Il
fianco gli faceva un male cane, ma non si sarebbe fermato per nulla
al mondo. Continuò a correre, a mettere un piede davanti
all'altro
anche se ogni passo e ogni respiro erano sofferenza pura.
Sanguinava
copiosamente, lo sapeva, ma al momento non poteva importargliene
meno.
L'unica
cosa che importava a Michelangelo in quel momento era non perderla.
Non
poteva perderla.
Intravvide
il bagliore dei suoi capelli dorati di fronte a sé, ma i
suoi
rapitori stavano guadagnando velocità approfittando della
sua
ferita; lanciò l'unico nunchaku ormai rimastogli, sperando
di
rallentarli, ma colpì l'ultimo della fila e
attirò l'attenzione di
quello accanto, che accortosi di quanto fosse vicino si
gettò
immediatamente al suo attacco.
Michelangelo
alzò velocemente i pugni per difendersi, non si sarebbe
fatto
colpire. Non ancora.
Benché
la possibilità della trappola fosse stata messa in gioco fin
da
subito in quel folle piano, non era riuscito a reagire prontamente
quando ci si era trovato dentro; erano successe troppe cose tutte
assieme, era stato tutto così veloce: nel momento in cui
aveva
scoperto la presenza di Sam nel furgone qualcosa in cuor suo gli
aveva detto che non sarebbe andato tutto liscio.
Lei
si era intrufolata di nascosto, ed era stata davvero brava a non
farsi scoprire né da lui né da Isabel, ma alla
fine si era tradita
per non aver tolto la suoneria del cellulare e il trillo dei messaggi
quando Mikey le aveva scritto l'aveva messa allo scoperto.
Michelangelo
era di certo il meno assennato della famiglia, ma nell'istante in cui
l'aveva vista lì, rannicchiata dietro uno dei sedili
posteriori, si
era alzato per dirgliene quattro e possibilmente riportarla
immediatamente al sicuro nel rifugio.
Se
solo ne avesse avuto il tempo.
L'attacco
era stato preciso e fulmineo e brutale.
Non
sapeva nemmeno in quanti li avessero attaccati, erano tanti, gli
sportelli si erano aperti all'improvviso riversando all'interno del
furgone decine di corpi, piccoli e scattanti, feroci e guizzanti: li
avevano attaccati con facilità nello spazio stretto,
bloccando i
loro movimenti.
Samantha
si era battuta fieramente, distribuendo pugni e calci precisi e
potenti, colpendo tutto ciò che poteva, buttando
giù un paio di
quei mostri che sicuramente dovevano farle paura, anche se non lo
mostrava apertamente.
Forse
era più inorridita al pensiero che sua sorella una volta
potesse
essere stata come loro.
I
mutanti li avevano attaccati con i denti puntuti e coi lunghi artigli
affilati, una parte cercando di tramortire o bloccare lui, una parte
che già cercava di trascinare una restia Sam via dal furgone.
Aveva
sentito le sue grida irate, i morsi dei mutanti, lo spostamento dei
loro corpi mentre lo accerchiavano e il cuore battergli in petto a
mille battiti al minuto.
I
suoi nunchaku non avevano roteato mai più velocemente.
Era
riuscito a crearsi una lieve breccia e si era tuffato oltre i suoi
assalitori, in direzione del gruppo già in fuga, che ancora
cercava
di sedare la loro vittima.
Michelangelo
aveva lanciato il nunchaku destro contro il mutante che la teneva
stretta, colpendolo dritto in testa e Sam era caduta dalle sue
braccia quando quello era svenuto al suolo senza neppure un rantolo.
La ragazza si era rimessa in piedi in fretta, mentre i mostri si
erano voltati digrignando contro la minaccia, raggiunti in pochi
istanti anche dalla retrovia rimasta indietro, agguerriti anche loro.
Si
erano trovati accerchiati da ogni parte, separati da un paio di
mostri.
Forse,
si diceva Michelangelo, se fosse riuscito ad arrivare a lei e ad
afferrarla le cose sarebbero state diverse.
Invece,
con un solo nunchaku in mano contro una decina di nemici, si era
gettato in una lotta impari.
