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Autore: Diana LaFenice    13/01/2020    0 recensioni
"A volte basta allontanarsi un po' per vedersi meglio".
La notte del naufragio della Fortuny, si persero le tracce di sei delle diciotto lance di salvataggio. Ufficialmente dispersi e poi dati per morti, in realtà i superstiti approdarono sulle spiagge di un vero e proprio paradiso terrestre.
Dieci anni dopo i figli dei naufraghi vivono in pace sotto la guida di Conrad, l'ultimo adulto rimasto. Tuttavia la pace è solo apparente. Tra gioie, problemi e dolori non mancano le lotte intestine e le domande. Per esempio, perché non si può andare nella Landa? Cosa c'è laggiù? Perché non ci si può andare? E se la salvezza fosse oltre quella zona nebbiosa e fitta? E cosa è davvero successo in dieci anni prima? Perché non si può lasciare l'isola?
Ripercorrendo i sentieri della memoria ed esplorando quei meandri tanto temuti, i figli dei naufraghi cercheranno di trovare il modo di abbandonare il Giardino dell'Eden in cui sono cresciuti.
Tra ricordi, fantasia, misticismo e spiritualità questo è Il Giardino di Dio.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Sarai con me


Forse fu perché entrambi erano bambini, che non fu difficile per loro stringere amicizia tanto in fretta. Superate le prime barriere linguistiche, i due erano riusciti a comunicare a gesti e con gli oggetti usati alla stregua di modellini. Così Fred aveva scoperto che Aata era suo coetaneo e che veniva da un’altra isola. Fred aveva sgranato gli occhi per la sorpresa, poi l’aveva tempestato di domande cui il ragazzino, intimorito, non aveva risposto. Perciò si era dato una calmata e aveva usato di nuovo i sassi per farsi capire. Un po’ alla volta era riuscito a sapere che si trovavano in un piccolo arcipelago di nove dieci isole. E che quella su cui si trovavano era l’ultima del gruppo. Mentre la sua era la penultima. E, sempre usando i gesti erano riusciti a crearsi un piccolo dizionario per capirsi a vicenda. Per esempio albero per Aata era Tnmị, fungo era Hĕd, scimmia Ling e così via. Per contro, anche Aata cominciò ad apprendere i rudimenti dell’inglese di Frederick, dopo aver tentato con uno stentato francese. Ma Fred allora era troppo piccolo per riconoscere quella lingua e, nessuno tra i sopravvissuti, era di origine francese. «Come ci siete finiti qui?» Domandò il quinto giorno che passavano insieme. Scaldandosi al tepore del fuoco mentre mangiavano gli insetti abbrustoliti che avevano cacciato.
«Siamo naufragati». Rispose il bambino biondo. E dovette spiegare ad Aata che cosa fosse un naufragio. Con parecchie difficoltà ci riuscì. «Ah, è come quando si ribalta una canoa ma con più persone a bordo». Commentò poi quando capì l’altro.
«Da quanto siete qui?»
«Almeno quattro anni e tu?»
«Io dieci giorni».
Fred lo guardò sorpreso. Credeva che vivesse lì come Tarzan. Che i suoi genitori fossero morti a causa di un leopardo e che fosse stato adottato dai gorilla. Solo dopo seppe che al massimo su quell’isola c’erano gli orango tango.  
A parte questo il ragazzino si rivelò un’ottima compagnia. Era spigliato e vivace, anche se a volte lo guardava un po’di traverso. Quasi che avesse paura di lui. In un certo senso gli ricordò il gatto pescatore che l’aveva condotto lì.
