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Autore: Angel TR    15/01/2020    2 recensioni
"Cigno nero: la rivalità come pretesto per un confronto con una fondamentale ma repressa parte di sé." (Le Cinematographe)
Eccoli arrivare di nuovo quel vuoto, quel calore, quei brividi che parevano febbre e fu allora che Hwoarang comprese di odiare a morte Jin Kazama.
Hwoarang alle prese con se stesso: sconfitto e solo, non può fare altro che cercare la vendetta. Ma è davvero quello che vuole?
{4^ classificata al contest “Il Lago dei Cigni” indetto da molang sul forum di Efp.}
Genere: Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hwoarang, Jin Kazama
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Some Boys Wander by Mistake'
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Storia partecipante al contest “Il Lago dei Cigni” indetto da molang sul forum di Efp.
Nome: Angel Texas Ranger
Titolo: Cigno Nero
Fandom: Tekken
Pacchetto Cigno Nero:
Obbligo: Nota Lime
Prompt: Rissa/Litigio
Oggetto: Biglietto
Bonus — Colore: Ardesia (grigio)
Bonus — Canzone: From Ashes to New - Breaking Now

Partecipa alla challenge Parole Quasi Intraducibili indetta da Soly Dea su efp: Kattebel: un breve biglietto scritto in modo informale e dato a qualcuno per attirare la sua attenzione oppure tenuto per sé come promemoria per non dimenticare qualcosa.





CIGNO NERO



*

"Cigno nero: la rivalità come pretesto per un confronto con una fondamentale ma repressa parte di sé."
Le Cinematographe



너는 나고 나는 너야, 알겠니
우린 한 몸이고 부딪치겠지
~
You are me, I am you, now do you know
We are one body and we are gonna clash

BTS - Shadow



1) Ombra



"L'ombra come parte inferiore della personalità e coincidente con il concetto di inconscio personale. Successivamente si passa a una concezione sovrapersonale, in cui l'ombra è Ombra assoluta, il negativo dell'esistenza."
Estratti dalla Teoria dell'Ombra di Carl Jung



I just don't care anymore and I can't pretend
I haven't been here before and haven't seen the end
I sometimes hope for a cure I'm just lost within
I just don't care anymore, why can't I win



