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Autore: _Woodhouse_    20/01/2020    1 recensioni
❝Lo osservò dormire, sfiorando di tanto in tanto le linee insidiose delle sue costole, incastrata negli occhi di un altro, nel ricordo del suo respiro, affogata, vittima masochista del piacere che le procurava il ricordo della tensione che si librava fra i loro corpi e della complicità che aveva avvertito, mentendo insieme a lui, due volte e senza ragioni.❞
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 22.
Parte II




What a wicked game you played to make me feel this way.
What a wicked thing to do to let me dream of you.
What a wicked thing to say you never felt this way.
What a wicked thing to do to make me dream of you.

(Wicked Game, Chris Isaak)



Stava tremando.
Fissava quella porta di legno scuro, mentre sentiva la pelle formicolare e il respiro ottunderle i sensi, farsi una bolla invisibile. Era corsa lì, senza riflettere, in preda alla furia e ad una febbre incontrollabile che le aveva reso impossibile valutare cosa era o non era giusto fare. Si era sentita sfidata, oltraggiata, ferita, provocata oltre ogni sopportazione. Lei che non aveva mai nemmeno alzato la voce, che non aveva mai odiato nessuno al mondo se non se stessa, adesso era di fronte ad una porta chiusa, dopo aver corso, preso un taxi, salito a piedi rampe di scale mossa soltanto da una rabbia cieca che immaginò dovesse essere odio o qualcosa che gli si avvicinasse pericolosamente.
Adesso, però, si sentiva svuotata, scarica. Quella semplice porta le pareva intoccabile ed invalicabile, una mostruosità in grado di lanciare palle di fuoco se solo lei avesse mosso un altro passo. Oltre all’energia distruttiva che l’aveva condotta lì alla stregua di un incantesimo, anche le parole si erano esaurite. Aveva sentito chiaramente ogni insulto e accusa rimbombarle in testa, aveva sentito persino il tono in cui li avrebbe pronunciati ed era stata sul punto di ripeterli in taxi all’autista, come prima di un’audizione, stretta nella paura di dimenticare quella frase o quel gesto particolare che credeva le avrebbero regalato un’indicibile soddisfazione, un immenso senso di potere una volta che li avesse sentiti abbattersi su di lui, James.
Ora, invece, aveva dimenticato tutto. Sentiva chiaramente soltanto l’eco assordante del proprio respiro, il sudore che le schiacciava i capelli sulle tempie. Dalla tromba delle scale soffiavano spifferi d’aria gelida e dalla finestra opaca sul pianerottolo penetrava la luce gialla della luna, quella notte, immensa. Si rese conto di non aver prestato attenzione nemmeno a che ora fosse, a quanto tardi fosse, a quanto inopportuno si stava rivelando, ad ogni secondo, quel suo slancio. Parlare per telefono con James, si era rivelato – oltre che strano e inaspettatamente intimo – impossibile e snervante, molto più di quanto non fosse parlare con lui di persona. Avrebbe certamente potuto lasciar sbollire il nervosismo, quell’ondata di frustrazione che lui le aveva scagliato addosso, e aspettare un altro momento per pretendere da lui una spiegazione. Invece non ci era riuscita, ad aspettare. In realtà, l’idea di aspettare non l’aveva nemmeno sfiorata, perché era stanca e aveva la sensazione di aver aspettato non sapeva bene cosa per una quantità scandalosa di tempo. Solo adesso, mentre si stringeva come un’ossessa ai lembi del cardigan e si malediceva per aver indossato i jeans che sembravano soffocarle la pelle, capì di aver commesso un errore. Un errore a cui però avrebbe potuto rimediare non bussando mai a quella porta e girando i tacchi.
Tuttavia, rimase lì, pietrificata. La luce del pianerottolo si era spenta in automatico, all’improvviso e Jo si sentì senza appigli, avvolta dal buio, dagli spifferi, il sudore ormai freddo che le si addensava sulla schiena. Era terrorizzata, atterrita dalla possibilità che lui la umiliasse e al tempo stesso non riusciva a convincersi ad andarsene, abbandonando così i propositi che l’avevano portata alla sua porta. Se solo lui se ne fosse tornato a St. Albans quella stessa sera, le cose non sarebbero andate in quel modo e la distanza le avrebbe garantito il tempo e il modo per recuperare la calma e, di conseguenza, la lucidità. Inaspettatamente, un’indecifrabile sequela di rumori proveniente dall’appartamento, la raggiunse. I sensi di Jo si acuirono ed una delle sue mani, tremante, raggiunse la superficie liscia e fredda della porta. Lui era lì dietro, a pochi passi da lei, ignaro della sua presenza. Avrebbe voluto che ci fosse uno spiraglio o anche solo un foro minuscolo da cui osservarlo e studiarlo prima di affrontarlo. Ma con che coraggio gli sarebbe comparsa davanti? Con che forza avrebbe potuto argomentare e dare una giustificazione a quello che provava? Lui avrebbe riso di lei, l’avrebbe certamente ridicolizzata e lei non avrebbe saputo porre la resistenza richiesta, preda ingenua nella tana di un lupo tra i più feroci. Era certa che lui non le avrebbe mai dato alcuna spiegazione per quella visita al suo appartamento e non respirava, quello sì, al pensiero che lui le desse la risposta che temeva di più. Se lui era stato lì nient’altro che per Polly, con che armi avrebbe potuto difendersi, lei che era lì, da lui, nient’altro che per?
Doveva andarsene.

