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Autore: Naco    14/02/2020    1 recensioni
Quando la sua professoressa di tesi propone a Lucia - seria e coscienziosa laureanda in Lettere - di dare ripetizioni di francese al proprio figlio, la ragazza capisce subito che, accettando, rischia di cacciarsi in un mare di guai: Giulio Molinari è il classico figlio di papà che pensa solo alle ragazze e assolutamente disinteressato a costruirsi un futuro Insomma, il tipo di persona che lei detesta.
Ma è davvero così impossibile che due persone così diverse possano avvicinarsi? In una girandola di battibecchi, scontri e incomprensioni, tra parenti ficcanaso e fedeli amici, tesi da preparare e lezioni di francese da seguire, Lucia e Giulio si renderanno presto conto che non sempre l’altro è poi così diverso da noi e che, forse, la nostra anima nasconde un ritratto molto più bello di quello che noi preferiamo mostrare agli altri.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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XVI


Il giorno dopo, due settimane prima dell'inizio delle sedute di laurea e un’ora dopo essere stata in biblioteca per mostrare il mio lavoro ad Antonio, ero seduta su una panchina nella piazza di fronte all’ateneo in attesa di Giulio per andare a comprare i famosi testi per la prova preselettiva, distrutta e assonata. Avevo dormito pochissimo quella notte, perché Giulio aveva insistito per restare fuori tutta la giornata per farmi visitare la zona e cenare di nuovo in campagna, stavolta cucinando noi, e solo verso le dieci di sera avevamo finalmente preso la via del ritorno. Tuttavia, dopo essere ormai giunti sotto casa mia, si era reso conto di aver dimenticato il cellulare in campagna e avevamo quindi attraversato nuovamente mezza provincia di Bari per recuperarlo; come se non bastasse sulla tangenziale c’era stato un incidente, quindi si erano formate code e rallentamenti che ci avevano fatto rientrare in città che erano quasi le tre.
A discolpa di Giulio va detto che aveva cercato di farmi desistere dall’accompagnarlo e che si era offerto di tornare indietro da solo. Io, però, avevo rifiutato categoricamente, perché mi sentivo in parte responsabile per la sua dimenticanza, visto che eravamo andati lì per me.
«Sei proprio sicura che vuoi venire con me in libreria?» mi aveva appena chiesto. «Posso andare da solo, se hai da fare.»
«Niente affatto.» Anche se io ero solo la sua insegnante di francese, avevo preso ormai a cuore la sua preparazione e ne avevo fatto una mia missione personale.
Giulio aveva sospirato e si era arreso alla mia cocciutaggine. «Dieci minuti e sono lì» mi aveva detto; eppure, secondo il mio orologio da polso erano ormai passati più di trenta minuti e io non lo vedevo ancora all'orizzonte.
«Aspetti Giulio?» mi domandò all’improvviso una voce.
Alzai la testa e mi ritrovai davanti una ragazza un po’ più piccola di me, con i capelli rossi, gli occhi verdi e una borsa blu cobalto sulla spalla destra, che mi fissava. La riconobbi subito: era la tipa della triennale che, settimane prima, avevo visto flirtare con Giulio; d’istinto sollevai tutte le mie barriere: che diavolo voleva da me, adesso?
«Scusa?»
Nonostante la mia palese freddezza, lei scoppiò a ridere: «Non fare quella faccia! Abbiamo capito tutte che tu e Giulio vi frequentate, anche se fate di tutto per non darlo a vedere. L’altra sera vi ho anche visti passeggiare insieme sul lungomare.» L’uso di quel femminile plurale non mi piacque per niente, ma feci finta di niente; tuttavia, la mia ritrosia si fece ancora più forte.
«Posso fare qualcosa per te?» provai ad essere gentile, più per levarmela di torno che per reale interesse; per tutta risposta, lei si sedette accanto a me pur non essendo stata invitata a farlo. «Senti, immagino che tu non ti fidi per niente di me e che mi vedi come una sorta di rivale, ma mi sembri una brava ragazza e molto affezionata a Giulio, per questo vorrei metterti in guardia su di lui prima che sia troppo tardi.»
