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Autore: LettriceEllie    05/01/2020    1 recensioni
"Si chiamava Alatàriel e del suo tormento non è rimasto che un triste canto."
Una pallida speranza destinata a soccombere.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Boromir
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Si chiamava Alatàriel e del suo tormento non è rimasto che un triste canto. Dove un tempo splendevano le foglie d’oro di Lothlòrien lei dimorava con la sua gente, ed era amatissima e protetta, benedetta dal potere di Nenya, la stella che illuminava la mano di sua madre, la Dama Bianca. Aveva ereditato da Dama Galadriel la stessa luce, la benedizione di Earendil, ma nulla più. I capelli avevano i bagliori argentei di suo padre, sire Celeborn, i cui tratti erano stati plasmati su di lei in una fine dolcezza che la rese benvoluta fin dai primi vagiti. Era esile, un cigno bianco, sapeva passare inosservata anche tra la folla, prediligendo la solitudine e il silenzio di pensieri che assai di rado condivideva.
Intrecciava i fili d’argento degli arazzi che ornavano le sale dei sovrani di Lòrien, cantava con voce fresca e timida, più avvezza ad unirsi ad un coro che a dominare il silenzio con le sue note cristalline. Non era la più bella della sua stirpe. Dama Arwen, sua cugina, offuscava la sua luce già quando erano bambine insieme, due innocenti creature che, negli anni, conservarono la stessa grazia pura e immacolata. Eppure aveva una virtù inestimabile, un dono dei Valar che la rendeva indispensabile e preziosa: Alatàriel era in grado di guarire ferite profonde, anche letali se prese in tempo. Le sue dita non temevano di macchiarsi di sangue, agivano in fretta e con sapienza, una sicurezza che possedeva fin dalla più tenera età. Gli arcieri di ritorno dai confini avevano spesso addosso ferite causate dagli attacchi degli orchi, ma la figlia del re aveva rimedi per ogni squarcio, ogni bruciatura, insegnando la sua arte a chi era disposto ad imparare. Dama Galadriel sapeva, però, che quello non era che il riflesso delle capacità della fanciulla, la cui compagnia alleviava come un balsamo il cuore turbato e sofferente di chi ha conosciuto il male.
 « Orophin le deve la vita, mia signora. Vostra figlia lo ha riportato alla luce. L’ho vista mentre gli mormorava incanti di guarigione. »
Haldir aveva portato con sé il fratello ferito, spezzato da un lungo assedio ad opera di orchi che avevano trucidato amici e fratelli dei suoi bravi guerrieri. Sconfortato e preda dell’angoscia, Orophin era sul punto di cedere ad un oblio liberatorio, una morte agognata e feroce, ma la fanciulla lo aveva accolto in un abbraccio e regalato parole sussurrate in segreto al suo orecchio. Cosa disse, nessuno lo seppe. Neppure Galadriel, che guardava con gratitudine l’ultima figlia che i Valar le avevano concesso.
Alatàriel non aveva mai desiderato abbandonare la sua dimora, perché in essa trovava il conforto di una vita a splendere tra la sua gente, i suoi consanguinei, al sicuro dall’Occhio sempre vigile di quel male in agguato.
Un giorno il Grigio Pellegrino volle incontrarla. La figlia di Lòrien lo conosceva da tempo, Mithrandir era solito raccontare di giorni che ella non aveva mai vissuto, portandola con la voce attraverso sentieri che i suoi piedi mai avrebbero calpestato.
« Benedetta sia la tua luce, Alatàriel. Ho assistito al tuo miracoloso operato, ma non ho voluto interromperti per paura di causare danni. Dimmi, è vero che conosci ogni filo d’erba, foglia e muschio con poteri curativi?»
« Conosco solamente le piante che crescono nella mia terra, Mithrandir. Tu possiedi una conoscenza più vasta della mia. »
« Eppure mi dicono che lanci incantesimi a cuori malati, mia signora. Hai guarito più di un male, con la tua presenza. »
A quel punto Alatàriel rise, una risata sottile e timida, il gorgoglio di un ruscelletto vivace. Le guance si accesero appena, ma il suo imbarazzo era visibile negli occhi che, esitanti, tentavano di ricambiare lo sguardo del mago.
« Nessun incantesimo, Mithrandir. Io parlo e basta, cerco di distogliere la mente raccontando qualcosa di bello e gioioso. Quando una creatura è afflitta da pensieri oscuri, allora sono facili prede di tenebra e dolore. Io tento di portarli su un sentiero diverso, ma nessuna magia, nessun trucco, nessun inganno. »
Mithrandir parve quasi sollevato, ma non le diede mai alcuna spiegazione. Si limitò a veder scorrere gli anni e con essi il tempo che gli elfi concedevano alla Terra di Mezzo. Tornarono i tempi bui, i giorni che presto avrebbero visto i figli di Eru abbandonare il regno degli uomini. Se il fato non si fosse intromesso, Alatàriel si troverebbe alle Sacre Sponde insieme alla sua gente, salva e protetta.