Sam
aveva combattuto a calci i mutanti più vicini, Michelangelo
aveva
colpito con stoccate fulminee quelli che riusciva a vedere, ma non
era abbastanza. Li pressavano da ogni angolo, li allontanavano in
maniera impercettibile, cercavano di neutralizzarli il prima
possibile.
Samantha
si era sporta allora verso il nunchaku al suolo per poterlo usare e
avere un vantaggio, o forse per restituirglielo, ma i mostri avevano
ringhiato al vederla e l'avevano aggredita spingendola via;
Michelangelo aveva approfittato della loro distrazione e si era
lanciato in avanti, sicuro di poterne stendere almeno un paio, ma con
la loro velocità era stato lui a soccombere, per avere
scoperto il
fianco: aveva visto gli occhi di Sam spalancarsi di orrore, prima
ancora di sentire il dolore.
Uno
spasmo lancinante aveva bloccato ogni suo movimento e il respiro lo
aveva abbandonato per qualche istante.
Gli
artigli del mutante avevano trapassato il ponte osseo tra piastrone e
carapace come fosse burro, lacerato carne e muscoli e qualche organo
interno, ma tutto ciò che aveva sentito era stato un
bruciore
assoluto, la sensazione di sciogliersi dall'interno.
Le
gambe avevano ceduto ed era caduto sulle ginocchia, con un tonfo
sordo. Aveva sentito il sangue fluire e cadere al suolo e lo aveva
visto splendere sugli artigli del suo assalitore.
Tra
i suoi stessi respiri affrettati aveva sentito il grido rauco di Sam
e gli era scappato un sorriso, involontario, a vederla battersi con
ancora più foga, con ancora più rabbia.
Era
splendida nella sua furia.
Gli
occhi neri degli umani mutati avevano scintillato di malizia, forse
divertiti dall'ira di quella ragazza per il dolore del suo amico.
Il
verso che avevano prodotto tutti insieme era risuonato stridulo e
cupo, e Michelangelo aveva assistito impotente mentre uno di loro
prendeva il suo nunchaku dal suolo e lo usava per stordire Sam, con
una stoccata secca e decisa contro la nuca.
E
vederla tramortita dalla sua stessa arma gli aveva fatto più
male
dello squarcio nel suo corpo.
Si
era tirato su con un urlo e si era gettato all'inseguimento, i mostri
si erano già messi in fuga, trasportando Sam con poca
grazia, la
testa che ciondolava ad ogni passo frettoloso.
Corse,
aveva corso e digrignato i denti e inghiottito le urla di dolore,
cercando di non farsi distanziare.
Aveva
perso il telefonino chissà dove e chissà quando e
non poteva
chiamare i suoi fratelli o Isabel per farsi aiutare, perciò
era la
sola speranza di Sam al momento.
E
sarebbe morto piuttosto che permettere che soffrisse ancora.
Riuscì
a mettere l'umano mutato al tappeto, e di nuovo e ancora
spronò il
suo corpo stanco e ferito a seguire la scia dei suoi nemici, sempre
più distanti, e della testa dorata che adorava.
Leonardo,
Raphael e Isabel seguivano la scia di sangue, che non accennava a
diradarsi.
Ne
erano al contempo inorriditi e felici. Potevano seguire con
facilità
le tracce di Michelangelo, ma se quello fosse stato il suo sangue
allora ne aveva perso già molto e non sapevano quanto
potesse ancora
rimanergli.
Avevano
capito che c'era stata una colluttazione violenta poco distante dal
furgone e che qualcuno era stato ferito e che in seguito vittima e
assalitore si erano dati alla fuga, senza sapere chi stesse
inseguendo chi.
Di
sicuro gli assalitori erano più di uno.
“Queste
macchie sono fresche e non sono state calpestate dopo essere cadute,
quindi chiunque sia ferito è quello che segue
l'altro” disse Leo,
esaminando le gocce frastagliate e irregolari che formavano una lunga
scia anche oltre dove la sua vista potesse arrivare.
Pregarono
silenziosamente che non fosse Michelangelo.
Ancora
nessuna chiamata da Donnie, e i tre si chiesero come il genio stesse
gestendo la ricerca mentre cercava di tenere a bada un Leatherhead
fuori di sé.
Quanti
intoppi dovevano mettersi ancora sul loro cammino?