***


Gli aveva ammazzato il sonno, Josephine. Lei faceva sempre qualcosa di incomprensibile ed inaspettato e lui, dietro quel qualcosa, ci perdeva ogni volta il sonno e la sanità mentale. Era per questo che, bloccato sottosopra, avevo simulato interesse di fronte alla tv, per poi spegnerla; era per questo che aveva inviato sms che non avrebbe dovuto e ora fissava il laptop come in trance, lasciando che i nomi dei creditori gli sfilassero di fronte come formiche. Aveva fatto una doccia calda che avrebbe dovuto sciogliere la tensione e la stanchezza che gli costringevano i muscoli, mentre in realtà era servita soltanto a lavare via ogni traccia di sonno che avesse ancora in corpo. In quel momento avrebbe potuto girare Londra a piedi o scalare un paio di montagne, per quel che ne sapeva. E probabilmente, non sarebbe bastato. Era dolorosamente consapevole del fatto che l’unica cosa che avrebbe potuto spegnere quella smania, quell’energia, quello strano senso d’attesa era la stessa cosa che l’alimentava e da cui, lo sapeva, doveva rimanere lontano. Perché non poteva semplicemente chiederle della sua vita? Pretendere delle spiegazioni in quanto cognato, fratello del fidanzato o semplicemente da uomo che le moriva dietro? Per quanto il pensiero gli desse il voltastomaco, era così che si sentiva. Come uno di quelli che aveva sempre trovato patetici, ridicoli, succubi mediocri degli umori di una donna. A dargli conforto era la consapevolezza di esserne ossessionato per motivi che poco avevano a che fare con la passione. E’ vero, quando l’aveva vicina gli sembrava di non potersi impedire di toccarla, ma l’attrazione per una donna non era un ostacolo insuperabile, chiunque lei fosse. Il vero problema era che lei aveva portato caos e menzogna nella sua vita e in quella di Robb e, se per se stesso poteva vantare una corazza infrangibile, per il fratello, con il suo ostinato innamoramento, non poteva fare lo stesso.

Quando bussarono alla porta, James si sorprese della tempestività con cui quello che aveva reclamato per sé solo qualche minuto prima gli veniva finalmente in soccorso. Non aveva mai fatto niente del genere, non aveva mai preteso un palliativo, non aveva mai estorto la pace e il buio se non a se stesso, ma era da troppo che non dormiva bene, ed era da quello che gli pareva un secolo che aspettava. Aspettava senza tregua e non sapeva nemmeno cosa.
Quando Josephine gli apparì davanti, simile ad un fantasma temuto e inafferrabile, James fu tentato di chiuderle la porta in faccia, sicuro che se l’avesse riaperta, lei sarebbe sparita lasciandosi dietro soltanto uno sbuffo di fumo. Ma lei era lì, concreta, in carne e fiato. I suoi occhi scuri e liquidi sembravano immensi mentre lo fissavano.

– Jo?
Il suo nome gli venne fuori strangolato e stranamente mozzo. Lei lo notò: lui non aveva mai usato diminutivi con lei.
– Mi lasci sulla porta?
– Entra.
Jo fece un passo in avanti e venne come risucchiata dalla penombra e dalle pareti spoglie dell’appartamento di James. Intorno a lei troneggiavano pochi ed essenziali mobili massicci, scuri, dall’aria antiquata. In lontananza, contro il muro, stava una grande lampada la cui luce bagnava il profilo di James, i suoi capelli umidi, le braccia lasciate scoperte da una t-shirt scura, dal colore indecifrabile. Lui la fissava con un misto di sospetto e sorpresa nello sguardo, le labbra serrate, prive dell’abituale ironia.
Rimasero in silenzio per qualche istante, incapaci di gestire la situazione. Poi Jo schioccò la lingua e mutò lo sguardo serio in uno spietato.
– Ti chiederai perché sono qui.

