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Autore: Soul of Paper    02/02/2020    7 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nessun Alibi

 

Capitolo 15 - Il Sangue


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


Nota dell’autrice: Abbiamo lasciato Imma e Calogiuri stesi a terra, uno sopra all’altra, in procinto di baciarsi, quando è sopraggiunta Jessica. Che succederà ora? Non vi faccio perdere ulteriormente tempo, vi lascio alla lettura e ci rileggiamo alle consuete note a fine capitolo ;)


Matarazzo continuava a fissarli, immobile come una statua di sale, la pistola ancora puntata, le braccia rigide ma che tremavano leggermente, tanto che per un attimo temette che le partisse un colpo.

 

Le salì il panico fino in gola, chiedendosi cosa avesse sentito e visto soprattutto. 

 

Calogiuri non perse tempo e si sollevò del tutto da sopra di lei, sembrando altrettanto sconvolto ed impanicato. Imma provò ad alzarsi da terra ma le gambe le cedettero e lui la afferrò per un soffio, passandole una mano intorno alle braccia e reggendola di peso, mentre Matarazzo, che aveva finalmente abbassato l’arma, non levava loro gli occhi di dosso, con un'espressione che dallo shock virava al rabbioso.

 

La fissò di rimando, sfidandola a dire qualcosa, ma l'agente mantenne il silenzio. Dopo poco, cercò di sfilarsi dalla presa di Calogiuri con un "ce la faccio a reggermi, mo. Tranquillo, Calogiuri."

 

"No, dottoressa, vi riaccompagno alla macchina e-"

 

Uno scalpiccio di passi annunciò l'arrivo dei vigili del fuoco ma lei urlò un "fermatevi!" che li bloccò sulla porta.

 

"Calogiuri, guarda che c'è nell'ufficio e poi, se serve, li facciamo entrare. Se no la scientifica qui non trova più niente," ordinò, appoggiandosi alla parete esterna dell'ufficio, intimando, col tono che non ammetteva obiezioni, quando non lo vide muoversi,  "Calogiuri, è un ordine!"

 

Lui deglutì ed annuì, lanciandole un'ultima occhiata preoccupata, per poi recuperare la pistola, abbandonata a terra poco distante, ed avvicinarsi alla porta. Si bloccò con la mano sulla maniglia, guardandole le gambe ed esclamando, atterrito, "ma... sanguin- ate!"

 

Imma abbassò lo sguardo e notò che era vero: un rivolo di sangue le scendeva dal ginocchio destro fino alla caviglia. Sollevò leggermente la gonna, temendo il peggio, il cuore che le rimbombava nelle orecchie, Calogiuri che, infrangendo l'ordine, tornava ad avvicinarsi, il terrore in quei suoi occhi troppo azzurri. Per fortuna si avvide che era una semplice sbucciatura, la calza che si era strappata sul ginocchio, probabilmente quando si erano rotolati a terra. 

 

"Tranquillo, non è niente. Veloce, Calogiuri, l'ufficio!"

 

Calogiuri assentì, facendo un cenno a Matarazzo che, sempre con quell'espressione durissima sul volto, si piazzò dall'altro lato della porta. Fecero irruzione, urlando dopo poco: "libero!"

 

Imma, zoppicante - cominciava a sentire male al ginocchio, ora che l'adrenalina scemava - si avvicinò all'ufficio, sostenendosi alla parete col gomito, per non lasciare impronte.

 

Spiò oltre l'uscio e vide una pila di carte ormai praticamente in fumo ed una tanica di benzina lì vicino, ancora chiusa: chi era venuto ad appiccare l'incendio non aveva potuto finire il lavoro e la fiamma per fortuna si era estinta da sola, forse per l’umidità, una volta che la carta era bruciata, senza intaccare i mobili circostanti. 

 

"Chiamate subito la scientifica! Dite ai vigili del fuoco che ci servirà magari la loro consulenza, ma per ora è meglio che non entrino. Matarazzo, il sospettato che fine ha fatto?"

 

"È scappato in auto, dottoressa, approfittando della confusione e del fumo. Capozza lo sta inseguendo con Lorusso."

 

Siamo a posto! - pensò, chiedendosi perché non lo avesse fatto Matarazzo l'inseguimento, per una volta che la sua guida sportiva sarebbe stata utile, invece di quella incerta di Capozza e poi-

 

E poi almeno non ti avrebbe beccata avvinghiata a Calogiuri, no, Imma? - le ricordò la Moliterni, gentilissima come sempre.

 

Chiuse gli occhi per scacciare quel pensiero e, quando li riaprì, si posarono sull'estintore, rotolato poco distante.

 

Una vampata tremenda al viso ed un brivido freddo la schiaffeggiarono nel notare ciò che probabilmente aveva causato il boato e il fumo: il foro di ingresso di un proiettile.

 

L’estintore le era caduto dalle mani nel buttarsi addosso al maresciallo. Si rese conto del tutto di quanto ci fosse andata così vicina, troppo vicina a… a perderlo per sempre.

 

Il mondo si fece a macchie, il sangue che le finì nei piedi e si sentì mancare le forze. Barcollò, cercando disperatamente di stare in piedi, maledicendo la propria debolezza: non era mica una donnicciola dell'Ottocento che sveniva ad ogni soffio di vento.

 

E, di nuovo, delle braccia familiari la presero, stavolta per la vita, tenendola in piedi ed intimando un, "adesso però vi porto fuori. Matarazzo, chiama la scientifica, subito, e un'ambulanza!"

 

"Niente ambulanza o vi faccio rapporto! È solo un calo di pressione, tranquillo, Calogiuri," lo rassicurò, appoggiandosi però di più a lui, la vista che piano piano tornava normale ma la testa che ancora le girava tremendamente.

 

Calogiuri sembrò voler protestare ma rimase poi in silenzio, continuando a condurla rapidamente verso l'uscita, lei che cercava di concentrarsi su dove mettere i piedi per evitare altri inciampi.

 

Fu così che la notò: una macchia rossa, tonda, una goccia quasi perfetta sul pavimento davanti a loro.

 

"Fermati, Calogiuri!" ordinò e lui la guardò preoccupato, forse temendo un altro mancamento, "non guardare me, guarda a terra!"

 

"Sangue?"

 

Osservarono meglio il pavimento, notando che la scia di macchioline proveniva da vicino all'ufficio e proseguiva fino alla serranda e presumibilmente pure oltre.

 

"Matarazzo, la scientifica, ora! O lei o Capozza c’avete avuto la mira buona. E allertate gli ospedali di avvertirci se si presenta qualcuno con una ferita d’arma da fuoco, anche se ne dubito."

 

"Agli ordini, dottoressa," sibilò, estraendo però il cellulare e facendo come le era stato chiesto.

 

Arrivarono in qualche modo alla macchina di Calogiuri, che la fece accomodare sul sedile del passeggero.

 

"Vi posso almeno accompagnare al pronto soccorso? Vi dovete far medicare," chiese, il tono dolce e preoccupato come probabilmente mai prima.

 

Ed era tutto dire, trattandosi di Calogiuri.

 

"Sì, al pronto soccorso per un ginocchio sbucciato, mo, che la sanità italiana non è già abbastanza intasata, Calogiuri. Non serve! Basta un po' di disinfettante e un cerotto o una garza. E devo togliere le calze."

 

"Se volete, il kit di pronto soccorso nel bagagliaio c'è, ma…"

 

Imma si sentì di nuovo avvampare, ma per motivi diversi, rendendosi conto che non fosse il caso che lo facessero lì, davanti ad uno stuolo di vigili del fuoco, visto che avrebbe dovuto come minimo sollevare la gonna per levare i collant.

 

Poi altro che le voci… a parte che con quello a cui aveva probabilmente assistito Matarazzo, forse era troppo tardi per preoccuparsi di quello.

 

"Se volete torniamo in procura, o ci allontaniamo un poco di qui, se preferite.”

 

"La seconda che hai detto, Calogiuri, tanto stiamo in un posto isolato," acconsentì, chiudendo la portiera, Calogiuri che si affrettò a mettersi al volante e a partire.

 

Percorsero pochi chilometri: giusto il necessario per essere in mezzo al nulla più totale dei campi spogli, appena seminati. Calogiuri accostò e scese dall’auto, aprendo il bagagliaio e poi la portiera del passeggero, un kit di primo soccorso in mano.

 

“Se… se volete levarvi le calze, vi copro, in caso passasse qualcuno,” si offrì, girandosi di spalle e facendo da barriera, in modo che lei fosse riparata tra l’auto, la portiera aperta e il corpo di lui.


Imma provò un moto assurdo di tenerezza e non solo per il voi, chiaramente usato per cercare di mantenere un minimo di professionalità, visto che non c’era in giro nessuno, ma anche che si fosse voltato… nonostante tutto il pregresso tra loro.

 

Ma forse era meglio così o… o non sapeva che sarebbe potuto succedere: l’atmosfera si stava già facendo fin troppo elettrica, passata l’adrenalina, o forse proprio per quella.


Si sbrigò a sollevare la gonna e far scendere i collant, almeno finché arrivò all’altezza del ginocchio infortunato e le sfuggì un’esclamazione di dolore dalla gola.

 

“Tutto bene, dottoressa?”

 

“Mi si sono incollate le calze alla ferita, Calogiuri.”

 

“Se… se vi sedete ci penso io,” pronunciò, sembrando a disagio, e ad Imma sfuggì un altro sorriso intenerito, rimettendo a posto la gonna e riaccomodandosi sul sedile.

 

Calogiuri si voltò e si mise in ginocchio davanti a lei, in una posa che non fece che aumentare il crescente imbarazzo, mentre, per qualche assurdo motivo, le tornò in mente Romaniello e quel soprannome, Il Cavalier Servente.

 

Le dame, i cavalier, l’arme, gli amori… e tutto il resto appresso.

 

Calogiuri si igienizzò le mani, estrasse il disinfettante, lo aprì e lo sollevò verso il suo ginocchio. Non potè non notare che la mano gli tremava terribilmente - sicuramente non per il clima, fresco ma non così tanto. Le dita della mano libera si posarono all’esterno del ginocchio infortunato, vicino alla ferita ma non troppo, una scossa elettrica tremenda che le percorse tutto il corpo, prima che le scappasse un mugolio di dolore, quando sentì il disinfettante colare sulla ferita.

 

“Scusa-te, ma devo bagnare la ferita per togliere la calza senza strappare,” spiegò Calogiuri, rimettendosi al lavoro.

 

Era delicato, di una delicatezza commovente, come sempre, nonostante le mani tremanti, il dolore che si mischiava alle scosse elettriche in una specie di sovraccarico per le sue terminazioni nervose, che non ci capivano più niente - e lei con loro.

 

Erano quasi quarant’anni che non si sbucciava le ginocchia, dai tempi delle scuole elementari, ma ormai la regressione era completata ed il cerchio era chiuso.

 

Riuscì infine a levarle i collant, il rossore familiare che gli prese il collo e le guance quando gliele sfilò insieme agli stivaletti leopardati, il destro ormai macchiato di sangue. E poi si impegnò con la medicazione e la garza, lei che d’istinto gli strinse una spalla, l’altra mano che artigliava il sedile, cercando di contenere il male e non muoversi troppo.

 

Ben presto la fasciatura fu terminata, il dolore che gradualmente scemò, mentre le dita di Calogiuri le sembrarono improvvisamente impresse a fuoco nella sua coscia, appena sopra il ginocchio. Il fiato le si fece corto, lui sollevò il viso ed incrociò i suoi occhi: arrossati, stanchi, sfatti ma pieni di troppe emozioni per potere essere definiti.

 

Senza sapere come, le mani le scivolarono dalle spalle a quel collo rosato, che sotto i suoi polpastrelli divenne rosso vivo, la pelle ancora più morbida di quanto la ricordasse - ah, la gioventù!

