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Autore: TheWolfWillEatMe    04/08/2009    0 recensioni
Era il solito giovedì mattina. La sigaretta mi scivolava dalla bocca e rimbalzava sul marciapiede, per poi tornare fra i miei denti anneriti dallo smog compresso dentro la sottile carta bianca che l'avvolgeva.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era il solito giovedì mattina.

La sigaretta mi scivolava dalla bocca e rimbalzava sul marciapiede, per poi tornare fra i miei denti anneriti dallo smog compresso dentro la sottile carta bianca che l'avvolgeva.

Cadeva  davvero lentamente, in modo quasi esacerbante.. però, però, questo mi permetteva di occupare quei cinque secondi di rimbalzo con un'azione utile. 

Infatti, quei fatidici quanto ripetitivi cinque secondi li passavo a lavorare, facendomi passare il fumo che espiravo fra le dita, manipolando e creando maschere bianche e evanescenti, fatte di polvere di denti.

Era un impiego molto impegnativo: questione di cinque secondi, dipendenti da mani necessariamente leste.

Bisognava aver fortuna per trovare gli acquirenti: dovevano vedere subito la scultura e pagarti appena dopo, se soddisfatti, anche perché, un millesimo di secondo dal termine della mia opera, quella si dileguava fra le molecole d'aria grassa e spessa.

Come dicevo, i clienti erano rari.

Quando la sigaretta terminava, spegnendosi al principio del filtro un po' annerito, io lo mandavo giù, masticandolo un pochino, gustandomi l'aroma di secco e bruciato.

Mi piaceva.

Certo, non era un lavoro salutare. 

I miei bronchi sussultavano giorno e notte, dando diretti al torace e alle costole giallicce. 

Non era un affare quell'impiego, proprio no.  

Però mi piaceva consumarmi i denti per qualcosa di così sfuggevole. 

Una cosa era certa: i miei clienti erano tutte persone rare, persone speciali. 

Era un lavoro zuccherino, mal retribuito e un po' auto-annientativo, ma era  il mio lavoro, il lavoro per cui avevo rinunciato a mucose e papille, il lavoro più dolceamaro del mondo... ma che dico? Dell'umanità. 

Ogni tanto, ma raramente, venivo scambiata per un posacenere, e qualcuno mi premeva col il tacco il piede – io per assecondarli aprivo la bocca- e mi schiacciava sulla lingua nera il mozzicone ardente. 

Lo trovavo divertente. Appagante.

Il giovedì mattina: c'era sempre lei, il giovedì mattina, alle sei meno un quarto.

Arrivava, si sedeva dall'altra parte della strada, sulla panchina, e mi guardava.

Era bellissima: aveva occhi marroni – marroni, non castani- e capelli dal colore slavato e insapore. 

Pelle rosea e sopracciglie dal disegno anonimo.

Le labbra erano difficilmente discernibili dato il disegno patetico, e le mani, uniche cose oltre ai piedi guantati dalle scarpe nere uscenti dal cappotto, distinguibili, erano storte e gracili, sgraziate e nodose. 

Il naso era piccolo, forse troppo, e una profonda ruga – unico suo particolare- le si disegnava fra le sopracciglia. 

Avrei voluto essere come lei. 

Così, così pateticamente scialba, trascurata e insipida. Così bella. 

Il giovedì mattina era unica.

Perché lei, lei era l'unica che comprava ogni mia scultura, ogni mia opera. 

Le comprava dal ciglio opposto della strada, pagandole a suon di sguardi e approfondimenti della ruga che le segnava la fronte. 

Era lei, ed era giovedì mattina.

Tutti gli altri giorni, erano solo giorni, tutti gli altri umani erano solo umani.

Lei era il Giovedì Mattina, e il Giovedì Mattina era Lei.


 

  
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