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Autore: itsg4ia    07/01/2020    0 recensioni
La vita se ne frega se sei stanco, sudato o se arranchi nel tentativo di starle dietro. Va per i fatti suoi, al punto che se provi ad afferrarla non ci riesci e ti illudi di poter decidere per la tua vita ma è la vita che decide per te. Allora Galatea si guardava bene dal non tirare mai troppo la corda, di stare sempre attenta a quello che faceva per non rischiare il suo già precario equilibrio. Ma non sempre ci riusciva. Thomas invece era l'opposto. Innanzitutto non è il tipo che si nasconde, affronta la vita a testa alta e sguardo fiero, ha sempre la risposta pronta e sembra non interessarsi di nessuno. Non ha paura di mostrare al mondo chi è, perché lui è così e non desidera essere nient'altro: ha potuto vedere le più belle maschere e anche svelarne gli intrighi, ha lottato con coraggio contro la vita e ha imparato che questa é fatta di momenti più tristi che felici e che non si può controllare, ma si può vivere al meglio. E nel modo più intenso possibile. Perché non si può annientare il dolore, ma ci si può convivere. Ciò che conta è provarci.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Il mattino dopo, ancor prima del suono della sveglia, Galatea si alzò dal letto, che quella notte l’aveva tenuta prigioniera dei suoi soliti incubi, e si preparò con cura. Indossò un jeans a vita alta con un paio di stivali neri, lunghi fino al ginocchio, e una camicetta bianca. Si sistemò i lunghi capelli biondi nella solita coda alta, stretta in un elastico nero, e si truccò con cura, eliminando le occhiaie violacee. Si piaceva, vestita così. Si sentiva bene. Specchiandosi, fece una serie di smorfie che avrebbero dovuto somigliare a un sorriso ma che non coinvolgevano lo sguardo. Era stanca di dover fingere di essere qualcun altro. Fingere di essere radiosa. Fingere che vada tutto bene. Eppure non ne poteva far a meno, ormai.

Galatea, fin da piccola, aveva imparato a essere una brava signorina, educata e servizievole. Era stata educata a suon di schiaffi e rimproveri a rigare sempre dritto. Ad andare bene a scuola e ad aiutare la mamma a casa. Le sue insegnanti dicevano sempre che era una bambina perfetta, ma che doveva sorridere di più. Che non aveva amici. Stava spesso e volentieri sola e rimaneva a studiare in classe, persa nel suo mondo. Galatea era una bambina di buona salute, ma parlava poco e aveva uno sguardo sempre triste. Nel corso degli anni, crescendo, Galatea capì come evitare le attenzioni degli insegnanti, la rabbia del padre e il mondo là fuori. E così, imparò a sorridere. Un sorriso finto, di circostanza, ma che bastava per andare avanti ed evitare domande scomode. E imparò che a volte per proteggersi basta dare agli altri ciò che vogliono. E Galatea col tempo aveva imparato l’arte disperata del fingere, con una facciata di sicurezza fuori, che nascondeva una bambina spaventata al suo interno.


Il suono metallico della sveglia invase l’intero appartamento. Galatea si precipitò a spegnerla, infastidita da quel rumore disturbante nel silenzio delle sette del mattino, e dopo aver recuperato i suoi occhiali, finì di prepararsi, pronta, o quasi, ad affrontare una nuova giornata. Inviò un messaggio alla sua amica Christie, sempre più impegnata a causa dell’imminente matrimonio, e uscì, chiudendosi la porta di casa alle spalle. Quel giorno aveva deciso di non prendere la macchina. Odiava sentirsi chiusa in quella scatola dalle quattro ruote, si sentiva soffocare lì dentro. Aveva preso la patente solo perché era necessaria per acquisire la sua indipendenza e prendersi cura di sua madre, ma se solo avesse potuto, non si sarebbe mai spostata in auto. Amava inoltre fare lunghe passeggiate per la sua città, con lo sguardo perso al cielo pallido, gli stivali che affondavano nelle foglie che cadevano dagli alberi, e il cuore in pace, mentre il suo fidato mp3 trasmetteva le note delle canzoni in riproduzione casuale. Mentre camminava per le strade ghiacciate di Satorno, osservando i primi lavoratori che si preparavano ad affrontare l’ennesima giornata di lavoro, e i ragazzi protetti dai loro cappellini colorati che si affrettavano a salire sul pullman che li avrebbe portati a scuola, mentre un intenso odore di pane caldo, appena sfornato, invadeva le strade; Galatea guardava i soliti volti che l’avevano vista crescere, diventare donna, che la salutavano con leggeri sorrisi da lontano. Ma si sentiva invisibile, dietro la sua maschera sofisticata, mentre ricambiava il saluto cordialmente e procedeva per la sua strada. E si chiese se anche loro non fossero stanchi di quei sorrisi di cortesia, di quel saluto che si sentivano di rivolgerle ogni mattina da anni, delle frasi di circostanza che le ripetevano da quando suo padre era scappato e sua madre era chiusa nell’istituto. E si sentì parte di quella messinscena, di quel teatrino sempre uguale e sorrise, mentre a testa altra continuava a camminare. Alla fine, pensò e sé, siamo tutti dei burattini.

