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Autore: Miione    21/12/2019    1 recensioni
[...] Potrei riconoscere quella voce sottile dall’accento marcato, ovunque.
Alzo lo sguardo intimorita, già sapendo chi mi sarei trovata davanti.
«Alex.» dico, pensando a voce alta.
Lui gira lentamente il lungo collo, rimanendo allibito quasi quanto me all’idea di avere proprio me davanti e soprattutto del fatto che proprio io gli abbia rivolto la parola.
«Emma.» risponde, accennando un sorriso imbarazzato. [...]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi,
ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo.
 
 
Shake It Out
 

La musica natalizia è da sempre stata in grado di rallegrarmi ed innervosirmi allo stesso tempo.
Probabilmente a causa delle radio che trasmettono le stesse canzoni, praticamente a palla, a partire da novembre, facendoti passare da “Oh che bello, sta arrivando il Natale” a “Speriamo passi in fretta”.
Sono lì, in costante ricerca di ricordarti che il Natale è alle porte e che devi affrettarti a fare Dio solo sa cosa.
Come se uno potesse dimenticarsi del Natale e tutto quello a cui è legato.
Dopotutto però, c’è da dire, che ultimamente sono alquanto suscettibile all’argomento, in quanto con l’arrivo di domani, l’imminente Vigilia, sono ufficialmente sette mesi che sono lontana da casa e per la prima volta, in ventitré anni di vita, passerò il Natale da sola.
Mi sono trasferita a Londra per lavoro e non potrei esserne più felice.
Dopo mesi di fatica e pianti infiniti, ho finalmente trovato il mio piccolo spazio, la mia indipendenza ed agognata autonomia, ma a caro prezzo.
Ho sperato molto che la caposala del mio reparto mi desse il via libera per ritornare almeno due giorni a casa mia, ma era stata abbastanza chiara al riguardo.
Quindi mi ero semplicemente messa l’anima in pace e chiamato mia madre avvisandola dell’accaduto e promettendole che sarei ritornata, chissà quando, alla prima occasione disponibile.
Nonostante avessi provato a rassicurarla apparendo soddisfatta della mia vita a Londra e non preoccupata per questa reclusione natalizia, la cosa mi aveva molto rattristato e inacidito riguardo ogni minima e piccola menzione al Natale stesso.
Motivo per cui il sentire per l’ennesima volta “All I want for Christmas” entrando nel mio bar e negozio di dolciumi preferito di Londra, a circa 200 metri da casa, non migliorò la situazione.
 
«Emma, buonasera!» mi saluta gentile il signor Edwards da dietro il bancone, non appena varco la soglia accompagnata dal familiare campanellino. «Di ritorno da lavoro?»
«Buonasera, signor Edwards.» ricambio mite, regalandogli un leggero sorriso. Sciolgo la sciarpa dalla presa del mio collo, adattandomi pian piano al calore del negozio. «Ebbene sì, ho smontato mezz’ora fa.»
Frequento il negozio del signor Edwards praticamente una volta a settimana, essendo questo a metà strada tra l’Ospedale e casa mia, lungo il corso principale alberato e negozi del centro. Faccio questa strada ogni giorno, soprattutto al ritorno nelle belle giornate di sole, in modo tale da fare sia movimento che allungare le ore.
Quando sei da sola, le giornate sono molto più lunghe e le cose da fare, stranamente, diminuiscono o impieghi molto meno tempo nel farle.
«Cosa posso portare alla mia infermiera preferita?» dice il signor Edwards in modo adulatore, nonostante i suoi cinquant’anni suonati e una fede al dito bene in evidenza, appoggiando una mano al bancone pieno di ghirlande natalizie.
«Una cioccolata calda per iniziare.» rispondo, accettando la ruffianeria concessami. «Intanto do un’occhiata al bancone che ho intenzione di portarmi a casa una bella torta con triplo strato di cioccolato.»
«Ahi ahi, giornata pesante?» chiede, preoccupandosi. Sa benissimo che prendo dolci solo in periodi stressanti.
Alzo le spalle a mo di risposta, accompagnate da un sospiro rumoroso. Non rispondo, pensando a quanto sia effettivamente fortunata comunque ad avere un lavoro nel posto dei sogni, quale Londra.
Il signor Edwards capisce che non sono in vena di chiacchiere e gira le spalle, intento a prepararmi la cioccolata calda. «Con panna?»
«Con panna.» acconsento, ringraziando Dio che ci siano al mondo persone come Edwards e la cioccolata calda, in grado di capirti senza chiedere spiegazioni.
Scelgo un tavolino poco distante, dove poggio la sciarpa e il cappotto ormai ingombrante dato il caldo dell’ambiente circostante. Subito dopo ritorno al vasto bancone pieno di dolci prelibati, mentre il signor Edwards accorre a lusingare due nuovi clienti appena arrivati.
 
