Fumetti/Cartoni americani > Voltron: Legendary Defender
Ricorda la storia  |      
Autore: Mikirise    19/12/2019    2 recensioni
"Scappare di casa la settimana prima di Natale -deve esserci qualcosa di veramente molto importante, una situazione troppo pesante per essere sopportata. Se neanche il Natale riesce a tirare su il morale di una famiglia... ora Lance si sente triste. E sente un pochino di pena per quel ragazzo col broncio. Inclina un po’ la testa e prova a guardare il cartello che dovrebbe segnalare la destinazione del treno su cui si sale. Ma non riesce a leggere niente. Ci sono delle lettere, di questo è abbastanza sicuro, e c’è anche un orario, un’ora già passata e le luci gialle che si accendono a intermittenza, per segnalare l’arrivo di qualcosa che non si avvicina. Ma non si avvicina niente."
[Calendario dell'Avvento 2019, per il gruppo Voltron Legendary Defender ITA!]
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Allura, Coran, Kogane Keith, McClain Lance
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

NdA: Non lo so, mi sa un po' di addio questa fic. Qualche settimana fa, ho litigato con una persona sul Realismo Magico, e ho iniziato a scrivere questa storia pernsando proprio al genere. Quindi ho provato a seguirlo il più possibile. Buon Natale, spero tanto che la storia vi piaccia. VVB.


I binari che vanno verso Sud


Il paesino in cui è cresciuto, ha soltanto un collegamento con il mondo esterno. La chiamano la mancanza di interesse per le zone rurali, e anche un abbandono da parte delle classi dirigenti. Persone che crescono in zone del genere, in cui è difficile andare via, in cui è difficile anche solo pensare a un mondo al di fuori del proprio, crescono in modo diverso da persone che invece hanno la libertà di muoversi, hanno la libertà di essere ovunque vogliano andare. Sono cose che sanno tutti. Ti si allarga il cervello, se puoi viaggiare, ti si aprono nuove opzioni, nuovi modi in cui pensare, diventi più saggio, diventi più prezioso. Le zone rurali del Texas non hanno queste aperture. L’unico modo per andare via dalla piccolissima città di Lance, è un treno, che passa ogni tanto, non sempre, alle ore che dice lui.

Lance spinge la valigia su per la collina. Fa caldo. Fa così caldo che non riesce a non sudare, che sente i un calore anormale sulla base del collo e che si è dovuto togliere la giacca, il cappello, i guanti. La collina non è nemmeno così alta. È la valigia che è pesante. Ed è la valigia che lo sta rallentando.

La leggenda vuole che la stazione del treno sia stata costruita molto prima dell’invenzione del treno. Prima del treno elettrico, prima del treno a carbone. Gli abitanti che si erano riuniti nella campagna sottostante queste colline si erano guardati intorno e si erano detti che volevano creare una stazione proprio lì. In mezzo al nulla. Senza nemmeno l’idea di cosa potesse essere un treno. Furono cinque persone a costruirla, con dei massi enormi e una perfezione aritmetica che ha fatto in modo che adesso, secoli dopo, quella stazione sia ancora in piedi, più bella che mai. Più in alto che mai.

All’inizio, si dice, tutti erano sicuri che fosse una specie di altare per una qualche divinità sconosciuta. Gli europei che sono venuti fino a qui, per conquistare e distruggere, hanno usato l’idea della stazione del treno per chiamare i popoli nativi dei satanisti, o dei blasfemi. Hanno cercato di distruggere la stazione e si sono mostrati sorpresi, quando nessun nativo si era mosso in sua difesa. Infatti, sempre secondo la leggenda, si dice che una delle cinque persone che sono state parte della costruzione della stazione originaria abbia messo in chiaro che quella non era un tributo a nessuna divinità. Era stato come un’ispirazione. Una dimostrazione di piacere. Arte, insomma. Qualcosa da ricordare. Fatto di sassi e terra e argilla. Ogni europeo che si avvicinava alla stazione e provava a toccare l’argilla, impazziva. Dicono che vedessero il tempo tutto d’un tratto e i popoli nativi erano rimasti un pochino confusi perché -come vedono allora questi uomini venuti da lontano, con la barba e la pelle bianca? Non vedono normalmente il tempo?

Queste domande che per i nativi erano più che legittime (erano davvero confusi dalla confusione degli europei) sono costate loro la vita. O almeno, hanno dato una stupidissima scusa al loro sterminio, secondo quello che dicevano gli europei. Degli originali nativi americani del luogo, non vi rimane che lo zero virgola tanti zero e infine uno percento. Il popolo costruttore è stato sterminato. Per qualche ragione, la stazione dei treni no.

La collina non sembra così ripida, vista dal basso. Eppure l’arrampicata non sembra finire mai. E la valigia sembra diventare sempre più pesante. Sembra che qui inizi a fare caldo, sempre di più e Lance vorrebbe arrivare su il prima possibile. Si passa una mano sulla fronte. Si guarda intorno. Nessuno sembra voler andare via di qui. Lui è l’unico che è andato via e che poi è tornato. Sinceramente, è così stanco. Stira le braccia e continua a tirare, per salire su. Non c’è un rumore, intorno a lui. Solo gli alberi che si muovono seguendo una leggera brezza che non porta freschezza ma solo caldo.

La stazione del treno è stata ultimata più tardi, quando sono stati inventati i primi treni. Quindi intorno al diciottesimo secolo. Si dice che avevano iniziato a vedere una specie di assomiglianza tra le stazioni del treno che ormai stavano iniziando a essere costruite per tutti gli Stati Uniti d’America e quel piccolo -beh, qualsiasi cosa fosse. Le persone che si erano insediate intorno al monumento, che ai tempi chiamavano le Rocce del Sole, si erano indignate al pensiero che un’opera d’arte di un popolo scomparso fosse distrutto in questo modo. E anche perché erano conservatori, che detestavano l’idea del cambiamento. Protestarono davanti alla stazione, girando intorno alla collina ancora e ancora. Ma la verità è che a nessuno di loro importava nulla della presenza o assenza del monumento dei nativi americani. Appena ebbero il loro profitto, anche i più ferventi credenti, che continuavano a ripetere che il treno sembrava proprio essere un’invenzione del demonio, desistettero.

La stazione è stata costruita e, l’ultima testimonianza della vita di quel particolare gruppo di nativi americani, è stato cancellato, senza che a nessuno importasse davvero.

