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Autore: CHAOSevangeline    11/02/2020    0 recensioni
{Accenni Mello/Near}
"Near non accettava di avere una fobia, non serviva qualcuno gliela ricordasse. Non lo accettava perché riconosceva quanto la sua preoccupazione avesse radici irrazionali: uno specchio non lo avrebbe mai potuto ferire, eppure contro di lui poteva tutto.
Ma essere logici non serviva, non sempre: non risolveva il problema, non estirpava quella fobia alla radice.
Perché era freddo, razionale, ma era pur sempre un bambino."
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Mello, Near | Coppie: Mello/Near
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Ciao a tutti e grazie per aver aperto questa storia!
Piccolo disclaimer iniziale: il racconto è stato diviso in due parti per comodità. Essendo nata come un'unica storia, ho già pubblicato entrambe le parti di cui è composta in modo che chiunque voglia farlo possa leggerle entrambe senza doversi interrompere.
Segnalo inoltre che, pur essendo stata conclusa di recente in seguito al mio ritiro, l’idea per la storia è nata grazie al contest “Phobos & Deimos" indetto da meryl watase sul forum di EFP.
Non avendo più partecipato l’ho rielaborata, ma ci tenevo a segnalarlo!
Vi auguro buona lettura e ci sentiamo alla fine delle note del secondo capitolo.





 
Oltre lo specchio
 


 
I.
 
 

«Nate, ti piace così tanto guardare il tuo riflesso nello specchio?»
Nate, appena cinque anni e un pigiamino bianco indosso, era seduto su un letto a due piazze che lo faceva sembrare ancor più piccolo di quanto già non fosse. Accovacciato ai piedi del materasso fissava quella superficie; una copia della realtà, o forse un’altra realtà a sé stante: lo specchio della camera di sua madre.
Non sapeva se gli piacesse tanto guardarsi, come gli aveva chiesto la mamma. Anzi, avrebbe potuto dire che gli piaceva davvero poco, ma sarebbe stata una risposta ancora sbagliata, evasiva, da perfezionare. Guardarsi nello specchio non era bello o brutto: era strano e poco aveva a che fare con la volontà o con il piacere. Era come se Nate si trovasse costretto, senza una scelta. Gli occhi si incatenavano a quella superficie e non si staccavano più, prigionieri.
L’impressione di vedere più di quanto esistesse in realtà a strisciargli nelle vene. Guardava nello specchio e si sentiva in allerta, credeva di poter notare d’improvviso qualcosa, un dettaglio fuori posto che lo specchio gli mostrava in vece della verità; gli faceva un dono, fingeva di mostrarsi suo amico, ma si trattava solo di un inganno: quando si voltava per controllare se alle proprie spalle ci fosse quel qualcosa, un mostro o una paura da cui guardarsi, Nate non trovava mai nulla. Sapeva non avrebbe trovato nulla, era troppo sveglio per ingannarsi e lasciarsi ingannare. Ma quello specchio, quando sarebbe tornato a guardarlo, avrebbe continuato a dargli i brividi, a mostrargli quello straccio di terrore inesistente e a convincerlo che forse esisteva. Bastava il forse, non era necessaria una certezza. Lo specchio l’avrebbe torturato e lui si sarebbe voltato ancora e ancora, in una danza senza fine.
Quindi Nate aveva smesso di distogliere lo sguardo. Lo faceva per difendersi, perché era troppo piccolo per il masochismo.
Si trattava di un atteggiamento che perpetuava senza riconoscerne ancora la ragione: era stregato dagli ingannevoli riflessi e li osservava, proprio perché era prodigioso ma ancora innocente per comprendere appieno l’essenza di un imbroglio.
Ma non era un’idea che Nate, cinque anni e un pigiamino bianco indosso, avrebbe potuto mettere in fila. Non era un pensiero che poteva costruire come i castelli di mattoncini colorati abbandonati in soggiorno. Era un bambino prodigioso, ma pur sempre un bambino.
Abbandonò la realtà dello specchio per guardare la mamma.
«Non lo so.»
Racimolò quella risposta. Per lui il discorso si sarebbe anche potuto dire concluso: punto, fine, non c’era altro da dire.
Aveva i capelli biondo cenere, la mamma, sempre legati in una coda perché durante le faccende o al lavoro non la impacciassero. Ricordavano un poco i suoi, ma non erano candidi a sufficienza per poterli davvero paragonare. Nate lo faceva lo stesso: ne aveva bisogno, perché per tutti i suoi capelli erano strani. Lui era strano, era diverso e aveva bisogno di qualcuno di simile. Di sentirlo simile.
«Ti ho mai raccontato del mondo degli specchi?»
Nate scosse la testolina. Un ricciolo candido ricadde sulla guancia paffuta.
La donna sorrise e abbandonò sul letto i capi che stava piegando dopo aver ritirato il bucato, sedendosi sul materasso e portandosi Nate in grembo. Se avesse battuto le mani sulle ginocchia lui non le si sarebbe arrampicato addosso pur di raggiungerla e anche quando lo prese in braccio non le si aggrappò né fece cenno di esserne troppo felice. Ma Nate era così.