Decisero di istituire dei turni di guardia per la notte e di cacciare insieme. Anche se Fred spesso rovinava le cacce perché era troppo rumoroso e prendeva la cosa come un gioco. Per loro fortuna, Aata aveva uno zainetto con delle provviste. Ma erano per una persona sola e lui non si era aspettato di trovare qualcuno con cui dividerle. Fred aveva l’impressione che sotto sotto Aata lo odiasse per questo. Lo capiva dagli sguardi accusatori che gli lanciava. E adesso che la sua pancia ringhiava di nuovo come se fosse di nuovo naufragato, lo capiva. Si fermò dal chiedere scusa perché, come aveva scoperto molto presto, il suo nuovo amico, non sopportava i piagnoni e le scuse ripetute.
Se voleva essergli utile almeno un po’, doveva stare zitto e fare del suo meglio. Se solo la Landa gli avesse fatto meno paura…
Fred non era abituato a quest’oscurità, a questa nebbia e gli mancava sua madre, temeva di non rivederla più. E poi Claire che contava su di lui. Come aveva fatto a essere così stupido da non pensarci? In sostanza, si era pentito delle sue azioni. Ora doveva tornare da loro. Ma non sapeva dove né come. Non sapeva orientarsi e non c’era muschio che potesse aiutarlo. Su quell’isola non cresceva neanche un ciuffo piccino picciò. Fu Aata a spiegargli che poteva usare i ragni, visto che fanno sempre la ragnatela a Nord. Da allora Fred non perse mai più l’orientamento. Anche se non raggiunse mai la sicurezza del suo nuovo compagno di giochi e d’avventure. Aata, infatti, si muoveva come se sapesse sempre dove andare.
Parlarono anche delle loro famiglie. Riuscirono persino a giocare, certi giorni che non sapevano che fare.
«Ma tu che cosa ci fai qui?» Gli chiese un giorno di pioggia, uno dei tanti di quel periodo.
«Io sono qui perché così potrò trasformarmi in un uomo». Annunciò tutto fiero il ragazzino gonfiando il petto e Fred sgranò gli occhi. Trasformarsi in un uomo? E come? 
Secondo la sua gente, al compimento del decimo anno di età i ragazzi dovevano recarsi su quest’isola e passare il tempo lì finché non avessero conquistato il favore degli spiriti. La Landa che loro chiamavano Bān brrphburus, cioè Casa degli Antenati, era il loro tempio e luogo di riposo dei loro morti. Per questo era tanto facile trovarci delle ossa umane, piccoli tumuli o santuari di pietra, legno e foglie. E si sentiva che c’era qualcosa di strano in quella parte di boscaglia. Le radici stesse avevano forme particolari. A volte era come se gli alberi si ergessero dai cadaveri o succhiassero nutrimento da essi stessi. E chissà quanti altri ce ne erano sotto i loro piedi, sotto la terra e neppure lo sapevano e li vedevano. Fred si portò le mani alla bocca e si alzò in piedi guardando il terreno del sottobosco, sgomento: quell’isola era un cimitero.
«É anche il modo che abbiamo di farci conoscere e poi accettare quando verremo ad abitare qui nella morte. Nella nebbia e nel vento, se guardi bene, si possono vedere. Io un po’ci riuscivo al mio villaggio». Confessò.
Il pensiero di Fred corse a suo padre. «Tu dici che i nostri cari sono qui?» Chiese, il cuore che batteva più rapido. Si guardò attorno nella speranza di scorgerlo, ma vide soltanto la vegetazione intorno a loro.
«Come saprai di esserci riuscito?»
«Quando troverò un uccellino dalle piume rosse». Sorrise quell’altro, mettendo in mostra la finestrella tra i denti.
«All’inizio pensavo che tu fossi un Phī, un fantasma, per i tuoi colori, ma poi mi sono accorto che sei di carne e sangue come me». Disse indicandolo.
«I miei colori? In che senso? Ah, per i miei occhi?» Capì il bimbo. L’altro confermò e aggiunse che era anche per via dei capelli. 
«Insegnami.» Si girò verso di lui, che masticava una radice e lo guardava confuso: «Insegnami a vedere gli spiriti, te ne prego».
«Non so se tu ne abbia il dono, però».
«Non lo so, ma tu insegnami, ti prego, voglio vedere anch’io delle persone». Dichiarò. Non era mai stato più serio.

   
 
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