Lance continua a spingere e a spingere. La valigia sembra volergli cadere addosso e quel leggero fresco che doveva portare la brezza che veniva da Est continua a soffiare su di lui, come se gli volesse togliere le forze. Lance piega un pochino di più le ginocchia e continua a salire su per la collina.

La stazione, dal diciottesimo secolo, non è per nulla cambiata. I massi su cui le cinque persone che costruirono questo monumento, hanno resistito per secoli, mentre, intorno a loro crescevano le piante, attorcigliandosi insieme alle radici, ai rami, alle foglie, che creano un disegno non troppo complicato. Lance ci giocava, tra questi boschetti, quando era più piccolo. Coi piedi scalzi e senza un dente davanti. Con gli occhi leggermente chiusi e un enorme sorriso, mentre correva via da sua sorella, che provava ad acchiapparlo, arrampicandosi su per gli alberi e poi fermandolo, atterrandogli addosso.

I boschetti della collina, d’estate, sembrano uscire da un quadro impressionista. Ci sono i diversi versi, intorno a chiunque cammina per il sentiero, e il marrone degli alberi sembra quasi scomparire, mentre gli uccelli volano in picchiata verso di te, per raggiungere una noce o altro e dei raggi solari si creano dei piccoli tunnel di luce, che danno fastidio agli occhi. D’estate, sulla collina, non fa mai caldo. Sulla collina si possono ancora incontrare animali come gli scoiattoli, alcuni pavoni, e, se si è davvero molto fortunati, dei cinghiali. Nonostante questo, quasi nessuno decide di salire la collina e ancora meno persone decidono di salire la collina fino ad arrivare alla stazione del treno. Era, invece, un luogo che, per qualche motivo, si temeva. Un luogo in cui non ci si dovrebbe mettere piede.

Questo, ovviamente, la famiglia di Lance, arrivata col treno ormai diciotto anni fa, con in braccio il più piccolo dei McClain, non ne aveva la più pallida idea. Lance si chiedeva sempre per quale motivo nessuno volesse avvicinarsi alla collina, o per quale motivo tutti lo guardavano con quella strana faccia, quando diceva che lui e sua sorella passavano lì la maggior parte del loro tempo libero, e gli dicevano sempre che doveva essere molto coraggioso.

Lance ha casa accanto a quella collina. L’ha guardata per quasi tutta la sua vita. Si è sempre chiesto cosa ci fosse di così coraggioso nel giocare su una collina.

Lance scivola sulla terra e rischia di cadere a faccia in giù, ma riesce a stabilizzarsi prima, afferrando la valigia e poi fermandola perché non cada giù e non gli faccia ricominciare la salita. C’è un momento di puro silenzio. Un momento in cui Lance sente di essere lì ma di non essere davvero lì e in cui si sente sedersi per terra, con tutto questo caldo che non lo fa respirare, mentre tiene un braccio intorno alla valigia e con l’altro braccio prova a prendere la sua giacca, la sua sciarpa e i guanti. E deve prendere un respiro profondo. Poi un altro respiro profondo, per assicurarsi di star respirando correttamente.

In effetti, è vero che nessuno si avvicina alla stazione. Nessuno si avvicina alla collina. E tutto sembra essere molto abbandonato da queste parti. Per quanto ne sa, le uniche persone che hanno usato questa stazione nell’ultimo ventennio, beh, sono i McClain. E la persona che ha più preso un treno per uscire e poi rientrare, per motivi di studio, soprattutto, è proprio Lance. Tutta la città, infatti, preferisce muoversi in altri modi o, molto più frequentemente, preferisce non uscire dalla città, come se ci fosse una specie di forza che li fa gravitare solo lì. Come se non si sapesse che cosa potrebbe succedere, una volta usciti da qui. E, comunque, neanche la sua famiglia si avvicina così tanto alla stazione, forse in maniera subconscia, o chissà.

Lance posa la guancia sulla valigia.

Guarda il vuoto per un po’. Non pensa davvero a niente. Si passa una mano sulla guancia per poi alzarsi in piedi e tornare a spingere la sua valigia. Sarebbe davvero assurdo, adesso, tirarsi indietro. Non lo ha mai fatto e, comunque, non vuole iniziare a tirarsi indietro proprio adesso. La valigia sembra un masso da portare, nonostante all’inizio dell’ascesa era davvero molto leggera e i suoi piedi sembrano fargli male più di ogni altra volta. Un macigno. Oggi sembra davvero un macigno che gli farà male e lo schiaccerà alla prima occasione e non capisce per quale motivo sente come se le radici stessero provando a tenerlo giù. Ha la strana sensazione di essere spinto indietro, di essere risucchiato.

Quindi deve continuare a spingere la valigia.

“Oh, sei tornato” dice qualcuno.

Lance alza lo sguardo e sorride un po’. Vuol dire che è quasi arrivato. Ci vuole soltanto un pochino più di sforzo. Ci vuole soltanto un pochino più di resistenza. Spinge la valigia, che sembra essere diventata un masso e, quando si rende conto di non poter più spingere in verticale, ma di trovarsi su un piccolo marciapiede infestato da muschio e erbaccia, si lascia scivolare sulla valigia, cercando di riprendere fiato.

“Dovresti lavorare con la tua resistenza.”

Lance alza lo sguardo e fa una smorfia, quando i raggi del sole lo colpiscono direttamente in faccia. Alza una mano, per coprirsi, e lancia uno sguardo dietro di lui. Sembra estate. Dietro di lui, sembra estate. “Allura” mormora, alzando una mano, come se stesse morendo e cercasse un aiuto.

La ragazza davanti a lui, con le mani congiunte e un sorriso quasi robotico, alza uno sguardo verso un enorme orologio. Osserva come la lancetta più lunga si muova proprio sul sei e poi torna a guardare Lance, posando una mano sul fianco. “Il treno arriverà tra esattamente un’ora” gli annuncia, per poi muoversi verso la sua cabina. Così. Senza aggiungere nient’altro.

Lance cerca di fare un qualche gesto di saluto, mentre prova di nuovo a dire qualcosa, magari per salutarla, magari per chiederle come sta. Ma non ha il fiato per farlo, quindi, di nuovo. Si siede sui mattoncini rossi, con tanta erba tra loro e posa le mani accanto ai fianchi, per prendere ancora più aria, mentre la valigia cade di lato accanto a lui e continua a fare caldo. Fa davvero caldissimo.