I tre ripiani a disposizione non semplificano la scelta e altro non fanno che amplificare la mia già immensa golosità in materia di dolciumi.
Il piano più alto è pieno di piccola pasticceria, dai semplici pasticcini ai bignè ripieni di crema, cioccolato e pistacchio. Per poi passare ai brownies, i cupcake decorati a tema natalizio con crema e palline caramellate, e ai biscotti, dai classici cookies appena sfornati a quelli natalizi della tradizione.
La scelta si presentava più ardua di quel che credessi.
Di lato vi era invece un frigo alto su cui erano esposte le torte ripiene a cui avevo pensato inizialmente, decorati in glassa o panna, con colori tenui o accesi, ripieni di pistacchio, cocco o crema.
Inoltre sarebbero da provare anche i nuovi panettoni artigianali, o anche una semplice crostata alla marmellata di fichi mi andrebbe bene…
 
Il campanellino d’ingresso suona nuovamente e sento subito una figura affiancarsi alla mia, ma non sollevo lo sguardo, troppo impegnata alla vista beata che ho davanti.
«Buonasera signore, in cosa posso servirla?» chiede la voce melensa e gentile del signor Edwards.
«Buonasera.» risponde la voce. «Dovrei prendere dei dolci, ma prima di scegliere vorrei prima dare un’occhiata se non le dispiace.»
Potrei riconoscere quella voce sottile dall’accento marcato, ovunque.
Alzo lo sguardo intimorita, già sapendo chi mi sarei trovata davanti.
 
«Alex.» dico, pensando a voce alta.

Lui gira lentamente il lungo collo, rimanendo allibito quasi quanto me all’idea di avere proprio me davanti e soprattutto del fatto che proprio io gli abbia rivolto la parola.
 
«Emma.» risponde, accennando un sorriso imbarazzato.
 
Noto che ha tagliato i biondi capelli e che ora ha un aspetto più curato. La camicia gli sta a pennello sul suo fisico alto e muscoloso e il golfino che ha indossato, blu cobalto, mette in risalto gli occhi azzurri che sono ancora due fari per me.
 
«Che ci fai qui?» continuo, mordendomi l’interno della guancia, usando un tono gioviale, che lascia me stessa confusa.
 
Lui appare sorpreso che voglia continuare la conversazione. Dopotutto sono sette anni che non ci vediamo e non parliamo e mai mi sarei aspettata di ritrovarmelo davanti proprio qui, nelle vesti di una nuova me non più sedicenne, e soprattutto così a mio agio.
Ho sempre pensato che se me lo fossi trovata davanti avrei probabilmente cambiato subito strada, correndo dietro un cespuglio a ripararmi dall’imbarazzo.
Invece no, chi ho davanti è per me semplicemente una persona come un’altra che in me non scaturisce altro se non stupore di ritrovarmelo qui, senza se e senza un perché, in modo del tutto casuale, in questo giorno in cui tanto progettavo di tornare a casa mia.
Se fossi tornata a casa probabilmente non ci saremmo rivisti e non lo avrei pensato come non lo pensavo da ben sette anni.
Il fatto di averlo lì, davanti a me, e rivedere l’uomo che era diventato, ammirarne le spalle forti e le mani grandi e arrossate per il freddo come quando l’ho conosciuto, altro non mi faceva credere che fosse un segno del destino.
 