 

Stava per cedere alla follia e baciarlo, come avrebbe già voluto fare nel capannone, fregandosene dei buoni propositi - che le sembravano improvvisamente talmente stupidi ed insensati, di fronte alla prospettiva della morte - ma in quel momento sentirono il rumore di un motore e videro la camionetta della scientifica avvicinarsi a marcia spedita.

 

Calogiuri si affrettò a tirarsi in piedi, le mani che le mollarono bruscamente la gamba, causando brividi di freddo e non solo, mentre si dedicava a ritirare tutto nel kit di primo soccorso, con una cura che neanche fosse stata una valigetta piena di esplosivi.

 

Imma si rinfilò gli stivaletti, maledicendo il freddo alle gambe, ripromettendosi di portarsi sempre un paio di collant di ricambio, e richiuse la portiera. Il maresciallo la raggiunse dal lato del guidatore proprio mentre la scientifica si accostava a loro, per chiedere indicazioni.

 

“Sì, proseguite su questa strada, vi raggiungiamo tra poco,” urlò, il sangue che ancora le rimbombava nelle orecchie, intercettando l’occhiata preoccupata di Calogiuri e rassicurandolo, “ce la faccio, Calogiuri. Andiamo a vedere chi c’ha fatto sto bello scherzetto, sempre se Capozza è riuscito a prenderlo.”

 

“Sei sicura?” le domandò, e non era il carabiniere che parlava e chiedeva conferma dell’ordine alla dottoressa, era l’uomo che chiedeva conferma a Imma, come l’aveva di nuovo chiamata nel capannone.

 

“Tranquillo, ce la faccio. E se non mi sentissi bene te lo dico subito, veramente, non ti preoccupare.”

“Che non ti conosco?” rispose con un sorriso mezzo esasperato, strappandole a sua volta un sorriso.

 

“Non ci tengo a sfracellarmi di nuovo a terra e a farmi fare un’altra medicazione, Calogiuri,” lo rassicurò, anche se, dolore a parte, non era stata poi così male, affatto.

 

Calogiuri fece inversione a U. In un silenzio carico di elettricità ma senza quella malinconia latente, ritornarono al capannone, trovandosi di fronte Matarazzo che continuava a fissarli, ostile, gli occhi che si alternavano tra loro due per poi cadere sulla fasciatura sul ginocchio. E, purtroppo, al suo fianco c’era Capozza, con un’aria mortificata che non prometteva niente di buono.

 

“Capozza… non mi dica che-”

 

“Mi è scappato, dottoressa, mi dispiace! Ad un certo punto si è infilato nel bosco e… ho ritrovato la macchina ma non so dove sia finito. Ma era ferito, c’era sangue sul sedile, dubito possa essere andato lontano.”

 

“Dobbiamo chiamare subito una squadra per perlustrare il bosco.”

 

“Ci penso io, dottoressa, e-” si offrì Calogiuri, ma Matarazzo lo interruppe, con un’occhiata eloquente, annunciando: “non si preoccupi, maresciallo, ho già fatto io, non appena Capozza è tornato a mani vuote. Che non sapevo se e quando sareste tornati.

 

“Bella iniziativa, Matarazzo,” si costrinse a complimentarsi Imma, per una volta senza rispondere al sarcasmo con altro sarcasmo, ma Miss Sicilia la guardò come se l’avesse appena insultata.

 

“Capozza, conduca un paio di agenti della scientifica all’auto. Calogiuri, vieni con me a perlustrare meglio il capannone, mo che è sicuro. Matarazzo, attenda i rinforzi e dia loro istruzioni per il pattugliamento del bosco, visto che li ha chiamati lei. Una volta che abbiamo finito col capannone la raggiungiamo, Capozza, che la macchina voglio vederla pure io. Forza, veloce!”

 

E, dopo un’ultima occhiata raggelante di Matarazzo ed una mortificata di Capozza, rientrò in quel capannone, l’odore della schiuma dell’estintore misto al fumo che permeava ancora l’aria, la presenza rassicurante di Calogiuri alle sue spalle che le fu annunciata da una scarica di elettricità statica.

 

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Sospirò e dovette arrendersi: a parte le tracce di sangue e ciò che delle carte si era salvato dall’incendio, nel capannone non c’era niente di apparentemente utile, almeno ad occhio nudo.

 

E pure sulla vettura: un’auto che, da una prima ricerca, risultò intestata ad un pensionato ottantasettenne. L’ennesimo prestanome del giro di Quaratino, probabilmente.

 

A parte la macchia di sangue e qualche capello, utili per il DNA, nulla: la macchina era stata chiaramente usata appositamente per quella missione.

 

E quindi non poteva essere una coincidenza: qualcuno aveva intuito che sarebbero presto arrivati al capannone ed aveva agito per far sparire le prove. Probabilmente non pensavano che ci si sarebbero recati immediatamente.

 

Ma la soffiata doveva essere partita dal carcere, per forza. Si chiese se qualcuna delle guardie fosse in combutta con Romaniello e con i Serpenti. Il trasferimento di Quaratino doveva avvenire prima di subito.

 

Certo, per la fretta il criminale aveva dovuto lasciare delle tracce, che sarebbero state fondamentali, qualora fosse già stato schedato. Ma se non lo fosse stato… doveva solo sperare che le pattuglie della forestale e dei carabinieri lo trovassero nel bosco.

 

“A che pensate, dottoressa?”


“Che oggi non troveremo più niente, Calogiuri. Meglio rientrare, che tra poco farà buio. Hai saputo niente di Quaratino?”


“Sì, dottoressa, mi hanno riferito che sta raccogliendo i suoi effetti personali e lo trasferiranno oggi stesso nel carcere di Milano,” spiegò, avviandosi insieme a lei verso l’auto di servizio.

 

Incespicò sullo sterrato, tra i tacchi ed il ginocchio malandato, e si sentì afferrare per un braccio, un fuoco che le si diffuse immediatamente fino alla punta delle dita, non rendendo affatto più facile la deambulazione. Ma si lasciò sorreggere, contando che lui avesse abbastanza equilibrio per entrambi, pure in senso metaforico.


“Bene, speriamo che la distanza sia sufficiente e che i Serpenti non abbiano contatti pure lì. Ma più di così non possiamo fare…” riuscì infine a pronunciare, quando lui lasciò la presa per aprirle la portiera, abbassandosi con un po’ di fatica sul sedile, il ginocchio che cominciava a pulsare.

 

Calogiuri partì e, in un’atmosfera talmente densa da levare il fiato, percorsero in relativo silenzio la stradina sterrata che dal bosco conduceva verso il capannone. Superandolo notò che la camionetta della scientifica era ancora lì per gli ultimi rilievi, mentre l’auto di servizio usata da Matarazzo era assente: l’agente doveva essere già rientrata.

 

E te pareva! Voglia di lavorare saltami addosso! - pensò, con un sospiro, seguito però da una fitta di preoccupazione.

 

Sperava non fosse corsa a far rapporto a Vitali, non che avesse prove in mano: lei e Calogiuri avevano appena rischiato la vita e potevano spiegare facilmente perché lui fosse sopra di lei. Quello che si erano detti e che fossero palesemente in procinto di baciarsi… quello sarebbe stato assai più difficile da spiegare, sebbene sarebbe stata la parola di Matarazzo contro la sua e quella di Calogiuri. Ma stavolta non poteva precederla, andando da Vitali con una scusa in proposito, senza spararsi nei piedi da sola. Perché una scusa credibile semplicemente non esisteva, probabilmente nemmeno Latronico sarebbe riuscito ad inventarsela.

 

Avevano percorso qualche chilometro, la penombra che diventava buio, quando Calogiuri prese una buca ed il ginocchio le finì contro lo sportello dell’auto, causandole un’esclamazione di dolore.

 

“Tutto bene?” lo sentì chiedere, preoccupato, frenando immediatamente, la macchina che si arrestava in mezzo al nulla più assoluto.

 

“Ho… ho solo picchiato il ginocchio, niente di grave, tranquillo,” lo rassicurò, mentre si teneva ai lati della fasciatura, nemmeno questo potesse fermare il male.

 

“Mi dispiace io… se vuoi- se volete, posso rifare la medicazione,” si offrì, e fu in quel momento che la sua mano destra finì sopra le sue, “fai- fatemi vedere.”

 

Una scossa elettrica più forte di tutte le precedenti messe insieme le fece sfuggire un’esclamazione che era di tutto tranne che di dolore. Istintivamente gli bloccò la mano tra le sue, perché il suo tocco in quel momento non era solo pericoloso, ma insopportabile.

 

Il fiato corto che manco avesse avuto l’asma, il cuore che pareva un martello pneumatico, ebbe la malaugurata idea di incrociare il suo sguardo, così carico di preoccupazione, di desiderio, di amore, mentre la mano di lui le stringeva spasmodicamente le dita.

 

Fu di nuovo questione di secondi, d’istinto, non avrebbe saputo sinceramente dire chi avesse iniziato, solo che si trovò incollata alle sue labbra, stretta tra braccia che le erano mancate più dell’aria, a baciarlo con disperazione, compressa tra il calore rassicurante del suo petto ed il sedile.

 

Forse per le ore passate l’uno accanto all’altra senza poter sfogare la tensione ormai alle stelle, forse per le settimane di astinenza reciproca, forse per l’adrenalina, forse all’idea della morte, mai tanto vicina, di ciò che avevano rischiato, furono colti da una specie di raptus, le mani che finivano sotto ai vestiti, toccando, accarezzando, con una frenesia incontenibile.

 

Almeno fino a che sentì le dita di lui insinuarsi sotto la gonna, proprio mentre si rese conto di avergli appena slacciato i pantaloni.


“Calogiuri, non-” lo bloccò, fermandogli le mani, prima che il raptus li conducesse a fare quella che non era solo una follia, ma un suicidio bello e buono.

 

“Scu- scusami, scusatemi, io-” balbettò, il rossore che gli si vedeva pure al buio, affrettandosi a ritrarre le mani fino a tenersele in grembo, chiuse a pugno.

 

“Non ti devi scusare,” lo rassicurò con un sorriso, sembrandole di essere tornati indietro nel tempo, all’estate precedente, a quel benedetto e maledetto ingorgo nel traffico che li aveva condotti fino a quel momento.

 

“Po-portami a casa,” le uscì dalla bocca, prima di potersi fermare, e lo vide guardarla con una delusione tale che fu un vero e proprio schiaffo.

 

Stupida, stupida! Ti aveva detto chiaro e tondo che non voleva solo questo e tu… tu ti fai avanti così, come un’assatanata?!

 

“D’a- d’accordo, dottoressa, vi riporto a casa,” replicò, deglutendo visibilmente, come compiendo uno sforzo sovrumano per ricomporsi, le mani che tornavano sul volante.

 

Comprese in quel momento che l’aveva fraintesa. E che, in quella specie di lapsus, in quell’assenza dell’aggettivo possessivo tua, stava un significato talmente grande che non serviva certo Freud per comprenderlo.

 

Avrebbe potuto tacere, anzi, avrebbe dovuto tacere, approfittando del malinteso, ma non ci riusciva ad essere razionale, non quel giorno.

 

“Inte- intendevo casa tua, Calogiuri,” sussurrò, con gli occhi bassi, avendo paura di leggere la sua espressione e trovarci un rifiuto, “scusami, lo so che non… che non è giusto e che non avrei dovuto, ma io non-”

 

Un tocco sulla guancia la zittì, dita tremanti che le sollevarono il viso fino a portare a guardarlo negli occhi, prima di trovarsi trascinata in un altro bacio, stavolta più breve e delicato.

 

“Non mi importa. Oggi non mi importa di niente,” le sussurrò sulle labbra, riaprendo gli occhi ed inchiodandola con uno sguardo che fu il colpo di grazia.

