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Autore: Taylortot    17/02/2020    2 recensioni
La paura gli si inerpicò in bocca, amara sulla lingua. “Chi sei?” Gli ci volle un momento per registrare il suono della sua stessa voce.
Lei lo fissò e sbatté le palpebre. “Lance, per favore. Non è il momento per una delle tue battute-”
Lui aggrottò le sopracciglia e si mise a sedere a fatica per sfuggire alle braccia di lei. “Non sto- non sto…scherzando.”
*
Dopo essersi sacrificato per salvare Allura, Lance si sveglia in un mondo strano e nuovo dove l’unica cosa che sente è un profondo legame con un ragazzo che non ricorda.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kogane Keith, Krolia, McClain Lance, Takashi Shirogane
Note: Traduzione, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Note della traduttrice:
Eccoci tornate con un altro capitolo! Ringrazio la mia super beta CrispyGarden per l'impegno con cui tiene a bada i miei orrori nelle traduzioni <3

Fateci sapere cosa ne pensate di questo capitolo nei commenti, oppure lasciate un kudos o un bookmark!

Buona lettura!


Fece fatica ad addormentarsi quella notte, dopo aver nascosto il quaderno e aver infilato la lettera sotto il cuscino. Lo colpiva il fatto che nessuno sapesse. Il che, in tutta onestà, aveva dell’incredibile.

Lance non capiva come non potessero sapere. Come aveva fatto ad essere così bravo a nascondere le sue emozioni quando erano così piene e avvolgenti? Conoscevano il suo vero io oppure Lance era stato un ottimo bugiardo? Cominciava a pensare di non essere stato così aperto come tutti lo dipingevano. Anche Lance aveva dei segreti e non sapeva più come recuperarli. Forse Keith era l’unico dei suoi segreti.

In ogni caso, il punto era che, se lo avessero saputo, gliel’avrebbero detto. Ne era sicuro al 100%. Gli sembrava un ricordo di importanza vitale, per cui si sarebbero sicuramente premurati di spiegargli tutto subito visto come si preoccupavano per lui e la sua memoria perduta. Pidge si sarebbe messa a saltare dalla gioia davanti a una possibilità di stimolare i suoi ricordi; era ossessionata dal ripristinare la memoria di Lance a, come l’aveva definito lei, il suo pieno potenziale.

Quindi, non lo sapevano, ma…

Keith, invece?

Pensò che Keith non poteva saperlo perché se n’era andato e quella lettera era rimasta bianca. Se si fosse trovato in una relazione che  avrebbe portato a una confessione (accettata o rifiutata che fosse), avrebbe scritto e consegnato quella lettera. Quindi non era possibile – non lo era – che Keith conoscesse la profondità dei sentimenti di Lance.

Fissò il soffitto della sua stanza, la gola secca, e tentò di immaginare l’aspetto di Keith, le dita attorcigliate attorno alle coperte. Era alto? Basso? Gli sembrava una persona alta; o meglio, gli sembrava alto nel modo in cui si chinava su tutto quello che Lance sapeva. Lo percepiva come alto e grande e vicino. Come teneva i suoi capelli? Forse corti; era una sorta di soldato. Sarebbe stato giusto tenere i capelli corti, no?

Lance pensò che doveva avere gli occhi scuri. Non sapeva perché, gli sembrava giusto e basta. Forse gli si formavano delle rughette intorno agli occhi quando sorrideva. Forse sorrideva sempre. O forse no, ma Lance pensava che lo facesse. Oh, lo sperava davvero. Sperò che Keith avesse un motivo per sorridere, anche se disperso nello spazio o dovunque diavolo fosse.

Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo. Voleva fare domande su Keith, ma il pensiero che gli altri capissero che si ricordava qualcosa di quel ragazzo che tutti pensavano non gli piacesse – e niente del resto di loro – gli sembrava terribile. Lance non riusciva a sopportare l’idea di guardare Hunk – il suo migliore amico Hunk – e dirgli che la loro amicizia di una vita non era sopravvissuta alla morte, mentre i sentimenti per un rivale apparente gli avevano impresso un segno a fuoco nell’anima. Gli sembrava crudele.