I muri della doccia del complesso dove si teneva il torneo parevano rinchiuderlo in una prigione, una prigione dalla quale Hwoarang non aveva nemmeno la forza di uscire. Le braccia tese verso le piastrelle sporche, lasciò che l'acqua gli scorresse lungo la schiena per lavarlo e togliergli di dosso le tracce del peccato appena commesso. Il rumore dei passi, udibile persino sopra lo scrosciare del getto d'acqua, gli fece sollevare la testa verso le piastrelle. Nello scorgerle, gli sfuggì un ghigno: erano state ironicamente pennellate di un colore in tinta con il suo umore, non c'era che dire: grigio ardesia, grigio come il cielo triste che avvolgeva come una cappa la città di Tokyo.
Istintivamente chiuse gli occhi, come se quel piccolo gesto potesse proteggerlo dalla realtà e isolarlo da quei passi che, inesorabili, si facevano sempre più vicini. Ciuffi di capelli rossi ormai fradici gli si attaccarono sul collo, un promemoria di quanto avessero bisogno di una spuntata. Vai via, urlò dentro di sé, augurandosi che il messaggio arrivasse anche a chiunque avesse avuto la pessima idea di raggiungerlo dopo la sconfitta.
Sconfitta. La sola parola faceva ribollire il sangue nelle vene di Hwoarang, gli faceva digrignare i denti da quando era poco più di un ragazzino orfano, cresciuto da un maestro squattrinato di Taekwondo che l'aveva preso a cuore. Quel ragazzino si era trasformato poi in uno scapestrato che si azzuffava nei vicoletti bui di Seoul. I suoi calci riuscivano a strappare via i ghigni di disprezzo dalle facce dei ragazzotti snob e arroganti più grandi di lui.
Hwoarang aveva sempre vinto.
Ogni match, ogni incontro, ogni rissa, ogni torneo, ogni avversario.
Fino a quel momento.
Non poté evitare al proprio pugno di sferrarsi contro le malandate piastrelle della doccia. Dannazione.
«Mi dispiace, Hwoarang. So quanto ci tenevi a partecipare al torneo.»
Hwoarang aprì di scatto gli occhi. Davanti al suo sguardo furioso, le gocce d'acqua seguivano il tracciato disegnato dalle piastrelle in un gioco di forme geometriche, indifferenti al piccolo dramma umano che si consumava dentro al suo animo. L'oggetto del suo odio si stagliava proprio dietro di lui e Hwoarang si chiese se potesse avvertire le ondate di rabbia che emanava il suo corpo, se fosse abbastanza sveglio da cogliere l'antifona e filarsela. Le dita cercarono un appiglio nelle piastrelle, arpionandone gli incavi e distruggendo il sentiero delle goccioline. Fece un respiro profondo prima di girarsi e affrontare il suo nuovissimo acerrimo rivale.
Com'era possibile che persino in quel cesso di posto Jin Kazama brillasse di luce propria? I suoi occhi ambrati lo stavano scandagliando come se potessero analizzare ogni suo pensiero; improvvisamente, Hwoarang si sentì terribilmente in imbarazzo e terribilmente nudo. Alzò gli occhi al cielo e gli diede nuovamente le spalle per cercare il suo accappatoio che, ovviamente, non trovò. Al limite della sopportazione, con un'imprecazione a fior di labbra, si voltò lentamente verso Kazama, sentendosi dannatamente stupido.
«Che cazzo vuoi adesso, eh?» sbottò, evitando di guardarlo negli occhi.
Lui si limitò a scrollare il capo mentre, con un movimento fluido, si sfilava la divisa, lasciandola scivolare lungo le spalle. Anche sotto la luce fredda che gettava un'ombra malsana sulle cabine doccia che parevano vuoti contenitori, la pelle di Jin assumeva un colorito sano, come se avesse passato la giornata a godersi un sole che non era mai spuntato nel cupo cielo di Tokyo. Kazama non è grigio fu tutto quello a cui riuscì a pensare Hwoarang, intontito dal misto di emozioni – rabbia, delusione, acuite dalla palese indifferenza di Kazama.
«Non intendevo causarti un tale danno» rincarò la dose quest'ultimo.
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.
«E allora non avresti dovuto farlo, stronzo» quasi gli ringhiò contro Hwoarang, questa volta dandogli davvero le spalle perché il ricordo dell'eliminazione dal Torneo iniziava a sbiadire davanti agli addominali scolpiti di Kazama – non regge minimamente il confronto con me, tentò di rassicurarsi.
La voce alle sue spalle giunse pericolosamente vicina alle sue orecchie. «Non avrei mai mancato di rispetto al mio avversario» rispose Jin, serio.
Hwoarang sentì il sangue affluire alle guance. Le gocce d'acqua cadevano dal microfono della doccia con un ticchettio che scandiva il battito forsennato del suo cuore. La parola "mio" fra le labbra di Jin suonava così… «Avversario, Kazama? Ti sei appena guadagnato un rivale. Ora smamma se non vuoi che ti prenda a calci in culo!» abbaiò, tanto per scacciare quegli strani pensieri dalla sua mente.
Ma Kazama non smammò: rimase dietro di lui, il respiro lieve fra i suoi capelli bagnati. Hwoarang rabbrividì, suo malgrado, digrignando i denti per la stizza. «Devo farmi la doccia, Hwoarang. Non prenderla sul personale: era solo un incontro» spiegò il suo nuovo rivale.
Il fruscio alle sue spalle lo informò che Jin si era liberato anche dei pantaloni. Il getto d'acqua che si azionò gli disse che ora era sotto la doccia. Hwoarang stava tremando di freddo: allora perché sentì un'ondata di calore travolgerlo con un tale impeto da farlo barcollare? Con l'accappatoio che finalmente lo avvolgeva, proteggendolo dagli sguardi intensi del ragazzo, si sentì abbastanza forte per gettare appena un'occhiata al suo corpo: rivoli d'acqua scorrevano lungo la schiena ampia, le ciocche di capelli neri rilucevano come diamanti neri.
Eccoli arrivare di nuovo quel vuoto, quel calore, quei brividi che parevano febbre e fu allora che Hwoarang comprese di odiare a morte Jin Kazama.


