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Autore: edoardo811    10/01/2020    4 recensioni
La pace ha continuato a regnare al Campo Mezzosangue, gli Dei si sono goduti molti anni di tranquillità. Ma la pace non è eterna.
La regina degli dei Amaterasu intende dichiarare guerra agli Olimpi, mentre un antichissimo mostro ritornato in auge si muove nell'ombra, alla ricerca di Ama no Murakumo, la leggendaria Spada del Paradiso.
EDWARD ha trascorso l'intera vita fuggendo, tenuto dalla madre il più lontano possibile dal Campo Mezzosangue, per ragioni che lui non è in grado di spiegarsi, perseguitato da un passato oscuro da cui non può più evadere.
Non è facile essere figli di Ermes. Soprattutto, non è facile esserlo se non si è nemmeno come i propri fratelli. Per questo motivo THOMAS non si è mai sentito davvero accettato dagli altri semidei, ma vuole cambiare le cose.
STEPHANIE non è una semplicissima figlia di Demetra: un enorme potere scorre nelle sue vene, un potere di cui lei per prima ha paura. Purtroppo, sa anche che non potrà sopprimerlo per sempre.
Con la guerra alle porte e forze ignote che tramano alle spalle di tutti, la situazione sembra farsi sempre più tragica.
Riuscirà la nuova generazione di semidei a sventare la minaccia?
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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29

Sacramento

 

 

Edward era davvero stanco di quei sogni. 

La prima cosa che notò era che faceva così freddo da far gelare le ossa. La seconda cosa che notò, fu l’ammasso di oscurità che galleggiava in mezzo alla stanza grigia. Aveva già visto quel bozzolo, nel suo sogno precedente. Era lì dentro che Orochi aveva rinchiuso Rosa. 

Non sapeva perché si trovasse lì, ad osservare la prigione di sua sorella. Sapeva solo che più passavano i secondi più sentiva la rabbia crescere dentro di lui. Se era uno scherzo di cattivo gusto di qualche dio che voleva sbattergli in faccia i suoi fallimenti, allora non faceva ridere. 

Si aspettò che Orochi parlasse da un momento all’altro, iniziando con uno dei suoi inutili discorsi di cui non gliene importava nulla, invece nessuno parlò. Edward realizzò si essere libero di muoversi come voleva. E realizzò anche di non essere solo nella stanza. Non c’era Orochi assieme a lui, ma Naito. 

L’han’yō, proprio come lui, osservava il bozzolo. Non fece caso al semidio. La cosa non convinse Edward, troppo abituato a essere notato durante i suoi sogni. Attese che Naito gli dicesse qualcosa, ma passarono altri minuti senza che lui aprisse bocca. A quel punto, Edward ne ebbe la conferma: non aveva idea che fosse lì. Sapeva che i semidei potevano anche fare sogni di quel genere, in cui erano solo spettatori invisibili, ma non gli era mai successo prima. 

Notò alcune abrasioni sul muso di Naito che prima di allora non aveva mai visto. Oltre alla cicatrice che lui gli aveva lasciato aveva diversi graffi e un corno spezzato. Non aveva idea di cosa gli fosse successo, ma doveva ammetterlo, quell’aspetto gli donava davvero. Gli mancavano giusto un altro paio di lividi e magari qualche dente spaccato.

Il mezzo demone si avvicinò al bozzolo e ci affondò le mani dentro, schiudendolo con una smorfia infastidita. Il volto smorto di Rosa penzolò in avanti quando Naito lo liberò. Il cuore di Edward ebbe un sussulto non appena rivide la sorella. 

Naito si fermò e osservò il viso della ragazza per un lasso di tempo che Edward trovò fastidiosamente troppo lungo. Stirò le labbra, dal suo unico occhio rosso non trapelò alcuna emozione, poi con un ultimo strattone liberò del tutto Rosa. Il bozzolo si dissolse nell’aria e il corpo della figlia di Apollo cadde in avanti, finendo dritto tra le braccia di Naito, che la sollevò a mo’ di damigella senza nessuno sforzo, tenendola sotto le ginocchia e sotto la schiena con incredibile delicatezza.

Di fronte a quella scena, Edward rimase sconvolto. Il ricordo che aveva di Rosa era quello di una ragazza tosta che non aveva paura di niente e nessuno, che avrebbe potuto fare a pezzi qualsiasi mostro con una mano legata dietro la schiena. Vederla in quel modo, inerme, tra le braccia di colui che l’aveva ficcata in quella situazione, gli fece ribollire il sangue nelle vene. Avrebbe voluto gridargli di lasciarla andare, di non toccarla, tuttavia il pensiero che Naito la stesse liberando gli attraversò la mente, giusto in tempo per essere frantumato quando lo vide marciare verso un letto sul lato di quella stanza spoglia di qualsiasi altro mobile. A quel punto, il desiderio di fargli ingoiare tutti i denti tornò a bruciare dentro di lui. 

Rosa venne adagiata sopra il materasso e il braccio rotto di lei le cadde lungo il fianco, sempre piegato in quell’angolazione innaturale. Naito lo notò e gli passò una mano sopra, sempre con quel tocco delicato che Edward cominciò a trovare disturbante. Un mugugno pensieroso gli scappò dalle labbra sigillate.

«Nanishiteruno, Naito-kun?» domandò una voce dal timbro femminile. 

L’han’yō sembrò irrigidirsi. Si voltò verso la porta della stanza, da cui due figure erano appena entrate. Edward le osservò atterrito. Una di loro era donna, sicuramente quella che aveva parlato. Era bellissima, il viso niveo, le labbra color ciliegia carnose, i capelli rossi raccolti in una crocchia intrecciata con uno spillo d’oro massiccio. Indossava un kimono rosso, dei pantaloncini corti che arrivavano appena alle ginocchia e che proseguivano poi in delle calze a rete fino ai piedi nudi indossati in dei sandali di legno. 

Edward c’era già cascato una volta, non si sarebbe lasciato fregare di nuovo dall’aspetto mozzafiato di una kitsune. Anche se questa era perfino più bella di Milù. E se Edward aveva capito qualcosa, doveva significare che era anche più potente. 

L’individuo entrato assieme a lei, invece, a primo impatto sembrò indescrivibile. La prima definizione che saltò alla mente di Edward fu "uomo-uccello". Ammesso che fosse davvero un uomo.