Il bambino gettò un altro sguardo allo specchio, poi accolse quelle attenzioni e accoccolò il viso contro il petto della madre. Aveva bisogno dei suoi tempi, di calma.
«Sai, dicono che esista un altro mondo oltre al nostro», cominciò, il mento immerso in quella nuvola di candidi boccoli. «Un mondo di se e di forse. Quello che non è successo qui, può succedere lì. Ma ogni tanto i nostri mondi si intersecano e…»
«Intre… inter…»
«Si intersecano», scandì e sorrise quando il bambino riuscì a ripetere con un filo di voce la parola. «Si uniscono, ecco, per un breve momento: quello che tu passi a guardare il tuo riflesso negli occhi. Ma sai, dicono che non si sappia mai cosa si può trovare. Dovresti stare attento!»
Nate, anzi, Near, fissò lo specchio. Era nascosto dietro un telo bianco che lo faceva sembrare un enorme fantasma dalla forma allungata, snella e torreggiante.
Nate era un nome scritto solo sulla carta, ormai: nessuno lo chiamava più così. Nessuno sapeva si chiamasse così.
Non era più Nate, il bambino di cinque anni seduto sul letto a due piazze della camera di sua madre, il pigiamino bianco indosso e gli occhi fissi nei propri stampati sullo specchio.
Il bambino che guardava la sua mamma dai capelli biondo cenere sempre raccolti in una coda mentre gli raccontava la storia degli specchi o qualche altra favola di cui in solo qualche anno avrebbe messo in discussione la veridicità.
Near aveva guardato sua madre così tante volte, eppure i tratti del suo volto erano sbiaditi e confusi: se anche avesse visto una fotografia non avrebbe saputo riconoscerla; gli sarebbe servito qualcuno gliela presentasse, come una sconosciuta.
Near, dieci anni e un pigiama bianco indosso, era seduto sul letto a una piazza della propria stanza alla Wammy’s House, l’orfanotrofio per piccoli geni di Winchester.
Era stato portato lì forse prima che la madre potesse capire che lo fosse, un genio. Come avrebbe mai potuto saperlo, intuirlo? Era troppo piccolo. Un bambino che incespicava sulla parola intersecano.
Una bazzecola adesso, quella parola. Avrebbe potuto ripeterla allo sfinimento.
Near aveva udito il termine per la prima volta quando questo era troppo grande per lui e con esso il racconto che lo conteneva. La storia degli specchi non era una fiaba da raccontare a un bambino così piccolo, facile allo spavento. Near lo riconosceva, ma si rifiutava di usarla come scusa per giustificare quella paura, no, il terrore, la fobia che da anni lo accompagnava.
La storia degli specchi non era la vera ragione. Era una scusa.
La stessa che aveva costretto Roger a fissare un telo all’interno dell’armadio in modo che pendesse a celare una delle due ante, quella con lo specchio, perché Near non lo vedesse mai. Perché quella superficie non lo catturasse.
Lo specchio sopra al lavandino, in bagno, era stato invece rimosso: al suo posto c’era un rettangolo più chiaro, la tinta intonsa della parete che iniziava ad essere aggredita dalla polvere e dalla luce come mai prima dell’arrivo di Near. L’alone sfumato gli ricordava ogni giorno cosa mancava.
Lo specchio aveva protetto quel muro, ma non avrebbe protetto lui: se solo si fosse visto riflesso Near sarebbe impazzito e preferiva evitare di aggrapparsi di nuovo alla camicia di Roger in preda a quanto di più simile a degli spasmi da panico avesse mai provato.
L’uomo l’aveva trovato rannicchiato a terra una volta, ma non come al solito: aveva le ginocchia raccolte al petto a strapparsi il fiato e la schiena premuta contro l’intonaco graffiante della parete. Lo specchio unico colpevole delle sue condizioni.
Non riusciva più a muoversi, Near; era come se da quella superficie fuoriuscissero delle liane invisibili che gli si attorcigliavano intorno e lo stringevano, soffocavano, costringendolo a guardare mentre dentro era terrorizzato e voleva solo fuggire. Le spire di un serpente che più si divincolava, più lo stritolavano.
Nemmeno questo aveva in comune con il piccolo Nate, Near. Nemmeno la possibilità di guardare lo specchio senza nutrirne il più incondizionato timore.
Roger l’aveva visto tanto sconvolto dal terrore da non intimargli nemmeno che spaventarsi era sciocco. Aveva trovato una soluzione come poteva.
Near non accettava di avere una fobia, non serviva qualcuno gliela ricordasse. Non lo accettava perché riconosceva quanto la sua preoccupazione avesse radici irrazionali: uno specchio non lo avrebbe mai potuto ferire, eppure contro di lui poteva tutto.