Era china ai piedi di suo padre quando giunsero i due fratelli di Haldir. La fanciulla stava ricamando per lui, era serena e assorta nel proprio parole, ma le dita sapienti dovettero arrestarsi nell’udire la notizia che i due arcieri portavano ai due regnanti. Celeborn e Galadriel non parvero sorpresi, eppure fu con aria grave che accolsero le parole dei due messaggeri. Abituata a non intromettersi, Alatàriel attese che i due fossero congedati per alzare il capo e guardare i genitori con occhi imploranti.
« Dovrei andare loro incontro, non trovate? Se quello che ho udito è vero, la Compagnia ha più di un fardello da portare. »
« Fardelli più gravosi di quanto tu possa immaginare, figlia mia. Non voglio esporti, presto andrai ai Porti Grigi e, almeno tu, sarai salva dal male che affligge la Terra di Mezzo. »
Celeborn aveva la saggezza del mondo nei suoi occhi, eppure non fu in grado di dimenticare l’angoscia di aver perso già un figlio. Fu Galadriel a rompere nuovamente il silenzio, quando ormai pareva che il discorso fosse chiuso. Quell’intromissione sarebbe stata per lei fonte di supplizio.
« Molti sono i miei crucci. Ma non temo la rovina, non tra questi alberi benedetti. Figlia, il tuo dono è inestimabile, se i Valar te lo hanno concesso ci sarà una ragione e io non ho così tanto potere da andare contro la loro volontà. »
Alatàriel concesse un sorriso alla madre, ma non volle ferire Celeborn, così si limitò ad attendere a Cerin Amroth, ai piedi degli alberi su cui i flet splendevano tra le foglie. Non era spaventata, ma si portava addosso un’irrequietezza incomprensibile, un malessere che a tratti la faceva impallidire, per poi svanire e lasciarla smarrita, confusa. I palmi sudati lisciavano la veste bianca di cui era ammantata, la bella bocca si serrava e poi sbuffava sospiri rumorosi, mentre se ne stava lì ad aspettare, una colomba nell’ombra della sera. I tessuti intrecciati dalla sua gente erano leggeri come aria, parevano seta sottile che la scaldavano come uno spesso strato di lana. Come sua madre, Alatàriel vestiva di bianco, ma non era abbagliante, bensì opaco, un bagliore lattiginoso che faceva risplendere i capelli lisci come l’acqua, con il giallo elanor e il pallido niphredil intrecciati in una corona intorno al capo. I petali dei fiori erano i suoi unici gioielli, perché né al collo né alle dita portava alcun ornamento. Avvertì il calpestio dei piedi degli stranieri un attimo prima che i loro sguardi si posassero sul pezzo di terra in cui si trovava lei, che nel frattempo era scivolata nell’ombra, improvvisamente spaventata, attonita. Come il più bieco dei ladri, la principessa di Lòrien rimase nell’ombra, sbirciando i nuovi arrivati senza emettere un suono. Riconobbe Elessar, ma non ebbe il coraggio di raggiungerlo, non con il rumoroso nano e il resto della Compagnia a pochi passi da lui. Non riconobbe l’elfo insieme a loro, ma non si soffermò più di tanto, perché i Mezz’uomini catturarono il suo più vivo interesse. Uno in particolare, quello che portava con sé il Fardello, colui che più di tutti era desiderosa d’aiutare. Fu sul punto di muovere un passo nella sua direzione, ma il secondo figlio degli Uomini la costrinse a trattenere il respiro. Era più basso di Elessar, ma più robusto, segnato da battaglie diverse da quelle affrontate dal Ramingo, i suoi tratti erano severi, come se fossero stati tagliati di netto da una lama gelida. Ognuno dei membri della Compagnia era afflitto da un dolore lampante, era evidente dai loro volti segnati dalla fatica. Il Figlio degli Uomini portava i segni dello stesso patimento, ma negli occhi c’era conflitto e c’era dolore, una lotta soffocata da una determinazione ferrea. L’elfa si sporse per osservarlo, dimenticando il Mezz’uomo e il suo fardello, Elessar e il resto della Compagnia. Nessuno la vide e nessuno l’avrebbe vista se solo lei fosse rimasta nell’ombra ai piedi dell’albero. Sporse un piede e poi il profilo del volto bianco, costringendo l’uomo a cogliere quel fioco bagliore fiorire nell’oscurità. Da quel momento, tutto fu perduto. Troppa era la fatica, troppe le prove affrontate, per l’uomo che, semplicemente, appariva immobile, incapace di sciogliere la pietra che aveva indurito i suoi lineamenti. Nessuno colse alcun cambiamento, nessuno notò il sollievo negli occhi grigi che, assetati, bevvero dalla pozza che gli venne offerta. Alatàriel stava lì, luce nell’ombra, l’ultimo appiglio per un uomo continuamente tentato dal male insidioso e potente, crudele e meschino come il fato che li aveva già condannati. La Figlia di Lòrien aveva smesso di avere paura, eppure non si mosse da lì, limitandosi ad ergersi come un timido giunco offuscato dalla foresta, eppure vivo, un tenero spiraglio di tenerezza. In quel primo contatto lei si limitò a sorridergli e tanto bastò a dargli tregua dai suoi demoni.