Avevo inteso benissimo il gioco di quella ragazza e non avevo alcuna voglia di stare ad ascoltarla.
«Guarda, non ho idea di che film tu ti sia fatta, ma tra me e Molinari non c’è niente,» tagliai corto e stavo per alzarmi e andarmene, quando lei mi prese per un braccio: aveva una stretta decisa che mi sorprese e, in una certa misura, mi spaventò.
«Davvero?» La sua voce era gentile e vellutata, ma celava una chiara nota di dubbio: era chiaro che non era stata affatto persuasa dalle mie parole. «Buon per te, allora. Ma io lo conosco e so bene quanto sia difficile resistergli, perciò preferirei metterti in guardia.»
«In guardia da cosa?» non credevo a una sola parola di quello che mi stava dicendo, eppure una parte di me – quella che avevo ricacciato indietro con forza, quella che non si fidava di Giulio, quella che mi mostrava il volto esangue di mia sorella ogni volta che un ragazzo si avvicinava a me – voleva prestarle ascolto.
«Giulio ti odia. Ti detesta. Non vuole avere niente a che fare con te e mi ha detto che prima o poi si sarebbe vendicato di quella... come ti ha definita? Ah, sì, “frigida con la puzza sotto al naso”. Che ti avrebbe sedotta, portata a letto e abbandonata.»
Mentalmente, sospirai di sollievo. Non era certo una novità il fatto che Giulio mi avesse odiata e io avevo ricambiato il suo sentimento, quindi eravamo pari.
«Tutto qui? Non è un segreto per nessuno che tra me e Molinari i rapporti siano parecchio burrascosi.»
«So che ha conosciuto i tuoi. Non ti pare strano che da odiarti, all’improvviso, decida di venire con te a conoscere la tua famiglia?»
Mi bloccai. Chi diavolo gliel’aveva detto? Dovevo stare calma. Dopotutto ne avevamo parlato all’università, quindi non era da escludere che lei fosse dalle parti della sala studio e avesse sentito tutta la nostra conversazione; a quanto pareva, lei era sempre nei paraggi quando c’era Giulio in giro.
Stavo per ribattere, ma lei mi precedette di qualche secondo: «E dimmi, ti ha già chiesto se può farti un ritratto?»
Come?
Questa volta, fui certa di essere impallidita; lei se ne accorse e annuì a se stessa: «È la strategia che usa con tutte: prima ti seduce; più avanti ti dice che vorrebbe farti un ritratto perché sei la donna dei suoi sogni; poi, qualche giorno dopo, quando ormai tu credi che lo faccia perché ti ama, ti manda un messaggio e ti dice che c’ha provato, ma l’arte non mente e lui, niente, non ti ama come pensava. L’ha detto anche a te?»
Ma io ormai non l’ascoltavo più.
Chi le aveva parlato del ritratto? Eravamo a casa mia, non c’era nessuno con noi. Giulio mi aveva detto di non aver mai comunicato ad anima viva della sua passione per il disegno, quindi come faceva lei a saperlo?
«Ti ha mentito. Ti ha preso in giro per tutto questo tempo» concluse la solita voce, cinica e fredda che ormai era tornata a farsi sentire con prepotenza. Certo, Molinari mi aveva odiata, ma non pensavo che sarebbe arrivato a tanto.
«Ma ci credi sul serio?» mi interrogò l’altra, quella vocina che credeva in Giulio e aveva fiducia in lui. «Questa qui è solo gelosa. Devi parlarne con lui e scoprire la verità.»
La tizia, intanto, stava continuando a parlare, raccontando di come Giulio l’aveva conquistata e abbandonata. Dovevo andarmene da lì, e in fretta, trovare Giulio e sentire quello che aveva da dirmi.
«Mi dispiace» la interruppi in modo brusco balzando in piedi. «Ma credo che ci sia un equivoco. Come ti ho già detto, tra me e Molinari non c’è niente. Ma ti ringrazio per gli avvertimenti che mi hai dato: cercherò di stare attenta» e, senza aspettare una sua replica, mi allontanai.