James piegò leggermente le labbra.
– Se me lo chiedo…
– Ecco. Questo mi fa incazzare di più.
La voce di Jo esplose, tremante, scevra del solito placido gelo.
– Sei qui per quella storia del tuo appartamento?
– Certo.
– Ma non mi dire.

James si concesse di lanciare un’occhiata sui fianchi di Josephine, prima di quel momento sempre nascosti dagli abiti morbidi, da bimba. Adesso le fasciavano le cosce un paio di jeans aderenti, alti fino alla vita esile, stretti al punto che per la prima volta si rese conto di quanto sinuose fossero le sue curve. Josephine notò il modo in cui lo sguardo di James aveva indugiato sul suo abbigliamento e si pentì per l’ennesima volta di aver indossato quell’indumento che odiava, presa com’era dalla fretta. Istintivamente si strinse nel cardigan e sbottò.
– Sfotti, anche?
James la guardò finalmente negli occhi con la proverbiale espressione di dileggio che soleva dedicarle.
– Ne stai facendo un dramma. Arrivare fin qui, per giunta?
Mise le mani in tasca, l’aria disinvolta di chi trova noioso qualcosa o qualcuno. Jo si sentì bruciare di rabbia e scoprì che questa non si era esaurita, si era soltanto nascosta, fumando inosservata sotto la brace dell’imbarazzo. Gli si avvicinò, scattando in avanti. James la guardò divertito.
– Che sei venuto a fare a casa mia? Mi devi una spiegazione.
– Non devo niente a nessuno. Sbagli atteggiamento, come sempre.
Josephine fu sul punto di perdere la pazienza. Solo lui riusciva a farle ribollire il sangue a quel modo e questo la privava della solita forza retorica di cui si era sempre creduta detentrice.
– Cosa dovrei fare? Miagolare? Mostrare i miei ossequi?
James sbuffò con aria beffarda.
– Basterebbe un tono, come dire… cordiale. Saluti, domande. Esempio: come stai, James? Che arredamento sofisticato e blabla. Basterebbe che tu fossi meno tu e più un’altra. Una normale, tipo.