Continuarono
a seguire la scia, in fretta, ma prestando attenzione a ogni
più
piccola variazione, per non perdere nemmeno un dettaglio, la luce
della sera che si faceva via via più fioca.
Una
volta al buio sarebbe stato impossibile seguire le tracce.
“Per
favore, dammi ancora cinque minuti! Non mi stai aiutando,
Leatherhead!” sbottò Don, al limite della pazienza.
Il
suo tono non era stato più esasperato prima di quel momento,
ma
l'amico coccodrillo non ne sembrò colpito e
continuò ad agitarsi e
a spaccare qualsiasi cosa gli capitasse sotto le mani, in un futile
tentativo di combattere la rabbia che minacciava di trasformarlo in
furia cieca sempre più ogni secondo che passava.
Il
sensei era accorso immediatamente al sentire l'urlo rauco di
Leatherhead, ma nemmeno lui sembrava riuscire a calmarlo, era
impazzito nel momento stesso in qui si era accorto della mancanza di
Samantha.
Se
ne avesse avuto il tempo, Donatello si sarebbe fermato a pensare a
come il legame tra il mutante e la ragazza si fosse cementificato in
così poco tempo, tanto da spingere Leatherhead ad un moto di
rabbia
nello scoprire che fosse sparita, ma in quel momento stava cercando
di quadrare il segnale del suo cellulare con un sottofondo di grida e
schianti, col pericolo che il prossimo a essere colpito potesse
essere lui.
Senza
pensare poi a quanti progressi nel loro lavoro giacessero ormai a
terra in frantumi.
“Ti
prego, mi serve un attimo per cercare Sam. Se davvero è in
pericolo
non possiamo salvarla se prima non la troviamo!”
Il
grosso coccodrillo si pietrificò immediatamente, il respiro
pesante
e le pupille ancora a fessura, il corpo tremava violentemente, per
mantenere il controllo. Annuì lentamente, non fidandosi di
parlare
in quel momento, e Don ringraziò mentalmente Sam per avere
tutto
quell'ascendente sul coccodrillo mutante, tanto da poter parzialmente
fermare la sua sfuriata.
Digitò
velocemente sui tasti, sempre più velocemente.
Michelangelo
non sapeva più con certezza dove si trovasse. Da qualche
parte nel
lower Manhattan di certo, ma non sapeva quanta distanza avesse
percorso e non sapeva nemmeno in che direzione. Il sole iniziava a
calare, ma i palazzi bloccavano la visuale e non era più in
grado di
distinguere il nord dal sud.
Ma
non era importante.
Continuava
a rimanere indietro e la sua frustrazione era a mille. Ma forse non
era per quello che il suo corpo tremava e la vista iniziava a
sfocare.
Si
sentiva debole e fiacco e il respiro era sempre più corto,
il dolore
al fianco era diventato un bruciore costante che gli costringeva
tutto il busto e il senso di nausea lo colpiva ad ondate. Aveva una
dannata voglia di vomitare.
Ormai
gli umani mutati non erano che un punto lontano che cercava
costantemente di mettere a fuoco e non perdere, ma era sempre
più
difficile
Barcollò
appena e si poggiò con una mano insanguinata al muro alla
sua
sinistra, usandolo come sostegno per andare avanti. Sentiva una gran
rabbia montargli dentro, al pensiero di perdere le loro tracce, di
poter perdere Sam quando era ancora così vicinissima, quando
ancora
avrebbe potuto salvarla.
Doveva
salvarla. Voleva salvarla.
Non
aveva mai desiderato qualcosa come in quel momento. Sarebbe stato
disposto a rinunciare a qualsiasi cosa, qualsiasi, per poter
raggiungere Sam e salvarla e restituirle la serenità che
aveva
perso.
Anche
se avesse voluto dire non poterla vedere mai più o
rinunciare a lei.
Sentì
qualcuno ridere e si accorse dopo qualche attimo, con orrore, che era
lui, che rideva istericamente, al pensiero di poterla perfino
lasciarla andare, una volta saputo che fosse al sicuro e salva.
Com'era
patetico. E di colpo capì Raph e Leo e come si erano
comportati con
Isabel, quel loro costantemente metterla al primo posto, al di sopra
del loro dolore, al di sopra dei loro desideri.