I'm stuck in back of the line and behind the mix
Still trying to find what is mine find where I fit

I open my eyes and these lies
They breed and they feed off of me
I try to revive a design
But can't see a need to agree
I'd hide in my mind and rewind
The scene or I'd flee underneath
But time after time I still find
I bleed more for me to succeed


La valigia ancora sfatta e aperta in due rispecchiava in pieno l'animo di Hwoarang, steso sul letto, con le gambe e le braccia spalancate, gli occhi persi nel soffitto dello stesso colore sporco delle docce. L'intonaco si era staccato in più punti, creando crepe qua e là e l'umidità di certo non aiutava: infiltratasi attraverso gli strati sottili della parete, si mostrava in tutto il suo splendore con grosse macchie.
Hwoarang sospirò, sconfitto ancora una volta, prima da Jin Kazama, poi da sé stesso e infine dal bugigattolo che aveva chiamato "casa" per tutto il tempo in cui aveva soggiornato a Tokyo, giusto per non farsene mancare nemmeno una.
Inclinando la testa, poteva vedere la città attraverso l'unica finestra del monolocale: Tokyo ricambiò lo sguardo con durezza dall'alto della sua prosperità. Nonostante fosse grigia e inquinata, nonostante la notte non fosse ancora calata su di lei per accenderla di neon – verde e azzurro, giallo e rosso così brillante da ferire gli occhi – e farla bella, Tokyo conservava la sua dignità e la sua opulenza come una signora dell'alta società decaduta.
A Hwoarang sfuggì una risata amara, quasi isterica. «Seoul è più bella di te» sputò fra i denti, come se una città potesse offendersi a causa di quell'insulso paragone.
Tokyo non lo degnò di una risposta.
«Fottiti» biascicò, voltandosi per darle finalmente le spalle e concedere ai suoi occhi di chiudersi per non vedere più tutto quel lerciume.
Finalmente un senso di alienazione iniziò a strisciare verso di lui, preannunciando l'arrivo di Morfeo; ma, proprio quando Hwoarang era sul punto di sprofondare, un colpo alla porta lo fece saltare di botto sul letto, la schiena dritta e l'aria vigile. Scese dal letto e si diresse verso la porta scalzo, sfidando l'esercito di batteri che si annidavano nella moquette di bassa qualità, ormai di un borgogna talmente sbiadito da parere grigio, la stessa sfumatura ardesia del cielo di Tokyo. Siccome la porta non era provvista di occhiello, Hwoarang aprì la porta con un moto di noia, la mano stretta attorno alla maniglia pronta a richiudere immediatamente in caso di seccature.
Ad attenderlo sull'uscio, però, non c'era proprio nessuno.
«OK… Davvero divertente» esclamò, strascicando le parole, seccato da quella perdita inutile di tempo che l'aveva strappato dall'abbraccio di Morfeo. Richiuse la porta e si voltò, scalpitando per gettarsi sul letto malandato ma, appena mosse il primo passo, calpestò una consistenza dura che poco sapeva di moquette. Senza pensarci troppo, abbassò lo sguardo e scorse un foglietto.
Un biglietto.
Incuriosito, si chinò per raccoglierlo.
Incontriamoci da me per la rivincita, lesse Hwoarang in un sussurro. Non ebbe nemmeno bisogno di riflettere: la sua mente collegò subito quel biglietto agli occhi ambrati di Jin Kazama e un ghigno piegò un angolo delle sue labbra. Girando il biglietto, lesse l'indirizzo e un fischio gli sfuggì dalle labbra: Asakusa? Dove diavolo si trovava Asakusa ora? Quel rincoglionito davvero pensava che lui conoscesse la geografia del Giappone? «Non ho nemmeno internet, ora come faccio a sapere dov'è questa Asakusa!? Sarà un quartiere di Tokyo, no?» si sfogò.