Trascorse una notte prima che Alatàriel ebbe nuovamente il coraggio di avvicinarsi alla Compagnia, ore di dolore e canti per Mithrandir, la cui dipartita aveva riempito di sofferenza il cuore di tutti. Al sorgere del sole non aveva trovato pace, né alcun ristoro. Stava dritta nel suo flet, le dita posate sulle ringhiere bianche che davano sui giardini ai piedi dell’albero in cui dimorava. Da lì scorse il Dùnedain seduto in disparte rispetto agli altri membri della Compagnia, assorto ancora in quel suo conflitto perenne. Fu lei a cercarlo, compiendo un timido gesto con le dita tremanti, un saluto distante che, catturata l’attenzione di lui, ebbe l’effetto di sgusciare via ancora prima d’essere riconosciuta. Molte ore dopo raccolse coraggio a piene mani e si decise a scivolare via dal suo giaciglio sicuro, indossando il più semplice dei vestiti della sua stirpe.
 Elessar la riconobbe subito e le sorrise, si lasciò abbracciare e parlò di lei ai compagni. Disse parole piene d’affetto, ma lei si limitò a starsene in silenzio, soppesando i volti che le sfilavano davanti senza elargire né giudizi né sorrisi di troppo. Molti erano gli anni che Alatàriel si portava addosso, parecchi decenni su quelle spalle sottili, e chi è stato testimone di tanti inverni non ha bisogno di parole di troppo. Il primo e il più fulgido dei sorrisi lo rivolse a Frodo, di cui volle stringere le mani e trovare lo sguardo che sua madre prima di lei aveva incontrato. Conobbe i membri della Compagnia e, per ultimo, tornò su Boromir, graziato da una notte di sonno che ne aveva addolcito i tratti. Non gli prese le mani, si scoprì improvvisamente timida ed esitante, come il sorriso che vibrava sulla bocca rosa.
« Gondor. » Mormorò soffermando gli occhi sull’albero bianco che ornava i suoi indumenti. « La tua gente sta pagando per un male antico, più vecchio dei primi uomini che videro l’Albero in Fiore. Eppure vi rialzate continuamente, anche se feriti o afflitti. »
« Non abbiamo scelta. Non è mera sopravvivenza, è onore. Non possiamo sottrarci al nostro compito, mia … » Si interruppe, ma non bruscamente. La voce che scorreva sicura e impetuosa ebbe un fremito di incertezza, gli occhi cercarono quelli di Alatàriel con una muta richiesta di aiuto. Sorrideva, il sorriso smarrito di chi si è perso da tempo. Lei non colse subito quella preghiera, non per scelta, perché il suo corpo parve farsi prigione di un piacevole tormento. Ricambiò il sorriso con la stessa incertezza.
« Mi chiamo Alatàriel. Porto il nome di mia madre, ma potete darmi il nome che desiderate, Signore degli Uomini. »
Boromir non ebbe altra scelta se non accogliere in silenzio quella concessione, ignorando occhiate curiose o bisbigli compiaciuti dei più impertinenti dei quattro Hobbits. La sua mano cadde istintivamente sul corno bianco, un tentativo come un altro di rammentare a se stesso a quale popolo apparteneva e per sempre sarebbe appartenuto. Come se stesse scrutando la superficie di un limpido lago, la Fanciulla colse i turbamenti e i crucci, trovando ulteriori ombre celate in quelle acque profonde. Non disse nulla, ma la consapevolezza di aver trovato il cuore da alleggerire si era ormai fatta strada in lei. Alatàriel non fece mistero del proprio interesse, prediligendo l’uomo di Gondor a tutti gli altri, che tuttavia ricevettero cure e attenzioni, ma nulla più di questo. Medicata ogni ferita, la Fanciulla del Bosco Dorato cercava la compagnia di Boromir con un’insistenza limpida, genuina, la bocca increspata da sorrisi innocenti e occhi già pieni di una devozione inconsapevole.