.Mezzanotte

Allura è una di quelle strane creature che si incontrano nella vita e che non riesci a capire mai fino in fondo. Un po’ come Marco, il fratello maggiore di Lance. Dice di aver vissuto tutta la sua vita in questa stazione, coltivando fiori e guardando treni arrivare e andare via. Lance non sa come prendere queste sue parole perché, in realtà, perché se fosse così, se Allura dicesse la verità, allora com’è possibile che loro due non si siano mai incontrati? Com’è possibile che nelle sue scalate con sua sorella, Veronica, Allura non si fosse mai fatta viva, trai cinghiali, magari? Questo però non lo ha mai chiesto. Ha solo accettato la realtà così com’è.

Lance guarda con una smorfia l’orologio appeso proprio accanto al cartello con il numero uno del binario. Il nome della località, Veradero, da questa parte del binario è scritta perfettamente, sotto uno sfondo blu. Girandosi verso l’altro binario, invece, il nome è rovinato, come se fosse centinaia di anni più vecchio, rispetto a quello più vicino a Lance. È anche vero che questa non è l’unica stranezza della stazione e, quando Lance aveva chiesto ad Allura quale fossero i motivi di quelle piccole irregolarità, come il cartello che sembra più vecchio, ma anche da dove provenga l’acqua che bagna una parte dei binari e altre domande, Allura aveva semplicemente risposto che lei è stata incaricata di custodire solo il primo binario, non entrambi.

Allura ha decorato il primo binario con delle ghirlande e dei campanelli dorati con dei cappellini rossi. È l’unico indizio, insieme a un piccolissimo albero di Natale davanti alla sua cabina, del periodo in cui si trovano. E Lance posa la sua giacca, la sciarpa, il cappello e la valigia sulla panchina, per poi rendersi conto di avere ancora caldo, nonostante tutto. Si passa una mano dietro il collo e respira profondamente, guardando verso il cielo. Natale è quel tipo di periodo che si passa in famiglia. Non segue nessun pensiero a questo. Solo un lungo silenzio anche nella sua testa, una possibilità di silenzio. Chissà come passa le sue giornate, Allura, tutta sola, qua, su una collina.

Anche questa è una domanda che Lance le ha fatto. Lei non ha risposto.

Lance si alza in piedi. Rimane fermo per un po’. Non sa se dovrebbe muoversi verso Allura, oppure no. Di solito lei preferisce rimanere in silenzio, cura le sue piante, risponde a malapena alle sue domande, perché, ugh, è possibile che Lance abbia giocato male le sue carte, in un principio e che lei adesso abbia una brutta impressione di lui. È anche vero che Lance ci prova con le persone più per gioco che per altro. Si aspetta un rifiuto. Sperava che dopo il rifiuto potessero diventare amici. Non è che non abbia provato a venire a visitarla. Salire la collina solo per vedere come se la stava cavando e altre frasi fatte così. Solo che, ogni volta che saliva per questo motivo, chissà perché finiva sempre nel secondo binario e, sempre chissà perché, Allura non era presente. Ed è stato così la prima volta, la seconda volta e anche la terza, quarta, quinta, sesta volta che è venuto a trovarla.

Fa così caldo che gli iniziano a sudare anche le mani che teneva chiuse. Cerca di asciugarsele sui pantaloni e poi si muove verso la cabina di lei, dicendosi che non può succedere niente di male a provare ad avere nuove amicizie. Soprattutto per lui, che passa in questa stazione in continuazione e per lei, che non sembra avere poi così tante persone con cui parlare. Ma a quanto pare non sta così simpatico ad Allura, visto che continua a ignorarlo.

Allura è cresciuta in questa stazione, in effetti. C’era sua madre, c’era suo padre, e c’era anche Coran. Poi, a un certo punto, suo padre e sua madre sono scomparsi ed è rimasto soltanto Coran, che le parlava di quanto fossero belli certi tipi di treni, quanto fossero belli certi tipi di fiori, quanto fossero belli certi tipi di esperienze. Allura ha avuto uno, cinque, dodici e poi diciassette anni qui. È stata alta venti, cento, centoquaranta e poi centosettanta centimetri. E lì è stata bambina, pre-adolescente, adolescente e adulta. È cresciuta in mezzo ai fiori che suo padre ha piantato, imparando a prendersene cura e ad amare. Non è mai scesa dalla collina.

È anche cresciuta da sola. Giocava intorno alla stazione. Rincorreva farfalle e mangiava terra, come tutti i bambini con meno di cinque anni. Solo che, beh, lei lo faceva da sola. Senza nemmeno un amico a tenerle compagnia. Non si è mai innamorata. Non ha mai incontrato una persona che le abbia fatto venire voglia di uscire dalla stazione, prendere il treno, andare via. Quindi è semplicemente rimasta, con la divisa da custode, che una volta era di suo padre e con questa sensazione di noia che non riesce a togliersi da sopra la pancia.

Queste cose le ha scoperte piano piano, Lance. Una partenza dopo l’altra. Un’attesa dopo l’altra. Una battuta dopo l’altra. Allura ama tante cose. Allura non sa se è capace di muoversi al di fuori della stazione. Allura ha un’anima gentile. E ogni tanto sbuffa una risata, quando Lance dice qualcosa. Forse -potrebbe succedere che Lance porti un pochino di felicità ad Allura, nelle sue partenze. Ma non pensa che siano amici. Non si fa amicizia in così poco tempo. E non in questa strana situazione. Almeno. Questo è quello che ha detto lei.

Lance si morde il labbro inferiore, passandosi una mano sulla nuca. Allura, seduta annoiata con il mento sulla mano, guarda da qualche parte oltre le sue spalle. E il vento qui sopra è fermo, nonostante l’aria sia notevolmente più frizzante. Lance si appoggia al muro, mentre Allura gli indica l’altro binario con un dito e le sue sopracciglia aggrottate. “Il suo treno ritarda” lo informa lei a bassa voce.

Lance sbatte velocemente le palpebre e prima guarda lei, per poi guardare verso il binario che lei indica. C’è una differenza stilistica quasi impossibile da vedere a occhio nudo, parlando di binario uno e binario due. La pietre del binario uno sono più basse, più colorate di terra e erba. Le pietre del binario due sono invece più umide. C’è molto muschio, alcune piante selvatiche e meno rosso delle mattonelle. Sembra molto più abbandonato. E, in mezzo al muschio, all’erba che esce alta dalle mattonelle e quell’acqua che scorre sul binario, c’è un ragazzo con un broncio, che guarda verso Sud.