E lo era.

Il modo in cui amava Keith non era certo privo di agonia.

Si ritrovò a pensare se si fosse sentito a quel modo prima di morire. Se l’assenza di Keith fosse stata così dolorosa o se perdere memoria di come era Keith, come rideva o come pronunciava il nome di Lance avesse reso peggiore la sua solitudine. Dio, Keith avrebbe fatto meglio a essere al sicuro. Se non fosse più tornato… se non fosse più tornato…

Lance deglutì. Si rigirò su un fianco fronteggiando il muro e si tirò le lenzuola fin sopra il mento; sentiva il cuore costretto nel petto. Non poteva pensarci.

Non sarebbe successo.

Non sarebbe successo.


Lance passò due giorni buoni a evitare gli altri e a cercare di riprendersi dopo la notizia della scomparsa di Keith – con conseguente epifania sui suoi sentimenti. Forse non si sentiva così in colpa come avrebbe dovuto, ma quella di Rosso era la compagnia migliore perché gli non serbava alcuna aspettativa. Condividevano solo il desiderio di volare. Gli veniva perfino più facile parlare con i robot da allenamento. Questo non impedì di certo a Hunk di portargli i pasti o a Pidge di tenerlo aggiornato sui suoi progressi nel cercare di recuperare la sua memoria ricavandola dal nulla. Perfino Allura, per quanto fosse impegnata in quei giorni, si premurò di vedere come stava.

Alla seconda notte, dopo aver finito di scrivere nel suo quaderno, Lance si impegnò a dormire con le coperte tirate fin sopra la testa, come se avessero potuto soffocare il rumore dei suoi stessi pensieri. Continuò a ricordare a se stesso – inutilmente – che la vecchia stanza di Keith era accanto alla sua. Una stupida parte ficcanaso del suo cervello non gli dava pace con il pensiero di potervisi intrufolare e guardarsi intorno.

Quindi, cercò di dormire, davvero, ma la sua mente era rumorosa e il suo cuore ancora di più.

Gettò da parte le lenzuola e si mise a sedere con un grugnito di frustrazione, appoggiando i piedi sul pavimento. Sentiva il suo respiro grattare, il che era ridicolo. Cioè. Era strano, no? Irrompere nella stanza di una persona che forse neanche ricambiava i suoi sentimenti. Curiosare tra le sue cose, stanare indizi. Si era davvero ridotto a quel modo? Ridicolo. Patetico. Strinse le lenzuola tra i pugni e arricciò il naso, deluso.

Il che non lo fermò dal farlo. Nell’arco di quello stesso minuto, si ritrovò a entrare nella stanza di Keith, la porta che si apriva scorrendo piano, e ad accendere la luce. Sentiva la sua stupida gola stringersi dall’emozione e fu quello il momento in cui capì di essere davvero fottuto. Un conto era andare in crisi per una brutta notizia riguardante l’oggetto del tuo amore. Un altro era farsi venire una crisi solo per il fatto di trovarsi in uno spazio che era stato – era – suo.

Lance si strofinò gli occhi e ricacciò indietro le sue emozioni alla bell’e meglio. Se voleva piangere ancora non avrebbe dovuto lasciare la sua stanza. Sarebbe dovuto rimanere sepolto sotto le sue coperte. Arrivato a quel punto, si trattava di saziare la sua curiosità.

Si guardò intorno e la sua fronte si aggrottò ancora di più quando vide che l’unica cosa appesa alla parete era una giacca rossa. C’era una piccola pila di vestiti piegati ai piedi del letto, ma anche una breve ricognizione nell’armadio di Keith rivelò che o il ragazzo si era portato via la maggior parte dei suoi vestiti quando se n’era andato o non possedeva più di un paio di pantaloni e una maglietta nera.