« Il tuo nome. » Esordì lei una mattina, trovando il Dùnedain solo con i suoi pensieri. Le bastò affiancarlo e camminare con lui lungo i verdi sentieri per diramare le nubi dense che oscuravano gli occhi dell’uomo. « “Gioiello Leale”» e, nel pronunciare quelle due parole, i polpastrelli andarono ad indicare la pietra che portava al collo.
« Leale lo sono, Alatàriel. Gioiello, invece, non saprei. La mia compianta madre scelse questo nome, immagino che per una donna i figli siano inestimabili come pietre preziose. Perfino di più.»
« Anche per i padri, heruamin. »
Non le rispose, il sorriso si spezzò lentamente, ma cacciò via il cruccio tornando a guardarla con un tenero tepore negli occhi e nel cuore malato.
« “Mio Signore.” » Tradusse per lui, sollevando appena il mento per ricambiarne lo sguardo. Non era oltraggiosa, né era solita osare troppo. Protetta dalla luce di Nenya, Alatàriel non conosceva malizia o freni, riversando se stessa senza mai mentire. Voleva guardare il Dùnedain e non poteva far nulla per tenere a freno né l’ardore né la genuina passione che era sbocciata ancor prima che lui ricambiasse il suo sguardo.
« Vuoi conoscere altre parole? »
Boromir aveva trovato un tale conforto in quella voce che per lui fu un supplizio rinunciarvi a causa dei silenzi di cui l’elfa pareva fatta. Eppure gli era parso di udirla mentre la guardava, mentre ricambiava il suo sguardo senza far nulla per interrompere l’incanto della sua vicinanza. Avrebbe potuto levare una mano e toccarle il viso, il mento, i capelli che avevano l’odore di tutte le cose belle di quel giardino immacolato. Le rispose con un cenno appena percettibile, ma di parlare non sembrò più capace. Senza voce, senza parole, smarrito e inerme davanti alla più dolce delle creature. Soccombere a lei sarebbe stata una fine che avrebbe accolto a braccia aperte.
« Voronwer, leale. » Sentire il soffio della sua voce era un’impresa ardua, perché si faceva sempre più flebile, come flebile era il sorriso che sulla bocca di lei assunse tinte amare, tristi. « Il tuo nome, Boromir, mi è già più caro di una gemma.»
E arresa a quella verità, la fanciulla riprese a camminare, tentando di insegnare altre parole di uso comune, mentre altre ancora, profonde e significative, le morivano in gola.

Alatàriel non si limitava ad accompagnarlo durante le passeggiate, ma gli sedeva accanto durante i pasti, versava idromele nella sua coppa e gli parlava, gli sorrideva con occhi e bocca, diventando una presenza luminosa al suo fianco. Composto e garbato, l’uomo era riservato, costretto in un distacco forzato dalla mera apparenza o il desiderio di non offendere i regnanti che li avevano accolti. Ma, più di ogni cosa, egli temeva il potere della Dama Bianca.
« Parlo troppo, mio signore? » Il cinguettio di lei si fece goffo e timoroso, come le dita bianche che, nonostante tutto, cercarono di posarsi sulle nocche ruvide posate alla tavola allestita per la Compagnia. In un primo istante Boromir fu sul punto di sfilare la mano, allontanarla dal tocco dell’altra. Un istante in cui pensieri orribili gli avevano assediato la mente. Bastò il caldo bagliore di quelle dita a mitigare le tenebre, allentando la tensione che aveva irrigidito le sue spalle. Con sollievo, il respiro caldo abbandonò le narici.
« La tua voce è un balsamo, Capelli d’Argento. Potessi scacciar via con leggerezza ogni mio dovere, credimi, resterei qui ad ascoltarla per tutta la vita. »
Le aveva sorriso, c’era sincera leggerezza nella voce, ma il presagio celato tra le parole cacciò via il calore dalle guance di Alatàriel, che parve spegnersi poco a poco. Lo guardava e con dita tremanti cercava la sua mano, racchiudendola come petali bianchi dei fiori a stella di cui si era ammantata. Il sorriso era morto, era scivolato via dalla bocca schiusa in un lamento silenzioso. Raccolse la mano dell’uomo e vi posò sopra la fronte, per la prima volta incapace di alleviare qualsiasi sofferenza. Turbato dalla sua reazione, l’uomo fu sul punto di reagire, ma lei lo anticipò e, leggera e silenziosa, si allontanò da lui, che parve morire di quel distacco. Gli ci volle un notevole autocontrollo per non correrle dietro, ma alla fine la sua forza venne meno, e lui scivolò via, lasciandosi la Compagnia e le voci degli Hobbits alle spalle. Non fu facile trovarla, a lungo vagò tra gli alberi e nessuno degli elfi che incontrò parve desideroso di agevolarlo, quasi a burlarsi di lui. Quando la vide, capì che lei lo stava aspettando, perché se avesse voluto sparire, lui non avrebbe potuto far nulla per ritrovarla. Questa consapevolezza lo colpì più del dolore che trovò nel viso della fanciulla.