Il sangue gli pompava velocemente nelle vene, rendendolo inquieto e pronto all'azione. Corse nel bagno per darsi una sistemata: doccia veloce, shampoo, vestiti puliti, il portafoglio leggero nella tasca posteriore del paio migliore di jeans che possedesse. Si controllò velocemente allo specchio appannato del bagno prima di uscire. Rallentò solo quando si rese conto di star affannando. Sbuffò, infilò le mani nelle tasche del giubbino di pelle e s'incamminò, fingendo di sapere quale fosse la sua direzione. Incrociò persino un paio di combattenti squattrinati come lui, alcuni dei quali avevano passato le selezioni per l'Asia.
Il Torneo del Pugno di Ferro, infatti, per accogliere un bacino di aspiranti partecipanti più ampio possibile, aveva stabilito che si tenessero delle selezioni per ogni continente. Hwoarang aveva avuto la sfortuna di capitare con Kazama proprio nell'ultima fase prima degli ottavi di finale, dove i lottatori sarebbero stati smistati casualmente e non più in base al continente di appartenenza. Quando aveva scoperto il suo avversario, Hwoarang si era lasciato andare a una risata: aveva avuto modo di conoscere Kazama in uno di quegli stupidi incontri clandestini. Si vedeva lontano un miglio che non era il suo ambiente: Jin, con il suo viso pulito quasi nascosto dal cappuccio della felpa e l'aria seria, sembrava non appartenere nemmeno alla stessa specie degli avanzi di galera che girovagavano nei vicoli bui dove si tenevano i match. Hwoarang l'aveva notato subito ma Jin non aveva mai notato lui – o, almeno, così aveva creduto fino a quel momento.
Invece mi aveva notato. Ricorda anche il mio nome, pensò, con un senso di trionfo che gli lasciò l'amaro in bocca. Essere riconosciuto da un combattente del livello di Jin doveva fargli piacere, no? Ma Jin non era poi così forte… Non era assolutamente migliore di lui. Quella vittoria era stata frutto di una mera casualità, un puro colpo di fortuna che non si sarebbe ripetuto quella volta.
Hwoarang avrebbe battuto Jin, finalmente.
Il pensiero di prendere a calci in culo Kazama fece spuntare un sorriso soddisfatto sul suo viso e lo rese ancora più sfacciato, se possibile. Sfoggiando la sua migliore faccia tosta, fermò un uomo sbattendogli in faccia l'indirizzo e chiedendogli informazioni in un terribile e maccheronico giapponese. Non sarebbe certo stata la barriera linguistica a impedirgli di scontrarsi con Kazama.
Ora, però… Come superare la barriera denaro?
Alla biglietteria gli dissero che l'unico modo per recarsi ad Asakusa gratis era a piedi e quindi Hwoarang fu costretto a sacrificare gli ultimi yen rimasti per la giusta e nobile causa di rendere pan per focaccia a Kazama. Prendere la metro a Tokyo era faticoso quasi quanto un incontro del Tekken: il ragazzo si ritrovò a spintonare per guadagnarsi un centimetro nel vagone strapieno, il tutto mentre il suo cervello non ne voleva sapere di concentrarsi su quella lotta per lo spazio vitale ma continuava a mandargli immagini di Kazama sotto la doccia – beh, menomale che si lava.
Riuscì finalmente a respirare aria fresca, per così dire, e a stiracchiarsi quando uscì dalla metropolitana. Tre signore anziane stavano passeggiando lungo la strada, delle buste tra le mani nodose, i loro occhi ancora vispi adocchiarono subito il giovane bellimbusto che bighellonava davanti alla fermata della metro.
Nella sua innocenza, Hwoarang corse loro incontro per chiedere indicazioni, sventolando il biglietto di Kazama; invece, si trovò a trasportare le pesanti buste della spesa fino a casa delle signore che lo incoraggiavano con dei colpi della mano.