La storia degli specchi lo calmava, in fondo. Perché lui era razionale, e anche se sempre nell’irrazionalità giustificava qualcosa di poco ragionevole come quella paura, l’idea di un trauma lo aiutava a non crucciarsi. Aveva senso.
Chissà cosa c’è, dall’altra parte. Chissà cosa potrei vedere.
Nulla, è certo. Non voglio ferirmi nel tentativo, però.
Ma essere logici non serviva, non sempre: non risolveva il problema, non estirpava quella fobia alla radice.
Perché era freddo, razionale, ma era pur sempre un bambino.
 
 
Near avrebbe evitato ogni contatto sociale se solo avesse potuto farlo.
Alla Wammy’s House gliene venivano imposti seppur esigui. E non li sopportava.
Non li temeva nemmeno, quale motivo avrebbe avuto? Le altre persone lo turbavano così poco da permettergli di scatenare un repertorio di risposte scostanti di quantità non indifferente; per questo era considerato l’eremita, l’asociale di quell’orfanotrofio.
E gli stava bene così, perché stare solo era proprio ciò che voleva: non respingeva gli altri per mascherare un celato desiderio d’affetto, sarebbe stato uno spreco di energie inutile. Se lo avesse desiderato, l’avrebbe chiesto. Semplice.
Lui non voleva gli altri accanto e basta.
Lo aiutava che quello non fosse un orfanotrofio normale.
Le lezioni non funzionavano come avrebbero funzionato ovunque: c’erano classi di una ventina di bambini e corsi erogati invece solo per pochi eletti. I gruppi si formavano in funzione dei punteggi ottenuti nei test e non in base all’età.
Ciò spiegava perché a undici anni Near si trovava in classe con Mello e altri ragazzini più grandi, e non invece con i coetanei. Ma la classe non creava un legame: c’era troppa rivalità.
Il merito era tutto ciò che contava, l’intelligenza l’unico valore fondamentale.
La Wammy’s House voleva solo una punta di diamante da poter lucidare ed era legittimo la presunta tale si trovasse nella classe A, piuttosto che nella B o nella C. Si sentivano sempre e solo lettere in quell’orfanotrofio, per un motivo o per un altro. Quelle delle classi erano particolarmente cacofoniche però: più si procedeva con l’alfabeto e più sembrava si volesse far pesare ai bambini la propria incapacità – o anche la capacità – di distinguersi.
Lo scopo non era quello, ma anche se al posto delle lettere si fosse scelta una distinzione in apparenza più innocua, magari in base cromatica, ben presto sarebbe stata affiancata da una scala di valore. Il blu sarebbe stato l’eccellenza e il rosso la mediocrità. Non c’era scampo.
Near non ne era toccato: non sapeva cosa volesse dire non sentirsi all’altezza delle aspettative, perché in fondo soddisfarle non era mai stato così difficile per lui. Non gli interessava riuscire, perché sapeva che in ogni caso, a patto gli venissero richieste abilità logiche, avrebbe raggiunto ogni traguardo anche a occhi chiusi. E non peccava di insolenza o di altezzosità nel pensarlo: era così e basta. Peccava piuttosto di indolenza, perché in qualche modo sfruttava il proprio cervello solo perché doveva e non perché voleva farlo.
Non aveva un ruolo preciso nel mondo, lui. Era solo Near, il ragazzino che si era dovuto scegliere un soprannome in tenera età per celare la propria identità al mondo intero. Dover diventare successore di L era un ruolo che gli aveva fatto comodo, quando aveva iniziato a comprenderlo: era uno scopo, un riferimento, una bussola.
Avrebbe catturato i più efferati criminali e li avrebbe messi in galera. Questo sarebbe stato, nulla di più.
Per lui che non aveva nulla era sufficiente.
Aveva una sola scelta davanti a sé, una sola strada, ma era stato lui a decidere di percorrerla.
Near non esagerava nel dire che almeno in parte capiva perché le persone lo mal sopportassero, perché Mello fosse passato dall’essere incuriosito dalla sua costante solitudine ed eccellenza all’odiarlo. Dall’interesse al disgusto.
Non era solo perché aveva scalato le classifiche della Wammy’s House relegandolo al gradino del secondo posto, dopo essere passato da una classe intermedia in ordine alfabetico alla prima in poco meno di un anno: era per il suo atteggiamento, quello di qualcuno così abituato a disporre di ciò che è in suo possesso da non desiderarlo quasi nemmeno.
E Mello, che al primo posto ambiva con tutto sé stesso da una vita, non poteva non detestarlo.
Near lo capiva, da dietro le risposte secche che sembravano confermarlo antagonista di Mello: lui era l’incarnazione di tutto ciò per cui l’altro sudava e sputava sangue. Ma per ottenerlo Near non aveva dovuto battere ciglio una sola volta.