Aveva l’aspetto umanoide, ma era ricoperto di piume blu su tutto il corpo, ad eccezione di mani, piedi e faccia, che per inciso erano di un terrificante color verde acido. Il suo naso era la cosa più esilarante e allo stesso tempo orribile che Edward avesse mai visto: era lungo almeno trenta centimetri e sembrava uno di quei palloncini lunghi e sottili che i pagliacci nei circhi trasformavano in animaletti. I pochi capelli che aveva sulla testa erano sempre verdi, e un paio di ali dal piumaggio blu gli spuntavano dalle tempie, arrivando fino all’altezza della vita. Indosso portava una canotta e dei calzoni larghi, mentre i piedi irti e muniti di artigli erano nudi. Se ne stava gobbo, sorridendo come un ebete, le dita affilate che formicolavano.

Naito sembrò provare lo stesso disgusto che stava provando Edward quando lo guardò. Si rivolse poi alla kitsune. «Orochi mi ha detto di preparare la ragazza» rispose, sempre in giapponese.  

La kitsune lo squadrò esaminatrice, sempre con quel sorriso da femme fatale dipinto sul viso. Sembrava che stesse studiando il modo più veloce per scuoiarlo vivo. A Edward la scena sarebbe piaciuta. Inoltre, non aveva idea di cosa volesse dire "preparare" Rosa, ma ciò che stava vedendo prometteva davvero male. 

«Non capisco proprio come possa fidarsi ancora di te» disse un’altra voce. Uno tsuchinoko apparve sulla spalla della donna, frustando l’aria con la lingua biforcuta. Non appena lo vide, Edward non ebbe alcun dubbio: era lo stesso che aveva visto al Campo Mezzosangue e a La Plata. «Hai disobbedito ai suoi ordini e ti sei quasi fatto uccidere da un porco greco. L’ho sempre detto che Orochi non avrebbe mai dovuto darti quella seconda possibilità.»

«E io ho sempre detto che hai la lingua troppo lunga, Chioiji» replicò Naito, ringhiando di rabbia. «Forse è ora che te la strappi. Che ne dici?»

Lo tsuchinoko ritirò la lingua e indietreggiò con la testa intimorito.

«Calmati, meticcio» gracchiò l’uomo uccello, emettendo un irritante suono gutturale che probabilmente doveva essere una risata. La sua voce era nasale e fastidiosa, come quella di un clown che però non faceva ridere nessuno. «Solo perché Orochi ha deciso di lasciarti in vita non significa che tu sia al sicuro. Impara a stare al tuo posto, altrimenti potrebbe succederti qualcosa di davvero spiacevole.»

Naito sogghignò. Il suo sorrisetto assomigliò in maniera piuttosto inquietante a quelli di Edward. «Ti ho già rotto un braccio una volta, Bunzo. Non costringermi a farlo di nuovo.»

Bunzo strinse i pugni, mentre Naito distendeva il suo sorriso provocatorio. Per Edward fu impossibile non scorgere la tensione tra di loro, e non sembrava limitarsi solo a quella conversazione. Da quello che aveva capito durante i sogni che aveva fatto, Naito era uno dei seguaci migliori di Orochi, e forse quei tre facevano parte della stessa categoria.

«Su, su, calmiamoci tutti quanti» si intromise la kitsune, allontanando lo tsuchinoko dalla sua spalla con un gesto non molto delicato. Chioiji cadde a terra con un verso di protesta. La donna si avvicinò al mezzo demone sorridendo accomodante. «Siamo solo passati a trovarti. Continua pure con il lavoro che ti è stato affidato. Così sarebbe questa la ragazza?» 

I suoi occhi si accesero d’interesse quando esaminò Rosa. «È davvero graziosa» mormorò, con uno strano tono di voce. E sguardo, anche. «È quasi uno spreco doverla uccidere. Non trovi anche tu, Naito-kun?»

«Non chiamarmi così» sibilò Naito. «Lo detesto. E comunque non la uccideremo. Orochi ha stretto un patto con il ladro.»

L’uomo uccello si unì a loro due, ridacchiando di nuovo. Dal suo sorriso e dal suo sguardo trasudavano viscidume puro.

«Giusto, il patto…» gracchiò, per poi avvicinare la sua mano lurida al volto di Rosa. 

Edward avrebbe voluto urlare per la frustrazione. Si sentì impotente come non mai. Era stato costretto a vedere Naito toccare Rosa, e ora quello sgorbio stava per fare lo stesso di fronte a lui, senza che potesse impedirglielo. Era come se l’universo si prendesse gioco di lui, mostrandogli le persone che avrebbe voluto proteggere in piena balia dei suoi nemici.

Naito afferrò il polso di Bunzo all’improvviso, per stupore di Bunzo stesso e, soprattutto, di Edward.

«Che stai facendo?» domandò, fissandolo truce.

«Tu che stai facendo?!» protestò l’uccello. «Lasciami, schifoso mezzosan…»

Non terminò la frase: le nocche di Naito che affondavano contro il suo naso stroncarono ogni sua protesta. Bunzo rotolò a terra, afferrandosi quell’oggetto contundente che aveva come naso e gridando a perdifiato. Fiotti di sangue marrone grumoso gli scivolarono tra le dita. «Mrutto Mastardo! Bi hai rotto il vaso!»

«Orochi è stato chiaro» ribatté Naito, impassibile. «La ragazza non va toccata.»

«Sono tutte dazzate! Tu la stavi toccando!»

Il mezzosangue non lo degnò di un’ulteriore occhiata. «Io sto obbedendo a degli ordini. Tu no.»

«Bunzo! Tutto bene?» domandò lo tsuchinoko, risalendo sulla spalla dell’uomo uccello mentre si rimetteva a sedere. 

«Secondo te ba tutto vene?!» urlò l’altro. «La bagherai, mezzosangue! Ti farò bentire avaravente!»

Naito estrasse una katana wakizashi dal fodero che teneva dietro la vita, poco al di sotto della sua spada scarlatta. «Sono terrorizzato.» 

Edward si augurò che volesse sgozzare Bunzo, invece Naito riportò l’attenzione su Rosa. Le afferrò la mano e avvicinò la lama al palmo. Il figlio di Apollo inorridì.

«Aspetta» disse la kitsune all’improvviso, sollevando un braccio di fronte a lui. Il suo sorriso freddo era svanito, ora sembrava seria. 

«Che succede?» domandò Naito.

«Non siamo soli.»

La donna cominciò a guardarsi attorno, mentre un brutto presentimento si faceva strada dentro di Edward. Non appena la kitsune si voltò verso la sua direzione, sentì accapponarsi la pelle che non aveva. Si girò, credendo che qualcuno fosse apparso alle sue spalle, ma non c’era nessuno. La donna stava fissando proprio lui. 

«Non è cortese spiare, sai?» disse lei, non utilizzando più il giapponese. 