Lance aggrotta le sopracciglia. Si gira verso Allura. “E di solito i treni non sono mai in ritardo, qui?” le chiede, facendo una smorfia.

“No” risponde Allura, seccamente. “Sono ore che aspetta. Non si è mosso di un millimetro.”

Lance incrocia le braccia e alza le spalle, sospirando. Non che gli importi dell’unica altra persona che sta aspettando un treno per andare via da Veradero. Quindi alza un lato delle labbra e dice: “Siamo sotto il vischio.” Alza le sopracciglia più volte, mentre Allura si gira verso di lui, irritata. “Vogliamo seguire la tradizione, o...?” Allura chiude la finestrella della cabina, sbattendola. E Lance sospira, con un mezzo sorriso.

Forse è anche colpa di questo se non sono amici.




.Alba

Lance è solo e il ragazzo dell’altro binario è solo. L’orologio si è mosso di appena pochi minuti, nonostante sembri essere passata almeno mezza giornata dalla volta in cui Lance lo ha guardato.

Ed è vero. Il ragazzo col broncio, non sembra muoversi nemmeno di un millimetro. Rimane a guardare il nulla, col suo broncio e i suoi -ha dei guanti senza dita e già da qui Lance ha capito che tipo di persona è. I guanti senza dita. Non ti tengono né al caldo, né al freddo. E fa caldo. Fa davvero tanto caldo e sicuramente quel tipo non ha nessun tipo di moto da qualche parte, per andarsene in giro così. Poi, Lance ha notato, non ha una gran valigia. Sembra essere un piccolo zaino, preso per caso, poco prima di essere scappato di casa.

Non è un pensiero così felice, ora che ci pensa. Scappare di casa la settimana prima di Natale -deve esserci qualcosa di veramente molto importante, una situazione troppo pesante per essere sopportata. Se neanche il Natale riesce a tirare su il morale di una famiglia... ora Lance si sente triste. E sente un pochino di pena per quel ragazzo col broncio. Inclina un po’ la testa e prova a guardare il cartello che dovrebbe segnalare la destinazione del treno su cui si sale. Ma non riesce a leggere niente. Ci sono delle lettere, di questo è abbastanza sicuro, e c’è anche un orario, un’ora già passata e le luci gialle che si accendono a intermittenza, per segnalare l’arrivo di qualcosa che non si avvicina. Ma non si avvicina niente.

Lance è stato sul binario due.

Lo sa che sembra una cosa scontata da dire, ma non lo è, quando si parla di questa stazione.

La prima volta che è salito su per la collina, per andare a trovare Allura, si è ritrovato lì. E, per entrare nella stazione dl binario due, ci sono delle scale grigie. Si sente il rumore di un fiume, anche se, lance ne è sicurissimo, sulla collina o nelle vicinanze, non passa nemmeno un fiumiciattolo. Non c’è nemmeno un lago, o uno stagno. Ma ci sono libellule, dalla parte del binario due. Ci sono anche rane e Lance è sicuro di aver sentito delle anatre. Non saprebbe spiegare. Il binario due della stazione di Veradero, sembra diverso. Ma non è niente di molto preoccupante, visto che tutta Veradero sembra essere un mosaico di quello che si trova nel mondo. E Lance si era mosso per bussare alla cabina, per trovarsi davanti un buffo uomo con dei baffi rossi, che gli è stato subito simpatico. Coran. Con lui, sì, ha potuto fare amicizia.

Una volta, Lance non ha capito molto bene, ma stavano parlando di Allura. Gli aveva chiesto dove potesse essere, o perché non si facesse mai vedere da lui e Coran aveva scosso la testa e gli aveva detto che lui non stava cercando Allura, se era finito da questa parte della stazione.

C’è una differenza molto piccola tra il binario uno e il binario due. È così piccola che nessuno se ne rende conto e prendono il treno senza nemmeno farci caso, ma la differenza c’è. Il binario uno è più vicino a Veradero. Il binario due è più lontano. Arrivano al binario uno le persone che stanno andando verso qualcosa. Arrivano al binario due le persone che stanno scappando da qualcosa. Lance aveva sorriso al pensiero. È possibile. Ha sentito che è così che funzionano le stazioni nella gran parte del mondo e lui stesso, muovendosi in quelle piccole stazioni del mondo, si è reso conto che la direzione del treno viene influenzata dalla volontà della persona che prende quel treno. Certo, non per questo ha capito per quale motivo finisse sempre nel binario due, quando andava a cercare Allura, ma immagina che queste non siano questioni da risolvere su due piedi.

Quindi non può dire che non capisce quello che potrebbe star passando per la testa di quel ragazzo dall’altra parte della stazione. Non può nemmeno, per quella stupida cosa chiamata empatia, fingere di non vedere quello che si trova davanti a lui.

Lance si passa le mani sudate sui pantaloni e sospira. “Dove vai?” chiede gridando.

Il ragazzo coi guanti senza dita sobbalza sul posto, distogliendo lo sguardo, finalmente, dai binari che vanno verso Sud. Guarda Lance e inclina un pochino la testa. Il suo broncio rimane. Stringe un pochino di più gli spallacci dello zaino. “Vado via” gli risponde, guardandosi intorno. È una risposta un pochino scontata, per questo Lance alza un lato delle labbra e si lascia sfuggire una risata appena sbuffata, mentre il ragazzo lo osserva confuso.

Lance lo guarda abbassare lo sguardo, gioca con le dita, nervosamente. Mormora qualcosa e poi torna a guardare i binari. Lance si passa una mano sulla fronte e pensa che a quanto pare non è davvero bravo, con le prime impressioni, Dovrebbe esercitarsi in un pochino di più. O -beh.

“Sei mai stato a New York?” gli chiede ancora, posando una mano accanto alle labbra. Lance ha gridato un pochino troppo forte e si è fatto venire da solo i brividi, motivo per cui adesso ha paura di muovere anche soltanto un muscolo. Ah. Non si aspettava di essere peggiorato così tanto nelle interazioni umane. Forse ha ragione Veronica. Il ragazzo si gira verso di lui, con le sopracciglia aggrottate e Lance sente come gli si formi un sorriso falsissimo e davvero tanto forzato, mentre continua con un: “A New York la neve scende e ci sono alberi di Natale ovunque, giusto? E -e le canzoni di Natale! Cose così.”

Il ragazzo tiene le sopracciglia aggrottate. Deve essere che è la sua espressione naturale. O forse Lance lo ha davvero spaventato. “Quelle cose non succedono solo nei film?” Okay, quindi non lo ha proprio spaventato. Magari lo ha solo un pochino scosso.