 

Lo baciò un’altra volta, tenendogli il viso tra le mani, imponendosi infine di staccarsi completamente da lui, prima di perdere del tutto il controllo.

 

Col fiato corto, si riallacciò la cintura, mentre lui si rimise alla guida, i minuti che sembravano eterni, mentre andavano veloci, fin troppo, prendendo la strada più breve possibile.

 

Un’esclamazione di sollievo le scappò dalle labbra quando riconobbe il condominio, ormai così familiare e che non pensava di rivedere mai più.

 

Calogiuri parcheggiò con una rapidità che ebbe quasi del miracoloso e che in altre circostanze le avrebbe strappato pure una battuta, ma non in quella. Si sganciò la cintura e provò a scendere, il ginocchio che le doleva sempre di più, arrancando in piedi, almeno fino a che si sentì afferrare di nuovo per la vita.

 

“Appoggiati a me. E questa fasciatura va rifatta assolutamente,” proclamò, sorreggendola e conducendola, a passo lento ma sicuro, fino al portoncino di ingresso e poi dentro l’ascensore, l’aria che sembrava sfrigolare in quell’ambiente piccolo e chiuso.

 

Non perse tempo ad aprire la porta di ingresso e, non appena si fu richiusa alle loro spalle, la prese in braccio, senza parole, come aveva fatto moltissime volte in passato, anche se per motivi diversi. Si aggrappò al suo collo, sentendosi, assurdamente, almeno per un istante, come una sposa alla prima notte di nozze.

 

Realizzò, mentre superavano il divano ed il salotto, quanto le fossero mancate quelle stanze, quanto le fosse mancato quel profumo che sapeva… sapeva di casa.

 

Quando venne depositata con delicatezza sul letto, aveva già gli occhi lucidi ed il petto che voleva scoppiare.

 

“Hai male?” le domandò, preoccupato, inginocchiandosi nuovamente di fronte a lei, le mani che andavano alla fasciatura, iniziando a disfarla, ma giele bloccò.

 

“Tranquillo, per la fasciatura c’è tempo, Calogiuri,” lo rassicurò con un sorriso, tirandolo per le mani e sussurrandogli, “vieni qui.”

 

Ricambiò il sorriso, con uno sguardo altrettanto commosso e si sedette accanto a lei, sembrando per un attimo quasi timoroso, forse di farle male, forse di farsi male e di… di tutto il resto.

 

Sciolse una mano dalle sue e gli accarezzò il viso e lui ricambiò, con mano tremante, prima di tirarla delicatamente a sé per un altro bacio.

 

E, a dispetto della frenesia che c’era stata in auto, su quel letto c’era un’atmosfera totalmente diversa, di un’intensità che non aveva nulla a che vedere col desiderio fisico. Si spogliarono senza fretta, Calogiuri che le tolse stivaletti e gonna con una cura che le causò quel calore tremendo, una lacrima che infine le scappò dalle ciglia.

 

Fu tenero, dolcissimo, le mani che si afferravano e che puntualmente tornavano sul viso, ad accarezzare le guance, a cercare il contatto visivo, a sorridersi con gli occhi lucidi, increduli, grati di essere lì, insieme, ancora una volta, di essere vivi, di essere, almeno per qualche istante, di nuovo loro.

 

Per quanto forti e travolgenti fossero state le emozioni che avevano condiviso in quei mesi, si rese conto in quel momento, ad ogni movimento dei loro corpi uniti, in quel sincronismo assurdo che li contraddistingueva, ad ogni carezza, ad ogni bacio, ad ogni gemito soffocato, di non aver provato forse ancora niente, e non solo dal punto di vista fisico. Di essere a malapena alla punta dell’iceberg di quello che sentiva per lui, pur non sapendo come fosse possibile.

 

Come fosse possibile sentirsi tanto amata e… e… e amare-

 

Un’esplosione di sensazioni la travolse: il cuore, la mente e il corpo che andavano in tilt allo stesso tempo, fino a non vedere, né sentire più niente tranne il cuore che batteva in ogni singola vena ed una sensazione di piacere e soprattutto di pace indescrivibile.

 

“Stai… stai bene?”

 

La sua voce preoccupata la forzò ad aprire gli occhi, mentre piano piano il mondo tornava a fuoco, due occhi azzurri che la guardavano pieni di lacrime.

 

“Co- come?”


“Stai bene?” ripetè, ancora più in apprensione, toccandole il viso, e si rese conto in quel momento di stare piangendo come una fontana e, dalla sensazione di freddo ed umido sul collo e sul petto, era già da un po’ che lo faceva.

 

Provò a parlare, ma non riuscì a trovare la voce e allora si limitò ad annuire, a sorridergli e a catturare quel sospiro sollevato tra le sue labbra.

 

E poi lo abbracciò, forte, fortissimo, fino a farsi male ai gomiti e alle spalle, come temeva non avrebbe mai più potuto fare, e si sentì avvolgere in un modo così delicato e saldo al tempo stesso, che non fece che incrementare quella sensazione al petto.

 

Quell’amore talmente grande che sembrava voler esondare da un momento all’altro.

 

Perché lei Calogiuri lo amava, lo amava, lo amava con un’intensità con cui non aveva mai amato nessuno in vita sua, a parte Valentina, ma quello era tutto un altro genere d’amore. Lo amava e basta, era inutile negarlo ulteriormente. Lo amava talmente tanto che si sarebbe fatta ammazzare per lui, anzi, che si era quasi fatta ammazzare per lui e non avrebbe mai rimpianto di averlo fatto.

 

Ma morire da eroi… quello per certi versi era facile: questione di istinto, di secondi, non tanto una scelta ma un impulso, quasi inspiegabile, di mettere la vita di qualcun altro di fronte alla propria.

 

La vera sfida era vivere, vivere davvero, non solo quel sentimento, ma tutto il resto della sua esistenza. Perché quello avrebbe richiesto coraggio, decisione, perseveranza, nonostante tutte le difficoltà di mesi, di anni, di una vita intera, se sarebbero stati abbastanza bravi ed abbastanza fortunati. Se avessero avuto la capacità di riuscire a conciliare due percorsi di vita in due fasi tanto diverse, in uno solo che arricchisse entrambi invece di rubare loro qualcosa. Soprattutto a lui.

 

Sarò pronta a farlo? - si chiese, continuando ad abbracciarlo, finché lo sentì muoversi leggermente, staccandosi di poco da lei, quegli occhi azzurri che tornarono a fissarsi nei suoi, ancora pieni di lacrime.

 

Sì.

 

Non c’era altra risposta possibile, quella era la verità. Avrebbe dovuto trovare il momento giusto di parlare con Pietro, capire come fare con Valentina e la maledetta maturità e poi-

 

“Non ti preoccupare…”

 

“Come?” gli chiese di nuovo, sentendosi un disco rotto e domandandosi, ancora una volta, se lui avesse la capacità di leggerle nel pensiero.

 

“Lo… lo so che non… che non cambia niente… e non mi aspetto niente,” pronunciò, una lacrima che gli scendeva sulla guancia, ma con voce decisa e con una rassegnazione, quasi un’ineluttabilità, che le torse il cuore in una morsa.

 

“Calogiuri…” sussurrò, asciugandogli la guancia con le dita, comprendendo come lui avesse forse frainteso le sue lacrime o forse… forse stesse cercando di lasciarle una via di uscita ed, allo stesso tempo, di farle capire che non ce l’aveva più con lei.

 

Ma, in compenso, lei ce l’aveva da morire con se stessa.

 

Diglielo che lo ami, diglielo che hai scelto lui ed è solo questione di tempo, che devi mettere a posto i pezzi della tua vita, ma che hai scelto lui, se è ancora così pazzo da volerti! - la esortò la Imma interiore, facendo casino come mai prima.

 

“Calogiuri, io… io… io ti-”

 

Un rumore infernale la interruppe, facendole fare quasi un salto. E realizzò che era la suoneria d’emergenza del suo cellulare, l’unica che si fosse sprecata a personalizzare, visto che colei che usava l’altro numero - peraltro intestato sempre a lei - la chiamava talmente di rado che, quando lo faceva, di solito c’era qualche casino abnorme da risolvere.

 

Si guardò intorno ed individuò la borsa in un angolo della stanza, mezza sepolta sotto al cappotto. Fece per voltarsi, per scendere dal letto ed andarla a prendere, ma sentì il materasso muoversi e Calogiuri, con un balzo, la precedette, raccogliendo la borsa da terra e porgendogliela. Con uno sguardo grato e dispiaciuto al tempo stesso, ci scavò dentro, fino a individuare il telefono, che aveva smesso di suonare nel frattempo.


Richiamò.

 

“Mamma, dove sei?!”

 

La voce di Valentina suonava terrorizzata.

 

“Valentì, che succede?! Ti è successo qualche cosa?! Dove sei tu?!” domandò, un senso di terrore dritto in pancia, come solo Valentina - e mo pure qualcun altro - le suscitava.

 

“Sono a casa, io! Dove sei tu che-”

 

“La cena!” si ricordò improvvisamente, notando che ormai erano già le venti passate e Valentina probabilmente la stava aspettando da un po’, “sì, lo so, Valentì, tra… tra poco arrivo, ma al lavoro oggi è successo… di tutto e-”

 

“Appunto! Lo so, mà! La sparatoria! Lo hanno detto al tg, che ti hanno sparato addosso e… e avevo paura che-”


La voce all’altro capo del telefono si interruppe ed Imma si chiese, con un’altra mareggiata di senso di colpa, se la figlia stesse piangendo.


Certo, ogni dimostrazione d’affetto di Valentina per lei era un mezzo miracolo, ma non voleva che la pensasse ferita gravemente o peggio.

 

Anche se questo lasciava un problema fondamentale: qualcuno aveva fatto una soffiata a Zazza, ma chi? Se scopriva chi era la talpa in procura...!

 

“Valentì, tranquilla: c’è stata una sparatoria sì, ma nessuno mi ha sparato,” la rassicurò, in quella che era una mezza bugia ed una mezza verità, “tra poco arrivo, va bene? Stai tranquilla, lo sai che i giornalisti esagerano sempre per fare notizia.”

 

“Torna presto, ok? Non sapevo se avvisare papà ma-”

 

“Mo ci manca solo quello! Quando torna a casa gli spieghiamo tutto. Arrivo.”

 

“Mamma…”

 

“Sì?”

 

“Ti voglio bene!” esclamò con la voce rotta dal pianto ed Imma, che aveva a malapena smesso di piangere, sentì lacrime fresche solcare le guance che tiravano già terribilmente.


“Anche io, pure se non sono brava a dimostrarlo,” le rispose, lanciando un’occhiata a Calogiuri che aveva uno sguardo intenerito, “tra poco sono a casa, va bene? Scalda la cena. A tra poco.”

 

“Scusami, Calogiuri, ma-”

 

“Il nostro amico Zazza ha avuto la notizia e ci ha fatto su un bel romanzo?”


“Già… e… e mo devo tornare a casa a tranquillizzare mia figlia. Scusami,” ripetè, accarezzandogli nuovamente una guancia, tutte le cose che voleva dirgli che le bruciavano ancora in gola, ma si rese definitivamente conto che non poteva dirle in quel momento.

 

Non poteva diventare una di quelle donne sposate - anzi, di solito erano uomini a dir la verità - che prometteva all’amante di lasciare il consorte e poi… e poi, come si era visto benissimo, la vita ci si metteva sempre di mezzo e Valentina aveva un tempismo quasi degno di quello di suo padre.

 

No, lei non avrebbe fatto promesse che poi chissà quando avrebbe potuto mantenere. Non avrebbe illuso Calogiuri prima del tempo e soprattutto non lo avrebbe coinvolto in casini in cui non era giusto coinvolgerlo. Avrebbe trovato il modo di parlare con Pietro, e forse pure con Valentina, a seconda di come sarebbe andata con Pietro. E poi coi fatti in mano, non con le parole, sarebbe andata da Calogiuri, gli avrebbe confessato ciò che sentiva per lui ed avrebbero deciso insieme il da farsi.