Sogghignò di nuovo, mentre una fitta peluria bianca come la neve iniziava a ricoprirle il viso. La sua mascella si allungò, il naso si fece nero, le orecchie crebbero. Assunse il suo aspetto volpino, dal manto niveo, gli occhi color ocra e i denti affilati. Appena sotto la schiena, Edward vide le sue code crescere poco per volta. Le contò: erano nove. 

La volpe a nove code si passò la lingua rosa tra i denti, famelica. «Credo tu sia finito qui per errore. Questa era una conversazione privata. Ecco…» Si avventò su di lui. «… lascia che ti mostri l’uscita!»

Edward cercò di scansarsi, ma il suo corpo rimase immobile. Le fauci spalancate della donna furono l’ultima cosa che riuscì a vedere. 

 

***

 

Edward riaprì gli occhi. Come prima cosa venne accecato dalla luce del giorno, che gli trafisse bruciante come una fornace le palpebre ancora stanche ed assonnate. L’intero corpo gli faceva un male cane, ma non per via delle ferite che aveva subito, quelle erano quasi del tutto guarite; sentiva dolore per via del pessimo giaciglio su cui aveva scelto di riposare, una fantastica panchina di ghisa.

Drizzarsi fu un’agonia per via della schiena che, ne era certo, dopo essere rimasta così a lungo su quella superficie non sarebbe mai più stata la stessa. Con dei mugugni degni da paziente dell’ospizio riuscì a mettersi seduto e una scia di fitte di dolore gli attraversarono l’intero organismo, a partire dalle spalle dure come il marmo fino alle gambe atrofizzate. Aveva tenuto la testa appoggiata su un braccio, perciò ora se lo sentiva completamente addormentato. Si appoggiò contro lo schienale della panchina e un lungo grugnito infastidito gli scappò dalla bocca. Pessima idea dormire lì. Pessima, pessima idea.

Fece scivolare lo sguardo sul luogo dove aveva scelto di pernottare. Era un normalissimo parco, con alberi, panchine, giostre per bambini, una fontana e un campetto da basket occupato da un paio di ragazzi. Al di là di esso, si trovava la strada affollata di Sacramento. Dopo aver corso e camminato tutta la notte era riuscito ad arrivare alla città attorno sei del mattino, con le gambe a pezzi e lo spirito messo anche peggio, quindi aveva poeticamente deciso di dormire all’aperto, su quella panchina. Non era la prima volta che faceva una cosa del genere, dopotutto. Poteva ringraziare gli allenamenti con Rosa se era riuscito a viaggiare così a lungo senza rimanerci secco.

A giudicare dal numero di persone che affollavano il parco e dalla posizione del sole, ormai doveva essere mattino inoltrato. Due ragazzi passarono accanto alla sua panchina proprio in quel momento. Erano una coppietta, si tenevano per mano, e a giudicare da come si stessero sforzando di non guardarlo dovevano credere che lui fosse un barbone o cose del genere.

«Scusate» mugugnò, con voce impastata. «Sapete l’ora?»

I due tirarono dritti. Edward pensò che non fosse affatto carino ignorare i più bisognosi. 

«Ehi» rantolò, alzandosi in piedi. Barcollò come un ubriaco, ma riuscì a non cadere a terra. «Avete l’ora, sì o no?» 

Quei poveracci si voltarono spaventati a morte. Il figlio di Apollo non poteva davvero biasimarli, non si vedeva allo specchio da un bel po’ di giorni ed era scampato alla morte un paio di volte per un pelo, in più con la cicatrice sulla faccia non doveva avere il più rassicurante degli aspetti, però aveva solo chiesto l’ora. Non era il caso di guardarlo in quel modo.

«Le undici» rispose il ragazzo, teso come una corda di violino, mentre la sua fidanzata stringeva più forte la sua mano.

Edward fece una riverenza. «Grazie.»

Diede le spalle a quei due e si allontanò prima che chiamassero la polizia.

Il giorno prima era stato troppo impegnato a non farsi uccidere per pensarci, ma respirare di nuovo l’aria californiana, lo stato in cui era nato e cresciuto, fece sorgere un misto di nostalgia e tristezza dentro di lui.

Ricordava Sacramento, c’era stato un paio di volte quando ancora viveva in California. Aveva girato molte città assieme a sua madre, anche se la maggior parte delle volte non l’avevano fatto proprio come turisti. Quella era la capitale, un grande centro economico, maggior esportatrice dei prodotti della Valle Centrale. E a lui di tutto quello non poteva fregargliene di meno.  

Camminò sul marciapiede a testa bassa, evitando occhiate indiscrete. Un espositore di occhiali da sole fuori da un negozietto di souvenir si ritrovò, misteriosamente, senza un paio di Ray-Ban fasulli quando gli passò accanto. Non lo chiamavano “ladro” per niente, del resto.

Proseguì il suo viaggio verso non sapeva bene dove con gli occhi celati e il cappuccio sulla testa, guizzando con lo sguardo verso qualsiasi dettaglio che gli sembrasse fuori posto. Era solo, dopotutto, e l’energia di Ama no Murakumo era ancora lì ad accompagnarlo. I mostri avrebbero fiutato il suo buon odore da miglia e miglia di distanza come una grigliata del quarto di luglio. Inoltre ormai era di nuovo un latitante, anche le cacciatrici e i suoi amici lo avrebbero cercato. Doveva sbrigarsi ad arrivare a San Francisco.

Ma prima doveva fare colazione.  

Mentre cercava un luogo adatto, Edward rimuginò sul suo sogno. Come sempre, non aveva la più pallida idea di che cosa pensarne. Naito stava per fare qualcosa con quella spada, prima che la kitsune lo fermasse. Non credeva volesse uccidere Rosa, visto che lui stesso aveva detto che non l’avrebbero fatto, però la vista di quella lama lo aveva comunque allarmato. Giurò a sé stesso che se al momento dello scambio avesse trovato Rosa con anche solo un graffio, allora qualcuno si sarebbe fatto male. 

Come se non bastasse, aveva scoperto che le file di Orochi potevano contare non solo sugli oni ma anche su creature molto più potenti, come quella kitsune. Milù era stata un’avversaria temibile, e lei aveva solo cinque code. Quella tizia ne aveva nove, era una kitsune completa, di gran lunga più pericolosa di un mostro comune. Sembrava che non ci fosse un limite al peggio.

Il suo stomaco gorgogliò non appena individuò una tavola calda sull’angolo della strada, un edificio squadrato con ampie finestre e una grossa insegna al neon spenta. Le sue preoccupazioni potevano attendere: era ora di mettere qualcosa sotto i denti.

