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Autore: Switch    02/02/2020    1 recensioni
Terza storia della serie Heart's mutation, dopo SITR e JTWYA. TMNT 2003
Isabel e Raphael vivono il loro idillio, circondati dall'affetto della famiglia, ma non tutto va sempre liscio.
Tra tornei, battaglie, misteri che si infittiscono e si accumulano, la relazione crescerà o si romperà. E poi, un mistero potrebbe portare a nuove conoscenze, a capirsi meglio.
E un sacrificio non è sempre solo dolore.
Genere: Angst, Azione, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Donatello Hamato, Leonardo Hamato, Michelangelo Hamato, Nuovo personaggio, Raphael Hamato/ Raffaello
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Heart's mutation'
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Il fianco gli faceva un male cane, ma non si sarebbe fermato per nulla al mondo. Continuò a correre, a mettere un piede davanti all'altro anche se ogni passo e ogni respiro erano sofferenza pura.
Sanguinava copiosamente, lo sapeva, ma al momento non poteva importargliene meno.
L'unica cosa che importava a Michelangelo in quel momento era non perderla.
Non poteva perderla.

Intravvide il bagliore dei suoi capelli dorati di fronte a sé, ma i suoi rapitori stavano guadagnando velocità approfittando della sua ferita; lanciò l'unico nunchaku ormai rimastogli, sperando di rallentarli, ma colpì l'ultimo della fila e attirò l'attenzione di quello accanto, che accortosi di quanto fosse vicino si gettò immediatamente al suo attacco.
Michelangelo alzò velocemente i pugni per difendersi, non si sarebbe fatto colpire. Non ancora.

Benché la possibilità della trappola fosse stata messa in gioco fin da subito in quel folle piano, non era riuscito a reagire prontamente quando ci si era trovato dentro; erano successe troppe cose tutte assieme, era stato tutto così veloce: nel momento in cui aveva scoperto la presenza di Sam nel furgone qualcosa in cuor suo gli aveva detto che non sarebbe andato tutto liscio.
Lei si era intrufolata di nascosto, ed era stata davvero brava a non farsi scoprire né da lui né da Isabel, ma alla fine si era tradita per non aver tolto la suoneria del cellulare e il trillo dei messaggi quando Mikey le aveva scritto l'aveva messa allo scoperto.
Michelangelo era di certo il meno assennato della famiglia, ma nell'istante in cui l'aveva vista lì, rannicchiata dietro uno dei sedili posteriori, si era alzato per dirgliene quattro e possibilmente riportarla immediatamente al sicuro nel rifugio.
Se solo ne avesse avuto il tempo.
L'attacco era stato preciso e fulmineo e brutale.

Non sapeva nemmeno in quanti li avessero attaccati, erano tanti, gli sportelli si erano aperti all'improvviso riversando all'interno del furgone decine di corpi, piccoli e scattanti, feroci e guizzanti: li avevano attaccati con facilità nello spazio stretto, bloccando i loro movimenti.
Samantha si era battuta fieramente, distribuendo pugni e calci precisi e potenti, colpendo tutto ciò che poteva, buttando giù un paio di quei mostri che sicuramente dovevano farle paura, anche se non lo mostrava apertamente.
Forse era più inorridita al pensiero che sua sorella una volta potesse essere stata come loro.
I mutanti li avevano attaccati con i denti puntuti e coi lunghi artigli affilati, una parte cercando di tramortire o bloccare lui, una parte che già cercava di trascinare una restia Sam via dal furgone.
Aveva sentito le sue grida irate, i morsi dei mutanti, lo spostamento dei loro corpi mentre lo accerchiavano e il cuore battergli in petto a mille battiti al minuto.
I suoi nunchaku non avevano roteato mai più velocemente.