Camminavo senza vedere dove stessi realmente andando: ovunque, volevo andare ovunque, basta che fosse lontano da quella ragazza e da ciò che mi aveva rivelato. Dov’era Giulio? Perché non era ancora arrivato? Che diavolo stava facendo? Era in compagnia di una nuova ragazza, quella che avrebbe preso il mio posto? Ormai non riuscivo più a ragionare con lucidità e il caldo afoso di quelle giornate non aiutava.
D’un tratto, mi sentii chiamare: era Giulio che mi veniva incontro quasi correndo.
«Lu’, scusami. Ho trovato traffico» si giustificò trafelato «Ma come mai sei qui? Non dovevi aspettarmi in piazza?»
Non avendo risposta, mi guardò con più attenzione. «Che è successo?» indagò. Dovevo essere uno spettacolo parecchio pietoso, perché Giulio sembrava allarmato. Per un attimo mi tornò alla mente quella notte a casa mia, quando mi ero svegliata urlando in preda agli incubi. Ricacciai indietro quel ricordo.
«È vero che volevi portarmi a letto per poi lasciarmi?» gli chiesi a bruciapelo.
Giulio impallidì e, in quel momento, compresi che mi nascondeva qualcosa. E se quella ragazza avesse avuto ragione su tutto? Dovevo scoprirlo, anche se questo mi avrebbe distrutta.
«Chi te l’ha detto?» mi chiese invece di rispondermi. E la cosa non mi piacque affatto.
«Non ha importanza. È vero?»
«È stata Valeria, vero?» cercò di avvicinarsi a me, ma io mi allontanai di scatto.
«Non so come si chiami, e a dire il vero non mi interessa. È vero?»
«Senti, Lu’, posso spiegarti…»
«È vero o no?» ripetei quasi urlando.
«Sì, è vero» ammise infine «Ma lo sai anche tu che all’inizio non ti sopportavo. Ero solo arrabbiato, non dicevo sul serio.»
«E gliel’hai detto prima o dopo averle parlato del nostro week end dai miei? È per questo che all'improvviso sei diventato così gentile con me tanto da volermi accompagnare?» Il mio tono era diventato acido.
«Cosa? Non le ho detto niente di niente! Deve averlo sentito mentre ne parlavamo in sala studio: nella stanza non c’era nessuno, ma nei corridoi? Anche Massimo ti ha sentita urlare, ricordi? Lu’, per favore…»
Ma io non ero disposta a lasciar perdere. Non quando c’era ancora qualcosa di importante che dovevo chiedergli. La cosa più importante, forse.
«E il ritratto? Come faceva a sapere del ritratto?»
Giulio stavolta mi fissò interrogativo. Davvero non ne aveva idea o stava solo facendo finta?
«Cosa? Di che ritratto stai parlando?»
«Di quello che avevi detto di volermi fare. Mentre eravamo a casa mia. Da soli. Come faceva a saperlo?»
«Io… io… non lo so! Per favore, Lucia, fammi spiegare!»
Ma io non ero intenzionata ad ascoltare una sola parola di più. «E cosa c’è da spiegare? È tutto così palese che non capisco come abbia fatto a essere stata così stupida da crederti. Se penso che ti ho fatto conoscere mia nonna, ti ho permesso di scoprire una parte del mio passato che non ho mai raccontato a nessuno! Come ho fatto a essere così cieca?»
Ormai ero cosciente di stare urlando e che più di una persona si stava voltando nella nostra direzione per scoprire cosa stesse accadendo. Ancora una volta Giulio cercò di rabbonirmi, ma io ero decisa a non avere più niente a che fare con lui.
«Non mi toccare!» sentivo la mia voce gridargli «Non ti avvicinare mai più a me. Mai più!»
Giulio stavolta non si mosse; mi fissò con uno sguardo che non gli avevo mai visto e che, nonostante tutto, mi colpì. «Ti fidi così poco di me, dunque?»
«Perché dovrei fidarmi di te?» lo fulminai, fredda «Cosa hai mai fatto per ottenere la mia fiducia o quella di chiunque altro? Ti nascondi dietro le decisioni dei tuoi genitori e non sai prendere in mano la tua vita. Chi mai si potrebbe fidare di una persona come te?»