L’odore di caffè, uova e pancetta lo inebriò non appena mise piede dentro il bar. Non c’era molta gente dentro, due persone sedute al bancone e altre tre sedute ai tavoli, tutti mortali troppo impegnati a farsi i fatti loro per notarlo. Andò a sedersi al tavolo contro l’angolo, dove sarebbe rimasto lontano da occhi indiscreti, e attese la cameriera. Il suo sguardo scivolò su un giornale che qualcuno aveva lasciato lì sopra, dove alcune inserzioni catturarono il suo interesse.

La prima parlava del cantiere di Chicago, dove l’incredibile fenomeno della vegetazione risorta all’improvviso aveva scaturito l’interesse di centinaia e centinaia di diversi enti, tra televisioni, giornali, scienziati, politici e perfino autorità. Anche se le piante avevano smesso di crescere, i lavori di bonifica, e soprattutto quelli edili, sarebbero rimasti in sospeso fino a tempo indeterminato, mentre ulteriori accertamenti venivano effettuati.

Leggere quella notizia lo fece pensare a Steph. Lo stomaco gli andò di nuovo in subbuglio, ma non per la fame. Scacciò via quella sensazione. Doveva smetterla di tormentarsi, tra loro non avrebbe mai funzionato in ogni caso. Era ora che si mettesse il cuore in pace una volta per tutte. Si fece forza e continuò a leggere.

Dovette litigare un po’ con la dislessia, ma riuscì a decifrare un’altra inserzione: “Gli rubano l’auto e poi si scusano con lui: la bizzarra storia di un cittadino di Chicago.”

Edward sorrise senza nemmeno accorgersene. Quella storia aveva un che di famigliare. Chissà come stava Tommy. Bene, si augurava. Assieme a Steph, era la persona migliore che avrebbe potuto conoscere. Non aveva mai avuto amici veri, il figlio di Ermes era stato il primo. Un motivo in più per salvare Rosa era anche quello, avrebbe dato a Thomas la chance di farsi avanti. Anche se Rosa con tutta probabilità lo avrebbe fatto esaurire nel giro di due giorni, visto che con Edward aveva quasi fatto lo stesso. Il pensiero lo fece sorridere ancora di più.

«Vuole ordinare?»

Il ragazzo trasalì. La cameriera era apparsa dal nulla accanto a lui, con uno di quegli affari digitali per prendere le ordinazioni in mano. Era giovane e graziosa, vestita con la divisa rosa e bianca del ristorante. 

«Ha già deciso cosa vuole?» chiese, formale. Non sembrava così spaventata di lui, forse lavorando in un locale all’angolo di una strada aveva visto di peggio.

Edward si accorse del menù sul tavolo, accanto al giornale, e fece un verso incerto. Non l’aveva nemmeno letto. «Ehm… qui li fate i waffles?» 

La cameriera corrucciò la fronte. «No, mi dispiace. Possiamo farle dei pancake se vuole.»

«Ah.» Un’espressione lugubre marciò sul volto di Edward. «Allora prendo i pancake.»

La cameriera annotò l’ordinazione e si allontanò. 

«Stupidi pancake» borbottò Edward, riportando la testa sul giornale. 

Sfogliò distrattamente le pagine. Trovò notizie sul deragliamento del treno, che era avvenuto solo il giorno prima ed eppure ad Edward sembravano passati già secoli. Per fortuna non c’erano state vittime di alcun genere, nessun passeggero era rimasto ferito gravemente e soprattutto nessuno era smarrito. 

Si accorse che non avevano considerato lui e Stephanie, ma forse era proprio per merito di quel tizio misterioso che avevano incontrato. Se non altro i mortali stavano tutti bene.

Un’altra inserzione che catturò la sua attenzione fu quella riguardante la loro sventura all’aeroporto. Ciò che lesse lo lasciò senza parole: i responsabili non erano più ritenuti loro cinque. A quanto sembrava, c’erano stati degli errori di riconoscimento, qualsiasi cosa significasse, e quindi sia lui che Konnor non erano più ritenuti colpevoli di quegli avvenimenti, così come il resto dei loro compagni. Scosse la testa, non sapendo se dovesse essere incredulo o meno. La Foschia era proprio una strana belva. Doveva dar credito a Chirone, era davvero riuscito a sistemare le cose. Peccato solo che fosse in ritardo di sei giorni.

«Posso sedermi?» domandò un’altra voce. 

Edward drizzò di nuovo la testa. Avrebbe dovuto provare stupore osservando quel tizio apparso dal nulla di fronte a lui. Eppure, non accadde. L’unica cosa che provò fu un moto di rabbia.

«Ti stai divertendo?» domandò infastidito.

Il mendicante di Kansas City sfoggiò i denti giallognoli in un sorriso e si sistemò meglio gli spessi occhiali da sole sopra il naso. «Molto più di quanto non dovrei.»

Si sedette senza nemmeno attendere il permesso per farlo. Il figlio di Apollo grugnì infastidito e scansò il giornale. «Si può sapere chi sei?»

«Non ci sei ancora arrivato?» rispose lui, sempre senza smettere di sorridergli. Avvicinò le dita grinzose al menù e cominciò a leggerlo.

Edward si appoggiò contro lo schienale, incrociando le braccia. Aveva alcune idee su chi potesse essere quell’uomo, in primis che fosse proprio suo padre Apollo. Tuttavia aveva sentito alcune ragazze del Campo Mezzosangue parlare di suoi padre in maniera che avrebbe preferito non sentire mai, e le descrizioni di lui che aveva udito non combaciavano per niente con l’individuo barbuto trasandato e malvestito che aveva di fronte e che pareva più interessato al menù che a lui. «Mh. Non so proprio cosa scegliere. Ci sono un sacco di cibi che non ho mai provato. Tu che mi consigli?»

«Tarantole grigliate.»

Il barbone corrucciò la fronte, esaminando il menù meticolosamente. «E dove sarebbero?»

«Ascolta, dimmi cosa vuoi e facciamola finita» sbottò Edward. «Sono stanco delle prese in giro.»

Il barbone mollò finalmente il foglietto plastificato e lo squadrò con un sorriso enigmatico. «Per essere uno che ha deciso di perdere tempo in un ristorante, sei piuttosto impaziente.»

Quella frase lo punse sul vivo. Distolse lo sguardo, non sopportando l’idea di non avere una risposta per le rime già pronta. «Avevo fame» si giustificò.

«E in questo non c’è niente di sbagliato. Tutti hanno fame.» Il barbone tornò a esaminare il menù. «Lascia mangiare anche me, poi discuteremo.»

Edward ormai non aveva più dubbi, lo stavano davvero prendendo in giro. 