Lance frugò per tutta la stanza con cura, la delusione che cresceva dentro di lui. Non c’era nessuna risposta lì: nessun quaderno ficcato sotto il letto o fotografie attaccate alle pareti. Nessuno scheletro – letteralmente o meno – nell’armadio. Sembrava che Keith non avesse mai passato del tempo lì dentro se non per dormire. Ogni centimetro di quella stanza era freddo e impersonale e distante. Era solo una tra le mille stanze inutilizzate del castello, coperta di polvere e dimenticata da tempo.

Ma apparteneva comunque a Keith. Proprio come Rosso.

Così, Lance passò i minuti successivi a ripulire la stanza, cambiare le lenzuola ammuffite del letto e sbattere i vestiti prima di ripiegarli di nuovo. Non aveva niente con sé per spazzare via la polvere, quindi si tolse la maglietta e pulì le superfici senza pensarci due volte. Era strano che non si sentisse stupido o imbarazzato per quel suo desiderio di rassettare quel posto. Anzi, si sentì incredibilmente in pace con se stesso mentre appallottolava la sua maglietta sporca e si infilava quella nera rimasta sul materasso nudo.

Gli stava leggermente stretta sulle spalle e se la sentiva strana sui fianchi, ma era anche morbida sulla sua pelle, come se fosse stata lisciata dal tempo. Sentì il cuore balzargli in gola a un’improvvisa consapevolezza mentre passava le mani sulla stoffa che gli copriva i fianchi con lentezza voluta.

Keith era più basso di lui.

Si lasciò cadere goffamente all’indietro sul letto e passò una mano sul collo della maglietta ripetendosi quella scoperta come una preghiera, un’ancora di salvezza. Keith era più basso di lui. Non di tanto, poi, ma abbastanza da rendersene conto. Era la cosa più stupida alla quale si potesse aggrappare, ma era concreta e reale. Era la prova che Keith non era un semplice fantasma che esisteva solo nella sua testa o nel suo cuore. Era reale. Keith era reale. Lance rise e si mosse un braccio sugli occhi, anche se non c’era nessuno lì per vedere le lacrime che gli scorrevano lungo le guance e sui capelli.

“Oddio.” Sussurrò piano, con tono riverente, come se Keith avesse potuto sentirlo in quel momento. “Non vedo l’ora di incontrarti.”

Rimase sdraiato lì per un bel po’, stordito, cercando di decidere se Keith avesse i capelli chiari o scuri. Alla fine, gli occhi gli si fecero pesanti e sentì l’ora tarda che gli pesava addosso. Raccattò la pila di lenzuola sporche e la sua maglietta impolverata, ma esitò davanti alla porta; fissò la giacca appesa a un gancio. Non aveva motivo per prenderla, ma questo non lo fermò di certo dall’allungare il braccio e gettarsela su una spalla.

Spense la luce e ritornò nella sua stanza, gettando il suo carico nella pila del bucato nell’angolo. Fece scorrere le dita sulle cuciture morbide della giacca di pelle e la appese nel suo armadio; frugò nelle tasche, curioso, per vedere se c’era rimasto dentro qualcosa. Qualcosa c’era. Un paio di guanti neri senza dita.

Lance li rimise apposto per non perderli e richiuse le ante dell’armadio. Gli venne in mente che avrebbe dovuto cambiarsi la maglietta, ma fece finta di dimenticarsi di averlo pensato. Spense le luci e si arrampicò sul letto. Il sonno lo prese facilmente tra le sue braccia.


A dirla tutta, il mattino dopo Lance quasi si dimenticò di cambiarsi la maglietta e lottò contro una leggera sensazione di panico mentre ritornava di corsa nella sua camera per cambiarsi. Non sapeva perché non voleva che gli altri lo sapessero, ma aveva questo desiderio viscerale di tenerli completamente all’oscuro. Quelli erano i suoi sentimenti; appartenevano solo a lui e a Keith, e se c’era qualcuno che doveva esserne messo al corrente per primo, quello era Keith. Venire beccato mentre girava per i corridoi con addosso una maglia che palesemente non faceva parte del suo guardaroba li avrebbe resi tanto ovvi quanto scriverseli sulla fronte a lettere neon.