« Sono stato inopportuno, temo. Hai modi così diretti, mia signora, che a volte commetto l’errore di dimenticare che sei una creatura immortale. Devo apparirvi piccolo e insignificante, qualcosa di fisso in pochi istanti che spazzerete via quando lascerete questa terra. » Esitò, ancora una volta addolorato da quel legame spezzato ancor prima di vedersi compiuto. « Hai preso la mia mano, poco fa. L’haistretta e ho sentito il cuore leggero come quando ero bambino. E’ questo il potere della tua gente? Allontanare gli affanni? Ti prego, parlami ancora. Mi stavi raccontando delle acque di Lothlòrien. »
Lei se ne stava a pochi passi da lui, i capelli che scivolavano con quel bagliore che nella notte pareva una stella dimenticata sull’erba. Quando finalmente tornò a guardarlo, cercandolo con i suoi occhi devoti e limpidi, entrambi divennero consapevoli della loro condanna. Eppure non parvero più turbati. Sorrideva, Capelli d’Argento, il sorriso arreso e vibrante, la mano che tornava a lui, al volto che accarezzò con tenerezza.
« Non ho nessun potere, a’ maelamin. » L’ultima parola la pronunciò con timidezza, ritraendo la mano per custodirla al petto di lui, dove fissò ostinatamente lo sguardo. Era alta abbastanza da poter sostenere il suo sguardo, ma fu preda di un dolce supplizio che le impedì di osare oltre. Un tremore quando le dita dell’uomo si posarono su una spalla, senza osare oltre, pietrificato dal torpore in cui si erano loro malgrado ritrovati.
« Ti parlo per alleggerirti il cuore, per distrarti, ma la verità è che quando restiamo in silenzio vengo assalita dal tormento. Mi fai sentire piccola e insignificante, smarrita e turbata. Vorrei chiederti di parlarmi, vorrei implorarti di dirmi del Bianco Albero, della Torre, dell’armatura di cui ti ammanti. Oh, ti vedo risplendere, a’ maelamin. Ti vedo baciato dalla luce di un sole che guida la tua vittoria. »
Entrambe le mani bianche restarono accostate al suo petto, non più tremanti, ma al loro posto, sicure e protette, mentre il profilo di Boromir si adagiava contro il capo argentato della prediletta di Eru. Non si sentiva degno di baciarla, così si limitò a lasciare le labbra contro la fronte mentre lei parlava ancora, mormorii che lo beavano.
« Mela en’ coiamin. » Sussurrò ancora, le palpebre calate sugli occhi umidi, le dita strette tra le pieghe della stoffa che ricopriva il petto del mortale. « Ti attendo da prima che tu comparissi nel mondo. Sei il dono dei Valar per me, guerriero dall’elmo d’argento. »
E poi un lamento sommesso, un singhiozzo che si trovò a soffocare contro il suo petto. Perché in quelle parole c’era tutto il dolore di chi si abbandona all’agonia.
Venne il momento per lui di reagire, ma lo fece con lentezza, avvolgendola a sé, stringendola con tenerezza. La guancia ruvida e ispida arrossò la pelle della fronte bianca, che finalmente toccò con la bocca prima di parlare. « Mi hai detto di chiamarti come desidero, figlia della Dama Bianca. Ebbene, non ho nomi per te, non conosco parole degne di te. Una vita non basterebbe a trovare le parole adatte e io sono un guerriero, sono carne da sacrificare per il bene del mio popolo. »
« Solo carne? Ti guardo da giorni, a’ maelamin, e ancora non sono riuscita a raccogliere tutto ciò che ti porti nel petto. Non basterebbe l’eternità tutta per comprendere l’animo degli uomini e, ancor di più, il tuo. Sei Principe dei Dùnedain, in pochi possono definirsi uguali a te in battaglia, forse nessuno. Sei figlio prediletto, sei fratello premuroso, sei eroe e tutti su di te vedono luce. Luce, a’maelamin, che riesci a mantenere nonostante questa tua lotta che tanto ti fa sanguinare. Oh, nessuno lo vede, il tuo patimento. Sei forte, a’maelamin, ma quanto potrai reggere un tale tormento? »
Era una domanda, la sua, ma non cercava in verità alcuna risposta dalle labbra che cercò con le proprie. In un bacio riversò la luce che Nenya le ha riversato dentro quando ancora dimorava nel ventre della Dama Bianca. Una benedizione, in quel bacio, ma anche il tocco innocente, semplice e delicato di una fanciulla innamorata. Il bagliore argentato scacciò le tentazioni dell’Anello, offrendo un giaciglio sicuro all’uomo spezzato. Nella tenerezza di quei momenti, Alatàriel finalmente rise, avvolgendo la nuca dell’uomo con esili braccia, mentre le labbra impararono a conoscere il volto del mortale, che si trovò inerme, vittima di un dolce giogo.