Mentre l’uomo teneva il naso incollato sul menù, Edward cominciò all’improvviso a sentirsi osservato. Guardò fuori dalla finestra, concentrandosi sulle persone che passeggiavano, le macchine che passavano, i vicoletti, ma non vide nulla di fuori posto. Storse il naso per nulla convinto di quella quiete apparente. Non credeva affatto di aver preso un abbaglio. C’era qualcosa là fuori, lo sentiva nelle interiora.  

Dopo alcuni minuti intrisi di silenzio imbarazzato, la cameriera fece ritorno con i pancake. Per lui sarebbero per sempre stati gli eterni secondi dopo i waffles, ma doveva ammetterlo, erano davvero invitanti. Erano impilati uno sopra l’altro, conditi con sciroppo d’acero, panna e ribes. Il suo stomaco andò in subbuglio non appena li vide.

Nel frattempo la cameriera non sembrò badare al fatto che il barbone seduto assieme a lui fosse apparso dal nulla, così come non sembrò nemmeno badare al fatto che, appunto, fosse un barbone. 

«Qual è il piatto del giorno, mia cara?» domandò quello con garbo. «Possibilmente qualcosa di salutare, se non è troppo chiedere.»

«La nostra torta salata è una vera prelibatezza, signore» rispose la cameriera, sorridendo estasiata.

L’uomo unì le mani e le rivolse un piccolo inchino. «Vada per la torta, allora.»

La giovane annuì e si allontanò come se le fosse successa la cosa migliore della sua vita. Rimasto ad osservare la scena in silenzio, Edward scosse contrariato la testa. Prese la forchetta e azzannò i pancake di gusto. Erano deliziosi, un vero toccasana per il suo stomaco arido.

«A proposito» mugugnò mentre masticava quella poltiglia così dolce da cariare i denti. «Pensavo di scappare senza pagare, ma visto che ci sei anche tu non ti dispiace offrire, vero?»

Per una volta, fu l’uomo a rimanere senza parole.

 

***

 

«Non sei stato cortese a lasciarmi da solo con il conto» si lamentò il barbone quando furono fuori dalla tavola calda.

Soddisfatto per la gustosa mangiata, Edward si stiracchiò, sciogliendo i nervi ancora rigidi dopo la pessima dormita. «E tu non sei cortese a non dirmi chi sei. Siamo pari.»

Si avviò lungo il marciapiede. Doveva essere mezzogiorno ormai. Aveva già perso fin troppo tempo.

«Dove stai andando?» gli domandò l’individuo.

Edward sollevò una mano. «A San Francisco.»

Se lo ritrovò accanto, a camminare insieme a lui. «Vuoi andarci da solo?»

«Quello è il piano. Vuoi venire anche tu?»

Il barbone assottigliò le labbra. «Ragazzo, dovresti prendere la faccenda più seriamente. Non puoi andare ad affrontare Orochi da solo.»

«E chi ha parlato di affrontare?» ribatté Edward, sbattendo contro un pedone che non si era scansato in tempo. Gli urlò qualcosa dietro, ma lui nemmeno lo sentì.

«E allora che intendi fare?» proseguì il barbone.

«Non sono affari tuoi.»

Percorsero un altro centinaio di metri senza che nessuno aprisse più bocca. Edward sperò che decidesse di lasciarlo in pace, ma come al solito quando chiedeva qualcosa otteneva l’esito opposto. 

«Quindi hai deciso» disse quello, ignorando i vari segnali che gli chiedevano non molto gentilmente ti cucirsi le labbra. «Vuoi davvero consegnargli la spada.»

Edward rimase in silenzio. Non aveva idea di come quel tizio facesse a sapere la verità, ma non ne fu così sorpreso. Orochi gli aveva detto che nessuno avrebbe scoperto il loro patto, ma forse non era al corrente del fatto che tutti sapessero sempre tutto di tutti in quello schifo di mondo. Inoltre il mendicante di Kansas City non era un uomo comune. Era chiaro che anche lui fosse un dio sotto mentite spoglie e se non l’aveva ancora ucciso nonostante sapesse la verità su di lui, allora non lo avrebbe fatto nemmeno in futuro.  

«Ascolta, ragazzo. Forse credi di conoscere le intenzioni di Orochi, ma ti sbagli. Quando avrà finito con gli dei, lui non si fermerà. Cancellerà ogni traccia di loro. Monumenti, artefatti, templi, perfino i loro figli. Non vuole rischiare che qualcun altro possa ostacolarlo. Di lui non ci si può fidare.»

«Fico» rispose Edward senza neanche guardarlo. «Hai finito ora?»

Venne afferrato per il braccio all’improvviso. Si voltò e vide il mendicante scrutarlo severo, malgrado gli occhiali da sole. Cercò di dimenarsi, ma fu come tentare di liberarsi da una pressa industriale. 

«Lo so cosa speri di fare» disse l’uomo. «Però non puoi consegnare la spada a Orochi. Se lo farai, sarà la fine per tutti noi.»

Sempre la stessa storia. Cos’era, la milionesima volta che la sentiva? Lo credevano così stupido da non sapere già quelle cose?

«Orochi è stato già sconfitto» ribatté Edward. «Me l’ha detto lui stesso. Mi vuoi dire che tutti gli dei insieme non possono batterlo se cercherà di ucciderli?»

«Non se avrà Kusanagi-no-tsurugi.» Il mendicante sembrò invecchiare all’improvviso di mille anni. «Per sconfiggerlo la prima volta ci sono volute molte ore di battaglia ininterrotta, e per di più lui era ubriaco. Immagino che tu conosca ormai il potere della spada, e quello che può fare. Se Orochi sarà al massimo delle sue forze, per di più alimentato dall’energia di Kusanagi-no-tsurugi, allora non ci sarà dio in grado di fermarlo. Figliolo, c’è un motivo se gli dei hanno continuato a governare per tutto questo tempo.»

«Già, il motivo è che hanno obbligato i loro figli a risolvere i loro problemi!» gridò Edward frustrato. Altri mortali si voltarono verso di loro perplessi, ma decisero saggiamente di continuare a farsi i fatti propri. Magari li avevano scambiati per due senzatetto che stavano litigando.

«No, ragazzo, non è solo questo» rispose il mendicante, rimanendo calmo anche se per la prima volta cominciò ad apparire quasi angosciato. Posò le mani sulle sue spalle, chinandosi verso di lui. Edward si aspettava che avesse un alito terribile, invece era inodore. «Che tu ci creda o meno, gli dei sono importanti per il funzionamento del mondo. Conosci la storia della tua gente, dico bene? Dimmi, che cosa c’era prima degli dei? Chi governava prima di tutti loro?»