 

“Non ti devi scusare: guarda che lo so che tua figlia è più importante, ed è giusto,” le rispose con un sorriso, nonostante la malinconia di fondo che era anche la sua.

 

Avrebbe voluto dirgli che era importante in modo diverso, perché, di fatto, per salvare lui aveva quasi rischiato di rendere Valentina orfana e… e se da un lato il pensiero la atterriva e la faceva sentire in colpa verso la figlia, dall’altro lato, di nuovo, non riusciva a pentirsene e lo avrebbe rifatto altre mille volte. Forse questo la rendeva una madre degenere, ma era semplicemente ciò che sentiva.

 

Però Valentina era sua responsabilità e, di conseguenza, la sua priorità assoluta doveva essere lei, il suo futuro, pur essendo ormai maggiorenne. E doveva capire come fare per renderle il meno traumatica possibile la separazione da Pietro.

 

“A che pensi?” le domandò, il radar che si riattivava.


“A tutti i casini che ci aspettano fuori da qui, Calogiuri,” ammise, anche se era solo una versione generica e parziale della verità, provando a mettersi seduta sul bordo del letto e sibilando dal male al ginocchio.

 

Si rese conto, il viso che avvampava, che la fasciatura si era spostata e di avere macchiato di sangue il lenzuolo.

 

Altro che prima notte di nozze! Anche se qui la verginità è da mo che si è persa!

 

“Scusa, Calogiuri, mi dispiace, io-”

 

“Ma non dirlo nemmeno per scherzo! Le lenzuola si lavano,” la rassicurò, levandole il tessuto macchiato dalle mani, come se non fosse successo niente, “ma la fasciatura va rifatta per forza. Sarò veloce, non ti preoccupare.”

 

“Calogiuri…” sussurrò, commossa, mentre lui raccoglieva i vestiti da terra e glieli porgeva, affinché potesse rivestirsi, e sparì in bagno, tornando con il necessario per la medicazione.

 

Fu rapido come promesso, sebbene la sua ispezione del ginocchio non rivelò buone notizie, “temo che, oltre alla ferita, abbia preso anche un bel colpo. Si sta gonfiando. Dovresti metterci del ghiaccio e, se non migliora in un paio di giorni, magari farlo vedere da un ortopedico.”

 

“Agli ordini, dottore,” replicò, ironica ma grata per tutta quella premura, stringendo i denti e cercando di non mostrare troppo il dolore, finché la fasciatura fu terminata e potè rivestirsi del tutto.

 

E, non appena lo ebbe fatto, si ritrovò con Calogiuri già bello che vestito, che la prese in braccio come se fosse la cosa più naturale del mondo.

 

Le scappò un sorriso, senza volerlo.

 

“Che c’è?”


“C’è che sto pensando a come fare domani per venire al lavoro. Che mica mi puoi prendere in braccio pure in procura, se no… va beh che con quello che è successo oggi…”


Ed improvvisamente, l’atmosfera si fece seria e nessuno dei due ebbe più voglia di ridere.

 

“Se serve… se serve con Jessica posso provare a parlare e-”

 

“Per carità, Calogiuri: arrabbiata com’è ci manca solo quello. Dobbiamo sperare che non voglia causarsi mal di testa: alla fine non ha niente in mano e, in caso riferisca qualcosa a Vitali, è la nostra parola contro la sua,” lo tranquillizzò, sebbene lei stessa non fosse affatto convinta.

 

Calogiuri annuì e, dopo poco, si ritrovò fuori dall’appartamento, da quell’atmosfera che già le mancava terribilmente, e Calogiuri la depositò a terra nell’ascensore.

 

Arrivare all’auto fu più faticoso del previsto, pur con lui che la teneva stretta, sostenendo quasi tutto il suo peso. La botta iniziava davvero a farsi sentire.

 

Il tragitto in auto fu breve e silenzioso, mentre Imma si chiedeva come avrebbe fatto a fare le scale per raggiungere il suo appartamento.

 

E, quando Calogiuri parcheggiò nella piazza antistante, incrociando il suo sguardo capì che si stava facendo la stessa domanda.


“Ti… ti accompagno fino alla porta… tuo marito c’è? Lo so che… che non sarebbe il caso… ma le scale non le puoi fare da sola.”

 

“Pietro credo sia ancora fuori, ma c’è Valentina. Se mi accompagni fino alla porta, poi suono e mi aiuta lei.”

 

Lui annuì e scese dall’auto, aprendole la portiera e tirandola su quasi di peso dal sedile, quando una voce familiare e disperata la bloccò.

 

“Mamma!”

 

Imma si voltò e la vide: alla base della scala, gli occhi che brillavano pure al buio. Istintivamente, mollò le mani di Calogiuri, che ancora la sostenevano, ma fu una precauzione inutile, perché Valentina le si buttò addosso, abbracciandola, che per poco non si schiantavano per terra. E non potè evitare di farsi sfuggire un’esclamazione di dolore.


“Mamma, che hai?” chiese Valentina, sciogliendo leggermente l’abbraccio, facendole perdere del tutto l’equilibrio.

 

Per fortuna, intervenì Calogiuri, prendendola per un braccio e tenendola in piedi, prima che trascinasse per terra pure Valentina.

 

“Mà, che hai?” ripetè, alternando lo sguardo tra lei e Calogiuri, per poi fare un passo indietro ed abbassare lo sguardo, esclamando, terrorizzata, “ma cos’hai al ginocchio?! Allora ti hanno… ti hanno sparato davvero?”

 

“Ma no! Ho una sbucciatura e ho preso una botta. Sono caduta nella confusione, poi sai, con i tacchi...” minimizzò, mentre Valentina la guardava con l'espressione di quando temeva le stesse raccontando balle.

 

E poi Valentina rivolse lo sguardo a Calogiuri, “lo so che prende ordini dalla dottoressa, qui, ma è vero che non è una ferita da arma da fuoco?”


“Guardate, se fosse una ferita d’arma da fuoco, vostra madre a quest’ora sarebbe in ospedale,” rispose Calogiuri, con il tono più professionale e cortese che gli avesse mai sentito.

 

E Valentina, per tutta risposta, scoppiò a ridere.


“Valentì…” la avvertì Imma, sperando che la figlia non si esibisse in qualche battutina delle sue - che quelle in parte le aveva prese da lei, e sapeva essere molto pungente quanto ci si metteva.

 

“Scusa, mà… anzi mi scusi… maresciallo, giusto? Ma non pensavo che esistesse ancora gente che dava del voi. Poi ad una della mia età.”

 

“Sono in servizio e siete parente della dottoressa, quindi non posso darvi del tu,” chiarì con un sorriso.

 

“Ed io che pensavo di essere messa male ad averla per madre. Averla come capo deve essere mille volte peggio. Mamma, il maresciallo può darmi del tu e non farmi sentire in età da badante, o questo reca offesa alla tua autorità?”

 

Imma dovette trattenersi dal ridere di fronte a quella conversazione così surreale.

 

“Il maresciallo può fare quello che vuole, basta che ci leviamo di qui che comincio ad avere male al ginocchio. Calogiuri, mi puoi aiutare a fare le scale?”

 

“Mà, ti posso aiutare pure io,” si offrì Valentina, prendendole l’altro braccio e passandoselo sopra la spalla.

 

Imma si scambiò un rapido sguardo di intesa con lui e, pregando di non schiantarsi tutti e tre sulle scale, si avviò con loro su per i gradini, Valentina che cercava di coordinare i loro movimenti a furia di "uno, due, uno, due", in quella che pareva quasi una coreografia di cabaret - o di Don Lurio - venuta male. Sentire la mano di Valentina appena sotto quella di Calogiuri sulla sua schiena, per qualche motivo, le provocò un tremendo nodo in gola.

 

Aspetta che sappia di voi, Imma, e poi altro che salire per le scale a braccetto tutti insieme appassionatamente. Dalle scale vi ci spinge giù lei! - le ricordò la voce della Moliterni, con la solita mira da cecchino.

 

Dopo un tempo che sembrò interminabile, giunsero infine sul pianerottolo.

 

“Grazie, Calogiuri. Da qui credo che ce la facciamo io e Valentina, giusto?”


“Giusto, dottoressa,” replicò Valentina, sarcastica come sempre. Ma, non appena Calogiuri mollò cautamente la presa, la sentì stringerla più forte a sé, in quello che era praticamente un mezzo abbraccio.

 

“Allora io vado, dottoressa. Buona serata a tutte e due. Domattina se volete vi posso passare a prendere, come preferite.”

 

“Ma no, Calogiuri, non serve: mi faccio accompagnare," lo rassicurò, guardandolo in un modo come a cercare di fargli capire che fosse per evitargli altre situazioni imbarazzanti.

 

"Come preferite. A domani," si congedò, con un ultimo sguardo d’intesa.

 

O almeno ci provò perché, proprio mentre si stava girando, una figura comparve sulle scale.

 

"Maresciallo?! Amò, Valentì?! Ma che succede?"

 

"Niente, Pietro, poi ti spiego," provò a tagliare corto Imma, maledicendo il tempismo dei De Ruggeri.

 

"Mamma si è fatta male ad un ginocchio cadendo durante una sparatoria, ma non le hanno sparato. E il maresciallo ci ha aiutate a farle fare le scale."

 

"Una sparatoria?!” esclamò Pietro, con un’espressione spaventata, avvicinandosi a lei e prendendole il viso tra le mani. Imma non potè ritrarsi, anche perché Valentina la teneva saldamente nel suo abbraccio, “amò, ma-"

 

"Pietro, ne possiamo parlare in casa che vorrei sedermi e mettere del ghiaccio sul ginocchio, magari?” provò a svicolare, bloccandogli le braccia con le sue prima che gli venissero altre idee, per poi voltarsi verso Calogiuri e lanciargli un’occhiata di scuse, vedendolo lì, immobile, con un’espressione tra il dolore e la rassegnazione sul viso, “Calogiuri, vai pure, tranquillo."

 

"Maresciallo, aspetti!" lo bloccò Pietro, lasciandola andare e voltandosi verso l’altro uomo, che si fermò e alternò lo sguardo tra i due coniugi, l’aria di chi voleva essere ovunque tranne lì.

 

"Volevo ancora ringraziarla per… per il salvataggio al maneggio. E scusarmi con lei e anche con la sua fidanzata per… il casino che ho combinato."

 

"Ma figuratevi. Non vi dovete scusare: ho solo fatto quello che avrebbe fatto chiunque. E Sabrina faceva il mestiere suo. Io ora andrei che già è tardi e-"

 

"Ma perché non si ferma a cena? Valentina cucina benissimo e almeno la ripaghiamo un po' di tutto il disturbo, no, amò?"

 

Ma che è? Un vizio di famiglia?! - pensò Imma, ricordando l'invito a cena di sua suocera. Anche se almeno Pietro non cercava un buon partito per Valentina.

 

"Pietro, guarda non-"

 

"La ringrazio moltissimo per l'invito ma ho già un appuntamento per cena e sono pure in un ritardo tremendo e se non mi presento…" la interruppe Calogiuri, deciso, ed Imma notò con rammarico che pure lui era diventato fin troppo bravo a mentire. Ed era tutta colpa sua.

 

"No, per carità, non voglio causarle problemi con la sua fidanzata, che ho visto quant'è tosta. Ne so qualcosa di stare con una donna forte, eh, amò?” le disse Pietro, abbracciandola dal lato lasciato libero da Valentina e dandole un bacio sulla guancia. Imma notò chiaramente la mascella di Calogiuri aumentare di volume.