Quel giorno le cose non andavano troppo male, Mello non lo aveva nemmeno perseguitato con le palline di carta stagnola che avvolgevano la sua cioccolata, durante la lezione. Di solito funzionava così: man mano che mangiava le proprie barrette di cioccolata appallottolava la sottile pellicola d’alluminio e gliela tirava contro la testa. Gli insegnanti avrebbero potuto evitarlo impedendogli di mangiare in classe com’era vietato a tutti, ma erano troppo stanchi di sentirlo urlare. Sfruttavano la passività di Near.
Mello credeva di essere spaventoso e ne faceva un vanto. Near e chiunque facesse parte del corpo insegnanti – quasi chiunque – invece voleva solo non doverlo ascoltare mentre gridava. Non incuteva timore reverenziale: sembrava solo isterico la maggior parte del tempo. Near non glielo aveva ancora fatto notare, ma solo perché non ce n’era stata l’occasione e non certo per scrupolo.
La presenza di Mello non era un balsamo eppure in qualche masochistico modo sapeva rivelarsi un sollievo; per Near, Mello era la persona che più si avvicinava al suo livello e per quanto scioccamente si comportasse il più delle volte quelle palline fra i capelli erano quasi una distrazione dal tedio alienante delle lezioni, della vita intera alla Wammy’s House.
Non che si sentisse a un livello particolare e si isolasse dai bambini per questo, non era presuntuoso. Non eccessivamente almeno. Si sentiva viaggiare su un binario parallelo, questo sì, e poco contava quanti sforzi avrebbe compiuto o quanti ne avrebbero compiuti gli altri: erano tutti troppo diversi. Gli altri da lui e lui dagli altri. Così Near aveva smesso di tentare.
Essere un genio era una tortura, non una manna. Near aveva undici anni e nulla che lo stimolasse davvero.
Mello era, ma si sarebbe ben guardato dal dirglielo, la persona più affine con cui avesse mai avuto occasione di scambiare qualche caustica battuta. Era un peccato proprio lui lo odiasse.
E glielo ricordasse mattina dopo mattina, giorno dopo giorno, con palline di stagnola di cui era il bersaglio o grida più o meno volgari.
«Fai almeno una volta al giorno qualcosa che ti spaventa.»
Una citazione dell’insegnante gli si infilò nelle orecchie non vista tramutandosi in pensiero. Near non aveva ben chiaro il contesto, tanto era preso a sbirciare fuori dalla finestra.
Ah, ecco perché non c’era un contesto: stava chiedendo alla classe chi l’avesse detto.
«Eleanor Roosvelt.»
Ancora una volta era troppo facile.
Era distratto, eppure il suo cervello sembrava essere sempre sintonizzato su una frequenza principale. Non si stava mai rilassando del tutto, Near. Non lo faceva apposta.
Non farlo di proposito, accezione negativa.
Sì, perché non era un pregio.
Aveva risposto senza neanche accorgersene, ancor più rapido di Mello i cui sensi fremevano pur di rubargli le parole di bocca. Near lo aveva preceduto, come sempre e senza nemmeno volerlo.
Fulmini e saette parvero scintillare fra di loro, ma nell’univoca direzione che partiva da Mello e raggiungeva Near.
Avevano dovuto imparare a memoria un’indebita quantità di citazioni da associare a un autore. Esercizio che secondo i suoi insegnanti serviva a migliorare le loro abilità e, ma questa Near pensava fosse una scusa, insegnare loro ad aprire la mente. Da quando l’importante alla Wammy’s House era sviluppare la parte umana?
Sebbene l’istinto di Near fosse stato quello di completare la consegna assegnata loro qualche giorno prima, la frase di Eleanor Roosvelt l’aveva colpito per ragioni diverse: l’aveva sentita propria per un motivo più intimo e profondo di aver associato senza difficoltà a chi appartenesse.
Near aveva pensato che, in modo del tutto inaspettato, la massima gli avesse parlato. Strano non l’avesse fatto prima, quando l’aveva letta, ma solo quando aveva assunto lo spessore dato da una voce.
Aveva pronunciato il nome dell’autrice con tono quasi impercettibile, come se fosse sfuggito alle sue labbra mentre sentiva gli occhi del professore su di sé. Sembrava quasi si aspettasse la risposta proprio da lui e lo stesse invitando a confermare quell’aspettativa: Near attirava le aspettative come un magnete.
Per lui era stato diverso; a Near era quasi parso quella frase gli fosse dedicata e, sapendo che c’era una giustificazione più che plausibile, non poteva fare a meno di sentirla un poco sua.
La sua mente corse subito all’anta dell’armadio coperta dal telo bianco, nella propria camera. Telo bianco di fronte a cui si trovò, dopo la pausa pranzo, finalmente libero dalle lezioni e dai test. Il tempo all’orfanotrofio scorreva inesorabile: non avrebbe potuto fare altrimenti, sebbene i giorni fossero scanditi da una routine sempre uguale e troppo confortevole per smettere di annidarvisi.
Le ore non passavano mai, ma arrivavano comunque al giorno successivo.
Near era accucciato a terra, i pezzi di un puzzle nivei come quel drappo di stoffa penzolante abbandonati accanto a sé.