Le parole venivano fuori come lame che, lo vedevo, lo attraversavano da parte a parte. Mi rendevo conto che gli stavo facendo del male, ma era appunto quella la mia intenzione: ferirlo, come aveva fatto lui con me.
«Bene. Non credo che abbiamo altro da dirci» concluse e, dandomi le spalle, si avviò verso la direzione da cui era venuto.
Fu solo quando rimasi sola che realizzai la portata di quello che era appena avvenuto. Sentivo il cuore pesante, come se avessi sul petto un macigno da cui non potevo liberarmi. Non piangere, non piangere, non piangere! continuai a ripetermi come un mantra, ma le lacrime, testarde, avevano già inondato le mie guance. La gente aveva iniziato a fissarmi mormorando, perciò tornai verso l’ateneo, l’unico posto nelle vicinanze che considerassi una casa; raggiunsi il secondo piano e mi chiusi in uno dei bagni per le donne.
Non so quanto tempo rimasi lì, accucciata per terra, con la testa fra le ginocchia, le lacrime che continuavano a solcare le mie guance. Avevo promesso a me stessa e a mia sorella che non avrei mai pianto per un uomo e invece, eccomi lì, a versare tutte le mie lacrime per una persona che non ne meritava nemmeno mezza.
«È questo il dolore che hai provato, Giovanna, quando ti sei messa alla guida?» avrei tanto voluto domandarle.
«Vorrei farti un ritratto.»
«E dimmi, ti ha già chiesto se può farti un ritratto?»
«È solo che mentre lavori sembri così... felice.»
«…ti dice che vorrebbe farti un ritratto perché sei la donna dei suoi sogni...»
Mi presi la testa tra le mani. Basta, basta! avrei voluto urlare, ma dalla gola mi uscii solo il suono sordo di un singhiozzo soffocato che, nel silenzio, si espanse con un’eco quasi lugubre. Mi tappai la bocca con le mani per soffocare un nuovo singhiozzo. Non potevo restare ancora lì. Ma dove avrei potuto andare? Non a casa mia: nel mio appartamento, avevo trascorsi gli ultimi due giorni con Giulio e al solo metterci piede sarei stata sopraffatta dai ricordi. Tornare dai miei? Neanche per sogno: non avrei mai permesso che la mia famiglia mi vedesse in quello stato per un ragazzo. Inoltre, non ero nelle condizioni di mettermi alla guida: sapevo anche troppo bene che conseguenze avrebbe potuto avere una simile azione. Non avevo nessuno, lì a Bari, tranne Andrea e Claudia. Ambedue, però, quella mattina non erano venuti all’università, quindi avevo dedotto che stessero lavorando a casa loro, e non mi andava di disturbarli: dopotutto, tutti e due avevano già i loro problemi e non mi andava di caricarli anche dei miei. Eppure… eppure non volevo stare sola con i miei pensieri. E avevo degli occhiali da sole da restituire, no? Mi dissi per darmi forza.


Faceva caldo, quel pomeriggio. Un caldo asfissiante, insolito per la fine di giugno e questo non giovò per nulla alle mie già precarie condizioni. Arrancavo per strada come se avessi appena corso la maratona e avvertivo il sudore misto a lacrime solcarmi il viso. A quell’ora non c'erano molti passanti, per fortuna, ma quei pochi che incontravo mi guardavano con un misto di sospetto e pietà. Accettavo quegli sguardi indagatori senza vederli sul serio, persa nei miei pensieri.
Per fortuna non ebbi bisogno di suonare il citofono di casa Piacente, perché qualcuno era uscito giusto in quel momento e il portone non si era ancora chiuso alle sue spalle; con un piccolo sforzo lo raggiunsi prima che si richiudesse con un tonfo e per un attimo mi crogiolai nella sensazione di fresco che c’era nell’androne. Rimasi qualche secondo appoggiata al portone, rinfrancata da quella frescura improvvisa e, diversamente dal solito, decisi di prendere l’ascensore: non mi andava che qualcuno mi vedesse in quello stato nello stabile; molti li conoscevo di vista e non volevo che la curiosità morbosa dei vicini mettesse nei guai Andrea e sua madre: mi avevano raccontato di come alcuni avessero malignato sulla povera donna quando suo marito l’aveva abbandonata, quindi chissà che strane storie avrebbero potuto raccontare sulla ragazza in un mare di lacrime che stava chiaramente raggiungendo il loro appartamento.