 

“Calogiuri, vai tranquillo. E grazie ancora di tutto e… e scusami per… per tutto quanto,” gli disse, sperando che capisse, anche se sapeva benissimo che nessuna scusa sarebbe stata sufficiente.

 

Ma Calogiuri si limitò ad annuire e, con quell’espressione neutra che lei ormai tanto temeva e un “figuratevi, dottoressa, a domani…” si voltò e scese rapidamente per le scale, sparendo dalla sua vista.

 

Si sentiva una merda: lo aveva portato a subire l’ennesima umiliazione e proprio quella sera, di tutte le sere possibili. Doveva sbrigarsi a trovare un momento buono per parlare con Pietro anche se… avrebbe almeno dovuto aspettare di essere in grado di camminare sulle sue gambe. Perché c’era la possibilità concreta che avrebbe dovuto andarsene di casa, se Pietro non avesse accettato di aspettare un po’ di tempo prima di dare la notizia a Valentina. Del resto… era casa di Pietro quella, della sua famiglia e non sarebbe stato giusto costringerlo ad andarsene, non avendo oltretutto alcuna colpa.

 

“Amò, ma mi spieghi che ti è successo al ginocchio?”

 

“Sì, ma non qui, entriamo che ho bisogno del bagno, di cambiarmi, di una sedia e del ghiaccio, in quest’ordine,” spiegò, col suo solito piglio di comando, l’arma migliore che aveva per cercare di dissimulare e di sopravvivere alle premure di Pietro senza farsi sopraffare dai sensi di colpa. E non solo nei confronti di Pietro.

 

Ma doveva tenere duro: il limbo stava per finire e poi… nel bene o nel male avrebbe davvero dovuto camminare sulle sue gambe. In tutti i sensi.

 

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Imma sospirò, dando l’ultimo morso al panino che si era fatta portare dal bar della procura. Giuseppe era stato davvero premuroso, facendoglielo avere ancora quasi bollente e stracaricandoglielo di mortadella, tanto che dubitava avrebbe avuto fame quella sera, con il moto quasi nullo fatto quel giorno. Non che non avesse bisogno di recuperare il peso perso nelle ultime settimane, ma….

 

“Imma, se hai bisogno di aiuto per andare in bagno… che poi andrei in pausa pranzo.”

 

“Diana, grazie, ma le stampelle ormai più o meno le so usare ed in bagno se serve ci so andare da me: non ti preoccupare e vai pure.”

 

“Ma perché rischiare andandotene in giro da sola, quando ci sono io?”


“Perché devo imparare ad usarle le stampelle, almeno fino a che non riesco ad appoggiare il ginocchio. Tranquilla Diana: vai, mangia e torna che poi abbiamo molto lavoro da sbrigare.”


“Agli ordini, dottoressa!” rispose, richiudendo la porta tra i loro uffici e poi la sentì sbattere pure quella del suo ufficio.

 

Imma sospirò, adocchiando le due stampelle e le ballerine leopardate sulle quali le era toccato ripiegare quella mattina. Il ginocchio era ancora gonfio e, su insistenza di Pietro, erano passati dal fisioterapista della squadra di calcetto, prima di accompagnarla in procura. Le aveva incerottato la pelle sana intorno al ginocchio con dei cosi colorati, che manco un calciatore. E poi il responso era stato ghiaccio e non appoggiare il peso sulla gamba per qualche giorno, da cui le stampelle. Se non fosse migliorato entro una settimana, doveva fare una risonanza magnetica, che sperava davvero di potersi evitare.

 

Bussarono alla porta.


“Avanti!” urlò, chiedendosi chi fosse così dedito al lavoro in pausa pranzo.

 

E l’ovvia risposta le si parò davanti, lo sguardo che vagava tra lei e le stampelle con una preoccupazione che la commosse nel giro di due secondi netti.


“Calogiuri…” sussurrò, sentendosi ancora imbarazzata e mortificata e notando come lui rimase sulla porta, con un’incertezza che le fece male.

 

Non l’aveva ancora visto quella mattina e, malconcia com’era, non era potuta andare a cercarlo in PG, ma temeva fortemente che ce l’avesse di nuovo con lei - non che non se lo sarebbe meritato.

 

“Dottoressa, dovrei parlarvi ma… in privato…” esordì Calogiuri, lanciando uno sguardo verso la porta che separava il suo ufficio da quello di Diana.

 

“Diana è andata a pranzo, Calogiuri. Ma se è per… per ieri sera, ti volevo chiedere ancora scusa. Lo so che… che ti sei trovato per l’ennesima volta in una situazione che… lasciamo perdere… e lo so che non è giusto nei tuoi confronti, Calogiuri e… e mi dispiace, non sai quanto, anche se delle mie scuse te ne fai poco, ma-” 

 

“Non è per ieri sera,” la bloccò, avvicinandosi piano alla scrivania, in un modo che le sembrò quasi… timoroso, “lo sapevo che andando a casa tua sarebbe stato probabile incontrare tua figlia e… e tuo marito. Ma non avevi alternative, con il ginocchio in quelle condizioni. Come va oggi?”

 

“Va con ghiaccio e stampelle, Calogiuri, in qualche giorno sarò a posto, si spera. Ma allora… di cosa volevi parlarmi?”

 

Per tutta risposta, Calogiuri prese una delle due sedie di fronte alla sua scrivania, la sollevò di peso e la piazzò accanto alla sua, prendendo poi posto, lasciando giusto lo spazio necessario affinché le loro ginocchia non si toccassero.

 

“Ma che succede?” gli chiese, un senso di inquietudine misto ad uno di eccitazione, non sapendo se aspettarsi una doccia fredda o una dichiarazione, vista la posizione nella quale si trovavano.

 

“Non… non so come dirtelo…” sospirò Calogiuri, un tono grave e preoccupato come raramente glielo aveva mai sentito.

 

“Matarazzo?” chiese, andando in panico, temendo che avesse fatto un casino, che avesse fatto loro rapporto - anche se in quel caso probabilmente sarebbe stata già convocata da Vitali, ginocchio o non ginocchio.

 

“No, Jessica oggi non si è vista. Ha chiesto permesso, a quanto pare,” spiegò Calogiuri con un altro sospiro ed Imma non avrebbe saputo dire se l’assenza di Miss Sicilia fosse positiva o negativa.

 

“E allora? Calogiuri, dai, spara che-” si bloccò, realizzando che non fosse l’espressione più felice da usare in quel momento, “insomma… dimmi che succede, che lo sai che non c’ho pazienza per tutti sti misteri.”

 

“Sono… sono arrivati i risultati del DNA sul sangue nel capannone. Avevo fatto pressioni alla scientifica che fossero la priorità assoluta, visto che la ricerca nei boschi è stata un buco nell’acqua,” spiegò ed Imma, se non si fosse trattato di Calogiuri, lo avrebbe già mandato a quel paese.

 

“Tutto sto casino per il DNA?! E che è? Non è schedato, immagino?”

 

“No, non è schedato. O meglio… nel capannone c’erano tracce di sangue riconducibili a due persone distinte. Una schedata ed una no. E… hanno una compatibilità parziale tra loro, in una percentuale che indica che condividerebbero almeno un genitore biologico,” chiarì, prendendo un respiro alla fine di ogni frase, quasi come se avesse l’asma.

 

Ma che c’aveva Calogiuri quel giorno?!

 

“Quindi c’erano due aggressori e non uno? Due fratelli? E se uno è schedato è una buona notizia… possiamo arrivare all’altro, no?”

 

“Una. Il DNA identificato è femminile… ed è stato ritrovato per terra, vicino all’ufficio, poco distante dall’estintore e…” si interruppe, guardandola in quel modo, come se avesse paura che una bomba potesse esplodere da un momento all’altro.

 

E fu in quel preciso momento che gli ingranaggi nel suo cervello si incastrarono tra loro e la bomba, dentro di lei, esplose sul serio.

 

“Oddio mio…” sussurrò, portandosi una mano alla bocca, la vista che le si appannava, mentre un brivido la scuoteva, il corpo che le sembrava diventato di ghiaccio, “il… il DNA identificato… è il mio?”

 

Tutti quelli che lavoravano sulle scene del crimine erano schedati, per individuare eventuali contaminazioni. Lei inclusa.

 

E lo sguardo di Calogiuri diceva tutto, tutto pur senza bisogno di parole. Un singhiozzo le scappò dalle labbra, mentre sentiva il mondo crollarle addosso, il freddo artico che divenne improvvisamente un forno.

 

“L’altro è… è maschile, vero?” chiese in un sussurro, la voce che le si spezzava, e lo vide annuire, come previsto.

 

Un secondo singhiozzo le sfuggì, il forno che fu di nuovo sostituito dal freezer, l'aria che sembrò mancarle, la vista che la abbandonava del tutto, sommersa dalle lacrime, e poi… e poi si ritrovò stretta in un abbraccio fortissimo, che, per qualche strana ragione, le ridiede per un attimo fiato, almeno fino a quando le scappò un urlo di dolore.

 

Il ginocchio, maledetto!


“Scusami,” lo sentì sussurrarle nell’orecchio, e si ritrovò presa di peso, appoggiata su due gambe forti e poi avvolta ancora più saldamente. E lei gli si sciolse addosso, le lacrime ed i singhiozzi che la facevano tremare come una foglia e la scuotevano completamente.

 

Non avrebbe saputo quantificare il tempo in cui rimasero così, fino a che le lacrime si ridussero un poco, il cuore tornò a battere ad un ritmo più normale e quella specie di bipolarismo termico si attenuò leggermente. Ma si sentì pervadere da un terribile senso di vuoto e allo stesso tempo di panico, il cervello in sovraccarico ed il cuore a pezzi, mentre sentiva che la sua vita era in frantumi, lei era in frantumi e non sapeva da che parte iniziare a raccapezzarsi.

 

Ma, in mezzo a tutti quei pensieri confusi e indistinti, uno solo apparì chiaro e netto.

 

“Non voglio stare qui.”

 

“Come?” lo sentì sussurrarle all’orecchio, confuso.

 

“Non… non penso di riuscire a lavorare oggi e… non voglio essere qui quando torna Diana,” spiegò, esprimendo l’unico concetto che il suo cervello fosse in grado di elaborare in quel momento, staccandosi leggermente da lui per guardarlo negli occhi.

 

“Riesci a camminare fino alla macchina? Ti porterei in braccio ma…” rispose, semplicemente, estraendo un pacchetto di fazzoletti dalla tasca e porgendoglielo, affinché potesse asciugare le lacrime rimaste.

 

Imma annuì, sebbene non ne fosse affatto sicura. Ma ce la doveva fare, per forza, non c’era altra possibilità se non quella. Si ricompose meglio che potè con l’aiuto di uno specchietto, recuperato dalla borsa, e con le stampelle in mano e Calogiuri al suo fianco, procedettero fino all’ascensore, evitando per un soffio la Moliterni che tentò di avvicinarsi, ma la porta dell’ascensore le si richiuse praticamente in faccia.

 

E per fortuna non li seguì all’uscita, perché non sapeva come avrebbe potuto affrontarla in quelle condizioni.

 

Un paio di volte Calogiuri dovette intervenire per tenerla in piedi, ma, in qualche modo, arrivò sull’auto di servizio, e non era mai stata tanto grata di vedere quei sedili come in quel momento.

 

“Dove ti porto?”

 

“A casa… tua,” specificò stavolta e Calogiuri annuì, sembrando un poco sorpreso e pure commosso, ma partì comunque senza dire niente.

 

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“Ti ho fatto una camomilla.”

 

Osservò la tazza fumante che le venne offerta e la afferrò con mani ancora un po’ tremanti, sforzandosi di berne una sorsata. Sentì il materasso muoversi ed avvertì quel calore familiare alle spalle. Si lasciò di nuovo andare sul suo petto, quasi come fosse uno schienale, le gambe che lambivano le sue, come se fosse la sua custodia, ad avvolgerla e proteggerla dal mondo esterno.