Lo guardava. Near lo specchio, e lo specchio lui. Gli occhi neri fissi sul bianco come se stesse già guardando la sua superficie riflettente e non riuscisse a liberarsi. Il solo pensiero di ciò che si trovava oltre quel telo era in grado di mettergli i brividi. Freddi brividi che scivolavano lungo la sua schiena, facendola inarcare nel vano tentativo di sottrarsi a quegli artigli di ghiaccio che volevano solcare la sua carne fino a penetrare nei muscoli, nelle ossa, per congelare loro e lui.
Un altro tassello del puzzle al suo posto, dopo aver memorizzato con un colpo d’occhio gettato in precedenza agli incastri la sua giusta collocazione.
I suoi occhi guizzavano: da bianco a bianco, dal telo alla cornice del puzzle che lentamente prendeva forma.
Doveva lasciar scorrere quel pensiero, solo questo doveva fare Near: allontanare la malsana idea che affrontare la propria paura fosse una soluzione. Non lo era.
Eppure…
«Fai almeno una volta al giorno qualcosa che ti spaventa.»
Il ragionamento binario che aveva costruito era più che logico: con il telo lo specchio non ti fa paura, se lo togli invece sì. Ha senso ferirti? No.
E lo era, insensato, anche solo perché Near sapeva avrebbe perso tutta la propria razionalità nell’esatto momento in cui si fosse trovato a fronteggiare il proprio viso nello specchio. Odiava perdere il controllo.
Si sarebbe guardato negli occhi e avrebbe sentito strisciare nel proprio cranio quel senso di terrore alimentato dalla sua totale innaturalezza. Era una fissazione, un tarlo che lo divorava e di cui non riusciva a liberarsi: vedere quello schermo di stoffa sull’armadio, vedere l’alone più chiaro sopra il lavandino ogni mattina gli ricordava il demone che non riusciva a esorcizzare.
Era troppo.
Allora perché sentiva i propri occhi attratti da quell’oggetto come un magnete è attratto dal suo polo opposto?
«Stai rifacendo ancora quel puzzle?»
Inconfondibile tono di spregio, una punta di asprezza nella voce.
Mello.
Near non aveva quasi mai una ragione per ringraziarlo. Avrebbe potuto dire di averne una qualche anno prima, quando ancora non era il migliore della Wammy’s House e Mello non lo odiava e lo lasciava in pace. Avrebbero potuto essere amici. Near era classificato tra i primi anche all’epoca, ma ancora distante dal punteggio del biondino a causa della tenera età e delle molte nozioni ancora da apprendere. Non era una minaccia, quanto piuttosto interessante: Mello non era mai stato il ritratto della gentilezza in ogni caso, ma almeno non aveva ragione di sabotarlo o entrare in competizione con lui. Non ancora.
Erano attirati l’uno dall’altro come sono attirati due individui della stessa specie in un mondo che non conoscono; per sopravvivenza ti avvicini e ti fai forza, perché in mezzo a quel reame sconosciuto di non geni loro due erano un’eccezione che aveva bisogno di supportarsi. Persino tra Mello e Matt, il ragazzino dai capelli rossi che se ne stava appoggiato allo stipite della porta mentre Mello avanzava nella stanza, c’era un abisso di distanza. Ma loro erano diversi. Loro andavano d’accordo perché Matt era un bravo ragazzo e limava gli spigoli di Mello senza che lui lo notasse e dunque glielo impedisse. E poi Matt parlava a Near senza fargli pesare un solo dettaglio di ciò che era. Se c’era qualcuno lì dentro davvero meritevole di qualche gioia, quel qualcuno era proprio Matt.
Ma nemmeno Matt era infallibile nel contenere la furia bionda sull’uscio della sua stanza.
Se lui era il suo migliore amico, Near era una delle persone che, seppur contro la volontà di Mello, meglio lo capiva. Non comprendeva tutto, certo, ma capiva la solitudine, capiva il distacco dal mondo esterno. La sensazione di stare in mezzo a una folla ed essere ancora solo. E Mello capiva lui, ma fingeva di non farlo nascondendosi dietro l’odio ostentato, agli insulti sputati non tanto a mezza bocca e ai ringhi di disapprovazione frutto dell’ennesimo furto di una risposta da parte di Near. Mello lo detestava e rendersi conto di assomigliargli anche in un unico dettaglio doveva spingerlo a odiarlo ancor di più.
La lezione della mattina gli aveva dato una motivazione affatto nuova: il furto di un punto. Ecco perché si trovava lì.
Mello poteva anche essergli stato neutrale un tempo, ma quell’epoca si era esaurita anni prima, sepolta dal nuovo e impolverata in fondo a un cassetto come una vecchia fotografia.