Quando andò a fare colazione, l’aria che tirava era terribilmente strana. Era chiaro che gli altri avessero notato il suo strano comportamento in quegli ultimi giorni e gli stavano intorno come se Lance fosse dei pezzi di vetro sul pavimento e loro fossero a piedi nudi. Lance si sentì almeno tre paia di occhi addosso mentre sgusciava nella stanza per prendere la sua porzione di gelatina per poi sedersi di fianco a Hunk. Era chiaro e palese dai loro sguardi che avevano smesso di mangiare e parlare non appena era entrato nella stanza. Era troppo tardi per tornarsene a letto?

“Ehi, amico.” Disse Hunk, rompendo il silenzio. “Ti senti meglio?”

A dirla tutta, Lance era al settimo cielo perché aveva deciso di provare gioia per la scoperta della scorsa notte invece del dolore per Keith, disperso in azione. Keith era più basso di lui. “Sì.”

L’aria nella stanza sembrò farsi più leggera e si sentirono dei mormorii di sollievo; Lance li sentiva ancora distanti, ma pensò che fosse comunque normale. Almeno per lui. Sorrise a Pidge, che si stava sporgendo sul tavolo verso di lui.

“Voglio provare una cosa con i dati che sono riuscita a estrarre ieri da Rosso.” disse entusiasta. “Avresti voglia di darmi una mano?”

Lance era sospettoso, ma accidenti, l’idea di ricordare qualunque cosa gli suonava terribilmente giusta al momento. “Certo che voglio. Cosa devo fare?”

Lei indicò la sua tazza. “Intanto concentrati sul cibo; lo saprai presto.”

La conversazione morì poco dopo e Lance rise a una battuta di Coran che riuscì stranamente a capire; si domandò se era così che si sentiva in passato. Si domandò come sarebbe stato avere Keith lì con loro. Avrebbe riso anche lui alle battute di Coran? Chiuse gli occhi per un momento cercando di immaginarselo, ma non aveva abbastanza informazioni per figurarsi un’immagine chiara.

Coran seguì Allura quando questa si alzò dal tavolo, dicendo che aveva del lavoro da sbrigare con Lotor in uno degli hangar. Gli diede una pacca sulla spalla piena di affetto mentre se ne andava e lui le sorrise; poi i due alteani si allontanarono dal chiacchiericcio della sala. Shiro finì di mangiare e disse qualcosa a proposito del leone nero prima di imitarli. Lance, confuso, guardò Hunk e Pidge che avevano iniziato a sghignazzare nel momento in cui erano rimasti soli.

“Che c’è?” Chiese.

“Tu avevi una grossissima cotta per Allura,” Gli disse Pidge, sporgendosi sul tavolo e appoggiando il mento sulle mani. “È strano non vederti dare di matto per una pacca sulla spalla.”

Lance inspirò così forte dalla sorpresa che si strozzò perché che cosa? Tossì violentemente con la gelatina che gli strisciava dolorosamente lenta giù per la gola e si batté la mano sul petto, le lacrime che gli bruciavano gli occhi per la forza del gesto.

Hunk si mise a ridere e gli diede dei colpi sulla schiena. “Woah, amico, vacci piano.”

Lance annaspò. “Stai-” Tossì di nuovo e incontrò lo sguardo divertito di Pidge. “Mi state prendendo in giro?”

“Per niente.” Dichiarò lei sistemandosi gli occhiali sul naso, e Hunk rise di nuovo. “Non la smettevi mai di palare di lei. Ti piaceva in un modo così fastidioso.”

Lance la fissò a bocca aperta mentre la sua mente vuota cercava di dare un senso a quello che stava dicendo. “No? Non… non è vero?” Non era possibile. Non poteva essere.

Pidge rise. “È vero, Lance. Flirtavi con lei in continuazione.”

Lance sentì il viso in fiamme e Hunk ritirò la mano. “Esatto, amico, non avevi paura di dimostrare i tuoi sentimenti. Ammirabile, davvero.”