Nel momento in cui la porta si aprii e la figura di Andrea entrò nel mio campo visivo, mi resi conto che non mi ero neanche accorta di essere arrivata al suo piano e di aver suonato. Sto impazzendo, pensai.
«Lu’! Che diavolo ti è successo?» il mio amico mi fissò sgranando gli occhioni castani «Si tratta di Giulio?»
A solo sentire quel nome, scoppiai a piangere. Odiavo piangere. E odiavo piangere di fronte agli altri. Ma non riuscii a farne a meno.
Andrea non aggiunse altro: mi abbracciò forte dondolandosi sul posto e accarezzandomi i capelli. Esattamente come aveva fatto Giulio quella sera. A quel pensiero, mi riscossi.
«Scusa,» cercai di frenare le lacrime e i singhiozzi «non volevo… ti disturbo?»
Andrea guardò all’interno per un attimo, poi si voltò verso di me. «Tu non disturbi mai. Dài, entra,» mi disse scostandosi per farmi entrare «ti offro un gelato e mi racconti tutto.»
Appena varcai la soglia, la porta del bagno si aprì e ne venne fuori Antonio.
Oh.
Ci fissammo per un attimo senza parlare, piuttosto a disagio.
«Scusate. Non volevo…» feci qualche passo indietro, decisa a lasciarli soli, ma Antonio mi fermò. «Non ti preoccupare, stavo andando via» e, senza darmi il tempo di replicare, recuperò dal tavolino il cellulare e le chiavi e scappò via prima che Andrea richiudesse la porta d’ingresso. Per qualche secondo non parlammo, troppo in imbarazzo per quello che era appena successo.
Mi schiarii la voce. «Vedo che ci sono stati sviluppi.»
Anche Andrea avvertì all’improvviso qualcosa di strano alla gola. «Ehm, sì.»
«Mi dispiace, avrei dovuto avvisarti. È che non avevo idea di dove andare. Inoltre, dovevo restituirti gli occhiali da sole!» cercai di scherzare, ma la voce mi si incrinò ancora una volta. No, non di nuovo, ti prego!
«In effetti, ne avevo bisogno giusto stasera, perché, eh, devo andare a una serata in maschera e, sì, gli occhiali da sole fanno parte del costume. Quindi, hai fatto benissimo a portarmeli» stette al gioco; poi, vedendo che non ridevo, mi si avvicinò e mi condusse sul divano, come se fossi una poppante che non è in grado di camminare da sola; dopodiché, sparì in cucina e ritornò con una vaschetta di gelato al cioccolato e mi porse uno dei due cucchiaini che aveva portato con sé. «Adesso però mi racconti tutto, ok?»
Espirai con forza e iniziai il mio racconto. Parlai per quelle che mi parvero ore, tra un cucchiaiata di gelato al cioccolato e l’altra; gli rivelai di mia sorella e di Stefano, della fissazione di mia madre per il matrimonio, di come mia nonna, l’unica che fosse rimasta con i piedi per terra, ci avesse costretti a vendere quella casa così piena di ricordi dolorosi e a trasferirci nell’appartamento sopra al suo, che era di una sua amica e ce lo cedette in poco tempo; gli narrai dei miei incubi, di come la notte mi svegliavo urlando, di come mi ero buttata sullo studio per il terrore di fare la fine di mia sorella e di come fosse stato lo studio a salvarmi dal dolore. Mentre le parole uscivano fuori dalle mie labbra, mi sembrò quasi che il peso sullo stomaco che portavo con me da dodici lunghi anni, e che per questo quasi non notavo più, si alleggerisse sempre di più e mi resi conto che quella era la prima volta che raccontavo a qualcuno quello che era accaduto tanti anni prima; certo, anche Giulio ormai sapeva quello che era successo, ma era stato mio padre a dirglielo e non avevamo quasi più toccato l’argomento; invece, in quel momento, su quel divano, davanti a quel contenitore pieno di gelato che si svuotava sempre più in fretta, ero io che buttavo fuori quello che avevo dentro. Forse, se quando era accaduto l’incidente, mi avessero portata da uno psicologo e avessi realizzato fin da allora quanto parlarne mi avrebbe fatto bene, adesso la mia vita sarebbe stata molto diversa; ma, purtroppo, avevo vissuto in una realtà in cui andare dallo strizzacervelli significava che sei pazzo o vieni additato come tale, perciò i miei avevano aborrito l’idea ancor prima di sentirla.