Near aveva immaginato, una volta o due, che avrebbe potuto schiudere le labbra e la propria mente per lasciarsi sfuggire una confessione circa le proprie paure, circa i pensieri che annebbiavano il suo cervello e lo surriscaldavano di preoccupazione. Aveva immaginato le proprie sinapsi alleggerite di qualche ansia e aveva capito che si trattava d’istinto di sopravvivenza, perché quella paura lo faceva impazzire. Poi aveva ricordato che lui e Mello non erano più amici. No, rettifica: non lo erano mai stati davvero. Erano stati avvicinati solo dalla solitudine e da due valori di quoziente intellettivo fuori dalla media. Loro erano lettere e ciò che li accomunava erano numeri. Non c’era un bel niente da cementare raccontandosi quanto triste fosse il loro passato e quante ferite purulente infettassero la loro anima.
La Wammy’s House gli aveva portato via anche questo, oltre alla libertà e alla possibilità di fingersi un bambino normale: gli aveva portato via l’unico legame che mai nella vita sarebbe stato in grado di avere, che sarebbe stato sensato avere. Tutto per colpa di una stupida rivalità.
«Stai esaurendo le battute d’entrata, Mello?» gli chiese Near. «Me lo hai già domandato la scorsa volta.»
Near non si difendeva.
Con un colpo di spugna aveva cancellato i se e i forse, capito che Mello era lì per una qualche infantile vendetta e che avrebbe sopportato anche quel giorno in cui più degli altri non gli andava di farlo.
Di solito non si trattava di sopportare: Near lasciava che l’altro sbraitasse mentre lui si dedicava imperterrito ai propri passatempi. Da quel trambusto lui non ricavava niente, ma al biondo sembrava giovare. Magari Mello rovesciava il suo puzzle, o demoliva un suo castello di carte con la stessa furia di una di quelle grottesche creature dei film giapponesi anni cinquanta. Dava quasi un tocco cinematografico alle sue città di costruzioni, ma meglio non dirgli che quando calciava in ogni dove i suoi dadi lo vedeva protagonista di un sequel di Godzilla.
Se stava zitto, o se trovava la formula magica per farsi dare del caso perso, Mello gridava ancora un poco e poi se ne andava. Così, com’era venuto.
Near raccoglieva i pezzi e granitico riprendeva il lavoro. Aveva imparato a rallentare la costruzione di qualsiasi progetto mentre Mello era nei paraggi, per non perdere troppi progressi. Si trattava di economizzare le energie.
Non sapeva se l’altro se ne fosse accorto. Lo dubitava: sapere che Near lo precedeva anche nelle sue sfuriate avrebbe fatto inferocire Mello. Più del solito, almeno.
Forse a quel punto avrebbe sputato fuoco per davvero.
Mello aveva schioccato la lingua per quel benvenuto. Digrignando i denti, scommise Near anche se non lo stava guardando.
Matt era sulla porta. La sua unica funzione lì era accertarsi che Mello non esagerasse.
Near sapeva quanto l’ira di Mello fosse incontrollabile e se era lì per rinfacciargli il suo intervento di quella mattina c’era poco che lui o Matt potessero fare per impedirlo.
Matt rivolgeva spesso a Near uno sguardo, dopo le sfuriate di Mello, che quasi sembrava chiedergli scusa; da parte propria, per non aver preso una posizione che lo liberasse almeno in un’occasione dei soprusi di Mello e da parte di Mello stesso, che si comportava così spinto solo da pulsioni emotive che Near poteva dire di aver imparato, più che compreso.
Entrambi conoscevano Mello, e Matt pareva quasi chiedergli di tenere conto delle ragioni del suo migliore amico. Che era nel torto a far pesare ogni colpa su Near, a considerarlo la propria nemesi quando il suo unico crimine derivava da un’intelligenza che non aveva chiesto, ma che aveva pur sempre le proprie ragioni.
Mello passò davanti all’armadio. Vi camminò così pericolosamente vicino che Near distolse lo sguardo dal proprio puzzle per osservare ogni flessione del corpo del biondo.
Mello se ne accorse. Lo aspettava.
Near incrociò i suoi occhi azzurri: gli suggerivano tutto fuorché magnanimità e buone intenzioni. In natura Mello sarebbe stato un ottimo predatore e se solo non fosse stato biologicamente impossibile, Near avrebbe immaginato potesse fiutare la paura senza alcuno sforzo.
Mello lasciò pendere un braccio alle proprie spalle, quasi una scia del suo stesso passaggio, e con le dita scostò di poco il lenzuolo bianco che penzolava dall’anta dello specchio.
Nessuno se la prendeva davvero con Near. I più azzardavano solo giudizi sottovoce, commentando l’ennesimo rifiuto all’invito – ennesimo invito, avrebbe aggiunto lui – di uscire a giocare.
La sua logica rasentava la cattiveria più spietata; sapeva difendersi dai commenti acidi, anche se difendersi era il termine sbagliato. Difesa implica un attacco che necessita una reazione. Near l’attacco spesso nemmeno lo percepiva, dunque finiva per smontare i suoi nemici senza nemmeno reputarli tali.
­Nessuno se la prendeva davvero con Near anche per questo, ma soprattutto non da quando aveva iniziato a farlo Mello. Era come se fosse la sua preda e in un modo del tutto deviato Mello lo preservasse da qualsiasi altro tipo di sopruso con i propri, perché era l’unico ad avere diritto di infierire su di lui come meglio credeva.