Erano rimasti così per quasi tutto il pomeriggio: sul letto, completamente vestiti, senza parlare. Si era limitato ad abbracciarla, mentre lei cercava disperatamente di tornare a funzionare, di elaborare e non solo il lutto della perdita dell’identità: per quello ci sarebbe voluto un bel po’ di tempo.

 

“Non so… non so perché ci sto così male. Lo sapevo che… che era una possibilità ma…” riuscì a dire, e si sentì stringere ancora più forte.

 

“Ma ora è una certezza. E non è la stessa cosa,” concluse lui per lei ed Imma annuì, mentre il nodo si riformava in gola e altre due lacrime le scapparono. Cercò di deglutirlo con un altro po’ di camomilla.

 

“Mi sembra… di non avere più certezze. Di… di non sapere più chi sono. La mia vita è stata… è stata tutta una bugia, Calogiuri. Sono sempre stata La Tataranni, magari quella gran rompipalle della Tataranni, quella grande stronza della Tataranni, ma la dottoressa Tataranni e invece-”

 

“E lo sei ancora. Te l’ho già detto una volta: i figli sono di chi li cresce. La genetica non conta niente e-”

 

“E invece conta!” esclamò, rabbiosa, voltandosi verso di lui, e ci mancò un pelo che si rovesciasse addosso la camomilla, “mio padre... era analfabeta, di una famiglia che… che il più sveglio avrà fatto la quinta elementare. Mia madre pure. E io invece… invece sono diventata… quello che sono diventata. E Latronico fa l’avvocato. Non capisci che… che tutto torna e-”

 

“Tu sei diventata quello che sei diventata perché hai studiato tantissimo, senza mai fermarti, con mille sacrifici, perché non ti sei mai arresa. Me lo hai detto tu, chissà quante volte. Nessuno ti ha regalato niente e non è che fossi uno di quei… geni a cui viene tutto facile, no?”

 

“No,” sussurrò, perché lei se le era sudate la sua cultura, la sua memoria, la sua conoscenza, non le erano venute come un dono dal cielo, “ma sono comunque… intelligente, Calogiuri e-”

 

“E pure se l’intelligenza l’avessi presa da… dai Latronico, che ci sarebbe di male? Qualcuno diceva che non sono le nostre capacità a dimostrare chi siamo veramente, ma le scelte che facciamo," proclamò, deciso, accarezzandole una guancia.

 

"Questa citazione mi suona familiare… ma stavolta non è mia. Keats?"

 

"Il preside di Harry Potter. Per le citazioni più colte mi ci vuole ancora un bel po’ studio e... mi sa che il taccuino non basta…" ammise, toccandosi i capelli, imbarazzato.

 

Ed Imma, non seppe come né perché, ma scoppiò a ridere, pure in mezzo alle lacrime.

 

Appoggiò la camomilla sul comodino e se lo abbracciò forte, sussurrandogli: " grazie…"

 

"E perché?"

 

"Perché riesci a farmi sempre ridere, nonostante tutto."

 

"Dovrebbe essere un complimento?"

 

"Lo è," lo rassicurò, staccandosi leggermente per accarezzargli una guancia.

 

Ma poi il momento di leggerezza passò e tornò a sospirare, quel peso che ancora le si posava sul cuore. 

 

"Ascolta… lo so che è… una notizia sconvolgente. Ma… ma tu stessa poco fa hai definito tuo padre tuo padre e non Latronico. Perché lui era e resta tuo padre e nel tuo cuore lo sai anche tu."

 

"Calogiuri…" sussurrò, commossa, il peso sul cuore che venne sciolto da quel calore così familiare.

 

"E sei la stessa persona che eri stamattina, che eri ieri. Non sei cambiata, sei sempre la stessa… che poi conoscendoti… non sei mai cambiata in tutta la tua vita, perché dovresti farlo mo?"

 

Gli occhi che tornavano a pungerle da pazzi, se lo trascinò in un altro abbraccio fortissimo e grato, sentendosi stringere con altrettanta intensità, mentre pensava che non fosse del tutto vero, perché lui l'aveva cambiata, in meglio. O forse le aveva fatto capire chi fosse veramente, lasciandola libera di esprimere quei lati di sé che aveva sempre represso. Ma non lo avrebbe fatto più.

 

Si lasciò scappare un altro sospiro, ma stavolta sollevato, lasciandosi andare del tutto tra le sue braccia.

 

"A che pensi?"

 

"Che non so come avrei fatto senza di te," ammise, staccandosi leggermente per accarezzargli di nuovo il viso e poi aggiungere, più seria, "quindi se riprovi a darti del ragazzino o dello stupido, o a pensare che io ti ritenga tale, mi arrabbio sul serio, chiaro?"

 

E lui annuì, semplicemente, sorridendole di rimando e sembrando altrettanto commosso.

 

Trascorsero altri momenti così, in silenzio, abbracciati, finché Calogiuri osò fare la domanda che era nell'aria ormai da un po': "che pensi di fare ora?"

 

"Devo… devo parlare con mia madre. Anche se… anche se ci capisce poco o niente lo devo fare. E poi… e poi dovrò parlare a Vitali, prima che legga i risultati delle analisi e scoppi un casino e-"

 

"Per quello… per quello non c'è pericolo, almeno per un po'."

 

"Che vuoi dire?"

 

"Che ho tenuto io l'unica copia del rapporto della scientifica. Aspetta," le disse, scendendo dal letto e recuperando la giacca di pelle dalla sedia sulla quale l'aveva buttata, estraendo una busta da una tasca interna, e poi avvicinandosi per porgergliela, "ecco qui. Così puoi decidere tu come e quando farla uscire."

 

"Ma… ma Calogiuri, ti sei… ti sei preso un'altra volta una responsabilità troppo grande. E poi la scientifica sa di avere mandato il rapporto e-"

 

"E dubito se ne accorgeranno se Vitali non lo riceve per qualche giorno, no? Chi vuoi che mai verifichi, con tutto il lavoro che hanno quelli della scientifica?"

 

Imma dovette ammettere che non aveva torto.

 

"Va bene. Ma la responsabilità per il ritardo me la prenderò io con Vitali, in caso, chiaro?" gli intimò, puntandogli un dito al petto, conoscendolo fin troppo bene.

 

"Chiaro."

 

"Se esce questa cosa… devo capire come… come fare a spiegare a Vitali che… so che si tratti di Latronico e… e se viene fuori che avevo già il sospetto da mesi, io-"

 

"Potresti averne parlato con tua madre solo ora, no? Dopo aver visto il DNA. E… tua madre potrebbe averti detto di Latronico. Vitali non ha prove che lo sapessi già da mesi, no?"

 

"Il problema è che mia madre ha la demenza, Calogiuri, quindi non è una teste attendibile. E l'unica prova che ho in mano è un braccialetto che Latronico regalò a mia madre e… e la commessa della gioielleria che mi ha confermato che fu comprato da Latronico sa che sono andata da lei l'anno scorso. E Vitali potrebbe pensare che abbia taciuto per nascondere un conflitto di interesse. Anche perché, se viene fuori che sono imparentata con un sospettato, che è pure l’avvocato della controparte… è probabile che mi chiedano di lasciare il maxiprocesso ad un collega. Oltre al fatto che verrà fuori uno scandalo enorme su mia madre… su di me… ne diranno di cotte e di crude."

 

E figuriamoci quando si sarebbe separata da Pietro e poi… e poi quando sarebbe uscito fuori di lei e Calogiuri. Già li sentiva i commenti delle comari, già le leggeva le scritte per terra o sui muri, che se già le davano della troia mo… poi sarebbe stato un gioco al massacro. Ma la preoccupazione principale era per Valentina, essendo femmina - che, se fosse stato un maschio, si sarebbe beccato del figlio di buona donna, mentre così la buona donna sarebbe stata direttamente sua figlia, oltre che lei. E le sue compagne di classe, tutte della Matera bene o quasi, avevano già dimostrato di essere spietate. Doveva parlare a Pietro e Valentina di sicuro, prima di rischiare che la notizia uscisse in qualche modo, ma non sarebbe stato facile.

 

"Ma Vitali sarà comprensivo, vedrai: potevi ribaltare la tua vita e quella dei Latronico per il dubbio di una persona affetta da demenza? Nessuno lo avrebbe fatto al posto tuo! E ora che hai le prove, se ti confidi con lui su Latronico, perché dovrebbe reagire male? E tu a Latronico non hai mai fatto sconti e lo sa pure Vitali. E per il resto… se c’è qualcuno che sa come affrontare le voci e tutto il resto… quella persona sei tu.”

 

“Non lo so, Calogiuri… vorrei essere ottimista ma… ma non è da me, e lo sai. E… e a volte vorrei solo poter avere un attimo di pausa da… da tutti questi casini. Ma è la vita che mi sono scelta e devo prendermi il bello e il brutto. Solo che nemmeno col mio pessimismo avrei mai pensato di trovarmi in mezzo a… a tutto questo.”


“Non sei da sola, però, va bene? Lo sai che su di me ci puoi contare," proclamò, deciso stringendole forte una mano ed incrementandole il senso di esplosione nel petto, "vorrei… vorrei poter fare di più ma-”

 

“Ma tu fai già tantissimo, credimi," lo rassicurò, stringendogli la mano di rimando e sollevando l'altra per accarezzargli il viso, "soprattutto visto che non… non mi meriterei niente da te e lo so benissimo."

 

"Non dirlo nemmeno per scherzo! Se non fosse per te… non so se starei qui oggi, in tutti i sensi. E i nostri… problemi personali possono pure aspettare."

 

Se lo abbracciò fortissimo, la consapevolezza di quanto c'era andata vicino a perderlo definitivamente che la colpì di nuovo come un pugno in piena pancia. E tutto il resto, improvvisamente, le sembrò meno grave, più sopportabile.

 

In qualche modo ne sarebbero usciti, insieme. Come le diceva sempre sua madre, solo alla morte non c'è rimedio. E questo la portò alla prima cosa da fare. Guardò l'orologio sul comodino. Erano le diciassette. Tardi ma non tardissimo. Ed era meglio prendere il toro per le corna, perché non poteva aspettare troppo a parlare con Vitali: Latronico, dovunque si trovasse in quel momento, doveva essere ferito e, se lo avessero beccato mentre aveva ancora i segni della sparatoria… non gli sarebbe rimasto che confessare.

 

"Mi accompagneresti da mia madre?" gli sussurrò in un orecchio e lo sentì annuire e stringerla ancora più forte.

 

E ringraziò di nuovo chiunque fosse in ascolto di averlo nella sua vita, promettendosi che avrebbe fatto di tutto per meritarselo.

 

*********************************************************************************************************

 

“Imma? Che ci fai qui, figlia mia? Domenica già è?”

 

Con un po’ di fatica erano arrivati all’appartamento di sua madre e l’avevano trovata in salotto, Nikolaus che giocava con lei a carte.

 

“No, mà, non è domenica. Ma… ti devo parlare, e-”

 

“Ma che facesti alla gamba?!”

 

“Niente, mà. Solo una caduta e-”

 

Le mancò la terra da sotto i piedi, una stampella che scivolava sul tappeto che si era spostato. Si stava già preparando all’impatto con il suolo, quando si sentì afferrare per la vita e si ritrovò con la schiena attaccata al petto di Calogiuri, che la reggeva in piedi. Si voltò leggermente per lanciargli un’occhiata colma di gratitudine e lui le sorrise di rimando.

 

“Figlia mia, ma che ubriaca stai che continui a cascare?” ironizzò sua madre, per poi sorridere ed aggiungere, “o tutta una scusa è, così al fidanzato tuo gli tocca di abbracciarti?”