Era riuscito a crearsi una lieve breccia e si era tuffato oltre i suoi assalitori, in direzione del gruppo già in fuga, che ancora cercava di sedare la loro vittima.
Michelangelo aveva lanciato il nunchaku destro contro il mutante che la teneva stretta, colpendolo dritto in testa e Sam era caduta dalle sue braccia quando quello era svenuto al suolo senza neppure un rantolo. La ragazza si era rimessa in piedi in fretta, mentre i mostri si erano voltati digrignando contro la minaccia, raggiunti in pochi istanti anche dalla retrovia rimasta indietro, agguerriti anche loro.
Si erano trovati accerchiati da ogni parte, separati da un paio di mostri.
Forse, si diceva Michelangelo, se fosse riuscito ad arrivare a lei e ad afferrarla le cose sarebbero state diverse.
Invece, con un solo nunchaku in mano contro una decina di nemici, si era gettato in una lotta impari.
Sam aveva combattuto a calci i mutanti più vicini, Michelangelo aveva colpito con stoccate fulminee quelli che riusciva a vedere, ma non era abbastanza. Li pressavano da ogni angolo, li allontanavano in maniera impercettibile, cercavano di neutralizzarli il prima possibile.

Samantha si era sporta allora verso il nunchaku al suolo per poterlo usare e avere un vantaggio, o forse per restituirglielo, ma i mostri avevano ringhiato al vederla e l'avevano aggredita spingendola via; Michelangelo aveva approfittato della loro distrazione e si era lanciato in avanti, sicuro di poterne stendere almeno un paio, ma con la loro velocità era stato lui a soccombere, per avere scoperto il fianco: aveva visto gli occhi di Sam spalancarsi di orrore, prima ancora di sentire il dolore.
Uno spasmo lancinante aveva bloccato ogni suo movimento e il respiro lo aveva abbandonato per qualche istante.
Gli artigli del mutante avevano trapassato il ponte osseo tra piastrone e carapace come fosse burro, lacerato carne e muscoli e qualche organo interno, ma tutto ciò che aveva sentito era stato un bruciore assoluto, la sensazione di sciogliersi dall'interno.
Le gambe avevano ceduto ed era caduto sulle ginocchia, con un tonfo sordo. Aveva sentito il sangue fluire e cadere al suolo e lo aveva visto splendere sugli artigli del suo assalitore.

Tra i suoi stessi respiri affrettati aveva sentito il grido rauco di Sam e gli era scappato un sorriso, involontario, a vederla battersi con ancora più foga, con ancora più rabbia.
Era splendida nella sua furia.
Gli occhi neri degli umani mutati avevano scintillato di malizia, forse divertiti dall'ira di quella ragazza per il dolore del suo amico.
Il verso che avevano prodotto tutti insieme era risuonato stridulo e cupo, e Michelangelo aveva assistito impotente mentre uno di loro prendeva il suo nunchaku dal suolo e lo usava per stordire Sam, con una stoccata secca e decisa contro la nuca.
E vederla tramortita dalla sua stessa arma gli aveva fatto più male dello squarcio nel suo corpo.

Si era tirato su con un urlo e si era gettato all'inseguimento, i mostri si erano già messi in fuga, trasportando Sam con poca grazia, la testa che ciondolava ad ogni passo frettoloso.
Corse, aveva corso e digrignato i denti e inghiottito le urla di dolore, cercando di non farsi distanziare.
Aveva perso il telefonino chissà dove e chissà quando e non poteva chiamare i suoi fratelli o Isabel per farsi aiutare, perciò era la sola speranza di Sam al momento.
E sarebbe morto piuttosto che permettere che soffrisse ancora.
Riuscì a mettere l'umano mutato al tappeto, e di nuovo e ancora spronò il suo corpo stanco e ferito a seguire la scia dei suoi nemici, sempre più distanti, e della testa dorata che adorava.


Leonardo, Raphael e Isabel seguivano la scia di sangue, che non accennava a diradarsi.
Ne erano al contempo inorriditi e felici. Potevano seguire con facilità le tracce di Michelangelo, ma se quello fosse stato il suo sangue allora ne aveva perso già molto e non sapevano quanto potesse ancora rimanergli.
Avevano capito che c'era stata una colluttazione violenta poco distante dal furgone e che qualcuno era stato ferito e che in seguito vittima e assalitore si erano dati alla fuga, senza sapere chi stesse inseguendo chi.
Di sicuro gli assalitori erano più di uno.