E considerando i suoi metodi, il suo carattere, ciò che era in grado di far uscire dalla propria bocca quando era davvero arrabbiato o voleva ottenere un risultato a ogni costo, nessuno osava contraddirlo. I bambini della Wammy’s House preferivano vivere senza provare l’esperienza di mettersi a piangere a causa di Mello, o di averlo contro. Preferivano lasciare che Near pagasse per tutti.
Near era la preda schiacciata sotto i suoi artigli o tenuta fra le fauci, ma non si percepiva tale e non si sentiva in pericolo. Era il più a rischio fra tutti lì dentro eppure non se ne curava.
Mello non gli era mai sembrato un nemico da cui difendersi.
Allora fu diverso.
Quel gesto, il tocco che come un sospiro aveva sospinto il drappo cereo lasciando intravedere un piccolo spicchio della stanza di Near riflesso nello specchio sarebbe passato inosservato se solo l’albino non avesse avuto il timore di vedere di più. Se solo Mello non avesse conosciuto la verità dietro quell’improvvisato divisorio posto da Roger tra Near e il mondo che tanto gli faceva paura.
Erano i migliori della Wammy’s House, candidati a successori di L. Near lo rispettava troppo per credere non avesse intuito il suo problema con quel telo abbagliante quanto un segnale di pericolo.
Mello credeva che il divario fra loro fosse un immotivato abisso e Near, dopotutto, credeva lo stesso. Per questo non lo sottovalutava.
Il biondo non aveva mai infierito su quell’aspetto, forse perché persino lui si rendeva conto che c’erano nervi troppo sensibili per essere toccati, troppo intimi per usarli come leva per fargliela pagare. Per che cosa dovesse pagare, poi, non era ben chiaro: fosse stato un affronto terribile sarebbe ricorso a ogni mezzo per ferirlo e su questo Near non aveva alcun dubbio. Sembrava più volerlo stuzzicare. Altrimenti avrebbe potuto soffocarlo nel sonno. Il vero problema era forse che sarebbero subito andati a cercare lui, in tal caso.
Mello aveva raggiunto la finestra e il soffio gelido lungo la spina dorsale di Near si era acquietato.
«Credi di essere nella posizione di rispondermi?»
«Tu mi parli. Non vedo cos’altro dovrei fare.»
Near non aveva filtri, non era in grado di averne. Rispondeva come voleva e considerare le variabili, cosa sarebbe stato meglio dire o non dire, con Mello non sempre aveva senso. No, quasi mai ne aveva: era impossibile trovare una risposta giusta, perché anche se lo fosse stata Mello avrebbe negato per partito preso.
I loro dialoghi molto spesso non avevano il minimo nesso logico. Se Mello non lo insultava, lasciava intendere comunque che se l’era presa e rimarcava il proprio astio. Si liberava del fiume di rabbia con cui voleva annegare Near e lo lasciava lì ad andare a fondo senza alcun riguardo per lui.
Mello sembrava insolitamente calmo, quella volta. E non era un buon inizio perché con Near, Mello non era mai calmo: lo rimaneva solo quando sapeva di avere la situazione in pugno e il migliore della Wammy’s House non poteva trascurare quel piccolo gesto compiuto dalle dita di Mello, impresso nella sua mente come un marchio a fuoco.
Perché Mello poteva essere impulsivo alle volte, ma sapeva anche essere oculato e in quel momento lo era stato di certo.
Tornò a piazzarsi davanti all’armadio e questa volta il lembo del lenzuolo lo afferrò, senza tirarlo.
Il respiro di Near gli si mozzò in gola.
Doveva stare calmo.
«Quanto mi risponderesti se togliessi questo pezzo di stoffa, Near?»
Doveva rimanere calmo. Se fosse riuscito a farlo ragionare, se fosse riuscito a fargli credere che quel gesto non fosse necessario, forse lo avrebbe lasciato in pace.
Near nemmeno si accorse di aver esitato, i suoi tempi di risposta dilatati di preziosi attimi e che sul viso di Mello era comparso un lieve sorrisetto, un ghigno: si stava già pregustando la vittoria garantita dall’infondato terrore del suo rivale.
I pezzi bianchi del puzzle erano rimasti immobili nella mano congelata a coppa di Near.
Anche il suo cervello era immobile. Non stava più guardando la manica nera che avvolgeva il braccio di Mello, stagliata come un’ombra spaventosa sulla stoffa nivea. La sua mente stava già immaginando lo specchio alle sue spalle, del tutto ossessionata.
«Non parli più, eh?»
«Avanti, Mells.» Matt, che non si era ancora intromesso nella discussione, fece un passo nella stanza, le mani calcate nelle tasche. «Lascialo in pace se ha così paura.»
«Stai zitto, Matt», gli rispose seccamente. «Potevi pensarci prima.»