Si
era innamorato di Samantha. E probabilmente non perché fosse
bionda
e con lunghi boccoli che desiderava ardentemente arrotolare tra le
dita, ma per la sua passione e la sua furia, quella grinta che
metteva in ogni cosa, quel senso di onore e purezza nonostante fosse
cresciuta per la strada.
Spronò
le gambe molli e titubanti ad andare avanti, il fiato accelerato e
breve, il fuoco del dolore trasformato in risoluzione nel salvarla,
nel salvare la donna che amava.
Il
buio calava piano piano su di lui, da ogni parte.
Raphael
batté un pugno contro il muro, fuori di sé. E
dopo ne batté un
secondo, più forte del primo, sbriciolando una porzione di
mattone.
Isabel
lo bloccò mentre cercava di darne un terzo e lo
sgridò con solo uno
sguardo serio, poi baciò la sua mano e curò le
crepe insanguinate
nelle nocche, lasciando andare un sospiro angosciato.
“Scusa”
mormorò lui, stringendo la mano di lei nella sua. Si accorse
di
stare tremando, appena, e lei lo strinse più forte in muto
sostegno.
Aveva
una fottuta paura che fosse di Michelangelo, tutto quel sangue che
stavano seguendo. Non ne aveva la certezza, ovviamente, ma sapeva che
a pensare al peggio ci azzeccava quasi sempre e che se le cose
potevano andare male, allora sarebbero andate anche peggio.
Le
gocce rosse e sfrangiate macchiavano il pavimento in distanze
regolari e sapeva che significava che la perdita di sangue era
continua, probabilmente una ferita molto grande e impossibile da
tamponare; ogni tanto la scia si interrompeva in una piccola pozza,
di certo quando la persona ferita si fermava a riprendere fiato, e
poi riprendeva stoicamente nel suo viaggio, verso la sua meta.
Era
di Michelangelo, ci avrebbe scommesso un braccio. Quella persistenza
poteva non sembrare del suo fratellino, ma lui lo conosceva bene,
meglio di chiunque altro, e aveva visto con che velocità
quello
sciocco stesse innamorandosi di Sam.
Quanto
lei fosse diventata importante per lui.
Fissò
lo sguardo negli occhi amorevoli di Isabel e sentì nascere
in lui la
forza della speranza, che lo aveva quasi abbandonato pochi secondi
prima.
Leo
attirò la loro attenzione, e con un cenno del capo li
spronò a
seguirlo e a continuare a correre, prima che il buio si mangiasse
tutto, finché ancora avevano qualche chance.
Michelangelo
si chinò con un conato violento, vomitando bile e sangue,
poggiato
con tutto il suo peso contro il muretto.
Non
era un buon segno, non lo era affatto,
C'era
il dolore che se lo stava mangiando e un'ansia pressante che lo
soffocava e lei era sempre più distante e dio, si sentiva
morire, al
pensiero che ormai fossero fuori della sua portata. Si
rialzò a
fatica e si sfilò le fasce paracolpi dai polsi: le
appallottolò
senza cerimonie e le premette con forza contro il fianco, stringendo
i denti per non urlare, poi le fermò al posto con la
bandana, tolta
a fatica dalla testa, con un grugnito di dolore.
Rimase
per qualche secondo immobile, ascoltando i suoi stessi respiri rauchi e
frettolosi che rimbombavano nel viottolo stretto, provando a
riprendere il controllo di sé.
Ma
non sapeva più dove andare, erano così lontani
che non sapeva più
da che parte si fossero diretti, quale potesse essere la loro
direzione.
Pregò,
che qualcuno gliela facesse ritrovare. Pregò, che qualcuno
lo
portasse da lei.
Pregò,
che qualcuno gli indicasse la strada verso lei.
Lo
sguardo velato e cupo venne catturato dallo scintillio d'acciaio del
bracciale, nella curva della piccola S incisa con grazia.
“Melissa,
ti prego, aiutami. Devo salvarla, voglio salvarla. Aiutami, non posso
perderla” mormorò con un filo di voce.
E
forse era l'eccessiva perdita di sangue, o forse era la morte che era
venuto a prenderlo, ma poté giurare che qualcosa di caldo
gli avesse
appena stretto la mano, iniziando a guidarlo lungo la stradina
silenziosa e oscura.