Lance lancia un sospiro di sollievo, mentre sorride e si avvicina alla linea gialla, con le mani dietro la schiena. “No, no. Io ci sono stato. È pieno di luci.” Ci pensa un po', poi aggiunge, a bassa voce: “Sono soprattutto le luci quelle che ci sono.”

Il ragazzo giocherella con le mani. Non sembra sapere che cosa rispondere a queste frasi. Quindi guarda verso il basso. E Lance aspetta, perché tanto ha ancora davvero molto tempo prima che arrivi il treno, quindi può farlo. Aspettare. Una risposta. O qualsiasi altra cosa. “Io non sto andando a New York, però” dice alla fine il ragazzo. Prima di quanto Lance pensasse, in realtà. “È troppo grande. E costosa.”

In effetti ha ragione. Lance quando ha vissuto a New York (esattamente cinque settimane e tre giorni, per tenere compagnia a Pidge, che era lì per lavoro e che ha un fratello che ha paura di quello che potrebbe fare se lasciata da sola)(Lance sarebbe dovuto essere pagato, per quelle settimane di custodia di Pidge, che ai tempi era ancora minorenne e decisamente nella sua fase di ribellione adolescenziale)(ma no)(perché Pidge è una sua amica)(e quindi ha lavorato in Eataly, con un berretto marrone e orrendo che gli schiacciava i capelli)(è stato orrendo) è riuscito a malapena a sopravvivere, nonostante le entrate di Pidge, che erano cospicue.

“Allora in un qualche paesino dell’Ohio, in cui imparerai il valore del Natale, come in quei film natalizi, sai? Hai una dolce metà, o qualcosa così? Perché a quel punto ti devo consigliare, in quanto Babbo Natale onorario nella tua commedia natalizia, di lasciare chiunque sia, perché una persona che ti ama ti tratta bene e non ti lascia da solo a Natale. E non pensa solo ai soldi!”

Il ragazzo sorride. Perde il suo broncio e lo guarda, mentre ripete: “Babbo Natale?”

Lance inclina un po’ la testa. Sta sorridendo anche lui. E sembra che sia riuscito a rompere il ghiaccio. Alla faccia tua, Veronica. “Quindi stai veramente andando in un qualche paesino dell’Ohio?” gli chiede.

Il ragazzo scuote la testa, lentamente. “Vado a Denver. E poi dal Denver vedrò dove andare” gli risponde. Si passa una mano sul naso e scrolla le spalle. “Niente di troppo eccitante.”

Lance si infila le mani in tasca. “Un viaggio per trovare te stesso.” Non sa davvero cos’altro dovrebbe dire. Non ricorda Denver. Ci deve essere passato con il treno forse. Non gli vengono in mente cose eccitanti da fare lì. Non gli viene in mente nemmeno una curiosità o una storia su Denver. È una città in cui -beh, persone della loro età forse non potrebbero trovare niente. Ma forse il ragazzo sta andando a trovare qualcuno. O almeno pensa di farlo. “Cosa c’è di bello a Denver?” chiede alla fine Lance, con un tono dubbioso.

“Non lo so” risponde tristemente il ragazzo. “Lo voglio scoprire anche io.”

Lance sbatte un paio di volte le palpebre. Si sentenza in colpa, per qualche motivo. È come se quella risposta fosse un allarme. Un piccolo rumore in una macchina che ti fa sapere che c’è qualcosa che non va. Non sa come continuare la conversazione. Quindi non continua. Si siede per terra, con le gambe incrociate. Rimane in silenzio, mentre il ragazzo torna a guardare verso i binari.



.Mezzogiorno

Il tempo non passa, continua a non voler passare. La storia di Keith è un po’ più complicata di quello che lui stesso vuole ammettere, ma non importa, perché una volta partito riuscirà a trovare il senso in ogni piccolo dettaglio, e finalmente potrà dormire in pace, e fare quello che vorrebbe fare. Che poi non sappia esattamente che cosa vorrebbe fare è soltanto un piccolo contrattempo, non ha importanza.

Ha sempre pensato che non è un tipo di persona che riesce a seguire i piani, dopotutto. Non lo è stato a scuola, in cui ha avuto problemi a seguire programmi e compiti e scadenze, non lo è stato nei lavori che ha dovuto fare, non lo è stato nei rapporti che ha avuto. Fare piani, pensare a un periodo che vada oltre il dopo domani, non ha senso. I piani vengono sgretolati, i sogni non esistono per davvero, e la vita è tutto quello che ti succede mentre pianifichi (questa l’ha sentita in un film, ma non ricorda in quale). La sua storia è davvero più complicata di quello che ha raccontato al ragazzo con i jeans. La sua voglia di andare a Denver, non è esattamente un desiderio. È un bisogno. Deve chiudere qualcosa. Far finire una storia adesso che può farlo. Non è una cosa che può raccontare a qualcuno che ha appena conosciuto. E il treno ritarda.

Sul binario due non c’è nemmeno una decorazione natalizia.

Non una stella di Natale, non una ghirlanda, nemmeno un campanellino o delle decorazioni con piante di pino, per far capire in che momento dell’anno ci si trova. C’è solo questo rumore di un ruscello, che dovrebbe calmare Keith, almeno un pochino, mentre anche lui si siede, dondolando i piedi sopra i binari del treno e guardando quel ragazzo che si toglie un maglione orrendo con una renna sopra. “Tu dove vai?” gli chiede, allungandosi in avanti, per essere sicuro che la voce arrivi anche a lui. E il ragazzo apre un pochino di più gli occhi, sorpreso, prima di addolcire l’espressione con un sorriso. Keith giocherella con le mani e guarda verso il basso.

“Mia sorella maggiore si è ammalata” risponde il ragazzo coi jeans. “Quindi non può tornare a casa per le feste. È veramente un peccato. Anche perché vive da sola e sarebbe molto triste per lei passare questa settimana senza nessuno. Quindi vado da lei.”

Keith annuisce piano. “E quelli sono i regali” prova a indovinare, cercando di non guardare in faccia il ragazzo. Gli sembra strana come cosa. Non lo vuole guardare in faccia e non vuole nemmeno continuare a parlare con lui. Solo che non riesce a non farlo. Gli sembra di essere qui ad aspettare un treno che non arriva da tantissimo tempo.