« Raccogli solo le cose belle, Capelli d’Argento. Ci sono pesi che devi lasciare dove sono, non voglio che queste mani si rovinino. » Raccolse entrambi i polsi sottili e bianchi, portò i palmi alle labbra e li baciò, serrando palpebre e respirando l’odore della sua pelle. Le sussurrò del suo amore, una devozione sgorgata dopo pochi sguardi di lei.
« A’ maelamin. » Sospirò ancora, il sorriso incapace di morire dalle sue labbra timide. « Non mi chiedi cosa vuol dire?»
Ma il Dùnedain lo sapeva, era una certezza che non necessitava di alcun chiarimento.
Da quel momento in poi, i due non fecero mistero del proprio attaccamento. Nessuno aveva per loro una sola parola di condanna, non un accenno di derisione o avvertimento. Elessar tenne per sé ogni pensiero, reazione che non venne condivisa dai membri della Compagnia. Gli Hobbits cantarono per loro, brindarono e trovarono occasione di festeggiare, per quanto fosse loro concesso. L’elfo Legolas pareva turbato, ma non osò mai interferire e così anche Gimli. A torreggiare su di loro era la presenza del sire e la dama che, seppur raramente, erano stati visti osservare l’amata figlia che per un Dùnedain si stava struggendo e disperando. Nessuna lacrima quando dovette ammettere al loro cospetto di rinunciare ai Porti Grigi, alla salvezza di un’eternità deliziosa.
« Non c’è vita, per me, se non posso alleviare le sue sofferenze.»
Galadriel la guardava in silenzio, mentre Celeborn a stento riusciva a frenare la collera davanti le confessioni della figlia. L’aveva già persa e lo sapeva, ma il padre non poteva sopportare il suo abbandono.
« Curalo, allevia ciò che desideri, ma terminata la sua vita tu verrai con la tua gente. »
« Non potrei abbandonare neppure la cenere del suo corpo, amato padre. Sono nata per lui e sono felice di ogni secondo concesso. Farà di me la sua sposa, è disposto a prendermi in moglie anche qui, con la benedizione del nostro popolo, così da portarmi con sé all’Albero Bianco e presentarmi come sua consorte al Sovrintendente e a suo fratello, che lo aspetta con ansia. »
« Il Dùnedain è disposto, dici? Dovremmo porgergli i nostri omaggi per aver condannato nostra figlia ad una morte spietata? Ti attendono solitudine e dolore, sciagurata. »
L’ultima parola abbandonò le labbra del sire in un lamento che sciolse l’immobilità della sua consorte. La Dama Bianca sfiorò la mano del marito e, con un sorriso sulla bocca e il dolore negli occhi, gli fece cenno di non dire altro.
« Sia compiuto il volere di Ilùvatar. » Guardò la figlia negli occhi, le bastò quel semplice tocco per benedirla. « Se riuscirai a salvarlo, il futuro sarà diverso. Salvandolo potrai contribuire alla guerra che verrà. Sei sicura, figlia mia, che l’uomo di Gondor vorrà essere salvato, quando verrà il momento? »
Alatàriel non aveva una risposta a quella domanda. Conosceva le risposte a ciò che chiedeva il suo cuore ed era certa che Boromir non avrebbe ceduto a quel peso che, con lei accanto, si era fatto più facile da portare.
