Fumetti/Cartoni americani > Avatar
Ricorda la storia  |      
Autore: Shireith    26/01/2020    2 recensioni
Sokka, esperto conoscitore di tutto ciò che riguarda la sfera femminile, commette il grave errore di sottovalutare sua sorella.
In uno spaccato di vita ambientato ai giorni nostri, Zuko serve tè, zio Iroh cerca di rifilargli qualche ragazza, e Katara accarezza l’idea di un fratricidio.
(Zuko/Katara, Sokka/Suki | AU, modern!AU)
Storia partecipante al contest “Fic incompiute: rispolveriamo i nostri vecchi lavori!” indetto da Maiko_chan sul forum di EFP.
Genere: Commedia, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Iroh, Katara, Sokka, Suki, Zuko | Coppie: Suki/Sokka
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
L’amore è nell’aria – e presto ci finirà anche Sokka


  Katara non aveva mai capito perché Sokka frequentasse quel posto. Quando gliene aveva fatto menzione per la prima volta, raccontando più nel dettaglio in cosa consistesse, aveva pensato a uno scherzo – aveva sempre creduto, d’altronde, che suo fratello possedesse un umorismo di dubbia qualità. Ora che si trovava sul posto, comunque, il suo scetticismo era aumentato.
Jasmine Dragon – così si chiamava il locale. Era una modesta sala da tè decorata in stile orientale, benché Katara non sapesse dire nello specifico a quale zona dell’Asia potesse far riferimento, e l’interno consisteva in un ampio salotto quadrato punteggiato di tavoli rotondi e sedie in legno. Al centro, nell’area che andava dall’entrata al bancone, era disposto un lungo tappeto verde scuro su cui spiccavano due sagome di drago dipinte di giallo. Dal soffitto in legno pendevano varie lanterne anch’esse in stile orientale, e facendo viaggiare lo sguardo qua e là si potevano incontrare diverse piante e piantine.
  Non era un brutto luogo da frequentare, rifletté Katara tra sé. Anzi, tutto l’opposto: era tranquillo e accogliente. Eppure, nel complesso, si presentava come un… locale per vecchi – ecco, l’aveva pensato. Sì, sembrava proprio un luogo di ritrovo per anziani signori e signore le cui massime aspirazioni di vita potevano consistere nel vincere al bingo o a una partita a bocce. Soprattutto, suo fratello era sempre stato un tipo allegro, energico e anche un po’ rumoroso: perché, dunque, nel giro degli ultimi due mesi, Sokka non aveva fatto che recarsi lì ogni volta che se ne presentava l’occasione? Che cosa ci trovava? Non era un locale moderno – sapevano che cos’era il Wi-Fi? O comunicavano tramite fax? –, né era possibile che delle band locali si esibissero lì come capitava in bar frequentati da una clientela più giovanile.
  Senza che niente di quello che la circondava potesse suggerire una qualsiasi risposta alle sue perplessità, Katara avanzò. Oltrepassò i tavoli a cui erano seduti clienti che superavano la sessantina – per l’appunto – e si trovò al bancone.
  «Ciao», salutò allegramente una voce maschile dall’altra parte.
  Katara lo osservò. Era un ragazzo molto giovane, che non poteva avere più di sedici o diciassette anni. I capelli scuri gli ricadevano in ciuffi disordinati sulla fronte, le iridi sembravano quasi tendenti al giallo, ma quello che catturò l’attenzione di Katara fu una cicatrice che figurava sulla parte sinistra del suo volto, in prossimità dell’occhio. Katara sapeva quanto fosse maleducato e di cattivo gusto fissare le persone, specie se lo sguardo era posato su una ferita tanto evidente che poteva mettere a disagio chiunque la portasse. Perciò, dopo qualche secondo passato a osservarlo senza proferire parola, scosse la testa e tornò in sé. «Ciao», disse a sua volta, pregando che il ragazzo non l’avesse giudicata troppo aspramente per quell’inizio.
  Forse le sue speranze non erano mal riposte, perché lui le rivolse un sorriso e chiese disinvolto: «Che cosa vuoi ordinare?»
  «Ehm, niente», ribatté. «In realtà, sono qui perché sto cercando mio fratello. Si chiama Sokka, lo conosci?»