«Dopo questa sfacchinata, Kazama me lo dovreste portare fino a Seoul» si lamentò Hwoarang in coreano, posando l'ultima busta sull'uscio della porta. Affannando, si guardò intorno: altre signore anziane ticchettavano lungo le stradine, alcune in silenzio, altre chiacchierando, ma tutte rigorosamente con delle buste in mano; una rovistò nel bottino e rivelò cautamente, come se fosse un tesoro, un filo di stoffa rossa: intimo! Hwoarang distolse lo sguardo, vagamente imbarazzato. È il quartiere Harajuku delle nonne!
«Porta bene, porta bene!» commentò la signora – che aveva notato la scenetta – piazzandogli tra le mani dell'intimo maschile di un rosso ancora più brillante di quello dei suoi capelli e costringendo ad accettarlo. «L'avevo comprato per mio nipote ma prendilo tu. Porta bene!» insistette davanti ai vani tentativi di Hwoarang di restituirle il pacchetto incriminato.
«Accettalo» disse una voce che Hwoarang aveva imparato a conoscere con dolore. Chiuse gli occhi, traendo un respiro profondo: il suo corpo, ormai una macchina impazzita, non la smetteva di sudare e schioccare ovunque.
Non è possibile.
Come in un film dell'orrore – o una commedia di pessimo gusto – il ragazzo si voltò per incontrare il suo rivale sull'uscio della porta affianco alla casina dell'anziana signora. Con quel tempio – Sen… Sen qualcosa – che si stagliava alle sue spalle in lontananza, Jin Kazama pareva uscito direttamente da un fottutissimo film sugli imperatori dell'antico Giappone. Hwoarang restò immobile, imbambolato sia da quella visione che dall'imbarazzo, in mano l'intimo rosso, a osservarlo senza proferire parola.
Gli occhi vispi dell'anziana passarono dal suo volto a quello di Jin, vi lessero qualcosa e si incresparono di rughe. Batté la mano sulla scatolina incriminata. «Mettilo, scaccia il male!» suggerì un'ultima volta prima di rintanarsi nella sua casa.
Jin s'inchinò e Hwoarang si affrettò a imitarlo.
«Hai ricevuto il mio biglietto» disse Jin, guardandolo dritto negli occhi mentre con un cenno lo invitava a entrare in casa. Hwoarang distolse velocemente lo sguardo, tentennò sull'uscio prima di decidersi a seguirlo. Gettò un'occhiata al monolocale: era spoglio ma ordinato. Kazama non lasciava mutande in giro. A dir il vero, quella stanza sarebbe potuta appartenere a chiunque: Jin non aveva lasciato impronte, testimonianze della sua presenza, il che lasciava presupporre che si fosse trasferito lì da poco.
«Ero sicuro che avresti voluto una rivincita!» sbottò, incrociando le braccia al petto. In realtà, era Hwoarang stesso a desiderare un'occasione per provare a Kazama quanto il risultato di quell'incontro, che aveva determinato la sua squalifica dal Torneo, fosse stato solo un caso.
Kazama, ovviamente, non abboccò. Nei suoi occhi ambrati balenò solo una luce divertita che si spense immediatamente, un angolo delle sue labbra accennò un sorriso così fugace che se Hwoarang avesse battuto ciglio non l'avrebbe colto.
«Sì. Credo sia giusto così» furono invece le sue parole molto neutrali.
Kazama dominava bene le fiamme che ardevano nelle sue vene e, se da un lato ciò spingeva Hwoarang a fare altrettanto per dimostrare di essere migliore di lui, dall'altro lo infervorava ancora di più. D'altra parte, il ghiaccio, paradossalmente, brucia quanto e più del fuoco.
E Hwoarang era sempre stato una testa calda.
Lasciò cadere il pacchetto rosso.