Che la mia caposala fosse d’accordo con egli per darmi un qualche tipo di insegnamento?
 
«Sono venuto a trovare mia sorella.» risponde cauto, ancora confuso. Gli occhi fissi ovunque ma non su di me, in imbarazzo. Sbottona i primi bottoni della camicia. «Tu piuttosto che ci fai qui?»
 
«Ci lavoro.» rispondo divertita. Non so spiegarmi il perché di questa reazione così inusuale.
 
Avere Alex qui davanti a me e vederlo esattamente per cos’è.
 
«Davvero?» dice lui, finalmente girandosi verso di me. Lo sguardo entusiasta, le labbra sottili distese in un sincero sorriso. «E cosa fai? Non so più niente di te da almeno, quanti, cinque anni?»
 
«Sette.» lo correggo io. «Sono un’infermiera.»
 
«Ma non mi dire.» risponde Alex, portandosi teatralmente le mani al petto. «Eppure credevo che volessi diventare un chirurgo.»
 
«E invece sono diventata un’infermiera.» chiudo la discussione, incrociando le braccia al petto. «Ma perché parliamo all’in piedi? Sediamoci. Mi porterebbe la cioccolata calda al tavolo?» aggiungo, appoggiandomi al bancone, attirando l’attenzione del signor Edwards. «Tu cosa vuoi?» chiedo poi ad Alex, non avendo la più pallida idea di cosa potrebbe piacergli ora.
 
«Per me un caffè.» risponde divertito, seguendomi poi al tavolo da me precedentemente occupato. Si libera del cappotto, lasciandolo semplicemente cadere dietro la schiena, bloccato disordinatamente tra lui e lo schienale della sedia.
 
Non posso fare a meno di ridacchiare divertita.
 
«Che c’è?» dice lui, sbracciandosi. Ha le braccia muscolose e un orologio d’argento al polso, le mani grandi e meno rosse di poco prima.
 
«Niente, niente.» sospiro, tirandomi dietro l’orecchio una ciocca di capelli castani. «Noto con piacere che hai finalmente buttato quelle camice orrende a quadri che portavi da adolescente.»
 
«Orrende? Hai davvero osato dire orrende?» dice, fingendosi, in maniera sempre teatrale, indignato.
 
Se potessi associare Alex ad un aggettivo, lo definirei teatrale.
Ha sempre avuto il vizio di fare le faccette, gesticolare in maniera eccessiva, sbilanciandosi con tutto il corpo, occupando tutto lo spazio che lo circondava, anche il tuo, sebbene potesse risultare fastidioso a volte. Lui esagerava. Gonfiava. Enfatizzava. Ampliava.
 
«Se ne facessero ancora la mia taglia, le indosserei ancora.» continua, puntandomi contro un dito accusatorio, come se fosse colpa mia se quegli obbrobri non fossero più in mercato.
 
«Ma menomale.» rispondo a tono, sbellicandomi. «Piuttosto, tu invece che fai ora?»
 
La cioccolata e il caffè arrivano al nostro tavolo, inondando l’aria di odore buono e familiare. La mano gentile del signor Edwards le appoggia al nostro tavolo, accompagnate da piccoli biscotti al profumo di cannella.
 
«Faccio l’attore. O meglio studio per migliorare.» risponde. Appunto, teatrale. «Domani sera farò uno spettacolo proprio in centro e con la scusa sono venuto a trovare la mia sorellona. Tre cucchiaini di zucchero, giusto?» esordisce, prendendo la zuccheriera tra le dita lunghe.
 
Si ricorda che amo le cose molto zuccherate.
 
«Facciamo quattro.» rispondo solo, divertita. Le guance leggermente arrossate per il caldo e la situazione esilarante in cui mi trovo. «Grazie.» dico, appena mi versa lo zucchero come richiesto.
 