Edward assottigliò le labbra. Non aveva mai prestato particolare attenzione alle lezioni che gli avevano dato al Campo Mezzosangue, eppure conosceva la risposta a quella domanda. 

«Chaos» disse, irrigidendosi subito dopo. Un lungo brivido gli attraversò l’intera colonna vertebrale non appena pronunciò quel nome. La terra stessa sembrò scuotersi leggermente.

Il potere dei nomi, pensò Edward. 

Anche l’uomo sembrò provare una sensazione di sconforto, ma annuì. «Credi che sia solo una coincidenza il fatto che la parola "Caos" derivi da quel nome? Senza gli dei, questo accadrebbe. Caos. Senza nessuno a governare i mari, il cielo, il clima, l’aria che respiri, sarebbe la fine del mondo come lo conosci. Per questo gli dei devono continuare a regnare.»

Il semidio lo scrutò per alcuni istanti. Non gli aveva detto nulla che già non sapesse. Notizia straordinaria: gli dei erano importanti. Loro controllavano questo, quello e quell’altro. Però mancava ancora una parte, quella più importante. 

«Salvare gli dei non mi restituirà Rosa» affermò, conficcandosi le unghie nei palmi per la rabbia. «Lei non sarà l’unica vittima di questo gioco malato di mostri e dei. Mi rifiuto di accettarlo.»

«Ragazzo, ascolta…»

«No. Ho ascoltato abbastanza.» Edward riuscì finalmente a scostarsi quelle mani di dosso. Fece un passo indietro. «Se non consegno la spada, gli dei si dichiareranno guerra. Ma se la consegno, mia sorella morirà. Mi state chiedendo di scegliere tra qualcosa di cui non mi importa niente e quella di cui invece mi importa più di ogni altra.»

«E cosa speri di fare una volta salvata tua sorella?» domandò allora l’uomo, con voce più morbida. «Credi che Orochi davvero vi risparmierà?»

«Se non la lascerà andare allora sarà peggio per lui.» Edward si avvicinò all’uomo, togliendosi gli occhiali da sole per osservarlo senza filtri. L’aria si caricò di elettricità. «Salverò Rosa. E se non sei d’accordo con me, allora dovrai fermarmi con le cattive. E anche in quel caso, ti garantisco che non ci riuscirai.»

Si squadrarono a lungo, occhiali da sole nelle iridi castane. I pedoni passavano accanto a loro due senza nemmeno vederli. A un palmo dai loro nasi, Edward era pronto a sguainare Ama no Murakumo e affrontare quell’individuo, chiunque egli fosse, ed era sicuro che avrebbe scatenato un putiferio. 

Il barbone lo guardò a lungo senza dire o fare nulla. A causa degli occhiali da sole, Edward non poteva vedere la sua reale espressione, ma per tutto il tempo sembrò scrutarlo dritto nell’anima. Tutto a un tratto, per sua enorme sorpresa, gli rivolse un piccolo sorriso divertito. Quella era l’ultima cosa che il semidio si aspettava di vedere. 

«Che c’è di divertente?»

L’uomo denegò con la testa, senza far sparire quel sorrisetto. «Niente, niente. È solo che mi ricordi com’ero un tempo.»

Edward schiuse le labbra, atterrito al pensiero di assomigliare in qualsivoglia modo a quello straccione. 

«Non ti fermerò» proseguì quello, distogliendo lo sguardo da lui, indirizzandolo verso chissà dove. «Sei libero di proseguire.»

«Oh.» La notizia lo lasciò genuinamente sorpreso. Credeva che avrebbe dovuto lottare molto più duramente per liberarsi di lui.

Il tizio sollevò un indice, per frenare qualsiasi entusiasmo. «Ma visto che vuoi proseguire da solo, ci sono un paio di informazioni importanti che vorrei darti.»

«Del tipo?» domandò il ragazzo riluttante.

Quello sorrise ed iniziò a parlare. Edward, man mano che sentiva quelle parole, spalancò gli occhi sempre più incredulo.

L’uomo gli parlò di Orochi, spiegandogli come funzionavano i suoi poteri e raccontandogli che un tempo, quando ancora era un mostro gigantesco, Ama no Murakumo venne ritrovata nel suo corpo, dopo la sua sconfitta. Ecco perché Orochi continuava a ripetere che la spada appartenesse a lui. Era stata letteralmente dentro di lui, millenni e millenni prima.

Il mendicante gli parlò anche di Naito. Al figlio di Apollo non importava nulla dell’han’yō, ma ricevere quelle informazioni su di lui lo lasciò di sasso al punto che abbassò la testa sulle mattonelle del marciapiede. Detestava ancora quell’essere per ciò che aveva fatto a Rosa, però… sentire quella storia assurda gli rese quel compito molto più arduo. Capì perché Naito stesse lavorando per Orochi, intuì da dove arrivasse l’astio che c’era tra lui e gli altri mostri e realizzò perché Orochi lo avesse assoldato tanto per cominciare. In effetti, ciò che aveva scoperto avrebbe potuto essergli davvero utile.

Ma soprattutto, il sogno che aveva fatto quello stesso giorno gli fu finalmente chiaro. Ora sapeva che cosa stavano facendo con Rosa e, la cosa più importante, sapeva cosa volesse fare Orochi per davvero. Sospettava già di saperlo, grazie a quello che Artemide gli aveva detto, ma quel tizio gli diede la conferma di tutte le sue teorie.

Alcuni sospetti sulla vera identità di quel barbone presero forma nella sua mente. Iniziava a credere di sapere davvero chi fosse quel tizio, ma allo stesso tempo era convinto di sbagliarsi. In ogni caso, tutte quelle informazioni non fecero altro che renderlo ancora più determinato ad arrivare fino in fondo a quella faccenda.

«Bene, siamo arrivati» disse infine il barbone, fermandosi. 

Edward inarcò il sopracciglio. «Arrivati dove?» Poi si accorse della fermata dell’autobus sul bordo della strada.

«Il prossimo autobus porta a San Francisco» spiegò l’uomo. «Non è quello che cercavi?»

Edward s’era perfino dimenticato il motivo per cui si era messo a girovagare per la città come uno zombie. «Sì, sì, certo» rispose, stupito.

«Allora le nostre strade si dividono ancora, figlio di Apollo.»

«Aspetta, quindi… volevi solo dirmi quello? Mi vuoi davvero lasciare andare? Anche se pensi che la mia è la scelta sbagliata?»