Andrea mi rimase accanto durante tutto il mio racconto: non mi interruppe mai e di questo gliene fui grata. Quando dopo passai a narrargli come avevo insistito con i miei perché mi portassero all’ospedale con loro e dell’ultimo ricordo che avevo di mia sorella, deposta su quel letto coperta solo da un leggero lenzuolo immacolato, Andrea scoppiò a piangere come un bambino e mi abbracciò: «Come hai potuto tenerti dentro tutto questo senza mai dirlo a nessuno? Perché non me ne hai mai parlato? Siamo amici, no?» mi domandò tra le lacrime.
Erano le stesse parole che gli avevo detto qualche settimana prima quando, turbata per la sua scomparsa, ero andata a casa sua e avevo scoperto di Antonio. Aveva ragione. È così facile dare consigli e pareri sulla vita degli altri, ma quando tocca a te, quando ti tocca parlare delle tue paure e del tuo dolore, è molto, molto diverso.
«Mi dispiace,» fu l’unica cosa che potei rispondergli.
Rimanemmo per qualche minuto abbracciati, incerti su chi stesse confortando chi, ma poiché il mio racconto non era ancora terminato, anche se mi faceva male, decisi di stringere i denti e di dirgli anche di Giulio e di quello che era accaduto quella mattina. Anche stavolta Andrea mi ascoltò con attenzione, annuendo solo ogni tanto per farmi capire che mi stava seguendo.
Quando terminai il mio lungo monologo, il sole si era abbassato di molto sull’orizzonte e avevo la gola secca, ma mi sentivo molto più leggera.
«Quindi pensi che quella ragazza ti abbia detto la verità?» s’informò Andrea dopo avermi dato un bicchiere d’acqua. «Come fai a essere sicura? Voglio dire, è palese che sia innamorata di Giulio…»
Scossi la testa. Ci avevo pensato anche io, ovvio. Non è che mi fidassi quella tizia - Valeria - ma era riuscita a toccare proprio quei punti che non mi avevano permesso di lasciarmi andare del tutto. Perché Giulio, pur non avendo mai nascosto il fatto che non mi sopportava, aveva deciso tutto a un tratto di accompagnarmi dai miei? Non avevo mai creduto al fatto che si sentisse in colpa e, quando me l’aveva proposto, avevo subito pensato che l’avesse fatto perché così sarei stata in debito con lui e avrei accondisceso al fatto di farla finita con quelle insulse lezioni. Ma se non fosse stato solo quello il suo motivo? Per settimane avevo meditato su come e quando me l’avrebbe fatta pagare per la mia presenza ingombrante nella sua vita e quale modo migliore sarebbe stato se non ricambiare il favore e inserirsi in modo subdolo nella mia, di vita privata?
Poi qualcosa era cambiato: Giulio si era attenuto alle mie indicazioni e mi aveva mostrato un lato che non conoscevo. Avevo creduto che, come me, avesse scorto delle somiglianze nelle nostre situazioni familiari, ma ero stata troppo precipitosa. E tuttavia, il mio inconscio doveva aver subodorato qualcosa, perché quella vocina maligna era tornata spesso a farmi visita, cercando di aprirmi gli occhi, ma io l’avevo zittita: avevo deciso di provare a fidarmi di Giulio, di credere nel fatto che fosse una persona diversa da quella che appariva. Perché non le avevo dato retta prima?