Le nozze furono celebrate con semplicità, nessuno squillo di trombe argentate in giorni tanto tetri, né banchetti sontuosi. Parole d’unione in lingue antiche, preghiere da elfi, auguri dai nani, canti allegri della Contea e la benedizione degli umani. Il Dùnedain indossava vesti realizzate in una notte dalla sua sposa che, al suo fianco, pareva una stella strappata al cielo. Bianche erano le braccia lasciate nude, come bianca era la veste che ricopriva l’erba e i piedi nudi, con mille fiori di niphredil appuntati sulla stoffa. Quel giorno il suo capo venne cinto da una catena bianca, come bianca era la gemma che Boromir portava al collo. Sincero era quell’amore sbocciato così rapidamente, sinceri erano i loro occhi che si cercavano sempre, ad ogni battito di ciglio. A stento mangiarono, a stento bevvero dalla coppa che condividevano. Haldir, che tanto l’amava, intonò un canto che i suoi fratelli assecondarono, intingendo di speranza quell’unione destinata a sgretolarsi con lo sfacelo del tempo.
Da quella notte, Boromir trascorse il suo tempo nel flet sospeso tra i rami, dividendo amore e sonno con l’amata. Del potere dell’Uno, non pareva esserci più traccia.
La felicità, però, era destinata a morire e i due lo sapevano. Lo sapevano gli sposi e lo sapeva chi li scorgeva stretti e adoranti.
« Non sono debole, a’maelamin, posso seguirti finché il sole avrà la forza di sorgere e finché le stelle saranno in cielo. » Stava nuda contro il suo petto, i capelli che scivolavano sulla schiena e poi giù, contro l’uomo che guardava dall’alto, viso sopra viso. Sorrideva, le labbra scivolavano contro il suo profilo e tutta la forza dell’eternità era con loro. « Posso viaggiare veloce, conosco i venti e conosco le piante. La tua terra non è lontana, il portatore potrebbe scegliere di seguirti. Io, a’maelamin, devo essere presente durante questo viaggio.»
In quel momento, però, Boromir non era incline ad accontentarla e ciò non sarebbe cambiato con il mutare della marea. Conosceva il volere della fanciulla, aveva sempre saputo che la separazione non sarebbe stata facile. In cuor suo, però, desiderava che quella partenza non sarebbe mai arrivata, perché nella Terra dell’Oro aveva conosciuto una tentazione più soave e deliziosa delle promesse dell’Anello. Si tirò lentamente a sedere su quel giaciglio di pellicce e vesti sgualcite, sostenendo la sua sposa con un braccio. Sollevare lei era come sollevare l’aria. Una freccia ben indirizzata sarebbe stata fatale, per lei. « Non posso adempiere al mio compito se sarai con me, mia sposa. Non riuscirei a proteggere Frodo se il mio primo pensiero sarà sempre e solo quello di portarti sana e salva a Gondor. Non conosco le insidie che ci attenderanno lungo la traversata del fiume, né se alla fine di questa prima tappa procederemo per Mordor o dritto per Gondor. Oh, potessi andrei a combattere insieme alla mia gente, porterei quel potere così prezioso insieme a me e poi tornerei a prenderti, mia preziosissima. » Lei protestava, ma lui già aveva il suo volto tra le mani e baciava ogni lacrima. « Sono i nostri ultimi momenti prima della momentanea separazione. Amor mio, non sarà per sempre, la guerra verrà vinta e tu vedrai l’Albero Bianco. Sarai al pari di una Principessa, ma più splendente e bella, tutti ti ameranno. Con te al mio fianco non aspirerei a nessun trono, non desidererei altra vita se non quella con te, senza più spada e senza più scudo.»
« Non posso lasciarti andare, non adesso. L’Unico ti tenterà ancora, Esso non è sconfitto, è dormiente, assopito tra gli alberi dorati. Hai bisogno di me, hai bisogno che io ti faccia scudo da ciò che rappresenta. Non riesco a tollerare di saperti ancora con il cuore pesante. Oh, a’maelamin, nessuno comprenderà quanto ardua sarà la tua lotta. Nessuno, nessuno è in grado di capire che il tuo valore è inestimabile, perché fino ad ora hai retto e sopportato senza condividere il tuo strazio.»
Lui non rispose, si limitò a tenere le palpebre calate, le labbra chiuse, respirando l’odore della sua sposa e beandosi della sua voce. Lei tentò e tentò ancora di fargli cambiare idea, ma l’uomo era irremovibile, saldo nelle sue convinzioni, ferreo come l’eroe che era stato e sempre sarà.
La loro ultima notte non diede più spazio a lacrime o addii. Il Dùnedain l’amò come un uomo mortale sa amare, prendendola con disperata passione, spinto dalla consapevolezza di dover presto lasciare la stretta delle dolci braccia e le tenere gambe che lo avvolgevano. Anche in silenzio, si chiamarono con nomi che nessuno poteva udire, gemendo al sopraggiungere dell’alba. Al primo raggio di sole, lei lo strinse con ritrovato vigore, piangendo piano, con un dolore che esplodeva e lacrimava. A’maelamin, amore mio.