Isabel,
Raph e Leo facevano sempre più fatica a seguire le tracce,
inciampavano in buche nel terreno, avevano anche sbagliato strada una
volta, prima di ritrovare la scia insanguinata due traverse
più a
destra; Leonardo aveva tirato fuori il cellulare per seguirle meglio
alla sua luce, ma Isabel lo aveva bloccato e si era illuminata di
bianco, spargendo la sua luminescenza eterea intorno.
Non
si esponeva mai così tanto nella manifestazione dei suoi
poteri
all'aperto, ma era così preoccupata in quel momento, che non
gliene
sarebbe importato niente nemmeno se la Cia, la nasa, l'FBI o qualsiasi
agenzia governativa che studiava il paranormale le fosse piombata
addosso.
Stava
cedendo alle sue paure, sommate alle loro. Le vedeva, dietro la
maschera rossa, la paura di non fare in tempo, e quella di perdere
qualcuno di così importante. Le vedeva, dietro la maschera
azzurra,
la paura di non star facendo abbastanza, la paura di aver sbagliato
qualcosa, di un suo errore pagato da qualcuno che amava.
E lei? Poteva essere potente e forte, ma a che serviva se non fosse
riuscita a trovarli in tempo?
Correvano
in silenzio, non riuscivano a dirsi nulla per confortarsi o per
spronarsi; era Michelangelo quello che spezzava la tensione, in
genere, che riusciva ad alleggerire le loro ansie e i loro timori con
una battuta, con la sua voce gioviale.
Il
rosso al suolo brillava alla luce magica di Isabel, indicando loro la
via come macabra segnaletica stradale, e i loro occhi non vedevano
altro.
Isabel
faceva da apripista con velocità, senza fermarsi e senza una
pausa,
poi si bloccò con una brusca frenata, tanto improvvisa che
Raphael e
Leo la investirono in pieno, fortunatamente senza buttarla
giù
grazie all'ausilio dei suoi poteri.
“Isa!
Cosa-” la voce di Raphael morì in un brusco
respiro strozzato, al
vedere quello che lei aveva visto.
L'impronta
insanguinata di una mano sul muro, seguita da un paio di altre, sempre
più sbiadite via via che si allontanavano.
Una
grande mano. Una grande mano a tre dita.
Raphael
imprecò, a voce alta, esternando anche la loro rabbia e la
loro
paura, e Leonardo aveva già il telefonino premuto contro il
foro
auricolare, con la mano che tremava.
“Donnie”
soffiò dopo qualche istante, la voce spezzata.
“Mikey- Mikey è
ferito, Donnie. Stiamo seguendo la sua scia, ha perso tanto sangue.
Aiutaci, Donnie. Aiuto.”
Donatello
era riuscito a lavorare al segnale del cellulare di Samantha, un
vecchio rottame che gli dava qualche problema, a dir la
verità. I
nuovi modelli avevano gps e altre diavolerie che rendevano molto
più
facile il compito.
Tuttavia
ci si era dedicato nella nuova pace con tutta la fretta possibile,
con urgenza, quasi, mentre un nervoso, ma statico Leatherhead
osservava il monitor al di sopra della sua spalla, emanando un'aura
di furore che lo investiva a ondate.
Il
sensei era nel laboratorio lì con loro, anche lui in
silenzio,
seduto ritto e all'erta in una delle sedie vicino alla scrivania,
quasi perso in meditazione.
Don
si sentiva già pressato di suo, senza quelle due presenze
schiaccianti.
La
mappa di New York city sullo schermo si ingrandiva e rimpiccioliva
seguendo le variazioni del segnale che cercava, seguendo tracce di
ripetitori, e gli era sembrato di aver fatto passi da gigante e di
essere sulla buona strada, si era perfino sentito esaltato, fino a
quella chiamata.
Era
illogico pensarlo, ma aveva pensato che qualcosa fosse sbagliato
già
dal suono della suoneria. Come se fosse più sinistra,
più cupa.
La
voce di Leonardo, dall'altra parte, era terrorizzata e infranta,
piena di paura, già al solo pronunciare il suo nome.