«Alla salute! Abbiamo bisogno di zuccheri aggiunti in questa giornata gelata?» dice, prendendomi in giro. «O semplicemente abbiamo deciso di prendere a calci la vita salutare?»
 
«Chi si è dato al bodybuilding, a quanto pare, sei tu, non io.» ricambio lo sfottò, sbattendo da copione le palpebre lentamente. Giro il cucchiaino nella cioccolata e poi, in modo teatrale come lui avrebbe fatto, poso quest’ultimo sul piattino su cui poggia la tazza e faccio una breve sorsata. «E poi ho sempre avuto un peso impeccabile.»
 
«Il mio personal trainer sarà contento di sentire che mi hanno dato del culturista, dato che manco da palestra da almeno un mese.» risponde a tono, portando il busto in avanti come se mi stesse rivelando un segreto, scaturendo in me un nuovo attacco di risa. «Stavo pensando di darmi per morto infatti.»
 
«La carriera di attore non è una scusa abbastanza plausibile?» ribatto, cercando di trattenere ulteriormente le risa.
 
Lui beve con eleganza il suo caffè. Le gambe incrociate, una mano leggermente posata sul tavolino e l’altra che tiene la tazzina. Il mignolo alzato come da prassi, nonostante quello che stia sorseggiando non sia un thè.
 
«No, a quanto pare peggiora ancora di più la mia situazione.» spiega, gesticolando con l’aria di chi la sa lunga, di chi si dà tante arie ma non vale una mezza ceppa. «Ho provato a spiegarlo al mio personal trainer che sono io a pagare i miei corsi di recitazione e la gente che mi chiede l’autografo, ma non mi crede.»
 
«Allora ti tocca.» rispondo, mordendomi la lingua per non scoppiare nuovamente a ridere. «È per il bene della carriera.»
 
Alex annuisce serio e poi fa una cosa che è così da lui. Prende la tazzina, ormai quasi vuota, e la alza in aria, invitandomi a fare lo stesso.
 
Appena io lo imito senza esitare, avvicina la tazzina alla mia, facendole tintinnare come in un brindisi con i bicchieri sbagliati. «Alla carriera durante il Natale.»
 
«Alla carriera.» ripeto con lui, ridacchiando. «Mai cin cin fu più appropriato, dato che a Natale sarò bloccata qua, tra le scartoffie del mio reparto.» gli rivelo, facendo un’ulteriore sorsata di cioccolata.
 
Sembra quasi strano, o forse no, raccontargli le mie disgrazie, come se davanti a me avessi il mio migliore amico, mio fratello, la mia famiglia.
 
«Anch’io lo passerò qui con mia sorella.» mi rivela a sua volta. Sorride speranzoso, lanciandomi uno sguardo ammiccante. «Ma credo che per te sarà più triste dato che sei da sola. Se vuoi…»
 
«No.» rispondo subito, non lasciandogli nemmeno finire la frase.
 
La magia si è rotta. Il muro di bugie crolla e la verità ritorna a galla. Perché lui non è la mia famiglia.
Poso la tazza con forza sul piattino, seguita dal suo stridore, alzando lo sguardo verso lui.
Ha ancora il suo solito mezzo sorriso stampato in faccia, che scema pian piano vedendo la mia determinazione nello sguardo. Si è reso conto che non c’è più niente da scherzare.
Sta nuotando ora in acque gelide. Sente il vento freddo che è fuori dal negozio, ora rientrargli nelle ossa, attraversare lo strato spesso di pelle, solleticargli il collo.
 
«Beh, pensavo che ormai fosse tutto a posto.» riprende a parlare, boccheggiando.
 
E ha ragione, è tutto a posto e in un modo che non credevo possibile sette anni fa ma che ora, la me ventitreenne, capisce ma che dopotutto si protegge.
 
«Ed è così.» rispondo solo, tranquilla. Ma la situazione è totalmente cambiata da due minuti prima in cui c’era un clima quasi di gioco. Ora c’è imbarazzo e un’aria così tesa da poterla tagliare con un coltello.
 