«Esatto! Allora bando alle ciance, coglione! Ho proprio voglia di spaccarti quel bel faccino da privilegiato. Bello crescere nella villa Mishima, eh?» urlò perché, in fondo, anche lui sapeva dosare le parole e trasformarle in armi affilate. Solo che non si aspettava che l'espressione addolorata che velò per un istante gli occhi di Jin avrebbe fatto molto più male di una coltellata.
«Non abito più con Heihachi, come puoi vedere» rispose laconicamente.
Nonostante se lo fosse aspettato, Hwoarang restò spiazzato. «Perché?» chiese, sospettoso, gironzolando fino al frigo. «Nemmeno una birra? Che noia terribile sei.» commentò, scandagliando i piani del frigo alla ricerca di qualche schifezza per riempirsi la pancia – in fondo, quel viaggio gli era costato il pranzo.
«Se hai fame, ho del petto di pollo» eluse abilmente la domanda Jin.
Hwoarang poteva sentire i passi del ragazzo alle sue spalle, lo strisciare della sedia sul pavimento e improvvisamente realizzò di essere solo con lui in un luogo privato per la prima volta da quando lo aveva conosciuto. L'aria gelida che alitava l'interno del frigo fu un sollievo per le sue guance in fiamme. Deglutì. «In fissa con la linea, vedo. E non mi hai detto perché te ne sei andato da casa del vecchio» riuscì a gracchiare.
Passò qualche secondo prima che la voce di Jin riempisse il silenzio. «Avevo bisogno di trovare i miei spazi.»
Una risata amara sgorgò dalla gola di Hwoarang. «I miei spazi…» lo canzonò. «Oh, ramen coreani… L'unico assaggio di Corea che avrai mai nella vita» dichiarò, voltandosi verso Jin per agitare ironicamente il barattolo.
Ma poi si rese conto di come suonasse la frase e il suo ghigno si spezzò. Davanti alla sua espressione confusa e imbarazzata, Jin si lasciò sfuggire un sorriso: non un sorriso derisorio bensì uno dolce, quasi come se fosse consapevole quanto e più di lui di tutto ciò che si nascondeva dietro quella frase e, per questo, ne era intenerito.
E fu proprio quello a far perdere le staffe a Hwoarang.
«Cazzo ridi, stronzo? Ti diverti a prenderti gioco di me, eh? Credi di essere migliore di me?» sbraitò, allargando le braccia.
Jin restò fermo, seduto. «Non ho mai riso di te, Hwoarang.»
Il suo nome scivolò tra quelle labbra lisce come una melodia. Le gambe del coreano divennero molli, il sangue sembrava ormai essergli defluito dalla testa.
«Sì, invece! Da quando mi hai visto a quel raduno, un anno fa! Te ne stavi lì, con la tua aria altolocata snob: "Ah, che schifo questi sfigati!" Mi guardasti dall'alto in basso, me, i miei vestiti consumati e il mio accento straniero. Tu, tutto vestito per benino, nemmeno un livido, profumato di bagnoschiuma, mi disprezzavi solo perché non ero alla tua altezza. E ieri hai confermato la tua idea di superiorità: mi hai buttato fuori dal Torneo. Voglio ucciderti, Kazama. Non ho mai odiato qualcuno come odio te» finì il suo sfogo quasi sibilando, scandendo le parole affinché il veleno si distillasse a dovere e penetrasse nella pelle di Jin.
Restò fermo e ansimante, in mano ancora il barattolo di ramen, il dito accusatore puntato verso Jin – la causa di tutti i suoi mali, di ogni suo dolore e problema.
Jin sbatté le ciglia, stoico. «E allora uccidimi, Hwoarang» sussurrò in un soffio di voce appena udibile.
Quella frase avrebbe dovuto essere musica per le sue orecchie eppure non era quello l'invito che una parte di Hwoarang desiderava. Ed era proprio quella parte che voleva mettere a tacere.
E così, quasi come seguendo le battute di uno squallido copione da teatrino, piegò un angolo della sua bocca all'insù. «Con piacere, Kazama» annunciò, prima di fiondarsi su di lui.

  
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