 
Arrivò a scuola in anticipo e, dover aver salutato i volti più o meno noti dei suoi colleghi, si diresse verso la sua classe. Entrò nell’aula vuota, con i banchi disposti in tre file ordinate, la cattedra posta affianco alla lavagna, ricoperta da frasi scritte col gesso, e le pareti tappezzate da cartelloni e cartine geografiche. Si beò di quel silenzio che avvolgeva la stanza e i corridoi della sua scuola, prima del trillo della campanella e, sedendosi dietro la scrivania, chiuse gli occhi e respirò a fondo. Doveva lasciare fuori tutto da quel momento in poi: se stessa, i suoi malumori e le sue questioni irrisolte, per dedicarsi solo ai suoi ragazzi. E’ questo che dovrebbe fare una buona insegnante, pensò. Quando entra in aula dai suoi studenti, deve lasciar fuori la sua vita privata per concentrarsi sul suo ruolo: non esiste più la vita esterna, ma solo la lezione e quell’incontro speciale tra insegnante e allievo. E Galatea amava spogliarsi per assumere le sue vesti da insegnante; amava trascorrere il tempo con loro, beandosi delle loro espressioni curiose, i loro occhi speranzosi e il loro cuore sensibile; ascoltare le loro risposte timorose e rispondere alle loro domande impertinenti. Riaprì gli occhi solo quando la campanella della prima ora suonò e schiamazzi e risate iniziarono a invadere i corridoi dell’istituto.

“Buongiorno, prof!” si annunciarono i primi ragazzi, sedendosi al loro solito posto. Si liberarono dal peso delle cartelle e iniziarono a chiacchierare tra loro. Quando finalmente arrivarono tutti i ragazzi, Galatea fece l’appello e si preparò ad affrontare la lezione.

“Allora ragazzi, vi ho portato i compiti!” esordì, recuperando il plico di fogli protocollo e iniziando a distribuirli. “Sono andati abbastanza bene, ma questo non significa che non dovete studiare durante le vacanze.” Continuò.

“Prof, ma è Natale! E a Natale siamo tutti più buoni… no?” parlò Nicola Altini, rappresentante della classe e leader indiscusso del gruppo, tra l’approvazione generale degli amici e gli sguardi adoranti delle ragazze.

“Sarò buona ragazzi, ve lo prometto. Ma non potete sperare di non far nulla!” concesse l’insegnante, mentre distribuiva l’ultima verifica corretta. “E penso di essere stata fin troppo buona anche con i voti del compito… consideratelo il mio regalo di Natale!” scherzò.

Mentre i ragazzi si confidavano i rispettivi risultati, Galatea li guardò amareggiata. Odiava attribuire un voto, come se loro non valessero nient’altro e fossero classificati secondo criteri di merito. Per questo, quando doveva giudicare, preferiva valutare i ragazzi nel corso dell’intero anno scolastico, attribuendo loro un voto solo perché costretta, lusingandoli quando lo meritavano e rimproverandoli quando doveva. Preferiva dir loro dove sbagliavano e come migliorare il loro approccio alla materia, aiutandoli con mappe concettuali e spiegazioni più facili, dando loro la possibilità di riprovare ancora e ancora. Il voto è riduttivo, perché non si può racchiudere in un numero tutte le infinite capacità di un ragazzo; è limitato, in quanto non da’ una visione complessiva del singolo, e limitante, perché distrugge o accontenta le aspettative dell’alunno, che si sentirà inadeguato, un numero sei o un numero dieci, invidioso di chi ha il voto più alto e deluso da se stesso. E mentre guardava i ragazzi, nonostante tutto felici  solo perché non avevano ricevuto insufficienze, avrebbe voluto urlare loro che non era quel numero a renderli speciali, ma che loro erano molto più di quel  voto scritto su un foglio: erano vita, passione, sogni, desideri, rabbia, tristezza… Guardandoli, Galatea godeva della vita che sprigionavano i loro corpi acerbi, i loro volti fanciulleschi, e i loro occhi luminosi; contagiata dalla loro allegria, dalla loro voglia di vivere giorno per giorno, delle loro scelte coraggiose, talvolta sbagliate, ma vere. E sentì uno strano calore avvolgerle il cuore, mentre guardava i loro sorrisi sinceri e affettuosi verso i compagni e si sentiva invadere delle risate emozionate a causa delle imminenti vacanze natalizie, e un sorriso involontario le spuntò sul volto, mentre lo sguardo si perdeva tra i ragazzi.