  «Oh!» esclamò lui dopo averla squadrata con maggiore attenzione, come se in Katara riconoscesse solo ora un volto familiare. «Sei Katara, per caso?»
  «Sì», rispose semplicemente lei, diffidente. «Sì, sono io», ripeté, fissandolo in tralice come se si trovasse di fronte a qualche stalker. «Come sai il mio nome?»
  «Sokka parla spesso di te.»
  «Non credere a una parola di quello che dice sul mio conto.»
  Pur ridacchiando, non poté darle torto: Sokka aveva spesso descritto sua sorella con svariati epiteti, ma, a primo impatto, la Katara delle sue storie non sembrava coincidere con la persona che aveva di fronte – era una ragazza tanto carina e cortese!
  «Sono Zuko, comunque», si presentò, «e Sokka non c’è. Viene spesso qui, ma oggi non l’ho visto.»
  «Hai idea di dove possa essere?»
  «No», ammise Zuko, scuotendo la testa. «Forse è solo in ritardo. Vuoi aspettarlo qui?»
  «Mh, sì, dai», rispose Katara, considerando che fosse la scelta più ragionevole. Non la entusiasmava l’idea di aspettare Sokka in una sala da tè frequentata perlopiù da gente anziana, senza nemmeno sapere quanto si sarebbe effettivamente prolungata l’attesa, se dieci minuti o due ore, ma aveva forse qualche alternativa? Non sapeva in quali altri posti potesse scovarlo, e certo non aveva intenzione di girovagare alla cieca nella remota speranza di imbattersi casualmente in lui. Aveva già provato a chiamarlo più e più volte, ma non rispondeva nemmeno al telefono, quell’idiota! Si sarebbe sinceramente preoccupata, se solo non avesse conosciuto suo fratello abbastanza da sapere quanto fosse sconsiderato e distratto alle volte.
  Si presentò all’ingresso una signora bassina e anziana, in compagnia di un ragazzino – suo nipote, immaginò Katara – che aveva l’aria di qualcuno che avrebbe voluto trovarsi da tutt’altra parte. Zuko superò il bancone e li raggiunse, salutandoli e invitandoli a sedere a un tavolo, poi, prese le loro ordinazioni, tornò da Katara, che intanto si era accomodata su di uno sgabello. Lo vide oltrepassare una porta che probabilmente portava alle cucine e udì la sua voce dire: «Due tazze di tè verde, zio.» Infine, Zuko ricomparve.
  «È di tuo zio, questo posto?» domandò Katara, che finora aveva immaginato che Zuko lavorasse lì per racimolare qualche soldo.
  «Sì», confermò lui. «Mio zio adora il tè e ha addirittura trovato un modo per trasformare questa sua passione in un vero e proprio lavoro», aggiunse con un ampio sorriso.
  Katara annuì. «Senti, quanto bene conosci mio fratello?» indagò, osservandolo trafficare con alcune tazze sporche.
  Zuko sembrò pensarci un po’ su, prima di rispondere: «Abbastanza, direi. Non c’è molto da fare, qui, quando non ci sono clienti, e Sokka è di grande compagnia.»
  «Se lo dici tu», commentò Katara con un’evidente nota di sarcasmo. «Sai perché viene qui? Non mi sembra un posto molto da Sokka», aggiunse, scoccando un’occhiata a un signore con più rughe in faccia che capelli in testa che in quel momento sembrava trovare grandissima difficoltà nel complicato atto di alzarsi da una sedia.
  «Be’, dipende dai giorni», ribatté Zuko. «Oggi, per esempio, non mi sorprende non averlo visto. Il giovedì non c’è quasi mai, e se viene è più perché sa che ci sono pur sempre io.»
  Katara schiuse le labbra per domandare a cosa mai stesse alludendo, ma le parole non vennero a galla perché qualcuno l’aveva preceduta – una voce maschile, sicuramente adulta e più profonda di quella di Zuko, che aveva appena chiamato il nome del ragazzo. L’attimo dopo, dalla porta dietro cui era scomparso prima Zuko apparve un signore anziano dall’aria amichevole. Più basso di Zuko di forse una decina di centimetri, aveva una barba piuttosto folta e ben curata della stessa tonalità grigia dei capelli, che portava raccolti in un codino. Katara immaginò dovesse trattarsi dello zio di Zuko.