Le mani di Alex ritornano al rosso accesso. Non ha più le gambe accavallate e lo sguardo divertito e gioviale di prima. Ora è ritornato il diciassettenne di sette anni fa che mi guarda desolato, o meglio non mi guarda affatto, guarda altrove, imbarazzato e cerca le parole ma non riesce a metterle tra le labbra, dargli una forma e lasciarle uscire fuori.
E come sette anni fa, tocca nuovamente a me fare tutto. Anche se forse con una consapevolezza diversa.
 
«Mi era mancato tutto questo.» dico, allungando la mano lungo il tavolo, invitandolo a raggiungere la mia.
 
Lui mi fissa stralunato, le labbra socchiuse, ma allunga la mano come da me richiesto e la poggia sulla mia.
La stringo, ma non la intreccio. Perché non avrebbe senso.
Alex è adesso per me solamente una persona che una volta conoscevo e che ora, dopo sette anni ho rincontrato forse per un caso fortuito, un segno del destino che mi ha permesso di capire finalmente e vedere e toccare con mano le cose per come sono diventate.
 
«Anche a me. Pensavo potessimo recuperare il solito rapporto.» ammette, tenendo lo sguardo su di me.
 
E anche lui è cambiato e non è più il ragazzo di una volta, strafottente e inconcludente. Ora è un attore, ha degli impegni, delle responsabilità e crede nelle sue passioni. Ed io ne sono felice.
 
«Sono felice che tu abbia trovato la tua strada e che vada tutto bene.» riprendo a parlare, cercando di mantenere un tono di voce chiaro e pulito. «Che con la tua famiglia le cose vadano bene e spero che sia così anche in ambito sentimentale.»
 
Lui ridacchia, annuendo, capendo già dove voglio arrivare. «Ma i tempi in cui io e te ci rincorriamo sono finiti sette anni fa.» concludo, lasciandomi andare ad un sorriso che lui ricambia.
 
«Ero un cazzone sette anni fa.» ammette, stringendo leggermente la mia mano. Riprende il suo sguardo di chi la sa lunga. «Era divertente rincorrerci però.»
 
«Chi ti rincorreva ero io.» puntualizzo, divertita. «Tu mi scaricavi in continuazione. Ti ricordavi di me solamente quando ti servivano i compiti di latino.»
 
Lui ridacchia al pensiero, ma il suo sguardo è cambiato. È uno sguardo malinconico e felice allo stesso tempo, tipico di una persona che ripercorre i momenti belli che non accadranno più.
 
E mi sento così vecchia nel sentirlo cacciare fuori le peggiori cose fatte insieme. Come:
«Ti ricordi quando bussavo ai citofoni e poi correvo via, lasciandoti l’ingrato compito di rispondere. Dio, com’eri ingenua.» o «Non ho più mangiato pancake più buoni come quelli fatti da tua madre.» o cose peggiori ancora.
 
«Lo sai che ho ancora conservata la conchiglia che mi portasti dalla Francia. È nel mio portafoglio.» ammette quasi timidamente, lasciando andare la mia mano, per tirare fuori dalla tasca un portafoglio nero.
 
All’epoca ne aveva uno marrone, bruttissimo. Glielo dicevo sempre.
 