Queste macchie sono fresche e non sono state calpestate dopo essere cadute, quindi chiunque sia ferito è quello che segue l'altro” disse Leo, esaminando le gocce frastagliate e irregolari che formavano una lunga scia anche oltre dove la sua vista potesse arrivare.
Pregarono silenziosamente che non fosse Michelangelo.

Ancora nessuna chiamata da Donnie, e i tre si chiesero come il genio stesse gestendo la ricerca mentre cercava di tenere a bada un Leatherhead fuori di sé.
Quanti intoppi dovevano mettersi ancora sul loro cammino?
Continuarono a seguire la scia, in fretta, ma prestando attenzione a ogni più piccola variazione, per non perdere nemmeno un dettaglio, la luce della sera che si faceva via via più fioca.
Una volta al buio sarebbe stato impossibile seguire le tracce.


Per favore, dammi ancora cinque minuti! Non mi stai aiutando, Leatherhead!” sbottò Don, al limite della pazienza.
Il suo tono non era stato più esasperato prima di quel momento, ma l'amico coccodrillo non ne sembrò colpito e continuò ad agitarsi e a spaccare qualsiasi cosa gli capitasse sotto le mani, in un futile tentativo di combattere la rabbia che minacciava di trasformarlo in furia cieca sempre più ogni secondo che passava.
Il sensei era accorso immediatamente al sentire l'urlo rauco di Leatherhead, ma nemmeno lui sembrava riuscire a calmarlo, era impazzito nel momento stesso in qui si era accorto della mancanza di Samantha.
Se ne avesse avuto il tempo, Donatello si sarebbe fermato a pensare a come il legame tra il mutante e la ragazza si fosse cementificato in così poco tempo, tanto da spingere Leatherhead ad un moto di rabbia nello scoprire che fosse sparita, ma in quel momento stava cercando di quadrare il segnale del suo cellulare con un sottofondo di grida e schianti, col pericolo che il prossimo a essere colpito potesse essere lui.
Senza pensare poi a quanti progressi nel loro lavoro giacessero ormai a terra in frantumi.

Ti prego, mi serve un attimo per cercare Sam. Se davvero è in pericolo non possiamo salvarla se prima non la troviamo!”
Il grosso coccodrillo si pietrificò immediatamente, il respiro pesante e le pupille ancora a fessura, il corpo tremava violentemente, per mantenere il controllo. Annuì lentamente, non fidandosi di parlare in quel momento, e Don ringraziò mentalmente Sam per avere tutto quell'ascendente sul coccodrillo mutante, tanto da poter parzialmente fermare la sua sfuriata.
Digitò velocemente sui tasti, sempre più velocemente.


Michelangelo non sapeva più con certezza dove si trovasse. Da qualche parte nel lower Manhattan di certo, ma non sapeva quanta distanza avesse percorso e non sapeva nemmeno in che direzione. Il sole iniziava a calare, ma i palazzi bloccavano la visuale e non era più in grado di distinguere il nord dal sud.
Ma non era importante.
Continuava a rimanere indietro e la sua frustrazione era a mille. Ma forse non era per quello che il suo corpo tremava e la vista iniziava a sfocare.
Si sentiva debole e fiacco e il respiro era sempre più corto, il dolore al fianco era diventato un bruciore costante che gli costringeva tutto il busto e il senso di nausea lo colpiva ad ondate. Aveva una dannata voglia di vomitare.
Ormai gli umani mutati non erano che un punto lontano che cercava costantemente di mettere a fuoco e non perdere, ma era sempre più difficile

Barcollò appena e si poggiò con una mano insanguinata al muro alla sua sinistra, usandolo come sostegno per andare avanti. Sentiva una gran rabbia montargli dentro, al pensiero di perdere le loro tracce, di poter perdere Sam quando era ancora così vicinissima, quando ancora avrebbe potuto salvarla.
Doveva salvarla. Voleva salvarla.
Non aveva mai desiderato qualcosa come in quel momento. Sarebbe stato disposto a rinunciare a qualsiasi cosa, qualsiasi, per poter raggiungere Sam e salvarla e restituirle la serenità che aveva perso.
Anche se avesse voluto dire non poterla vedere mai più o rinunciare a lei.