 

Imma si sentì avvampare, mentre Calogiuri scoppiò in un attacco di tosse. Rivolse lo sguardo a Nikolaus che però sembrava imperturbabile sul divano.


“Mamma, questo è il maresciallo che lavora con me. Non è… non è Pietro, mio marito, te lo ricordi, Pietro?” le chiese, per dissimulare, anche se nominare tutte quelle volte le parole Pietro e marito in presenza di Calogiuri le causava un tremendo senso di colpa.

 

“E certo che me lo ricordo a Pietro, non so’ mica rincoglionita! E pure che questo non è lui, che gli piacerebbe a Pietro essere tanto bello, tanto alto proprio come-”

 

“Garibaldì, sì, mà, lo so, ma allora-”

 

“E che c’entra mo, che mi vuoi dire che questo non è il fidanzato tuo? Cieca ancora non sono, Immarè,” proclamò, decisa, con lo stesso tono che non ammetteva repliche di quando da bimba la riprendeva su qualcosa, “che non l’ho visto come vi guardate? E ancora abbracciati state.”

 

Ed Imma abbassò lo sguardo e si rese conto che era vero: era stata talmente presa in contropiede dalle parole di sua madre che non ci aveva nemmeno fatto caso. Cercò bruscamente di staccarsi ma il tappeto scivolò di nuovo in avanti e a Calogiuri toccò nuovamente salvare la situazione, riprendendola al volo, stavolta per le braccia, le stampelle che cascarono a terra con un tonfo.

 

“Forse è meglio se vi sedete, dottoressa,” le suggerì, con un tono mezzo impanicato, spostandola quasi di peso verso la sedia tra quella di sua madre e quella di Nikolaus ed aiutandola ad accomodarcisi, per poi prendere posto di fronte a lei, le guance ed il collo in fiamme.

 

“Nikolaus, mi ascolti, io… avrei bisogno di parlare un attimo con mia madre in privato. Non si offenda ma sono cose riservate di lavoro. Potrebbe magari andare a fare un poco di spesa o qualche commissione? Non ci metteremo molto."

 

“Ma certo! Non c’è problema. Signora, io torno presto, ok?” disse a sua madre con un sorriso, prima di alzarsi, recuperare il suo giaccone ed uscire, sempre tranquillo come una pasqua, come se non fosse successo niente.

 

“Mà, ti ricordi… ti ricordi di quando abbiamo parlato di… Cenzino Latronico?” esordì e sua madre, per tutta risposta, abbassò gli occhi e tornò a fissare le carte, in quello che sembrava un tremendo dejavu proprio di quella conversazione.


“Ascoltami, ho… ho avuto la conferma che… che Latronico era mio padre e-”

 

“E dove sta la novità? Sempre te l’ho detto che era papà tuo: bello, alto, come-”

 

“Garibaldi, lo so, mà,” sospirò, chiedendosi se sua madre stesse tornando nel mondo della demenza come difesa, “ma… ma ho avuto la certezza, mà. Che lui era mio padre e che… e che l’avvocato Latronico è… è mio fratello.”

 

“E la dottoressa, tanto cara, è tua sorella, ovviamente. Che si è sistemata così bene, lei, vi siete sistemati tutti tanto bene!” proseguì con un sorriso, quasi non ascoltandola più, continuando a mischiare le carte.

 

Allungò una mano ad afferrare quelle di lei e gliele fermò.

 

“Mà… l’avvocato Latronico ha… ha fatto una cosa grave. Ha… ha tentato di sparare al maresciallo, qui,” provò a spiegarle e sua madre strabuzzò gli occhi e ricambiò la stretta di mano, sembrando molto turbata.

 

“Ma… ma perché?! Tu stai bene, figliolo?"

 

Calogiuri diventò, se possibile, ancora più rosso, e annuì, "sì, signora, sto bene, non vi preoccupate."

 

"Mà, l'avvocato Latronico è… coinvolto in un'inchiesta su cui sto lavorando. Lo stavamo per beccare a distruggere delle prove e… e per scappare ha sparato. Ma mo per provare che è stato lui, io… io potrei dover fare uscire pubblicamente che sono… figlia di Cenzino Latronico e non di… di Rocchino Tataranni. Capisci che vuol dire, mà?"

 

"Mica so' scemm, figlia mia. E certo che lo so! Che non la conosco Matera? Ma… ma io vecchia sono e chi vuoi che incontro? E, pure se parlano, a me dalla capa entra e dalla capa esce, che tanto dopo poco non lo ricordo più. Ma è per te che mi dispiace, che… che so che non ti lasceranno in pace. Ma se tuo fratello tanto meschino è stato, devi fare il lavoro tuo, Immarè, come sempre! Quella… quella è stata sempre una famiglia disgraziata, pure papà tuo… stava in brutti giri… e lo sapevo, ma…"

 

Sua madre sembrò perdersi per un po' nei suoi pensieri e poi la guardò, dritta negli occhi, e proclamò, decisa e sembrando improvvisamente lucida, "ma una cosa buona almeno fuori ne è venuta, e sei tu, figlia mia. L'ho sempre dubitato, sai, che… che tu fossi figlia di Latronico perché… con Rocchì tanto abbiamo dovuto provare e incinta mai rimanevo e invece…."

 

"Mà…" sussurrò, commossa, sentendosi stringere più forte la mano. Chissà perché aveva detto a Porzia il contrario. O forse… forse era Porzia ad averle raccontato una palla, per proteggerla, vedendo quanto ci stesse male.

 

"Ma quella gente è pericolosa, figlia mia. Chi se li mette contro una brutta fine fa. Tu devi stare attenta, anche per Brunella, mi raccomando!"

 

"Tranquilla, mà, ci sto attenta e poi… e poi come vedi c’ho pure la scorta," scherzò, per stemperare la tensione e l'imbarazzo nell'aria, lanciando uno sguardo a Calogiuri che aveva ancora viso e collo a chiazze, "adesso chiamo Nikolaus che tra poco dobbiamo andare, va bene?"

 

Sua madre annuì e, mentre parlava con il badante, che era al supermercato vicino a casa, la sentì chiedere a Calogiuri se volesse fare una partita con lei.

 

Ne seguirono dei momenti a dir poco surreali in cui assistette, incredula, mentre sua madre spiegava delle regola inventate di sana pianta al povero Calogiuri, che l’assecondava con la sua solita pazienza, per poi giocare una partita completamente priva di senso, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

 

Gli occhi tornarono a pizzicarle e si trovò, non per la prima volta, ad immaginare un futuro con lui: le ricorrenze a pranzo con sua madre, lui e-

 

Valentina le comparve davanti, furente pure nella sua fantasia, riportandola bruscamente alla realtà. No, non sarebbe stato facile come con sua madre che, forse per via della demenza, era l'eccezione che confermava la regola. Ma nella sua vita quasi nulla era stato mai facile e non per questo si era arresa senza provarci.

 

"Eccomi!" annunciò Nikolaus, di ritorno con due sporte della spesa ed uno dei suoi sorrisi.

 

"Mà, noi dobbiamo andare mo."

 

Tirò indietro la sedia e provò a mettersi in piedi, ritrovandosi nel giro di pochi secondi con Calogiuri alla spalle, che la portò di peso fino a oltre il tappeto, passandole poi le stampelle.

 

"Siet' proprio bell' insieme!" proclamò sua madre con un altro sorriso, "certo, lui pure da solo proprio bello è!"

 

"Mamma!" esclamò, non potendo evitare di scoppiare a ridere, soprattutto per l'espressione di Calogiuri: un misto di felicità ed imbarazzo totale.

 

Lei invece, nonostante tutto quello che le stava piovendo addosso, era solo felice e si chiedeva come fosse possibile e se fosse impazzita del tutto.

 

Ma il ritorno alla realtà, come sempre, arrivò col suono di un cellulare - il suo - ed un nome sul display: Amò.

 

"Imma! Ma dove sei? Sono venuto a prenderti in procura e mi hanno detto che non ci stai!"

 

Dal tono, tra il preoccupato e l'arrabbiato, si chiese anche se gli avessero detto a che ora se ne era andata e, soprattutto, con chi.

 

"Sì, scusa ma sono a casa di mamma e-"

 

"Ma è successo qualcosa?! Sta bene?" la interruppe, il nervosismo che spariva lasciando spazio solo alla preoccupazione.

 

"Sì, sta bene, ma è anche successo qualcosa. Valentina è a casa?"

 

"Sì, perché?"

 

"Allora aspettatemi a casa che ne parliamo," chiuse la telefonata prima che potesse fare obiezioni.

 

Ci mancava solo che li raggiungesse lì e sua madre definisse Calogiuri il fidanzato suo in presenza di Pietro.

 

"Scusami, Calogiuri, ma…" sospirò, sapendo che gli stava chiedendo di sottoporsi all'ennesimo incontro con Pietro.

 

"Non vi preoccupate, dottoressa, ci sono problemi più importanti mo," la rassicurò, con un sorriso malinconico che non attenuò affatto il suo senso di colpa.

 

*********************************************************************************************************

 

"E quindi… e quindi mia madre mi ha confermato che sono figlia di Cenzino Latronico. Domani ne parlerò a Vitali e cercheremo di intercettare ed interrogare l'avvocato Latronico, se non è uccel di bosco. E a quel punto faremo il DNA e avremo la conferma definitiva. Spero di poter evitare di rendere pubblica questa storia ma… ma potrebbe anche uscire e-"

 

"Ma ti rendi conto che la nostra vita diventerà un inferno?! Già ci dicono di tutto! A scuola come ci torno?!" la interruppe Valentina, furente, gli occhi pieni di lacrime.

 

"Valentì, e credi che non lo so?! Ma che posso fare, eh?"

 

"Magari mettere tua figlia e la tua famiglia davanti al lavoro, per una volta!"

 

"Valentì, ma tu ti rendi conto che Latronico ha quasi ammazzato un carabiniere per scappare?! Che per poco non me la sono vista brutta pure io?! E secondo te posso permettergli di andarsene in giro bello bello, che chissà che può fare la prossima volta?! E lo faccio pure per voi, per la sicurezza di tutti quanti! Ma che pensi che io non sia sconvolta?! Che mi faccia piacere che si sappia in giro che ho gli stessi geni di un delinquente e che... che mio fratello è quasi un assassino?! E pensi che questo non mi creerà problemi pure sul lavoro?! È probabile che mi leveranno pure il caso. Ma che altro posso fare?"

 

"Valentì, tua mamma ha ragione. Deve fare il suo lavoro e deve fare la cosa giusta anche e soprattutto perché c'è questo legame di… di sangue. Se no che fine fanno tutti i suoi principi, anzi, tutti i nostri principi?" intervenne Pietro, deciso come raramente l'aveva mai sentito, allungando una mano a stringere la sua, per poi tirarla più vicina a sé sul divano.

 

Sentì un moto di gratitudine ed una fitta tremenda di senso di colpa.

 

"Questa… è tutta colpa di nonna! Ma come ha potuto?! Come ha potuto tradire il nonno così e mentire a tutti per tutti questi anni?! Io non ci posso credere! E questa non gliela perdonerò mai!" urlò, incazzata come non l'aveva forse mai vista, le lacrime che ormai le avevano bagnato tutto il viso.

 

"Valentì, nonna ha sbagliato, è vero, ma una volta non c'era il DNA e… e forse ha voluto credere che potessi essere figlia di… di mio padre. Perché Rocchino Tataranni resta mio padre. E… e nella vita può succedere di fare degli errori ma-"

 

"Può succedere?! Può succedere?! Bruciare la cena può succedere, un brutto voto può succedere, ma… ma… scoparsi qualcuno che non è tuo marito non è che capita per caso!"

 

"Valentina!" gridò, sia per il linguaggio, sia perché si sentì punta nel vivo, una coltellata di senso di colpa mista a paura che la prese allo sterno: se reagiva così per sua nonna… figuriamoci quando avrebbe saputo di lei e Calogiuri.