Il ragazzo si gira verso la valigia, per poi fare una piccola smorfia. “Quelli” inizia, indicandola e poi tornando a guardare Keith. “Quelli sono i miei vestiti” finisce sorridendo. “In effetti sono tanti, ma ho pensato che dalle sue parti fa veramente molto freddo e non voglio congelarmi. E mia sorella non è davvero il tipo di persona che presta vestiti. Una volta si è arrabbiata, perché le ho rubato una giacca, da mettere sotto una giacca. E dice che gliel’avevo rotta.”

Keith alza un lato delle labbra. “Ora che è malata, non puoi rubargli i vestiti, poi.”

Il ragazzo scrolla le spalle. Non sembra essere molto convinto di quello che Keith dice. In fondo, perché? I batteri non si attaccano certamente ai vestiti. Non è così che funziona. Keith ha detto una stupidaggine. Dovrebbe rimanersene zitto e tornare ad aspettare il treno. “Non sarebbe meglio rubarle le cose adesso che è malata e non può difendersi?” gli chiede il ragazzo coi jeans. Poi fa una smorfia col naso. “Credo che tu sia figlio unico.”

“Tristemente.”

“Sei fortunato. Non hai mai dovuto lottare per mangiare allora” ride ancora il ragazzo.

È luminoso. Keith non sa come spiegarlo. Sa che è molto luminoso. E leggero. E felice, quel ragazzo, tra una stella di natale e un piccolo pino decorato. Sembra quasi abbagliarlo, con le sue parole e i suoi gesti. Gli si vorrebbe avvicinare di più. Per parlare in modo meno teatrale. Per capire che tipo di persona è da vicino. Per almeno poter vedere un po’ più da vicino il viso di questo ragazzo, che dondola i piedi sul binario. Ma va bene così. Keith non è abituato ad avvicinare le persone e sta aspettando un treno per andare via. Quindi. Certamente non vuole fare amicizia qua o adesso. Non in questo modo, poi.

Non ha senso allora, il suo chiedere: “Come passerete il Natale?” che esce fuori prima che lui riesca a fermarsi. Keith si morde la lingua, guarda verso il basso. Se il ragazzo coi jeans non vuole rispondere, spera che non risponda. Keith è abbastanza abituato a fare domande a cui nessuno risponde. Dalle domande più basilari a quelle più complicate. Perché ci sono nuvole in cielo. Perché deve rimanere da solo a casa. Perché le palle rimbalzano. Perché la mamma è andata via. Non sono domande a cui qualcuno ha mai dato veramente una risposta quando lui ne aveva bisogno.

La storia di Keith è davvero molto più complicata di quello che lui vuole dare a vedere e non ha più nulla qui, motivo per cui rimanere nella sua città, non ha nessun motivo per non prendere il primo treno che arriva in stazione, e andare via, finalmente. Non importa che il ragazzo con gli jeans non risponda, quindi, si dice. Sarebbe anzi meglio se non lo facesse. Darebbe una spinta di motivazione a Keith, per andarsene via.

“Appena arriverò in città, penso che dovrò correre a prendere del pesce” risponde il ragazzo, però, con un’aria concentrata. Non sta guardando Keith. Keith è sicuro che non lo stia guardando, almeno. “Forse prenderò del baccalà, ma, a questo punto, credo che qualsiasi tipo di pesce andrà bene. In famiglia, la Vigilia, dopo la messa, mangiamo tutti i tipi di pesce con del riso, un po’ di moro, cose così.” Il ragazzo coi jeans scrolla le spalle. “Non sono bravo con le porzioni e sono abituato a cucinare con nonna per -beh, per tante persone, quindi probabilmente io e Veronica mangeremo quello che cucinerò per almeno una settimana o più.” Ride. “Passeremo il Natale mangiando, penso.”

Keith si inumidisce le labbra e sorride un pochino. Si passa le mani sui pantaloni, nervosamente.

“Tu?” chiede. Poi ruota gli occhi, come se dovesse far capire qualcosa, muovendo le mani ancora e ancora. “Dopo -dopo che avrai fatto qualsiasi cosa tu debba fare.”

E Keith è un pochino più agitato adesso. Si muove nervosamente sul posto. “Mangerò fuori, probabilmente” risponde, con lo sguardo basso, mentre si accarezza il retro della nuca. “Non ho mai veramente festeggiato Natale, comunque.”

Il ragazzo alza un lato delle labbra e posa il mento sul pugno chiuso. “Mi dai sui nervi” gli dice con un tono di voce leggero. Poi sbuffa una risata e scuote la testa. “Mi dai così tanto sui nervi.”

Keith alza un sopracciglio. “Ah?”

“Beh, sì” risponde il ragazzo coi jeans, tenendo la testa inclinata. “Non te lo so proprio spiegare. È come quando -sai quando c’è qualcuno in classe con te, no? E quel qualcuno è intelligente, bello e tanto amato e metti che dovete tutte le volte studiare per lo stesso compito in classe, per lo stesso tipo di interrogazione e cose così, no? E tu -cioè, in realtà sarei io mi sforzo tutti i giorni, rimango le notti sveglio per studiare, seguo in classe, prendo appunti e riascolto anche le lezioni, cerco di approfondire eccetera, mentre questa persona, che sei tu, dorme in classe, non studia mai e dice di non aver toccato libro. E poi, però, prendono il voto più alto della classe. Il voto più alto del mio.” Fa un gesto con la mano, per poi puntarsi il petto con il dito. “Capisci la frustrazione.”

“Sì, ma noi non siamo mai stati nella stessa classe” gli fa notare Keith, sempre con il sopracciglio alzato e mezzo sorriso. “Quindi è una frustrazione ingiustificata.”

Il ragazzo coi jeans fa una smorfia. “Non ho mai detto di essere una persona razionale” gli risponde. Si gira verso la sua valigia. Keith lo osserva in silenzio. Ha detto che gli dà sui nervi, ma non sembra voler essere ostile con lui, sembra quasi essere divertito da quest fatto, come se fosse -familiare. Una sensazione giusta da provare per la persona giusta. È strano.

Il ragazzo apre una tasca della valigia e ci infila dentro la mano, per prendere qualcosa. Poi si gira verso Keith e gliela lancia. Non si ferma un secondo. Prende qualsiasi cosa stia prendendo, chiude il pugno e lo lancia verso Keith, che si muove velocemente, per afferrare qualsiasi cosa sia prima che gli colpisca la faccia. Solo dopo la rigira tra le mani, guardando un piccolo portachiavi a forma di leone blu. E aggrotta le sopracciglia. “Cos’è questo?” gli chiede.