Sentì qualcuno ridere e si accorse dopo qualche attimo, con orrore, che era lui, che rideva istericamente, al pensiero di poterla perfino lasciarla andare, una volta saputo che fosse al sicuro e salva.
Com'era patetico. E di colpo capì Raph e Leo e come si erano comportati con Isabel, quel loro costantemente metterla al primo posto, al di sopra del loro dolore, al di sopra dei loro desideri.
Si era innamorato di Samantha. E probabilmente non perché fosse bionda e con lunghi boccoli che desiderava ardentemente arrotolare tra le dita, ma per la sua passione e la sua furia, quella grinta che metteva in ogni cosa, quel senso di onore e purezza nonostante fosse cresciuta per la strada.

Spronò le gambe molli e titubanti ad andare avanti, il fiato accelerato e breve, il fuoco del dolore trasformato in risoluzione nel salvarla, nel salvare la donna che amava.
Il buio calava piano piano su di lui, da ogni parte.


Raphael batté un pugno contro il muro, fuori di sé. E dopo ne batté un secondo, più forte del primo, sbriciolando una porzione di mattone.
Isabel lo bloccò mentre cercava di darne un terzo e lo sgridò con solo uno sguardo serio, poi baciò la sua mano e curò le crepe insanguinate nelle nocche, lasciando andare un sospiro angosciato.

Scusa” mormorò lui, stringendo la mano di lei nella sua. Si accorse di stare tremando, appena, e lei lo strinse più forte in muto sostegno.
Aveva una fottuta paura che fosse di Michelangelo, tutto quel sangue che stavano seguendo. Non ne aveva la certezza, ovviamente, ma sapeva che a pensare al peggio ci azzeccava quasi sempre e che se le cose potevano andare male, allora sarebbero andate anche peggio.

Le gocce rosse e sfrangiate macchiavano il pavimento in distanze regolari e sapeva che significava che la perdita di sangue era continua, probabilmente una ferita molto grande e impossibile da tamponare; ogni tanto la scia si interrompeva in una piccola pozza, di certo quando la persona ferita si fermava a riprendere fiato, e poi riprendeva stoicamente nel suo viaggio, verso la sua meta.
Era di Michelangelo, ci avrebbe scommesso un braccio. Quella persistenza poteva non sembrare del suo fratellino, ma lui lo conosceva bene, meglio di chiunque altro, e aveva visto con che velocità quello sciocco stesse innamorandosi di Sam.
Quanto lei fosse diventata importante per lui.
Fissò lo sguardo negli occhi amorevoli di Isabel e sentì nascere in lui la forza della speranza, che lo aveva quasi abbandonato pochi secondi prima.
Leo attirò la loro attenzione, e con un cenno del capo li spronò a seguirlo e a continuare a correre, prima che il buio si mangiasse tutto, finché ancora avevano qualche chance.


Michelangelo si chinò con un conato violento, vomitando bile e sangue, poggiato con tutto il suo peso contro il muretto.
Non era un buon segno, non lo era affatto,
C'era il dolore che se lo stava mangiando e un'ansia pressante che lo soffocava e lei era sempre più distante e dio, si sentiva morire, al pensiero che ormai fossero fuori della sua portata. Si rialzò a fatica e si sfilò le fasce paracolpi dai polsi: le appallottolò senza cerimonie e le premette con forza contro il fianco, stringendo i denti per non urlare, poi le fermò al posto con la bandana, tolta a fatica dalla testa, con un grugnito di dolore.
Rimase per qualche secondo immobile, ascoltando i suoi stessi respiri rauchi e frettolosi che rimbombavano nel viottolo stretto, provando a riprendere il controllo di sé.
Ma non sapeva più dove andare, erano così lontani che non sapeva più da che parte si fossero diretti, quale potesse essere la loro direzione.
Pregò, che qualcuno gliela facesse ritrovare. Pregò, che qualcuno lo portasse da lei.
Pregò, che qualcuno gli indicasse la strada verso lei.