Già, avrebbe potuto pensarci prima.
Near spostò gli occhi in quelli azzurri del ragazzo. Erano sgranati, quelli di Near. Smarriti.
Non aveva filtri, avrebbe solo potuto sperare che il proprio cervello restasse congelato un po’ più a lungo, in modo da dare a Mello la soddisfazione di averlo nel palmo della mano. Soddisfazione che lo avrebbe fatto desistere e lo avrebbe spinto ad andarsene.
L’istinto di preservazione avrebbe gridato questo.
Se solo Near ne avesse avuto uno.
«Credo…» Near esitò, perché aveva la gola secca e la sensazione che il fiato mancasse, ma non poteva mostrarlo. Non avrebbe nemmeno saputo come perdere il controllo. Non un’inflessione marcò la sua voce incolore. «Sarebbe un gesto alquanto codardo da parte tua.»
Aveva chiesto che quel lenzuolo cadesse. Se Mello avesse avuto in mano una pistola, le sue parole sarebbero corrisposte a domandargli di premere il grilletto senza interrogativi.
E Mello lo accontentò, senza che il proprio volto tradisse un’emozione. Perché che senso aveva infuriarsi con Near se poteva provocargli una sofferenza anche solo minimamente simile alla sua? Dentro Mello stava bruciando, ma per una volta non lo mostrò.
Dopo essersi gonfiato in aria il lenzuolo si accasciò a terra, accanto ai piedi di Mello.
«Fai almeno una volta al giorno una cosa che ti spaventa», asserì Mello con scherno. «Lo hai detto tu oggi, Near.»
Near aveva scordato di trovarsi in una stanza con due persone. Si era scordato di Mello, si era scordato di Matt e, inginocchiato a terra, vedeva solo il proprio riflesso nello specchio a figura intera, quello rimasto protetto dalla polvere per anni e che per masochismo aveva bramato di fissare fino a poco prima.
Ora, aveva la conferma, non era una buona idea.
Mello era uscito dalla stanza, Matt non se n’era andato. Forse lo voleva aiutare, ma Near non si era nemmeno accorto fosse ancora lì.
«Matt!» si sentì gridare da in fondo al corridoio.
Mello nemmeno voleva osservare la pena di Near. Nobile da parte sua, se solo non gli fosse bastato sapere che ne provasse.
Aveva provocato il danno e questo gli era sufficiente.
Matt si voltò, esitando un istante.
«… Scusa.»
Quando Near rimase solo sentì quella sensazione. Quella che sembrava risucchiarlo in un altro mondo, che rendeva ogni millimetro del suo aspetto spaventoso. Gli sembrava che le immagini nello specchio fossero sbalzate verso di lui, che in qualche modo sconfinassero nella sua dimensione e ancora una volta sentì quei tentacoli uscire dalla parete riflettente e afferrarlo, avvilupparsi intorno ai suoi arti.
Sentiva il freddo, il ghiaccio scorrergli lungo le ossa. Sentiva il terrore scivolare dentro di lui senza che potesse fare nulla.
Nemmeno sbattere le ciglia era contemplato.
Come poteva provare tanta paura senza che il suo cervello pensasse nulla, solo per delle immagini che credeva di poter vedere? Come poteva aver paura del nulla?
Ma quelle domande erano vecchie e non avevano più senso, come non avrebbe avuto senso dire di essere Nate.
Solo quando Near sentì il battito cardiaco accelerato e i tasselli del puzzle scivolare fra le fessure delle dita allargate e tremule strizzò gli occhi. Li serrò come fa un bambino nascosto fra le coperte, il lenzuolo tirato fino al naso, per paura che dietro la porta ci sia nascosto l’uomo nero.
Near arretrò fino alla parete, si spinse con i piedi e calciò via il puzzle. Il fiato corto gli graffiava la gola mentre tentava di calmarsi.
Sbatté contro il muro, fece rumore: non se ne accorse.
Raccolse le ginocchia al petto e portò le dita fra i capelli candidi, aggrappandosi alle proprie stesse ciocche senza la delicatezza di quando le arricciava, come per richiamare in modo grossolano quel gesto che di solito lo rilassava. Graffiò il cuoio capelluto, sentì la pelle bruciare e pressò la fronte contro le ginocchia per nascondersi.
Era calmo persino nell’esagerazione della reazione che lui stesso reputava tale.
La stanza era di ghiaccio, come se tutto il calore fosse stato assorbito dalla sua paura più grande, più minacciosa.
Tentò di prendere un respiro.
«Non devo avere paura», esalò. «La paura uccide la mente.»
Non bastò.
Scese a cena, quella sera.
Sfilò sotto lo sguardo glaciale di Mello con gli occhi gonfi e senza spiccicare parola con nessuno. Come sempre.
Camminò a testa alta perché la mensa non faceva paura. Perché nella stanza con lo specchio, la sua, esisteva davvero qualcosa che Near non voleva vedere e che lì, in mezzo a tutti, non poteva guardare.
Sé stesso.
   
 
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