“Prof, allora che facciamo oggi?” chiese Amalia, una ragazzina dai riccioli rossi e la pelle chiara costellata di efelidi. Guardandola, sentì un moto di tenerezza invaderla. Era così timida quella ragazza, che le si era avvicinata per farsi sentire a causa della sua voce incerta, mentre stringendosi nelle spalle, si torturava le mani. Le ricordava se stessa, sempre con lo sguardo basso, chino sui libri. E la mente persa altrove, sognando mondi da scoprire, avventure da vivere, desideri da realizzare.

“Oggi ragazzi, parleremo della Conoscenza.” Le rispose, rivolgendosi alla classe per ottenere la loro attenzione. “Cos’è per voi la conoscenza?” domandò, e il pensiero volò immediatamente a Thomas, alla domanda simile che anche lui aveva posto ai ragazzi, rivedendolo mentre con uno sguardo sfacciato le porgeva il foglio.
Scacciò immediatamente dalla sua testa l’immagine di quel tipo, che prepotente era arrivato nella sua vita, per insegnarle il suo lavoro!, su richiesta di quell’incapace del preside Tondi che aveva messo in dubbio le sue capacità, e si concentrò sui volti incerti dei suoi ragazzi, timorosi di rispondere in modo sbagliato.

“ Conoscere è sapere!” azzardò Altini, seguito dal compagno Tonelli. “Significa avere la consapevolezza di ciò che ci sta attorno.”, “Conoscenza è verità.” Mormorò invece Amalia Bianchi.

“Il termine stesso filosofia, ovvero “amore per la sapienza”, indica la ricerca incessante, da parte dei filosofi, della verità.” Iniziò Galatea.

“Conoscere per i primi filosofi significava trovare il principio primo della natura e Socrate fu il primo a dedicarsi alla ricerca della verità, partendo dalla consapevolezza di non sapere, alla base della conoscenza. Con Socrate la conoscenza è ricondotta alla riflessione individuale e la vera sapienza nasce dal conoscere se stessi; per Platone invece, conoscere significa ricordare: il sapere è innato nella nostra anima e la conoscenza non è altro che un processo di reminiscenza di ciò che sapevamo già ma non riuscivamo a vedere. Ancora, Aristotele, nella Metafisica, afferma che l’uomo aspira alla conoscenza, e la forma di saggezza più sublime è la conoscenza disinteressata, libera da vincoli, che mira al puro e semplice desiderio di conoscere… Perché, secondo voi, questo sapere, che in fondo non serve a nulla, è la cosa più importante per gli uomini?” chiese retoricamente, interrompendo la spiegazione e dando modo ai ragazzi di prendere appunti.

“ È proprio il fatto di non servire a niente che lo innalza: una cosa che non serve è più nobile perché non è legata a un rapporto di servitù.”, “I gran di filosofi del tempo studiavano la realtà esterna e le sue cause non perché dovevano, ma perché erano pervasi dalla sete di sapere e andavano alla ricerca della verità delle cose, ponendosi domande e dandosi risposte.” Proseguì.

“ Il filosofo Francesco Bacone affermava “Sapere è potere” e invitava gli uomini a liberarsi dagli idoli della mente, dai pregiudizi e dagli errori della tradizione, per restaurare il dominio sulla natura, conoscere le cause dei suoi fenomeni e le leggi che la governano. Analogamente Cartesio, invitava a esercitare il dubbio metodico per mettere tra parentesi le conoscenze apprese dalla tradizione e costruire un nuovo albero della filosofia, metafora dell’unita del sapere. Dubitando, l’uomo giungeva alla prima certezza. Ed estendendo il dubbio su tutti gli aspetti della vita conosciuti, poteva aspirare a conoscere la realtà intera.”

“Perché dal dubbio giunge una certezza? Se metto in dubbio tutto, come arrivo alla verità?” chiese perplesso Donati, un ragazzetto dallo sguardo attento e curioso.