Lo sguardo velato e cupo venne catturato dallo scintillio d'acciaio del bracciale, nella curva della piccola S incisa con grazia.
Melissa, ti prego, aiutami. Devo salvarla, voglio salvarla. Aiutami, non posso perderla” mormorò con un filo di voce.
E forse era l'eccessiva perdita di sangue, o forse era la morte che era venuto a prenderlo, ma poté giurare che qualcosa di caldo gli avesse appena stretto la mano, iniziando a guidarlo lungo la stradina silenziosa e oscura.


Isabel, Raph e Leo facevano sempre più fatica a seguire le tracce, inciampavano in buche nel terreno, avevano anche sbagliato strada una volta, prima di ritrovare la scia insanguinata due traverse più a destra; Leonardo aveva tirato fuori il cellulare per seguirle meglio alla sua luce, ma Isabel lo aveva bloccato e si era illuminata di bianco, spargendo la sua luminescenza eterea intorno.
Non si esponeva mai così tanto nella manifestazione dei suoi poteri all'aperto, ma era così preoccupata in quel momento, che non gliene sarebbe importato niente nemmeno se la Cia, la nasa, l'FBI o qualsiasi agenzia governativa che studiava il paranormale le fosse piombata addosso.
Stava cedendo alle sue paure, sommate alle loro. Le vedeva, dietro la maschera rossa, la paura di non fare in tempo, e quella di perdere qualcuno di così importante. Le vedeva, dietro la maschera azzurra, la paura di non star facendo abbastanza, la paura di aver sbagliato qualcosa, di un suo errore pagato da qualcuno che amava.
E lei? Poteva essere potente e forte, ma a che serviva se non fosse riuscita a trovarli in tempo?

Correvano in silenzio, non riuscivano a dirsi nulla per confortarsi o per spronarsi; era Michelangelo quello che spezzava la tensione, in genere, che riusciva ad alleggerire le loro ansie e i loro timori con una battuta, con la sua voce gioviale.
Il rosso al suolo brillava alla luce magica di Isabel, indicando loro la via come macabra segnaletica stradale, e i loro occhi non vedevano altro.
Isabel faceva da apripista con velocità, senza fermarsi e senza una pausa, poi si bloccò con una brusca frenata, tanto improvvisa che Raphael e Leo la investirono in pieno, fortunatamente senza buttarla giù grazie all'ausilio dei suoi poteri.

Isa! Cosa-” la voce di Raphael morì in un brusco respiro strozzato, al vedere quello che lei aveva visto.
L'impronta insanguinata di una mano sul muro, seguita da un paio di altre, sempre più sbiadite via via che si allontanavano.
Una grande mano. Una grande mano a tre dita.

Raphael imprecò, a voce alta, esternando anche la loro rabbia e la loro paura, e Leonardo aveva già il telefonino premuto contro il foro auricolare, con la mano che tremava.
Donnie” soffiò dopo qualche istante, la voce spezzata. “Mikey- Mikey è ferito, Donnie. Stiamo seguendo la sua scia, ha perso tanto sangue. Aiutaci, Donnie. Aiuto.”


Donatello era riuscito a lavorare al segnale del cellulare di Samantha, un vecchio rottame che gli dava qualche problema, a dir la verità. I nuovi modelli avevano gps e altre diavolerie che rendevano molto più facile il compito.
Tuttavia ci si era dedicato nella nuova pace con tutta la fretta possibile, con urgenza, quasi, mentre un nervoso, ma statico Leatherhead osservava il monitor al di sopra della sua spalla, emanando un'aura di furore che lo investiva a ondate.
Il sensei era nel laboratorio lì con loro, anche lui in silenzio, seduto ritto e all'erta in una delle sedie vicino alla scrivania, quasi perso in meditazione.
Don si sentiva già pressato di suo, senza quelle due presenze schiaccianti.