Non
era lì con loro, ma riusciva a vederli come se ci fosse, la
mascella
contratta di Raph, la luce angosciata negli occhi di Leo, la
disperazione di Isabel.
Mikey
era ferito e aveva perso un'infinità di sangue, gli disse il
fratello, prima di supplicarlo di aiutarlo, di aiutarli. Di aiutare
il suo fratellino, solo e preda del dolore, chissà dove.
Sentì
il basso ringhio di Leatherhead, probabilmente che reagiva alla sua
rigidità inconscia.
“Dammi
ancora qualche istante, Leo. Rimani con me, andrà tutto
bene”
mormorò dolcemente, mentre le dita volavano sulla tastiera,
solo
leggermente tremanti.
Michelangelo
si faceva guidare da quella forza misteriosa senza ribellarsi, solo
vagamente conscio di dove stesse andando.
Poteva
essere verso l'inferno o verso lei, o forse le due strade
combaciavano, ma non gli importava fintanto che fosse riuscito a
salvarla.
Una
piccola parte della sua mente, ancora flebilmente lucida, gli diceva
che non aveva senso seguire quella sensazione con tutta quella
certezza e fiducia; il suo stomaco, ingarbugliato e ferito, gli
diceva di continuare ad andare avanti, un passo incerto alla volta.
Aveva
sempre seguito il suo istinto, perciò quella flebile
protesta logica
si spense in fretta.
Stava
camminando tra alcuni capannoni, non era certo di dove fosse con
esattezza, ma aveva tutta l'aria di una zona mercantile o
industriale; c'erano alcune voci in lontananza, lavoratori che
scaricavano e caricavano merci, ma non gli importava al momento.
Li
superò, li lasciò indietro, diretto verso il
gorgoglio dell'acqua,
da qualche parte davanti a lui. Sembrava quasi chiamarlo. Era in un
porto.
A
ridosso dell'oscura massa d'acqua c'era una costruzione solitaria,
alta e massiccia, almeno dieci o dodici piani, all'apparenza
abbandonata, ma non diroccata.
La
sua sensazione lo guidò fino alla sua porta e oltre, con una
sicurezza che non sapeva da dove gli provenisse.
L'edificio
era vuoto, almeno così sembrava. Tese le orecchie per
percepire
rumori o la presenza di persone, ma a parte il ticchettio di un
orologio lontano non sentì nulla di rilevante.
La
cosa lo spaventò e impensierì, nel fondo della
mente. Aveva seguito
una sensazione e se l'avesse seguita verso una direzione sbagliata e
Sam fosse ormai lontana, nelle mani di Hersen, destinata a orrori e
sofferenza?
Quel
tepore lo avvolse ancora una volta, assurdamente, sciogliendo le sue
preoccupazioni.
Era
folle pensarlo, ma sentiva che era Melissa a guidarlo, ad essere
intervenuta per aiutarlo ancora una volta.
Continuò
a camminare, provando a sforzare le gambe per sbrigarsi, contro ogni
logica: sapeva di essere ad un passo dallo svenire, non si era mai
sentito così debole e dolorante come in quel momento,
così
angosciato e stanco, ma la forza bruciante dentro di lui lo
sosteneva, e lo avrebbe sostenuto almeno fino a che non avesse
trovato Sam e l'avesse salvata.
Dopo
poteva anche morire, non gli importava.
Il
corridoio era vuoto e lungo, con poche porte sporadiche che
aprì
ogni volta che ci arrivava, scoprendo solo stanzette asettiche e
spoglie, quasi come se il palazzo fosse completamente inutilizzato.
Come non fosse mai stato abitato.
La
porta alla fine si aprì su due scale, una verso l'alto e una
verso
il basso.
Si
poggiò al muro con una spalla mentre valutava in fretta che
direzione prendere, pregando di non sbagliare: ai pazzi maniaci in
genere piaceva controllare tutto dall'alto, all'ultimo piano delle
loro roccaforti, nelle loro megalomanie da sadici bastardi, ma Hersen
era uno psicotico che lavorava nelle ombre e strisciava nel buio per
nascondere la sua mostruosità, interiore ed esteriore,
avrebbe avuto
più senso se fosse nelle fondamenta del palazzo a trafficare
con i
suoi esperimenti.