Josephine tossì una risata isterica.
– Allora, vediamo, se è solo questo, perché – cordialmente – non mi esponete le ragioni per cui siete passato nel mio appartamento quest’oggi, messere?
Lui le rivolse una smorfia di rassegnazione.
– Non ce la fai proprio. Ho detto che dovresti comportarti con gentilezza, non sfottere.
Come se lei fosse invisibile, le sfilò accanto e si diresse verso la camera da letto per recuperare una sigaretta. Quando fece ritorno ritorno con disinvoltura ostentata, Josephine perse il controllo di se stessa e con uno schiaffo colpì la mano di James, gettando per terra la sigaretta spenta.
Lui guardò prima la mano d’un tratto vuota, poi lei, con lentezza e con gli occhi buii, neri di rabbia.
Fu sul punto di ricoprirla di cattiverie, ma lei lo anticipò.
– Mi hai stancato, mi hanno stancato i tuoi giochi, i tuoi enigmi da quattro soldi. Mi ha stancato il tuo sarcasmo, il tuo sorrisetto saccente, la tua faccia arrogante. Non mi hai mai degnato di cortesia e l’hai sempre pretesa. Nemmeno mi conoscevi e già mi odiavi, lo sentivo, lo sento ancora. Pensavo che dopo il compleanno di Sierra avremmo potuto trovare un equilibrio, pensavo ci capissimo in qualche modo, pensavo che tu fossi normale, sotto sotto, e invece mi sono sbagliata. Sei cattivo, non te ne frega niente di nessuno, mi metti i libri in borsa, mi tocchi i capelli e fai stronzate che non capisco. Vieni nel mio appartamento mentre io non ci sono, metti Polly in difficoltà, menti e inventi storie su Robb che ti dice di fare questo e quello. Dio, merito di sapere cosa vuoi da me esattamente?
Gli aveva rovesciato addosso troppo e troppo in fretta, senza prendersi il tempo di riflettere. Dell’impeccabile discorso che aveva preparato in taxi, nel suo sfogo confuso, non c’era traccia. Si morse le labbra e attese con gli occhi in fiamme. Attese che lui reagisse, che finalmente rispondesse anche ad una sola delle sue domande. Lui, invece, si limitava a fissarla, gli occhi curiosi, rapaci, l’aria concentrata. Con un piede pestò la sigaretta abbandonata sul pavimento, senza smettere di scrutare Josephine.
– Hai ragione.
Josephine pensò di aver sentito male, ma attese, certa che lui le avrebbe teso l’ennesimo trabocchetto.
– Hai ragione su tutto, tranne sul fatto che non me ne frega niente di nessuno.
Il suo tono era basso, grave; il volto serio, l’aria di uno che cerchi di pescare un pensiero.
– Mi frega molto della mia famiglia, di Robb. Mi frega se una come te viene a dare fastidio. Mi frega se tu lo incanti e lo rendi un idiota incapace di vedere che lo tratti come una dama di compagnia.
– Ma come ti-
– Non è che ti odio. E’ che ti ho capita con uno sguardo.
– Sei un visionario.
Sputò lei.
– E tu sei finta. Mi avevi ingannato quella notte, al compleanno di Sierra. Non volevo dirtelo, ma dato che tiri in mezzo quella sera, mi vedo costretto.
Lui abbozzò un sogghigno amaro. Si guardavano senza sosta, studiandosi come gladiatori.
– Ingannato?
– Sì, con quella favola sull’amore, la poesia e il resto. Ho pensato che forse, sotto sotto, fossi una ragazza quasi dolce, con cui poter aver un dialogo e magari familiarizzare. Invece mi sbagliavo.
– Sei tu che hai ripreso a provocarmi, fingendo che quella specie di conversazione “normale” non fosse mai avvenuta! Non ci hai dato una sola possibilità!
– Fingi di non ricordare, non è vero?
Lui la scrutò con una serietà mortale nello sguardo. Jo ebbe l’impressione che lui volesse vederla disintegrarsi ai suoi piedi.
– Di che stai parlando?
Gli occhi di James avevano perso l’abituale ombra di sarcasmo e sembravano sul punto di scagliarle addosso tizzoni ardenti.
– Sto parlando di te che cercavi di commuovermi. – Le si avvicinò spinto dall’energia che gli dava, finalmente, sputarle addosso tutto quello che non era riuscito a dirle quella volta al lago e altre volte ancora. – Sto parlando di te che mentre mi parlavi di quanto volessi essere amata totalmente, ti aggrappavi alla mia camicia. Sto parlando di te che mi annusavi come se io non fossi lì, guardandomi come dovresti guardare Robb, come una donna non dovrebbe guardare… uno come me. Suo cognato o quello che è.

A quelle parole, Jo, si sentì impallidire. James la guardava con aria arrogante e cattiva, come se le stesse elencando la lista dei suoi peccati peggiori prima di mandarla al rogo.
– Che stai dicendo? Ero ubriaca, è probabile che non fossi nemmeno consapevole che si trattasse di te!
– Come al Limbo, no?
Josephine accolse la stilettata con un lento battito di ciglia: se l’aspettava.
– Un’altra volta con questa storia?