La mappa di New York city sullo schermo si ingrandiva e rimpiccioliva seguendo le variazioni del segnale che cercava, seguendo tracce di ripetitori, e gli era sembrato di aver fatto passi da gigante e di essere sulla buona strada, si era perfino sentito esaltato, fino a quella chiamata.
Era illogico pensarlo, ma aveva pensato che qualcosa fosse sbagliato già dal suono della suoneria. Come se fosse più sinistra, più cupa.
La voce di Leonardo, dall'altra parte, era terrorizzata e infranta, piena di paura, già al solo pronunciare il suo nome.
Non era lì con loro, ma riusciva a vederli come se ci fosse, la mascella contratta di Raph, la luce angosciata negli occhi di Leo, la disperazione di Isabel.
Mikey era ferito e aveva perso un'infinità di sangue, gli disse il fratello, prima di supplicarlo di aiutarlo, di aiutarli. Di aiutare il suo fratellino, solo e preda del dolore, chissà dove.

Sentì il basso ringhio di Leatherhead, probabilmente che reagiva alla sua rigidità inconscia.
Dammi ancora qualche istante, Leo. Rimani con me, andrà tutto bene” mormorò dolcemente, mentre le dita volavano sulla tastiera, solo leggermente tremanti.


Michelangelo si faceva guidare da quella forza misteriosa senza ribellarsi, solo vagamente conscio di dove stesse andando.
Poteva essere verso l'inferno o verso lei, o forse le due strade combaciavano, ma non gli importava fintanto che fosse riuscito a salvarla.
Una piccola parte della sua mente, ancora flebilmente lucida, gli diceva che non aveva senso seguire quella sensazione con tutta quella certezza e fiducia; il suo stomaco, ingarbugliato e ferito, gli diceva di continuare ad andare avanti, un passo incerto alla volta.
Aveva sempre seguito il suo istinto, perciò quella flebile protesta logica si spense in fretta.

Stava camminando tra alcuni capannoni, non era certo di dove fosse con esattezza, ma aveva tutta l'aria di una zona mercantile o industriale; c'erano alcune voci in lontananza, lavoratori che scaricavano e caricavano merci, ma non gli importava al momento.
Li superò, li lasciò indietro, diretto verso il gorgoglio dell'acqua, da qualche parte davanti a lui. Sembrava quasi chiamarlo. Era in un porto.
A ridosso dell'oscura massa d'acqua c'era una costruzione solitaria, alta e massiccia, almeno dieci o dodici piani, all'apparenza abbandonata, ma non diroccata.
La sua sensazione lo guidò fino alla sua porta e oltre, con una sicurezza che non sapeva da dove gli provenisse.

L'edificio era vuoto, almeno così sembrava. Tese le orecchie per percepire rumori o la presenza di persone, ma a parte il ticchettio di un orologio lontano non sentì nulla di rilevante.
La cosa lo spaventò e impensierì, nel fondo della mente. Aveva seguito una sensazione e se l'avesse seguita verso una direzione sbagliata e Sam fosse ormai lontana, nelle mani di Hersen, destinata a orrori e sofferenza?
Quel tepore lo avvolse ancora una volta, assurdamente, sciogliendo le sue preoccupazioni.
Era folle pensarlo, ma sentiva che era Melissa a guidarlo, ad essere intervenuta per aiutarlo ancora una volta.

Continuò a camminare, provando a sforzare le gambe per sbrigarsi, contro ogni logica: sapeva di essere ad un passo dallo svenire, non si era mai sentito così debole e dolorante come in quel momento, così angosciato e stanco, ma la forza bruciante dentro di lui lo sosteneva, e lo avrebbe sostenuto almeno fino a che non avesse trovato Sam e l'avesse salvata.
Dopo poteva anche morire, non gli importava.

Il corridoio era vuoto e lungo, con poche porte sporadiche che aprì ogni volta che ci arrivava, scoprendo solo stanzette asettiche e spoglie, quasi come se il palazzo fosse completamente inutilizzato. Come non fosse mai stato abitato.
La porta alla fine si aprì su due scale, una verso l'alto e una verso il basso.
Si poggiò al muro con una spalla mentre valutava in fretta che direzione prendere, pregando di non sbagliare: ai pazzi maniaci in genere piaceva controllare tutto dall'alto, all'ultimo piano delle loro roccaforti, nelle loro megalomanie da sadici bastardi, ma Hersen era uno psicotico che lavorava nelle ombre e strisciava nel buio per nascondere la sua mostruosità, interiore ed esteriore, avrebbe avuto più senso se fosse nelle fondamenta del palazzo a trafficare con i suoi esperimenti.
La rabbia lo investì con ancora più forza, al pensiero che Sam potesse essere nelle sue mani, lì sotto.