“Se dubito di tutto, ma nonostante ciò qualcosa si salva, allora quel qualcosa sarà indubitabile. Bisogna distruggere per costruire, ragazzi!” li spronò.

“ Non dovete accontentarvi delle risposte perché “ipse dixit” (l’ha detto lui!), ma dovete andare a fondo alle cose, andare oltre ciò che vedono gli altri; dovete aver voglia di sapere, di conoscere.”

“A volte è meglio non sapere le cose…” mormorò pensierosa Rosa, una ragazza dai lunghi capelli neri che le nascondevano il viso, seduta in fondo alla classe, vicino la finestra, come a nascondersi dallo sguardo degli altri. “A volta la verità fa male…” continuò, con gli occhi lucidi, distogliendo poi lo sguardo dai compagni.

Galatea capì che la ragazza si riferiva alla sua vita privata: aveva scoperto da poco di essere stata adottata e da quel giorno aveva perso la voglia di studiare, di andare a scuola e di uscire. Sua madre, richiamata a causa del comportamento della ragazza, aveva riferito agli insegnanti che per ore intere si chiudeva nella sua stanza, senza parlare con nessuno, e che la notte la sentiva piangere senza poter far nulla. Le sorrise, incerta su cosa dirle.

“ Nascondere la verità non significa che questa non esista. Bisogna affrontare la realtà.” Iniziò, cercando le parole giuste.. “Anche se a volte fa male, come hai detto tu..”

Il suono della campanella la interruppe e, mentre i ragazzi si affrettavano a lasciare l’aula, Galatea riprese a respirare. Il trillo improvviso l’aveva salvata in calcio d’angolo! Come poteva lei, che si nascondeva dietro innumerevoli maschere, motivare quella ragazza! Menomale che quell’aggeggio aveva suonato in tempo, pensò, altrimenti sarei rimasta a fissarla come una stupida senza sapere cosa dire.

Stupida, stupida, stupida.

Si ripeteva, mentre distrattamente salutava i ragazzi e Rosa con un cenno distratto della mano, recuperando i suoi oggetti personali e recandosi alla prossima lezione.

Stupida, stupida, stupida.

Continuava, maledicendosi per quel lavoro che la portava a contatto con i drammi dei ragazzi! Lei, che di problemi ne aveva a bizzeffe e si trascinava per inerzia, nascondendo la solitudine, la paura, il perenne senso d’inadeguatezza, sotto una rigida maschera di circostanza.

Stupida, stupida, stupida.

Si malediceva, mentre seppelliva le lacrime che tentavano di uscire dietro uno sguardo di ghiaccio e si fermava per recuperare fiato.
“Sopporta, Tea. Sopporta.” Disse a se stessa, scacciando il malumore dal suo viso e i brutti pensieri, mentre varcava la soglia dell’aula in cui avrebbe tenuto la prossima lezione.
 
“Buongiorno, ragazzi!” esordì, guardandosi attorno. Riconobbe i volti familiari dei suoi allievi e anche qualche volto ancora sconosciuto e si stranì. Aveva forse sbagliato aula? Continuò a far vagare il suo sguardo nell’aula silenziosa fin quando non incontrò lo sguardo divertito di Thomas Helby.

“Che ci fai qui?” esordì, sorridendo nervosamente. “Ti stavamo aspettando, oggi abbiamo lezione di teatro!” svelò il mistero. Che stupida!, pensò Galatea, che si era dimenticata di quell’incontro, mentre imbarazzata distoglieva lo sguardo. Avrebbe dovuto guardare la sua agenda, quel giorno. Forse avrebbe evitato di fare figuracce. “Bene, adesso che ci siamo tutti…” la guardò Thomas, “Iniziamo!” ricevendo un’occhiata di astio battuta da Galatea, che lo guardava con le braccia strette al petto, in tensione, pronta a scattare. Fortunatamente, i ragazzi iniziarono ad agitarsi e Galatea distolse lo sguardo, rilassando le braccia lungo il corpo e assumendo una postura meno severa. “Sì, iniziamo!”