Mette sul tavolo la conchiglia di cui parlava. Ricordo ancora il giorno in cui gliela diedi. Fu il giorno in cui parlammo e chiarimmo la nostra situazione.
Avevo sedici anni e con labbra e mani tremanti, bagnate dalle mie lacrime, gli avevo messo tra le dita quella conchiglia grande, bianca.
L’avevo raccolta in Francia, durante una vacanza con i miei genitori, lungo la spiaggia di Nizza. All’interno vi avevo trovato una perla.
Sospirando mi giro verso la borsa, tirando fuori il mio di portafogli.
Poso la perla nera al fianco della conchiglia e lui sorride.
Porto una mano al mento, poggiando il gomito al tavolo. Riprendiamo a fissarci.
I suoi occhi azzurri che come ho detto restano per me sempre due fari, non hanno più per me il significato di una volta. La mia vita non ha più come punto di riferimento quel faro.
Se ne è semplicemente trovato un altro.
È triste da accettare, ma è la verità. Non siamo più quelli di una volta.
Quella perla pesava cento quintali, lì posta nella parte più nascosta della borsa. Ma la portavo sempre dietro, sempre con me.
Sono sempre stata tradizionalista e masochista, grande collezionatrice dei ricordi, anche quelli più dolorosi.
Perché Alex era stato un amore adolescenziale di nessuna importanza rispetto alla mia attuale storia di lunga data, con colui che ormai consideravo l’amore della mia vita, l’anima gemella che avevo cercato a lungo.
Ma non potevo negare che sì, Alex era stato il mio primo amore.
E sebbene potessimo dare l’impressione di due vecchi che ripercorrevano insieme i tempi passati di una vita che non c’era più, nonostante entrambi non superassimo i venticinque anni, la verità era questa.
Erano finiti i tempi di noi due, mano nella mano, a confidarci sogni e a guardarci “innamorati”.
 
«Magari in un’altra vita.» sussurra poi, tirando fuori nuovamente quel solito mezzo sorriso.
 
Annuisco, divertita. Ma gli do corda. È una cosa che ho sempre pensato anch’io. «Perché no. In un’altra vita. Ma per ora mi va bene questa.»
Lui annuisce, continuandomi a fissare. Poi sospira e allunga la mano lungo il tavolo, ma invece di riprendere la conchiglia, questa volta prende la mia perla nera.
 
«Se non ti dispiace, ora voglio questa.» dice titubante, aspettando un mio consenso.
 
Annuisco, capendo cosa intende con questo gesto. La conchiglia rappresentava la nostra rottura, la presenza di un fantasma del nostro passato. Lo scambiarci i regali annuncia ora una consapevolezza diversa, quella di esserci perdonati a vicenda e aver lasciato lo spazio ad un nuovo sentimento.
Del rispetto e dell’amicizia.
Prendo a mia volta la conchiglia, posandola nel portafoglio che ora assume una nuova consistenza e un nuovo peso.
Sto per tirare fuori i soldi per la cioccolata ma lui mi ferma, mettendo una mano sulla mia, pregandomi di lasciar fare a lui.
Poi si alza in piedi, rimettendo il cappotto. Lo imito.
 
«Ti auguro un buon Natale, Emma.» dice Alex, fissandomi. Non mi porge la mano, non ci abbracciamo e so che è giusto così, mantenere quella distanza di sicurezza.
 
«Buon Natale anche a te, Alex. E in bocca al lupo per lo spettacolo di domani.» dico, avvolgendo la sciarpa attorno al mio collo.
 
Lui annuisce e non dice altro, si gira e si avvia al bancone dal signor Edwards per scegliere i dolciumi per cui era entrato.
Gli ammiro la schiena dritta e immobile.
 
«Signor Edwards, arrivederci. Passerò in questi giorni per quel dolce che vi avevo detto.» dico ad alta voce, alzando la mano a mo di saluto.
 
«Torna quando vuoi, dolcezza.» risponde ruffiano il signor Edwards.
 
Alex non si gira. Ed è giusto che sia la sua schiena il mio ultimo ricordo di lui.
 
Esco dal negozio, lasciando dietro di me il solito scampanellio.
Le strade di Londra ora hanno una nuova luce, un’aria più pulita, più calorosa, decorate dalle vetrine scintillanti e gli alberi addobbati da numerose luci.
Riprendo a camminare verso casa calpestando le foglie secche con la solita gioia nell’animo, l’aria divertita e non guastata dalla mia caposala ed il suo triste annuncio di stamattina.
Felice dell’arrivo del Natale, così diverso dagli altri anni.
Felice della mia nuova vita e della nuova me.
In attesa di una ventata di aria nuova. Magari piena di sogni.
 
E poi chi lo sa. In un’altra vita, forse…
  
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