«Non è che mi fidi di lei. Però… chi le aveva detto del ritratto se non Giulio?» Era quello il vero problema, il pensiero fisso che non riuscivo a togliermi dalla testa. Come mai ne era a conoscenza se, da quanto mi aveva detto, lui non aveva mai confidato a nessuno la sua passione per il disegno? Era chiaro che fosse stata una menzogna.
«Magari ha tirato a indovinare…» propose, ma era palese che non fosse molto convinto neanche lui. «È che mi pare tutto così strano. Io l’ho visto come ti guarda, Lucia. E non è uno sguardo che si lancia a una che vuoi portarti a letto per dispetto.»
«Magari è un bravo attore.»
Andrea scosse la testa. «Non credo, Lu’. E io ne so qualcosa di uomini che vogliono solo una cosa da te» lo sguardo di Andrea si velò un po’ e fu il mio turno di dargli una gomitata incoraggiante.
«È così che devo interpretare la presenza di Antonio qui da te?»
Andrea scoppiò a ridere e si passò una mano sul volto. «È stato un po’ imbarazzante, vero?»
«Direi che “un po’” è un eufemismo,» ammisi sorridendo. «Pensavo di trovare tua madre, non mi sarei mai aspettata di incontrare lui.»
Andrea si toccò la testa, le guance velate da un tenue rossore. «Mia madre è via da qualche giorno. Mia zia, quella che abita a Roma, non sta molto bene, quindi è andata da lei. E così Antonio ogni tanto passa da me.»
«Quindi, era per parlare al telefono con lui che sabato preferisti il balcone a me?»
Le guance gli si imporporarono ancora di più e provai un moto di sconfinata tenerezza verso di lui.
«Ha lasciato Valentina» mi spiegò. «Mi telefonò due sabati fa. All’inizio io avevo deciso di non rispondergli: non volevo dargli la soddisfazione di mostrarmi troppo arrendevole. Lui però continuò a chiamarmi per tutta la mattina, così mi preoccupai: e se avesse voluto parlarmi della tesi? E se fosse successo qualcosa di importante? Così, misi da parte l’orgoglio e gli risposi. Non mi diede neanche il tempo di prendere la chiamata che mi disse che la sera prima aveva lasciato Valentina.
“Io non la amo”, buttò fuori “E non voglio costringerla a passare la vita con una persona che non proverà mai gli stessi sentimenti per lei, per quanto le voglia un bene dell’anima”»
Queste parole avevano un che di familiare, ma non dissi nulla.
«Quindi adesso state insieme?»
«No. Cioè, sì. È complicato. Ci… ci stiamo frequentando, ecco. Mi ha detto che vuole essere se stesso alla luce del sole e che per questo ne parlerà con i suoi quanto prima. Ma non sa se e quando riuscirà a farlo, per questo mi ha supplicato di aspettarlo ancora un po’.»
«Beh, almeno ha lasciato la tipa» lo consolai.
«Già. E per uno che stava progettando di sposarla è un grande passo avanti, no?» rise di se stesso. «Non so quanto riuscirò a resistere, ma gli ho promesso che ci avrei provato. Sbaglio ad avere così tanta fiducia in lui, secondo te?»
«Ti fidi così poco di me, dunque?» mi aveva apostrofata Giulio quella mattina.
Fiducia. Il requisito fondamentale di tutti i rapporti umani. Giovanna aveva avuto fiducia in Stefano, ed ecco quello che le era successo; io stessa avevo concesso la mia fiducia a Giulio, e anche in questo caso la situazione non si era evoluta per il meglio. Ma Antonio era davvero come Stefano e Giulio? Dopotutto, per il mio amico aveva lasciato la fidanzata – una ragazza – per cercare di essere quello che era, a discapito di come gli altri avrebbero voluto che fosse. Non meritava almeno un po' di fiducia?
«Io credo di sì. Ma non ti illudere prima del tempo» non potei fare a meno di aggiungere: non volevo che il mio amico soffrisse ancora per aver mal riposto la propria fiducia.
Andrea mi sorrise: «Sapevo che l'avresti detto!»
   
 
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