«Ragazzo mio, non esistono né scelte sbagliate, né giuste» rispose quello, sorridendogli di nuovo. «La scelta che hai preso è quella che tu ritieni giusta per te, mentre per qualcun altro è quella sbagliata. È tutta una questione di punti di vista. Comunque andranno le cose, io so che le azioni che ti spingono a proseguire sono le più sincere. Non ti sei mai fatto problemi ad ammettere di non voler essere un eroe, né di non volerti trovare qui, ma hai comunque perseverato, e la cosa ti rende onore. Non ti ho mentito prima, mi ricordi davvero com’ero io molti anni orsono. Sia tu che Kate me lo ricordate, in un certo senso. Siete davvero… persone interessanti.»

«Un attimo…» sussurrò Edward, scosso da un sussulto. «… tu la conoscevi? Conoscevi mia madre?»

Il sorriso dell’uomo si addolcì. «Buona fortuna, figliolo. Spero di rivederti.»

Gli rivolse lo stesso inchino che aveva rivolto alla cameriera nel ristorante e gli diede le spalle. Edward lo seguì con lo sguardo fino a quando non girò l’angolo, sentendo le orecchie ronzare. «N-No! Fermati!» 

Gli corse dietro, ma non appena svoltò non vide quel tizio da nessuna parte. Si era volatilizzato nell’aria, quasi come se non fosse mai stato lì, come se fosse stato tutto frutto della sua mente. Ma lui sapeva che in realtà non aveva immaginato un bel niente.

Edward strinse i pugni e alzò lo sguardo al cielo, proprio verso il sole. Non era sorpreso del fatto che Apollo non avesse fatto parte dell’elenco di dei che aveva incontrato, ma si augurò che quel codardo lo stesse guardando almeno in quel momento, visto che il suo stesso figlio stava andando a risolvere i casini che lui aveva combinato. 

Avrebbe potuto portarlo al Campo Mezzosangue quando era ancora bambino, avrebbe potuto dire al resto degli dei che Edward aveva la Spada del Paradiso, ma non l’aveva fatto. Aveva preferito nascondersi e lasciare che Kate venisse portata via, aveva lasciato che l’Olimpo si fosse trovato sull’orlo di una guerra e per finire aveva abbandonato Rosa, lasciandola in una casa che lei non aveva mai sentito sua, lasciandola senza una guida e senza nessuno su cui contare davvero. Edward giurò a sé stesso che se mai l’avesse incontrato allora niente gli avrebbe impedito di sferrargli un pugno in faccia.

Ritornò verso la fermata dell’autobus e si sedette ad aspettare. Sapeva molto bene che cosa avrebbe fatto una volta a San Francisco, una volta entrato in quel museo, e forse anche quell’uomo l’aveva capito, per questo lo aveva lasciato andare. In effetti, il mendicante di Kansas City era stato l’unico individuo che gli era stato davvero di aiuto durante quel viaggio.

Tutto ormai sembrava essere stato deciso. Orochi era pronto a cantar vittoria, mentre gli dei stavano per dichiararsi guerra. Tutti quanti erano convinti di sapere che cosa stava per succedere: beh, allora tutti quanti avrebbero ricevuto una bella sorpresa.

Edward era stato sballottolato dagli eventi per troppo tempo: ora sarebbe stato lui a sballottolare loro.

 

***

 

Per fortuna si era fatto offrire la colazione, così aveva potuto usare gli ultimi spiccioli che aveva in tasca per pagarsi il biglietto del bus. Si era accomodato in un sedile accanto al finestrino e aveva immediatamente chiuso gli occhi. Ci sarebbero volute due ore di viaggio, suppergiù, perciò poteva sfruttarle per riposare ancora un po’.

Il pullman aveva continuato a muoversi e fermarsi, passando di fermata in fermata, destreggiandosi in mezzo al lento traffico di Sacramento. La testa di Edward aveva continuato ad ondeggiare in avanti e indietro, facendogli rischiare di sbatterla contro il finestrino un paio di volte. Alla fine, irritato, aveva riaperto gli occhi e aveva escluso l’opzione “riposo”. 

Rimase a osservare assorto gli enormi palazzi di acciaio, cemento e vetro di Sacramento. In loro non notò alcuna differenza rispetto a quelli che aveva visto a New York, o Kansas City, o qualsiasi altra grande città in cui fosse stato. In un certo senso era buffo: aveva fatto due viaggi costa a costa nel giro di quegli anni, eppure non ricordava una sola cosa in particolare di tutte le città che aveva visitato. L’unica che gli saltava alla mente probabilmente era la Union Station di Kansas City. Il suo obiettivo non era mai stato fare il turista, però diamine, qualche sosta di piacere qua e là avrebbe anche potuto concedersela di tanto in tanto. Un sorriso amaro nacque sul suo volto a quel pensiero.

«È occupato?» domandò una voce aggraziata all’improvviso. 

Edward si voltò. Un gruppetto di persone era appena salito sul pullman e stavano tutti quanti prendendo posto, inclusa la stupenda ragazza che si era rivolta a lui. Il semidio si tolse gli occhiali da sole per assicurarsi di vedere bene. Quella distese il suo sorriso gentile. Aveva le labbra lucide, sensuali, lunghi capelli neri e setosi intervallati da mèches viola, occhi azzurri come pozze d’acqua cristalline e un’efelide poco sopra la guancia. Indossava un top nero che le lasciava le spalle e l’ombelico scoperti, dei leggins corti sempre neri che la facevano sembrare ancora più snella di quanto già non fosse e una borsetta a tracolla. Dal fisico ben definito e dall’abbigliamento sembrava una ginnasta.

«Ehi?» incalzò lei facendogli un cenno con la mano, ridacchiando. «Allora, ti spiace se mi siedo qui?»

Edward si riscosse e le sorrise. Nessuna ragazza gli aveva mai sorriso in quel modo, prima di quel giorno. E soprattutto nessuna di così bella. Il fetore di quella trappola era tale da farlo svenire. «Certo che no. Siediti pure.»

Quella obbedì, accomodandosi accanto a lui, scuotendo le anche in maniera così cinematografica da far ridere. Un palo di legno sarebbe stato più convincente di lei. 

«Grazie. Pensavo che…» s’interruppe, osservandolo meglio in faccia. Gli rivolse un’espressione di sconforto. «Ehi, ma… che ti è successo?»

Edward si sfiorò la cicatrice d’impulso. Sollevò le spalle. «Una donnona di tre metri ha provato a baciarmi, ma le cose sono finite male.»

Sorprendentemente, una risata scappò dalle labbra di lei. Edward corrucciò la fronte. Ok, quella era una reazione che lui non s’era aspettato.

«Sei simpatico» trillò quella con entusiasmo, per poi porgergli una mano. «Io sono Courtney. Lieta di conoscerti.»