Si gettò verso il basso, concentrato perché le ginocchia non cedessero ad ogni passo e lo mandassero a ruzzolare giù per le scale, attento ad ogni nuovo rumore che potesse presentarsi.
Sentì uno sbuffo, come di un macchinario a vapore, qualcosa che gettava fumo nell'aria.
Alla terza rampa di scale l'aria era decisamente più densa, una leggera nebbiolina, e c'era un caldo soffocante, umido e dall'odore di muffa.
L'unico altro suono che sentì era il ritmo scompagnato dei suoi passi, quasi strusciati contro il pavimento.
La fine delle scale dava su una porta rossa e mezzo arrugginita, grande tanto da poterci far passare un furgone con facilità, percorsa per metà da una grande finestra sporca e appannata.
Strisciò con dorso del braccio con cautela, togliendo uno spicchio di sporco, gettando poi uno sguardo attento oltre: c'era una grande stanza, un sotterraneo ombroso, alto e grigio, illuminato fiocamente da sporadiche luci di emergenza.
Pareva un parcheggio abbandonato.

Aprì la porta senza incontrare alcuna resistenza, entrando nell'ambiente con la paura ad unirsi al magone nel petto.
Capì immediatamente che la sua intuizione era stata giusta: doveva essere stato il parcheggio dell'edificio, almeno in origine, con le grosse colonne a sorreggere il soffitto percorso da tubi e cavi elettrici e i numeri di ogni posto auto scritto a bomboletta per terra, ormai mezzo sbiaditi. Qualcuno però, aveva innalzato dei muri che tagliavano trasversalmente il sotterraneo, portandosi via parte dello spazio, probabilmente per creare delle stanze aggiuntive.
Non voleva sapere cosa nascondessero, cosa potesse esserci all'interno.
Continuò a camminare nel silenzio, mentre gli occhi si abituavano alla penombra, riuscendo a scorgere con facilità i pilastri sulla sua strada e un ammasso di cavi che serpeggiavano sul pavimento, verso il fondo. Li seguì, attento a non inciamparci sopra, certo che dovessero alimentare qualcosa di importante, e grande, a giudicare dalla quantità.

Qualcosa pulsava a intermittenza, nel fondo del sotterraneo. Percepì i contorni di una grande costruzione, sembrava un acquario, vide lo scintillio sulla sua parete in vetro, sempre più vicina.
Pensò per un secondo di essere preda delle allucinazioni. O di essere infine morto ed essere arrivato in una sorta di aldilà.
Scrutò la piccola figura con un rombo forte nelle orecchie, con un peso nello stomaco che gli attanagliava le viscere. Era accasciata sul fondo della grande teca in vetro, le sue squame gialle riflettevano la luce pulsante che arrivava dall'alto, i suoi occhi erano chiusi, ma ricordava il nero intenso di cui erano ammantati.

Mork” sussurrò Michelangelo, col magone. No, era Melissa il suo nome, lo sapeva bene ormai. E non poteva essere lei.
E se pure avesse negato la realtà di averla vista morire, ci pensò quel bracciale nel suo polso sinistro a svelarle chi fosse davvero quella figura in stato di incoscienza.

Volò per gli ultimi metri, ignorando dolore e fitte di strazio nel corpo e nel cuore, e la raggiunse, accasciandosi quasi senza forze contro il vetro, battendoci sopra con un vigore che non era più suo.
Sam! SAM!” urlò dal fondo dei polmoni stanchi, con un'urgenza e un orrore che se lo stavano mangiando in pochi secondi.
La sua paura più grande... non era riuscito a proteggerla, quel bastardo l'aveva presa e l'aveva trasformata in un mostro, come sua sorella prima di lei.
Era tutta colpa sua. Non se lo sarebbe mai perdonato.

SAM!”

Note:

Meno due capitoli, uno per Mikey e uno per l'epilogo di questa storia infinita, che ho maltrattato per troppi anni. 

Il prossimo tra sette giorni.

grazie 


  
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