si sforza di controllarsi. Indossa i guantoni, impiegandoci più tempo e concentrazione del dovuto, in uno di quegli istanti di straniamento che lo colgono quando il sovraccarico emotivo si fa troppo grande. Accoglie il senso di vuoto, lascia che gli avvolga la mente e poi lo scaccia di nuovo, risintonizzandosi sul presente materiale.

Quando rialza lo sguardo su di lei, la coglie intenta a fissarlo, per poi realizzare che è concentrata su un punto poco dietro di lui. La osserva per un istante e sembra spaesata, con le ombre sotto gli occhi che sembrano abissi lividi.

«Nat?» la riscuote a mezza voce, e lei quasi sussulta nel rimetterlo a fuoco di colpo.

Quasi: si controlla, ma lui intravede comunque quel tremito involontario specchio del suo.

«Possiamo anche rimandare a domani,» le propone, goffamente.

Non sa mai come comportarsi di fronte a queste sue microscalfitture, agli spiragli fugaci che ogni tanto lascia trasparire senza volerlo nonostante la maschera da spia. Non sta bene neanche lei, gli è fin troppo chiaro, ma lui non ha mai saputo come stare vicino alle persone. È un qualcosa che ha mancato d’imparare da piccolo, da bambino, quando si attaccava alle gambe di completi gessati che lo scalciavano via e rifiutava braccia materne e consolatorie. Un’abilità che evidentemente non gli è mai stata innata, e che non crede proprio di poter sviluppare adesso, tanto meno con una persona fin troppo simile a lui.

«Non c’è alcun bisogno,» ribatte lei, monocorde, e di nuovo il suo sguardo si scollega per un momento, opera uno scavalcamento di campo. «È passato solo molto tempo dall’ultima volta che mi sono allenata in combattimento con qualcuno,» alza le spalle poi, con indifferenza, la voce quasi robotica.

Tony contrae le sopracciglia perplesso, una perplessità ha un sottotono d’inquietudine ben marcato.

«Credevo ti allenassi spesso con Rogers,» osserva, esitante, e coglie un cenno di nebulosa confusione nei suoi occhi verdi, un altro spiraglio che si richiude immediatamente.

«No,» replica in fretta. «Quasi sempre separati. Lui dovrebbe trattenersi troppo con me e questo vanificherebbe il senso della simulazione,» spiega concisa, poi il suo volto torna una lastra impassibile.

Tony esita, indeciso se lasciar correre o meno. Se afferrare il lembo svolazzante di quel telo buttato a coprire malamente una menzogna e tirarlo via, o se lasciare che si adagi su di essa, celandola per quanto possibile. Incontra gli occhi di Natasha ed è chiaro che sappia sia di aver avuto uno scivolone, sia che lui non è così stupido da non essersene accorto.

La guarda fisso per un istante, prolungando la pausa quel tanto che basta per sottolineare il fatto che, sì, sta solo facendo finta di non essersi accorto di nulla; poi mette su un mezzo sorrisetto, controllando la chiusura dei guantoni con fare di nuovo rilassato.

«Beh, allora sto vanificando anch’io i tuoi allenamenti,» commenta, abbattendo un pugno sul palmo del guantone per saggiarne la tenuta, e lei infila rapida i propri.

«Non ho certo detto che mi tratterrò,» sorride poi, perfida, mettendosi in guardia con un movimento fulmineo.

Tony libera un flebile sospiro, imitandola flemmatico: adesso si sta decisamente pentendo di essere salito su quel ring.




 

Note:

[1] Natasha e James sono una coppia canonica nei fumetti sin dall'alba dei tempi. Qui Tony è a conoscenza della cosa in luce della mia mini-long
Ferite, in cui questo è il tema centrale. Vi invito a recuperarla per avere un quadro più chiaro della situazione, e a farvi un giro sulla serie M.T.U. di T612 se vi interessano i retroscena canonici tra James e Natasha <3 Va comunque detto che non tutto ciò che viene detto/accade in Ferite trova riscontro in questa long, soprattutto riguardo al passato di Nat, essendo comunque due lavori ben distinti e per lo più indipendenti.


Note dell'Autrice:

Cari Lettori, rieccoci qui con le disavventure alcoliche (o quasi) del nostro sbandato preferito. Solo che, evidentemente, lui non è l'unico sbandato che gironzola nel Complesso ;)

Tutti gli accenni inerenti a Natasha, al suo passato e alle sue menzogne verranno svelati pian piano nel corso della narrazione, per rispettare il suo canonico riserbo e il fatto che ufficialmente i retroscena nella Stanza Rossa non siano di dominio pubblico, né Tony li ha mai ricercati. Come accennato nelle note precedenti, c'è un blando collegamento con la mia mini-long
Ferite, principalmente per evitare di dilungarmi troppo sulla questione-Barnes, in quanto temo svierebbe troppo dal tema portante della storia.

Che, a proposito di temi portanti: una studiata riflessione al riguardo mi ha spinta a modificare il titolo. La struttura di questa storia si è rivelata più complessa e stratificata di quanto avessi previsto inizialmente, e credo che quello precedente fosse in un certo senso fuorviante: sicuramente l'amore è uno dei nuclei narrativi, ma non l'unico, né il più importante. Amore che vieni, amore che vai fa comunque idealmente da colonna sonora in determinati passaggi futuri, incastrandosi bene coi concetti espressi, ma credo che questo Mentre tutto scorre renda meglio il contesto in cui è ambientato il tutto: appunto i cinque anni "transitori" in cui si cerca di andare avanti.
Il nuovo titolo è un prestito dei Negramaro, e qui ringrazio
T612 che mi ha invogliata ad ascoltare meglio l'omonima canzone, presente nelle mie playlist della storia ma non presa più di tanto in considerazione... per poi rendermi conto che calzava a pennello su questi due fiori di zucca idioti.

Chiudo il papiro e ringrazio tutti coloro che continuano a leggere e ad aggiungere la storia alle loro liste.

Grazie di cuore <3

-Light-
   
 
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