Allibito, Edward guardò prima la mano, poi lei. Per l’ennesima volta in quella mattinata senza fine, pensò ad uno scherzo. 

«Edward» mugugnò, ricambiando la stretta. Come se quella tizia già non lo sapesse chi fosse lui. Aveva la pelle morbida e una presa parecchio salda, constatò.

«Di dove sei, Edward?» domandò Courtney dopo avergli lasciato la mano.

«Arrivo da New York, ma un tempo vivevo qui in California.»

La ragazza sorrise eccitata. «Da New York? Pazzesco! Io sono di Philly!»

«Wow» fu l’unica cosa che riuscì a replicare lui, mentre pensava a quanto stupido fosse quel soprannome. «Ma che coincidenza.»

Courtney annuì, per nulla turbata dal suo tono sarcastico. «Quindi vivevi qui? E come ti trovavi?»

«Faceva abbastanza schifo. Ho rischiato di morire un mucchio di volte.»

L’entusiasmo della ragazza si smorzò. Cercò di ridacchiare di nuovo, ma questa volta sembrò fare più fatica. «E quindi… vai anche tu a San Francisco?»

Edward rispose con un mugugno, infilandosi la mano nella tasca della felpa, dove teneva nascosto il coltello di bronzo celeste.

«E cosa ti porta alla città più ventosa d’America?»

«Vado a trovare un amico» rispose lui, irritato. Quella tipa era davvero determinata a spacciarsi per una mortale curiosa, poteva concederglielo.

«Davvero? È un amico con cui avevi perso i contatti?»

«È un serpente con otto teste che mangia vergini e che vuole distruggere il mondo.» Edward sorrise freddamente. «Dimmi, per quanto ancora vuoi continuare con questa pagliacciata?»

Courtney batté le palpebre un paio di volte, basita. «C-Cosa?»

«Cosa, cosa, cosa» ripeté lui, quasi cantilenando, per poi estrarre il coltello e affondarglielo nella gola. «Ora ne ho abbastanza!»

La ragazza gridò mentre il coltello affondava sotto il suo mento… e lo penetrava senza nemmeno scalfirla. Courtney si alzò in piedi di scatto, arretrando da lui tenendosi le mani sopra il petto e guardandolo sgomenta. Edward spalancò gli occhi. Sentì l’adrenalina calargli drasticamente. Lei lo fissò spaventata ancora per diversi istanti, coprendosi il petto come se lui avesse mirato a quello e non al collo. Quella tizia… era davvero una mortale. Una mortale graziosa che si era messa a parlare con lui. E lui aveva appena cercato di accoltellarla.

Edward pensò di essere il più grande idiota che fosse mai esistito. Se c’era un record che riguardava tutte le idiozie che aveva fatto, allora lo aveva appena stracciato. Mise via il coltello, anche se non credeva che lei potesse vederlo davvero per quello che era, poi alzò le mani per mostrare di essere innocuo. 

«O-Ok» cominciò a dire, con tono calmo. «Ora… ora ascoltami…»

Ma Courtney non l’ascoltò. Lo scrutò come se fosse un mostro per altri lunghi e strazianti secondi, durante i quali Edward si maledisse con tutto sé stesso con ogni vocabolo di sua conoscenza, poi si allontanò quasi di corsa da lui. Rimase da solo, a soffocare sotto gli sguardi di alcuni mortali curiosi che si erano girati verso di loro, attirati dal grido della ragazza.

Edward si rimise a sedere composto, morendo di vergogna, e provò ad osservare di nuovo fuori dal finestrino come se nulla fosse, ma gli fu impossibile. Non aveva idea di che cosa Courtney avesse visto quando l’aveva assalita. Forse credeva che avesse cercato di toccarla, o comunque di fare altre cose da degenerato. Per fortuna il bronzo celeste non funzionava sui mortali, altrimenti l’avrebbe uccisa. Questo però non giustificava le sue azioni. Si era comportato come una bestia. Il cuore rischiava di saltargli fuori dal petto per quanto forte stava battendo. Si passò una mano sopra gli occhi, resistendo di poco all’impulso di darsi un pugno da solo.

Ripensò a come si era comportato con Stephanie e con Artemide. Poteva aggiungere anche quella povera mortale alla lista delle vittime dei suoi sfoghi di rabbia. Quel viaggio, quell’impresa, la stessa Ama no Murakumo, lo stavano trasformando in un mostro. Affondò il volto tra le mani, sospirando con forza. Avrebbe dovuto scusarsi con quella mortale, più tardi. Non poteva farlo in quel momento, non voleva spaventarla di nuovo. Tornò a fissare l’esterno e non ebbe idea di quanto tempo passò ancora in quel modo.

Forse era quello il motivo per cui era sempre stato solo. Forse non era mai stata davvero colpa dei pregiudizi che avevano di lui. O forse i pregiudizi non erano mai stati infondati. Da quando aveva perso Kate era sempre stato arrabbiato, scontroso, cinico, la pecora nera di qualsiasi luogo in cui fosse andato, incluso il Campo Mezzosangue. Non era mai stato capace di tenere le persone vicine a sé, in compenso era un campione nell’allontanarle. Forse si meritava davvero tutto quello che gli era successo.

Appoggiò la testa contro il finestrino. La sua unica consolazione era che tutto stava per finire una volta per tutte.


 
 

 


 
 
Due note tecniche. Nella parte riguardante il sogno, i dialoghi tra Naito e i mostri non erano in corsivo perché in giapponese, però siccome Edward può capirlo e siccome noi ora vediamo la storia sotto il suo punto di vista, erano comprensibili anche per noi. Quando la kitsune smette di usare il giapponese, infatti, il testo è tornato in corsivo.
 Ero un po' incerto sulla parte finale del capitolo, quella riguardante Courtney, diciamo che comunque è servita più che altro come punto esclamativo per mostrare il carattere sempre più esplosivo ed instabile di Edward. Può sembrare una scena da nulla, ma avrà ripercussioni importanti per il suo arco.
 Il dialogo tra il mendicante di Kansas City ed Edward, invece, forse potrebbe sembrare poco chiaro ora, ma anche quello avrà sviluppi molto importanti, specialmente per il prossimo capitolo di cui non voglio fare spoiler ma... sì, penso che sia piuttosto chiaro cosa accadrà.
 Questo è stato l'ultimo capitolo "tecnico", lo prometto. Nel prossimo ci saranno sviluppi importanti. Grazie per essere riusciti a resistere fino a questo momento, dico sul serio. Grazie Roland e Farkas per le recensioni, mi fate una persona felice. Alla prossima!

   
 
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