  Gli occhi arzilli dell’uomo scattarono su Katara e i lineamenti del suo volto si addolcirono in un ampio e benevolo sorriso. «È una tua amica, Zuko?» domandò, tornando a rivolgere lo sguardo al nipote.
  «Più o meno, sì», rispose lui. «È la sorella di Sokka, Katara. Katara, questo è mio zio Iroh, il proprietario del Jasmine Dragon
  Mentre zio Iroh si rivolgeva a Katara, Zuko sperò con tutto se stesso che non avanzasse nessun commento sconveniente. Non molto tempo prima, una ragazza, Jin, si era presentata al Jasmine Dragon in compagnia di sua nonna, e zio Iroh, in combutta con la donna stessa, aveva pensato fosse una buona idea cercare di organizzare un appuntamento tra i due giovani. Zuko aveva passato un buon pomeriggio in compagnia di Jin, e ogni tanto capitava che la ragazza si ripresentasse al locale, ma erano solo buoni amici.
  Tornò a guardare zio Iroh, immerso in una fitta conversazione con Katara, che non dava segno di ascoltarlo controvoglia e, anzi, gli parlava animatamente. Zio Iroh era sempre stato bravo con le persone, che fossero giovani o anziane, e per sua estrema fortuna non sembrava che avesse intenzione di azzardare commenti quali: «Ti andrebbe di uscire con mio nipote, uno di questi giorni?»

  Due ore dopo, non c’era ancora nessuna traccia di Sokka. Katara, che aveva pensato che si sarebbe annoiata da morire, avvertì appena il tempo che passava, e anzi si stupì un poco quando apprese che era quasi sera. Zuko era un ragazzo tranquillo, forse un po’ impacciato, ma era facile intavolare una conversazione se si sapeva di cosa parlare. Era, insomma, di buona compagnia.
  «Dovrei tornare a casa», annunciò Katara, scoccando un’occhiata all’orologio affisso al muro.
  «Chiudiamo tra mezz’ora», la informò Zuko. «Puoi aspettare qui fino ad allora, magari Sokka alla fine viene.»
  Decretando che una mezz’ora non avrebbe fatto la differenza, Katara accettò, benché dubitasse che suo fratello si sarebbe fatto vivo proprio all’ora di chiusura. Eppure, con sua sorpresa, così fu. Una decina di minuti dopo, infatti, Sokka varcò la soglia del Jasmine Dragon con aria molto allegra. In sua compagnia c’era una ragazza dai capelli a caschetto che Katara non aveva mai visto prima.
  «Sai chi è?» chiese rivolta a Zuko.
  «Suki», rispose lui. «Lavora qui anche lei, tranne che nel finesettimana e il giovedì, che è il suo giorno libero.»
  Katara rammentò le parole che Zuko aveva pronunciato qualche ora prima, qualcosa come: Be’, dipende dai giorni. Oggi, per esempio, non mi sorprende non averlo visto. Il giovedì non c’è quasi mai, e se viene è più perché sa che ci sono pur sempre io. Tutto le fu improvvisamente più chiaro. Ecco perché, si disse, a Sokka piaceva tanto quel posto.
  «Che grandissimo idiota», bofonchiò in tono disapprovatore, scuotendo appena la nuca.
  Zuko ridacchiò. «Gli piace molto, Suki», spiegò, osservando di soppiatto i diretti interessati, «ma non ha ancora trovato un modo per chiederle un appuntamento. Pensa ci voglia la scusa perfetta», aggiunse, citando le due stesse parole che Sokka aveva usato non molto tempo prima, una di quelle tante volte in cui si era erto a sommo conoscitore di tutto ciò che riguardava il sesso femminile. E Zuko, che di ragazze ne sapeva tanto quanto un sasso, si convinceva piuttosto facilmente di quello che Sokka millantava come verità assoluta. Probabilmente, solo il tempo gli avrebbe insegnato che non era ragionevole ascoltare tutto quello che usciva dalla bocca di Sokka. Il tempo, e forse anche una buona dose di pessime figure in cui sarebbe incappato se avesse continuato a seguire i suoi consigli.