Il ragazzo coi jeans sorride, mostrandogli i denti. “Come che cos’è?” inizia a chiedergli. “È un regalo di Natale, no?”

Keith abbassa gli occhi, per guardare meglio il portachiavi e, quando li rialza, il ragazzo coi jeans non è più davanti a lui, seduto sul divano. Si è rimesso il maglione natalizio, è difficile da trovare in mezzo a tutte le decorazioni, sta toccando una stella di Natale. Si è mosso in fretta, o Keith ha perso qualche secondo. Non lo sa. “Come ti chiami?” chiede piano Keith. Poi chiude gli occhi e grida: “Come ti chiami?”

Il ragazzo coi jeans sobbalza sul posto. Si guarda intorno, aggrotta le sopracciglia. “Ah” esclama, indicandosi. “Lance. Il nome è Lance.” Sembrano essere passati più di soli secondi da quando gli ha dato il portachiavi.

“Io mi chiamo Keith” si presenta, alzandosi in piedi. “Buon Natale.”

Lance sbatte velocemente le palpebre e poi scoppia a ridere. “Ma sei serio?” gli chiede. “Buon Natale anche a te.”




.Tramonto

Stanno parlando quando una ragazza coi capelli bianchi e raccolti in una coda si ferma proprio sotto l’orologio e lo indica con un dito, attirando l’attenzione di Lance.

Keith non saprebbe esattamente di che cosa stessero parlando. Forse del tempo. Forse del fatto che Lance ha una famiglia enorme e terribile, che gli fa venire voglia di piangere a volte e che lo fa ridere fino a fargli perdere il fiato altre, e che è per questo motivo che non avrebbe sopportato che la sua sorellona rimanesse da sola per Natale. O forse stavano parlando di un vecchio programma animato che Keith sembra aver perso nella sua infanzia, perché, ugh, non riusciva mai a concentrarsi su una cosa soltanto e quindi finiva sempre per correre da una parte all’altra, senza motivo e senza meta. Forse stavano parlando di cose senza senso e senza importanza. Ma a Keith piaceva, come cosa. Gli piace Lance. A pelle. A sentimento irrazionale.

E poi quella ragazza ha attirato la sua attenzione e ha detto: “Il tuo treno è in arrivo.” Così. Senza preavviso. Senza che ci sia un vero e proprio motivo. Poi gira di nuovo e scompare, mentre Lance si alza in piedi e sospira, come se volesse dirle qualcosa, ma fosse rimasto senza tempo.

Passano solo pochi secondi, prima che il rumore del treno entri nel loro campo percettivo, e, se Lance si è mosso abbastanza in quel poco tempo, infilandosi giacca e sciarpa e guanti e tutto quello che portava sotto braccio, Keith rimane imbabolato, come se si fosse appena svegliato da un lunghissimo sonno. Si guarda intorno. Aggrotta le sopracciglia. Aveva pensato, per un momento soltanto, che la chiacchierata con Lance non sarebbe mai finita. Che la loro attesa per il treno, insieme, non sarebbe finita mai. Che idea stramba.

Keith ha visto andare via Shiro. È per questo che ha preso il suo zaino ed è andato via. Ha visto come Shiro abbia deciso di uscire da quella porta per andare con quel tipo, non ricorda il nome, e gli ha detto vieni con me, come se Keith potesse davvero andare con lui. Keith ha visto andare via sua mamma. È andata a Denver, lei. Chissà perché poi. Suo padre invece è stato il primo ad andare via. Non è colpa loro. Keith lo ha capito, Non può prendersela troppo con loro. Sono, o sono comunque state, delle brave persone. Rimanere in un posto solo è complicato, noioso, stupido. E Keith lo capisce. Lo capisce davvero tanto. Lui per primo non è un ragazzo che adora rimanere sempre nello stesso posto, che è irrequieto, che ha bisogno di guardare da altre parti, partire, andare via, correre, fare qualcosa. Lui per primo è una persona che lascia indietro cose, persone, famiglie. Non sa perché ci sta pensando adesso.

Giocherella con il portachiavi che Lance gli ha lanciato e che lui ha nascosto dentro la tasca della giacca. Il rumore del treno si fa più vicino. Arriva da Sud. Si vedono i fari, che escono lentamente dalla galleria in mezzo alla montagna.

“Buon Natale, Keith!” grida Lance quando il treno è a pochi metri da lui. Muove un braccio, per far dondolare la mano. “Trova te stesso a Denver!” E poi il treno lo copre. Così. E Lance deve essere salito sul treno. Dovrebbe poterlo vedere dai finestrini.

Keith non ha nemmeno risposto. È rimasto in silenzio a guardare dritto davanti a sé e a giocherellare con quel portachiavi. Non sa che cosa dovrebbe fare in questo caso. Dovrebbe salutare. Ha person il momento per salutare, però. Lance è sul treno. Il treno blocca la visuale, forse anche il suono. Cosa si fa quando la gente va via? Cosa fa lui, quando le persone vanno via? Cos’ha fatto? Le ha guardate. Non ha detto niente. È rimasto tutte le volte in silenzio. In effetti è una cosa che fa. Rimanere in silenzio. Forse per questo è difficile che le altre persone non lo capiscono. Dovrebbe parlare. Cosa dovrebbe dire? Avrebbe dovuto augurargli buone feste. Lo avrebbe dovuto fare. Perché non lo ha fatto? È passato troppo tempo? Cosa dovrebbe fare? Cos’ha fatto le ultime volte che le persone sono andate via?

“Lance” borbotta, con le sopracciglia aggrottate. Chiude gli occhi e prende un respiro profondo. “Lance!” grida. E c’è il rumore di un finestrino che si apre, un clic che viene appena coperto dal rumore del treno e dei suoi motori. Keith si morde l’interno delle guance e si stropiccia un occhio.

“Ai suoi ordini” grida Lance, facendo spuntare la testa dal finestrino. Sbuffa, muovendo il braccio e posando le dita sul vetro. “Mi vuoi augurare buon Natale, ragazzino maleducato? Perché sarebbe una cosa da fare. Per educazione.”

Keith sbuffa una risata, abbassa un pochino il mento. “Sì, certo” mormora. “Buon Natale.”

“Bravo” esclama Lance, inclinando la testa. Poi sbuffa. La guancia posata sulla mano lo rende un pochino più tenero, nasconde gli spigoli del suo viso. Lo ringiovanisce. Keith non sa davvero spiegare. “Anche se stavo scherzando, prima, lo sai vero?”