La
rabbia lo investì con ancora più forza, al
pensiero che Sam potesse
essere nelle sue mani, lì sotto.
Si
gettò verso il basso, concentrato perché le
ginocchia non cedessero
ad ogni passo e lo mandassero a ruzzolare giù per le scale,
attento
ad ogni nuovo rumore che potesse presentarsi.
Sentì
uno sbuffo, come di un macchinario a vapore, qualcosa che gettava
fumo nell'aria.
Alla
terza rampa di scale l'aria era decisamente più densa, una
leggera
nebbiolina, e c'era un caldo soffocante, umido e dall'odore di muffa.
L'unico
altro suono che sentì era il ritmo scompagnato dei suoi
passi, quasi
strusciati contro il pavimento.
La
fine delle scale dava su una porta rossa e mezzo arrugginita, grande
tanto da poterci far passare un furgone con facilità,
percorsa per
metà da una grande finestra sporca e appannata.
Strisciò
con dorso del braccio con cautela, togliendo uno spicchio di sporco,
gettando poi uno sguardo attento oltre: c'era una grande stanza, un
sotterraneo ombroso, alto e grigio, illuminato fiocamente da
sporadiche luci di emergenza.
Pareva
un parcheggio abbandonato.
Aprì
la porta senza incontrare alcuna resistenza, entrando nell'ambiente
con la paura ad unirsi al magone nel petto.
Capì
immediatamente che la sua intuizione era stata giusta: doveva essere
stato il parcheggio dell'edificio, almeno in origine, con le grosse
colonne a sorreggere il soffitto percorso da tubi e cavi elettrici e
i numeri di ogni posto auto scritto a bomboletta per terra, ormai
mezzo sbiaditi. Qualcuno però, aveva innalzato dei muri che
tagliavano trasversalmente il sotterraneo, portandosi via parte dello
spazio, probabilmente per creare delle stanze aggiuntive.
Non
voleva sapere cosa nascondessero, cosa potesse esserci
all'interno.
Continuò
a camminare nel silenzio, mentre gli occhi si abituavano alla
penombra, riuscendo a scorgere con facilità i pilastri sulla
sua
strada e un ammasso di cavi che serpeggiavano sul pavimento, verso il
fondo. Li seguì, attento a non inciamparci sopra, certo che
dovessero alimentare qualcosa di importante, e grande, a giudicare
dalla quantità.
Qualcosa
pulsava a intermittenza, nel fondo del sotterraneo. Percepì
i
contorni di una grande costruzione, sembrava un acquario, vide lo
scintillio sulla sua parete in vetro, sempre più vicina.
Pensò
per un secondo di essere preda delle allucinazioni. O di essere
infine morto ed essere arrivato in una sorta di aldilà.
Scrutò
la piccola figura con un rombo forte nelle orecchie, con un peso
nello stomaco che gli attanagliava le viscere. Era accasciata sul
fondo della grande teca in vetro, le sue squame gialle riflettevano
la luce pulsante che arrivava dall'alto, i suoi occhi erano chiusi,
ma ricordava il nero intenso di cui erano ammantati.
“Mork”
sussurrò Michelangelo, col magone. No, era Melissa il suo
nome, lo
sapeva bene ormai. E non poteva essere lei.
E
se pure avesse negato la realtà di averla vista morire, ci
pensò
quel bracciale nel suo polso sinistro a svelarle chi fosse davvero
quella figura in stato di incoscienza.
Volò
per gli ultimi metri, ignorando dolore e fitte di strazio nel corpo e
nel cuore, e la raggiunse, accasciandosi quasi senza forze contro il
vetro, battendoci sopra con un vigore che non era più suo.
“Sam!
SAM!” urlò dal fondo dei polmoni stanchi, con
un'urgenza e un
orrore che se lo stavano mangiando in pochi secondi.
La
sua paura più grande... non era riuscito a proteggerla, quel
bastardo l'aveva presa e l'aveva trasformata in un mostro, come sua
sorella prima di lei.
Era
tutta colpa sua. Non se lo sarebbe mai perdonato.
“SAM!”
Note: Meno due capitoli,
uno per Mikey e uno per l'epilogo di questa storia infinita, che ho
maltrattato per troppi anni. Il prossimo tra
sette giorni. grazie