 

"Che cos'è? Gli è inciampata addosso? L'ha ipnotizzata? Per fare certe cose bisogna volerlo ed è uno schifo tradire così la fiducia di qualcuno! E non capisco tu come faccia a stare così calma e a non essere incazzata con lei!"

 

"E con chi mi devo arrabbiare, eh?! Con una donna affetta da demenza che si è spaccata la schiena e le mani per una vita intera per crescermi e farmi studiare? Non è perfetta, ha sbagliato, ma se n'è pentita, nel frattempo sono passati più di quarant'anni e ha fatto una vita d'inferno per… per stare accanto a mio padre fino alla fine. Tu non c'eri, Valentì, e non sai un sacco di cose. E non so come fosse mio padre prima che nascessi ma… ma ti garantisco che quando avevo l'età buona per capire non… non era facile stargli vicino. Quindi mia madre ha le sue colpe ma ha pure le sue attenuanti. E non puoi sparare a zero e giudicare così senza conoscere la situazione e-"

 

"Detto da te fa proprio ridere, visto che è tutto quello che sai fare: di mestiere e non. Ma forse bisogna avere la demenza per avere la sua clemenza, dottoressa. Peccato che, quando ha combinato quello che ha combinato, fosse più che capace di intendere e volere. E se stava così male con il nonno poteva lasciarlo, invece di continuare a prenderlo per il culo!" urlò, alzandosi dal divano e marciando verso la sua camera, sbattendo la porta.

 

“Valentina!” gridò, provando d’istinto ad alzarsi e andarle dietro per dirgliene quattro, maledicendo il ginocchio che glielo impediva, insieme alla mano di Pietro che le prese il polso, “Pietro, mollami! Ma ti rendi conto di come parla?! E di sua nonna poi!”

 

Anche se, la verità era che, di nuovo, Valentina l’aveva colpita dove faceva più male. Senza volerlo, certo, ma… si sentiva chiamata in causa e ora aveva ancora di più la certezza, se mai avesse avuto il minimo dubbio, che Valentina forse la separazione da Pietro e poi la relazione con Calogiuri non gliele avrebbe mai perdonate veramente.

 

“Amò, lo so, ma… ma tua madre per Valentina è… è come un mito e, forse anche per la demenza, l’ha sempre vista come questa persona… innocente, perfetta, da proteggere, capisci? E ora che scopre che… che ha fatto dei grossi sbagli pure lei... le è crollato un po’ il mondo addosso. Bisogna darle un po’ di tempo per elaborare. Tu, piuttosto… mi chiedo se tu non sia ancora un po’... sotto choc perché… mi pare che la stai prendendo sin troppo bene, considerando che… insomma… che hai appena scoperto di avere un altro padre biologico e… uno come Latronico, oltretutto.”

 

“Grazie, Pietro, mi sei di grande conforto, veramente!” proclamò, sarcastica, sia perché girare il dito nella piaga più di così sarebbe stato impossibile, sia per cercare di cambiare argomento.

 

Anche perché, cosa poteva mai dirgli? Che aveva pianto tutto il pomeriggio tra le braccia di un altro? Che capiva sua madre ed empatizzava con lei perché pure lei… e altro che l’errore di una volta! Sebbene almeno lei, purtroppo e per fortuna, una gravidanza non la rischiasse manco volendo, non che non avessero sempre preso tutte le precauzioni del caso, ovviamente.

 

“Dai, Imma, lo sai che voglio dire. Anche se hai ragione quando dici che tuo padre resta tuo padre e… il sangue non conta niente. Ma… deve essere comunque stata una bella botta e… non ti devi tenere tutto dentro e fare l’eroina, come fai sempre…”

 

“Guarda, Pietro, il momento di choc e di sconforto già mi è venuto quando ho avuto la notizia. Ma mo devo pensare alle conseguenze pratiche ed al casino che mi piomberà addosso domani quando parlerò con Vitali. Non ho tempo di piangermi addosso. E ora, se mi dai una mano, andrei a dormire che domani sarà una giornata infernale.”

 

“D’accordo, come vuoi, amò. Ma per qualunque cosa, io ci sono, ok?” ribadì con un sospiro, tirandosi in piedi e recuperandole le stampelle.

 

Il problema, pensò Imma, afferrando le stampelle, era che ormai era lei a non esserci più.

 

*********************************************************************************************************

 

Entrò in PG trattenendo il fiato, temendo il momento nel quale avrebbe incrociato lo sguardo di Jessica ed un’eventuale scenata. Ma c’era solo Capozza, stranamente mattiniero ed allegro, a giudicare da come stava canticchiando una canzone che non riconosceva affatto.

 

“We, maresciallo! Come va? Che faccia sbattuta che tieni. Che hai fatto le ore piccole ieri, eh?” gli domandò, sornione, con uno sguardo di intesa.

 

“No, Capozza,” mentì: le ore piccole le aveva fatte sul serio, ma non per i motivi che pensava l'altro.

 

Era preoccupato per lei, per… per come aveva preso la notizia di Latronico - e come volevi che la prendesse, idiota?! - anche se pareva essersi un poco tranquillizzata. Per i casini che avrebbe avuto con Vitali, col processo, e poi lo scandalo che sarebbe venuto fuori, tra i giornalisti, Zazza, le comari e mezza Matera, che già non la vedevano di buon occhio.


Ed il peggio era che non poteva farci niente, a parte preoccuparsi. E da lì l’insonnia, che però non serviva a niente, se non a farsi fare battute cretine da Capozza.

 

“Ma Jessica?” chiese, decidendo che fosse meglio sapere che non sapere.

 

“Non so… forse è ancora in permesso. Certo che pure tu! Per carità, eh, gran bella figliola, Matarazzo, ma la prossima volta, per divertirti e basta, scegline una che non lavora qui. Dà retta a me che un po’ di esperienza ce l’ho in queste cose: le storie sul lavoro portano quasi sempre solo guai,” gli disse e Calogiuri si sentì avvampare, sia per la conferma che Matarazzo era andata, come temeva, a gridare ai quattro venti quello che aveva combinato, sia per essersi beccato la predica - purtroppo meritata - pure da Capozza.

 

Ma il modo in cui aveva pronunciato quel quasi, unito al buonumore del collega, gli fece dubitare che almeno per una persona in particolare, Capozza facesse eccezione alla sua regola delle relazioni sul luogo di lavoro.

 

“Capozza… ho sbagliato completamente con Matarazzo ma… non mi volevo divertire, ero ubriaco e ho fatto una cretinata, va bene? Io non mi diverto in questo modo e non intendo ripetere l’esperienza, a costo di diventare astemio,” ribadì, perché non gli piaceva parlasse di Jessica in quel modo, come fosse un giocattolo, prima di alzarsi e decidere di andare dove avrebbe già voluto recarsi fin da quando era arrivato in procura.

 

Sentì il cuore accelerargli leggermente nel petto e quel senso di apprensione, sia per come l’avrebbe potuta trovare, sia perché… non sapeva come stessero esattamente le cose tra loro e probabilmente non lo sapeva nemmeno lei. Del resto, avevano cose più importanti a cui pensare ed, in ogni caso, purtroppo, quasi sicuramente non sarebbe comunque cambiato nulla.

 

Certo, il giorno prima, di fronte a sua madre, dopo un po’ non aveva più negato che fossero fidanzati - pure se non lo erano affatto. Ma sua madre aveva la demenza senile. Ed un conto era ammettere certe cose di fronte a lei, che tanto se le sarebbe scordate da lì a poche ore, o di fronte a persone sconosciute come Sabrina. Un altro era pensare che avrebbe mai potuto sceglierlo ed uscire allo scoperto con lui davanti al resto del mondo e soprattutto davanti alla sua famiglia. Si era già illuso una volta, non lo avrebbe fatto più. Il massimo a cui poteva aspirare con lei, purtroppo, era una storia clandestina, fino a quando sarebbe potuta durare, prima che lei se ne pentisse di nuovo e decidesse di chiuderla e stavolta definitivamente. Nient’altro.

 

Aveva appena fatto l’ultimo gradino e girato a sinistra, per andare verso il suo ufficio, quando una voce lo bloccò.

 

“Maresciallo, aspetti!”

 

Si voltò di scatto, trovandosi davanti il dottor Vitali, con un’espressione strana in volto.

 

“Ai comandi, dottore. Avevate bisogno di qualcosa?”


“Sì, maresciallo. Potrebbe venire un attimo nel mio ufficio?” gli chiese con la solita gentilezza, in quello che però era un ordine.


Si limitò ad annuire e a seguirlo, mentre il procuratore si era già avviato, senza attendere la risposta.

 

“Chiuda la porta e si accomodi, maresciallo,” proclamò, in un modo che gli sembrò stranamente solenne, indicando una delle sedie di fronte alla sua scrivania.

 

Ci si sedette, con un poco di apprensione, e rimasero per qualche attimo in silenzio.

 

“Ho bisogno di parlarle, maresciallo, riguardo ad una vicenda molto spiacevole che è stata portata alla mia attenzione e che non posso ignorare. E che coinvolge lei e la dottoressa Tataranni. Immagino sappia di cosa sto parlando.”

 

Imma gli aveva già parlato di Latronico? O quelli della scientifica gli avevano mandato le analisi?

 

“Se… se si tratta del DNA, le posso spiegare che-”

 

“DNA? Di cosa sta parlando, maresciallo?!” domandò, sembrando completamente sorpreso e Calogiuri si diede del cretino - quando imparerai a morderti la lingua, quando?!

 

“Niente, dottore. Avevo sbagliato a… ad archiviare un’analisi del DNA. La dottoressa per fortuna lo ha notato e… e mi ha ripreso in proposito. Pensavo si riferisse a questo.”

 

“No, maresciallo, magari si trattasse di un semplice errore di archiviazione! Sebbene mi pare difficile pensare che la dottoressa la riprenda su qualcosa. Ma qui il problema è tutto un altro genere di... ripresa…” chiarì Vitali con un sospiro, un’espressione seria come gli aveva forse solo visto all’epoca del caso di Don Mariano, quando aveva tolto il caso ad Imma.

 

“Mi hanno… fatto avere queste foto, Maresciallo… e c’è pure un filmato, ma immagino le foto parlino già da sole…”

 

Vitali piazzò quattro ingrandimenti fotografici sulla scrivania, in sequenza, neanche fossero carte da gioco.

 

Un pugno lo prese in pieno stomaco: erano lui ed Imma, di fronte al suo condominio.

 

Le prime due immagini erano di due sere prima: lei con un braccio sopra la sua spalla, lui che la teneva per la vita per sorreggerla. La prima li ritraeva mentre andavano verso il portone, la seconda mentre uscivano, con tanto di data ed ora. E le ultime due erano del giorno prima: Imma con le stampelle e lui al suo fianco, sempre una all’ingresso ed una all’uscita.

 

Merda!




 

Nota dell’autrice: E, dopo il tour de force emotivo di questo capitolo, Imma sembra pronta a confessare e a dire tutto a Pietro e a Calogiuri ma… è appena scoppiata LA bomba, che cambierà un sacco di cose, per certi versi quasi tutto, anche se nel medio lungo termine le conseguenze non è affatto detto che siano tutte negative.
Spero vi sia piaciuto anche questo capitolo e che la storia continui a intrattenervi e non risultare noiosa, vi ringrazio per tutto il supporto che mi avete dimostrato fino a qui e, se mi vorrete lasciare una recensione, è come sempre apprezzata moltissimo e mi motiva un sacco, oltre ad aiutarmi a capire come sto andando nello scrivere.

Il prossimo capitolo arriverà esattamente tra sette giorni, domenica 9 di febbraio per la precisione.

Grazie ancora!

 
   
 
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