“Lo avevo intuito” gli risponde Keith, forzando un sorriso. “Ma volevo augurarti buon Natale lo stesso.”

Lance sbuffa di nuovo, questa volta una risata. “È inutile che provi a comprarmi così, eh. Continui a starmi sui nervi.” In sottofondo c’è il rumore di un fischio. Il treno sta per partire. Keith ancora non sa che cosa volesse dire a Lance. Tiene le mani in tasca e Lance tira dentro la testa, per poi muovere di nuovo la mano, per salutarlo. Keith risponde con un solo cenno della testa, perché è una brutta persona e non sa davvero che cos’altro dovrebbe fare, a questo punto.

Sente le porte del treno di Lance chiudersi. E sente i motori diventare un pochino più rumorosi. Lance chiude la finestra. Le ruote iniziano a muoversi sui binari. Il treno parte. Il treno va via. Keith non ha detto niente. Avrebbe dovuto dire qualcosa. Quant’è stupido. Certo.

Avrebbe dovuto dire qualcosa.




Un uomo con dei baffi improbabili si materializza sotto l’orologio nel binario due. Sembrano essere passati anni da quando Lance è andato via.

Keith non sapeva che altra cose avrebbe dovuto fare, quindi ha aspettato, guardato il nulla, si è chiesto che cosa dovrebbe fare da qui in poi. Il suo problema sta nel fatto che non ha radici da nessuna parte, come la sua famiglia non ne ha mai avute e quindi non ha mai imparato quanto davvero fosse importante, non lo sa, comunicare, o rimanere, o rendersi conto di quello che succede alle altre persone. Il suo problema sta nel fatto che non sa come comunicare. Forse è per questo che le persone si trovano meglio in altri posti, lontani da lui. Forse è anche per questo che non capisce come mantenere un rapporto con qualcun altro. Ma ripeterlo certamente non può cambiare la situazione.

L’uomo coi baffi indica l’orologio e gli dice: “Il tuo treno arriverà tra qualche minuto.” Keith sbatte velocemente le palpebre e gli fa un cenno della testa per ringraziarlo. “Qualcosa ti preoccupa?” gli chiede il signore strano.

Beh. No. Keith scrolla le spalle. “Avrei dovuto chiedergli il numero di telefono” dice scherzando. Poi arriccia il naso. “Ma l’ho dimenticato.”

L’uomo ride. Gli mostra il palmo della mano e muove le dita un paio di volte, come se volesse dirgli qualcosa. Keith aggrotta le sopracciglia. Inclina un pochino la testa, mentre tira fuori la stessa mano che l’uomo continua a muovere, per imitare, inconsapevolmente, in realtà, il suo stesso movimento. Quando l’uomo indica il suo palmo della mano, Keith abbassa lo sguardo verso questa e poi fissa i numeri che si è ritrovato scritti sopra.

Ah.

“Chiamiamolo miracolo natalizio, o come voi esseri umani lo volete chiamare” gli dice l’uomo coi baffi.

Keith continua a fissarsi il palmo della mano. “Era un modo di dire” borbotta, per poi infilare la mano in tasca, di nuovo. “E quindi tu non sei un essere umano?”

L’uomo coi baffi scrolla le spalle, poi gira i tacchi e se ne va via. Di nuovo. Lasciando Keith da solo su un binario in una stazione di una cittadina che non dovrebbe nemmeno trovarsi sulle mappe, o sui satelliti. Non che importi. Tanto ha deciso di abbandonarla e di non tornarci mai più.

Non ricorda nemmeno quando ci sono arrivati, lì. A Veradero, il tempo sembra essere fermo, non sa davvero come spiegarlo se non così. Shiro ha avuto un lavoro come supplente in una scuola media tanto tempo fa, e poi sono rimasti, perché Shiro si è innamorato e altra roba. Le cose che succedevano in città, non hanno mai minimamente toccato Keith, semplicemente perché erano noiose e a lui non importavano più di tanto.

Ricorda che però gli piacevano i fiori. La terra in generale. Non c’è tantissima terra, in giro per gli Stati Uniti. O c’è. Ma non è così come la vede a Veradero. La terra rossa, la terra nera, la terra marrone scura e quella terra in cui non può crescere niente. Terra che viene coperta da fili d’erba e terra che viene lasciata nuda, da tanto che si calpesta. Quella gli piaceva tantissimo. Ci giocava. Ci si sporcava le mani e le unghie gli diventavano nere, visto che dei granelli gli rimanevano sempre incastrati sotto le unghie. Il mistero della vita, della terra e dell’acqua, è qualcosa che lo ha accompagnato fin da quando era molto piccolo, a pensarci bene.

È divertente che amasse qualcosa di così stabile, quando lui non aveva nulla che fosse stabile nella sua vita.

Non gli è mai piaciuta la collina su cui si trova la stazione dei treni di Veradero, nonostante la terra. Lo rende inquieto trovarsi qui. Lo rende inquieto l’altezza e la lontananza dal centro della città. Lo rende inquieto quest’aria che sembra cambiare, quando arrivi qua su. Lo rende inquieto il rumore dei treni. Le ruote sulle rotaie e cose così. Gli danno fastidio le cose che non riesce a capire, non riesce a vivere con tutte quelle insicurezze che invece tutti sembrano aver accettato, non capisce il perché. E c’è quella questione della vista. Tutte le volte che ci sia avvicina alla collina, lui pensa che, ugh, come dire?, lui vede una cosa, ma gli altri sembrano vedere qualcos’altro. Non gli piace.

Non ha mai avuto amici a Veradero. Non ha mai avuto una famiglia. Abbandonarla non vuol dire lasciare indietro qualcosa di prezioso. Non sta facendo quello ceh hanno fatto a lui. Se lo sta ripetendo, finché non ci crederà. Vuole solo capire che cosa c’è di così importante, di così bello, da lasciarlo sempre indietro, da lasciarlo sempre da solo. Nient’altro. Poi sarà finalmente libero. Vuole solo capire. Vedere. Vedere con gli occhi di Shiro, o, almeno, di sua mamma.

C’è il rumore del treno in lontananza. Viene da Nord. Deve andare verso Sud. Keith prende un respiro profondo e stringe il portachiavi che gli ha lanciato Lance nel palmo della mano chiusa in un pugno, in tasca.

È solo un viaggio a Denver e poi sarà libero.
  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fumetti/Cartoni americani > Voltron: Legendary Defender / Vai alla pagina dell'autore: Mikirise