- Sei tu che hai preteso risposte. Sei tu quella che mi pregava di non lasciarla e di lasciare che annusassi la mia camicia.
– Mettiamo anche il caso che questa cosa sia accaduta. Ero ubriaca.
– E allora perché non sei andata a molestare il tuo innamorato, invece di torturare me, il tuo terribile nemico, il tuo odioso cognato? Non è così che fanno le persone sbronze? Non vanno forse ad importunare il malcapitato per cui hanno una cotta?
Lo sguardo di James la sfidava apertamente, carico di una furia che cozzava con l’espressione severa e compassata del volto. Erano vicinissimi e le cose che James le stava dicendo stridevano, ferivano, lasciavano senza fiato. Josephine ebbe pena di se stessa per tutte le volte che aveva creduto che lui volesse sedurla. Lui non era mai stato attratto da lei: adesso lo sapeva e capirlo le fece male in punti del corpo che non era sicura di conoscere. Era lei che aveva perso la testa per lui, era lei che lo voleva al punto di confondersi e credere che anche lui, a modo suo, la volesse. Cosa se ne faceva adesso delle spiegazioni? Cosa importava del libro di poesie? Quello, capì, doveva essere un modo per smascherarla, per estorcerle, forse, una confessione.
– Fossi stato un altro, avrei raccontato tutto a Robb e credimi se ti dico che mi avrebbe dato retta.
James la osservava, studiava le sue reazioni e sentì la rabbia montargli dentro con maggiore impeto, quando si accorse che lei rimaneva in silenzio, assente, come faceva sempre.
– Perché non glielo hai detto subito, allora? Volevi sbarazzarti da me, hai detto. Se lui ti avesse creduto la tua missione si sarebbe compiuta gloriosamente.
La voce di Josephine, il suo sguardo, la calma con cui aveva ripreso a respirare lo stranirono. Si sentiva inquieto e sentiva di aver detto troppo e non nel modo che avrebbe voluto. Si limitò a scoccarle un’occhiata sarcastica, mentre nel frattempo cercava di trovare una risposta alla domanda astuta di Josephine. Avrebbe dovuto prevederla, ma come sempre, di fronte a lei, i suoi riflessi rallentavano. Era complicato, se non impossibile risponderle. Non poteva certamente dirle che l’idea di raccontarlo a Robb non gli era balenata nemmeno, che voleva soltanto continuare ad osservarla, per capirla, per sapere se la donna di quella sera, sulla balconata, si sarebbe mai ripresentata. Aveva atteso con ferocia, con i sensi obnubilati che lei gli si abbandonasse tra le braccia proprio come quella sera d’estate, che gli arpionasse di nuovo la camicia, che gli chiedesse di più, una volta di più, senza alcol in corpo, stavolta. Ma lei non aveva mai più dato segni di cedimento, tranne quell’unica volta al Limbo, ancora una volta ubriaca e per di più convinta che si trattasse di un altro uomo. Aveva cercato di confonderla, di vederla inciampare, capitolare su di lui e aveva creduto fosse sul punto di farlo, in biblioteca. Gli serviva la certezza che lei lo volesse davvero, come l’aveva voluta lui, quella stessa sera, a quel compleanno. Mentre lei gli si stringeva contro e lo pregava di lasciarle inghiottire il suo profumo, lui se l’era stretta contro con troppo forza; e mentre le sussurrava all’orecchio che l’avrebbe riportata da Robb, aveva lasciato che le sue labbra le sfiorassero distrattamente i capelli e che le mani, traditrici, le carezzassero il collo scoperto, la nuca. Ma lei non l’aveva più guardato in quel modo, non gli aveva più parlato di poesia con la stessa intimità e lo stesso ardore. Lei, quella donna, era perduta. Per lui, almeno. Fu per questo, corroso da questa consapevolezza, che la guardò con tutta la protervia di cui era capace.
– Per non ferirlo e per prendermi gioco di te.
Jo gli sorrise in modo inconsueto, quasi dolcemente.
– Anch’io non gli dirò mai del libro di poesie e della tua ossessione per i miei capelli, tranquillo. Lo faccio per non ferirlo, per non dargli la pena di avere un fratello che pur di saziare le sue strane perversioni costruite su giochi di potere inutili ed infantili, si diverte a prendersi gioco della sua fidanzata. Siamo pari, che dici?
– Neanche lontanamente.
James sfilò dalla tasca un’altra sigaretta ed evitò scientemente di guardare Josephine. Sentiva lo sguardo di lei con un’intensità insopportabile. Insopportabile come le parole che lei gli aveva rivolto.
– Già. Devi ancora spiegarmi questa storia del mio appartamento.
– Ne sei ossessionata.
– Senti, sai che ti dico? Non me ne importa niente, davvero.
James le soffiò addosso una nuvola di fumo e lei storse il naso, scoccandogli un’occhiata torva.
– Me ne vado.
Jo fece per voltarsi, ma lui si schiarì la voce e le si avvicinò.
– Ero lì per Polly, ci vuole tanto a capirlo?
– Prevedibile, – disse Jo, secca e derisoria.
– Ormai mi conosci, allora.

Dalla bocca le uscì un lamento strozzato, una specie di risatina sommessa. James la vide voltarsi con le mani infilate nelle maniche del cardigan, sentì il suo profumo sfumare e si sentì schiacciato dall’entità delle cose che si erano detti, dal modo in cui lei non aveva reagito, dal modo in cui se ne andava e, soprattutto, semplicemente perché lei se ne andava. Avrebbe voluto ubriacarla, magari drogarla e garantirsi l’occasione di toccarla, ma non gli sarebbe bastato comunque. Aveva preferito rifilarle la scusa di Polly, quella che teneva in serbo per un’occasione come questa, piuttosto che dirle di quella fotografia che in quel momento gli pareva l’unico modo – discutibile, lo sapeva - per tenerla in pugno. Per tenerla e basta.

Lei si richiuse la porta alle spalle, confusa, tramortita dalla consapevolezza che era la sola a combattere una battaglia persa in partenza, inconsapevole che da qualche parte, in camera di James, si nascondeva il suo nastro preferito, quello color malva e coi bordi di sangallo. Discese le scale lentamente, assorbita da se stessa, e forse fu per questo che notò a stento la donna dai capelli rossi che le sfilò accanto.

 
   
 
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