  Come Zuko, Katara sbirciò in direzione di Sokka e Suki con la coda dell’occhio, cercando, nonostante la sua natura impicciona, di non dar troppo a vedere che moriva dalla voglia di saperne di più. Dal modo in cui Sokka parlava a Suki, dalle occhiate che le rivolgeva quando lei non guardava, Katara fu presto dell’idea che suo fratello fosse sinceramente innamorato di quella ragazza. D’altronde, si disse, se da un lato Sokka poteva sembrare superficiale e spaccone – un po’ lo era –, lei sapeva che aveva un grande cuore. Non gli servivano scuse perfette o macchinose elucubrazioni per conquistare Suki – doveva solo essere se stesso.
  Dopo un quarto d’ora, la fitta conversazione che aveva coinvolto i due ragazzi terminò. Suki si avvicinò al bancone, riferì qualcosa a Zuko circa l’aver accompagnato Sokka al Jasmine Dragon nonostante fosse il suo giorno libero, poi si rivolse a Katara e disse in tono gioviale: «Ciao, sono Suki. Sokka mi ha parlato molto di te – tutte cose belle.»
  Katara ne dubitava, ma si trattenne dal fare dell’ironia per non mettere a disagio Suki, che probabilmente non avrebbe voluto presentarsi alla sorella del ragazzo che le faceva la corte – e che lei sembrava ricambiare – dichiarando: «Sokka dice che sei logorroica, petulante e ficcanaso.» Al che, decisa a lasciar cadere la questione, Katara la salutò con lo stesso tono amichevole e le due si scambiarono qualche convenevole.
  Dopo cinque minuti scarsi, Suki si congedò. Nel farlo, scoccò un’occhiata molto eloquente a Zuko e Katara e trattenendo a stento un ampio sorriso esclamò: «Be’, ci vediamo sabato, allora!» Mentre usciva dal Jasmine Dragon, Zuko e Katara si scambiarono un’occhiata alquanto scettica: che cosa aveva voluto dire?
  Ma prima che uno dei due potesse aprir bocca a riguardo, Sokka fu loro vicino. «Vi siete conosciuti, voi due?» esordì in tono gaio. Era al settimo cielo. Il suo piano procedeva a gonfie vele, proprio come l’aveva congegnato. Non c’era niente che potesse andare storto…
  «Sokka, tu sai perché Suki ha detto che ci vedremo sabato?»
  Il sangue gli si raggelò nelle vene: non gli aveva forse promesso che avrebbe tenuto la bocca cucita, Suki?! Sokka guardò Katara, che aveva appena posto quella domanda con l’innocenza – e soprattutto la calma – di chi non sapeva, e lui avrebbe dato qualsiasi cosa per assicurarsi che le cose rimanessero tali. Fiutando il pericolo come un segugio, Sokka balbettò qualcosa di incomprensibile, una gocciolina di sudore freddo che già correva lungo la fronte. «Be’», riuscì a dire dopo un attimo, cercando disperatamente lo sguardo di Zuko in una prematura richiesta – supplica – di aiuto, «non è niente, davvero. Solo che… sì, insomma, ho pensato che Suki avrebbe accettato di uscire con me, se solo le avessi detto che era per un bene superiore.»
  Katara, che già sembrava intuire l’insorgere di una sgradevole confessione, allacciò le braccia al seno e gli scoccò un’occhiata feroce, le sopracciglia scure arcuate che le conferivano ulteriore minacciosità. «E quale sarebbe, questo bene superiore?»
  Sokka deglutì: non c’era via di fuga, doveva parlare. Via il dente, via il dolore – era così che si diceva, no? Anche se, probabilmente, sarebbe stato lui a rimetterci qualche dente, non appena avesse vuotato il sacco. «Le ho detto che Zuko ha una cotta per te, ma che non avrebbe mai trovato il coraggio di chiederti di uscire, a meno che un’altra coppia non vi avesse accompagnati. Prima che ti arrabbi, Katara…»
  Ma Katara, evidentemente, era già arrabbiata.
  Volò più di un insulto. La scena che ne seguì non era commentabile. Zuko, che vide Katara marciare a passo di carica verso Sokka con l’aria di una che non avrebbe lasciato correre, poté finalmente capire perché Sokka l’avesse in precedenza descritta con epiteti come «rompiscatole» e «facilmente irritabile». Arrossendo fino alla punta delle orecchie per quello che Sokka aveva detto su lui e Katara, pensò comunque che l’amico se lo fosse meritato. 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fumetti/Cartoni americani > Avatar / Vai alla pagina dell'autore: Shireith