“Ok ragazzi, la scorsa lezione vi avevo chiesto di prepararvi un breve spettacolo per decidere i ruoli. Chi inizia per primo?” indagò Thomas, guardando i due gruppi di ragazzi. Un ragazzo bruno, dalla carnagione olivastra e con un berretto rosso, calamitò l’attenzione e, insieme ai suoi compagni, disposero due file di tre sedie ai lati opposti e i sei ragazzi presero posto, mentre il ragazzo dal berretto rosso, che Galatea scoprì chiamarsi Matteo, impersonava il controllore di un treno giunto a chiedere i biglietti. Alcuni passeggeri diedero al controllore il biglietto, ma una coppia finse di averlo perso. E il trio, composto dal controllore e dagli altri due ragazzi, iniziò a inscenare una simpatica litigata, che si concluse tra le risate della classe. I due insegnanti applaudirono, contagiati dall’atmosfera, mentre il secondo gruppo si preparava a mettere in scena un pestaggio, da parte di alcuni bulli, impersonati dai ragazzi più robusti, ai danni di un gruppo di ragazzine, mentre la voce di Elisa, una ragazza minuta dagli occhi color cielo, raccontava la storia della cattiveria umana, commuovendo Galatea, che si sentì stringere il cuore a quelle parole.

“Siete stati bravissimi, ragazzi!” si complimentò Galatea, “Sembravate dei veri attori!” scherzò Thomas. “Sono sicuro che lo spettacolo sarà un successo”, ammise poi, ricevendo un applauso da parte della classe.
“Allora ragazzi, oggi vi racconto una breve storia!” proseguì Galatea, appoggiandosi alla cattedra e rivolgendosi ai ragazzi.

“Un giorno, guardandosi come ogni mattina allo specchio Vitangelo Moscarda, detto Gengè, nota un particolare di cui non si era mai accorto: il naso pende verso destra. Improvvisamente si sente sdoppiato in un altro se stesso, conosciuto solo dallo sguardo altrui. Ma immaginate se al posto di uno specchio da cui scoprire un particolare di cui non ci si è resi conto prima (il naso che pende verso destra), Vitangelo Moscarda si trovasse tra le mani uno smartphone e arrivasse alla stessa rivelazione tramite un selfie.” Iniziò a raccontare, tra i mormorii curiosi della classe e gli sguardi sorpresi di Thomas.

“Con un “io” ormai totalmente frantumato nei suoi centomila alter ego, il protagonista, in preda alle sue considerazioni deliranti e ai suoi tormenti, trova conforto prima in un religioso, che gli consiglia di abbandonare i beni materiali e poi, nel mondo di Natura, l’unico luogo in cui sente di poter abbandonare le molteplici maschere che la società gli ha imposto.” Concluse.

“In pratica dobbiamo essere noi stessi.” Affermò Visconti, dal fondo dell’aula.

“Esattamente. Io credo che il romanzo di Pirandello sia più attuale che mai: noi tutti cerchiamo di essere sempre perfetti per non sentirci fuori posto e indossiamo maschere fittizie che celino la nostra identità, che è unica, ma che si frantuma in centomila identità diverse in base alle persone che abbiamo davanti mentre noi non siamo più nessuno perché nessuna delle identità  corrispondono al nostro vero io. Chi siamo noi? Come ci vedono gli altri?” chiese retoricamente Galatea, con la mente persa. Chi era lei? Cos’era diventata?

Forse al termine di quel progetto l’avrebbe capito, pensò.

E mentre l’insegnante continuava a parlare ai ragazzi, con quello sguardo luminoso e quella passione che traspariva dalla sua voce, Thomas avrebbe voluto risponderle che quando la guardava vedeva  una guerriera impavida, forgiata dalla vita, dallo sguardo fiero e appassionato; un’insegnante capace che amava i suoi ragazzi, ma vedeva anche una bambina dalle trecce bionde, dallo sguardo timoroso e impaurito; una giovane donna dallo sguardo sfuggente e dal sorriso enigmatico. Avrebbe voluto interromperla e dirle che se si era persa, lui l’avrebbe aiutata a ritrovarsi. Ma conservò quelle parole per un altro momento.

“Io e il professor Thomas lavoreremo insieme al copione che studierete durante le vacanze e a Gennaio inizieremo le prove.” Terminò la donna, in sincronia con il suono della campanella. “Ok ragazzi, per oggi può bastare: ci vediamo al prossimo incontro, buona giornata!”
Mentre i ragazzi lasciavano l’aula per la ricreazione, Thomas si avvicinò a Galatea e la fermò prima che fuggisse via.

“Possiamo parlare?” domandò incerto, sicuro di ottenere una risposta  negativa, dopo lo sfortunato incontro del giorno prima. Ma si sorprese quando la donna invece gli rispose di sì, rivolgendogli un tenue sorriso. “Certo, ma prima ho bisogno di un caffè!”
   
 
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