Prima di congiungersi agli altri, lui rimase a lungo a rimirarla in silenzio, sorridendo con la sicurezza di chi ha la vittoria sotto lo sguardo. « Sei il mio approdo sicuro, Capelli d’Argento. Non piangere più, saperti così mi avvilisce e non posso avere il cuore pesante. Ho bisogno di saperti al sicuro dal pericolo e da te stessa, così da affrontare la fatica senza temere la fine. La fine, mia sposa, è lontana. Ci aspetta una vita meravigliosa.» Si tolse la collana e la chiuse dietro la nuca di Alatàriel, guardandola risplendere con la sua gemma bianca al petto.
Il banchetto con i regnanti di Lòrien era l’ultimo addio, ognuno ricevette un regalo, ma Boromir quasi non ci fece caso. Rimirava la sua sposa, si lasciava guarire dalla sua vicinanza, accarezzava i suoi capelli e la baciava senza timore, dimenticando sguardi e sussurri. Erano marito e moglie, avevano già ricevuto tutte le benedizioni dei popoli riuniti tra quegli alberi dorati. L’avrebbe amata senza temere nulla, perché grazie a lei aveva sconfitto le tenebre.
« Un sorriso. » Le mormorò prima di salire sulla barca, le spalle ai compagni, lo sguardo a lei che accarezzava con mani gentili. « Sorridimi e sarò forte. »
Lei lo accontentò. Un sorriso e un ultimo bacio, una benedizione e infine l’ultimo saluto. Mentre le barche si allontanavano, Boromir vide Alatàriel immersa nell’acqua che le arrivava fino alle spalle, con le bianche vesti che si muovevano sulla superficie. E, i capelli, un velo prezioso che luccicava insieme alla gemma. Cantò, canto per lui, una canzone che si librò senza esitazione, senza timore, senza paura. Anche quando di lei non c’era che un bagliore lontano, la sua voce echeggiò a lungo durante il loro viaggio, benedicendo il cammino dello sposo tanto amato e, sì forte, ma ormai privo di quella protezione che, da sola, era bastata a salvarlo dall’oblio.
Senza di essa, Boromir era di nuovo solo nella sua lotta. Una lotta che avrebbe vinto, ma che gli causò comunque la rovina. Cadde, il figlio di Gondor, cadde con le frecce conficcate nel corpo e i servi del male sparsi in cadaveri maleodoranti tutto intorno. E’ così che cade un eroe, è così che perisce un guerriero. C’era un sorriso, sulle sue labbra, il sorriso di chi, per ultimo, aveva avuto in dono la vista preziosa della sua amatissima Capelli d’Argento.
Qualcuno disse che Alatàriel avesse sentito il suono del corno, il giorno in cui il suo amore si spezzò. Lo aveva sentito e non aveva avuto la forza di dire nulla, perché aveva sentito le braccia invisibili trascinare via il suo amato, strappandolo da lei e dal suo cuore. Smise di parlare, smise di cantare, smise quasi di respirare. Più lei deperiva, più il suo ventre cresceva.
Vinta la Guerra, lei non aveva che la forza di mettere al mondo il figlio di quell’eroe ormai spazzato via dalle correnti. Il figlio che, lo sapeva, non avrebbe potuto portare ai Porti Grigi. Come un’ombra spettrale, lei raccolse il suo bambino e montò a cavallo, cavalcando per giorni e giorni, nutrendo il bambino con i residui di forza che le erano rimasti. Re Elessar era sul trono quando vennero ad annunciargli l’arrivo di una congiunta di Arwen, la sua regina graziata da una sorte simile a quella di Alatàriel. Della Dama raccontarono diverse storie, descrivendo il suo passo silenzioso e la bellezza morente, i capelli luminosi che la facevano brillare come una stella mentre avanzava e, in silenzio, indicava l’Albero Bianco. Lì venne condotta, lì incontrò Faramir, al quale affidò il figlio senza nome di Boromir, Eroe di Gondor e di tutti i popoli liberi della Terra di Mezzo. Il bambino aveva al collo la gemma bianca del padre, cinta da un groviglio di rami d'argento luccicante. L’avevano vista sorridere un’ultima volta, al cospetto di Faramir, una lacrima sul volto scarno, un'ultima luce che, fioca, le rimase addosso anche quando cadde ai piedi dell’albero che Boromir non aveva visto in fiore. Lì cadde, lì morì.
Le sue spoglie giacciono sotto le radici dell’Albero Bianco, dove si dice che i due amanti, nella pallida luce della sera, tornano insieme e vegliano sul regno degli uomini che mai vedrà la fine.
 
   
 
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