Lance abbassò lo sguardo sul tavolo. “Non… non è vero.” Disse di nuovo, ma più piano. I suoi pensieri non erano ben organizzati, ma tutto quello che riusciva a pensare era che non era possibile.

Pidge fece una mezza risata di scherno. “Penso che sappiamo bene quello facevi e non facevi meglio di te, Lance.”

Lance si irrigidì a quelle parole e gli altri lo notarono. Era un colpo basso, ma comunque si fosse comportato con Allura in passato non era stato veritiero da parte sua. Non quando poteva sentire Keith in ogni battito del suo cuore senza ricordare nulla di lui. “Non mi piaceva Allura.” Disse guardandola negli occhi, la sua voce tagliente e acuminata come una lama. “Non è possibile.”

Lei alzò le mani in segno di resa, gli occhi spalancati. “Cavoli, Lance, calmati.”

Hunk si alzò di colpo con la sua ciotola vuota in mano; la sua sedia strisciò contro il pavimento nella fretta. “Okay… Penso che sia ora di cambiare argomento, che ne dite? Sistemiamo tutto e poi vediamo qualunque cosa Pidge abbia estrapolato da Rosso e dimentichiamoci di questa conversazione spiacevole.”

Lance concordò in silenzio e si fece strada verso la cucina senza degnare Pidge di un solo sguardo. Hunk lo seguì e gli prese di mano la tazza, lavandola per lui. Lance si appoggiò al bancone, accigliato e con le braccia incrociate, cercando di scacciare la sua acidità.

“Ehi, non intendeva dirlo davvero.” Mormorò Hunk, sollevando una tazza da cui colava un rivolo di sapone.

“Lo so.” Rispose subito Lance, la voce amara. “Perdo la memoria e tutti diventano esperti su di me.”

Hunk rimase in silenzio per un momento. “Stiamo solo cercando di aiutarti.”

Lance sospirò, ma non rispose. Si sentiva un po’ in colpa, ma sentirsi in colpa per il fatto che lo stessero forzando dentro a una forma che non gli sarebbe mai più appartenuta lo nauseava.

“Se ti può far sentire meglio, non ci hai provato con Allura nell’arco di circa un anno.” Hunk non lo guardò e si limitò a concentrarsi sullo strofinare le ciotole con una spugna. “Dopo che Shiro era scomparso, hai aiutato a tenere la squadra insieme più di chiunque altro. Penso che ti preoccupassi più di essere un buon amico per lei mentre imparava a pilotare il suo leone e così via. E, non saprei, una volta che ci siamo abituati, tu… semplicemente non la guardavi più, immagino.”

Lance annuì dopo un momento, ma rimase in silenzio. Almeno quello gli sembrava più sensato di lui che flirtava apertamente con Allura poche settimane prima. Non poté fare a meno di domandarsi come Keith si incastrava in quel contesto. Il leone rosso gli aveva detto che aveva accettato Keith come suo leader… gli piaceva Keith allora? Dio, sarebbe stato tutto più facile se non avesse paura di fare domande. Una parte di lui iniziava a pensare che non gli avrebbero creduto anche se gli avesse detto che gli piaceva Keith.

“Okay, Lance. Vediamo che si può fare con la tua memoria.” Disse Pidge.

Lance le rivolse una lunga occhiata, incontrando il suo sguardo, e annuì. “Okay.”

Hunk finì di lavare i piatti e si asciugò le mani su un canovaccio lì vicino. “Vado a vedere se Allura e Lotor hanno bisogno di una mano e poi penso che Coran volesse la mia opinione su qualcosa; cercatemi sul trasmettitore se trovate qualcosa, okay?”

Ci mancò poco che Lance lo supplicasse di restare, ma Hunk sventolò la mano, si scambiò un’occhiata con Pidge che forse non avrebbe dovuto notare, e Lance rimase solo con Pidge in cucina. Lei esalò un sospiro che sembrava troppo lungo per i suoi polmoni e puntò con il pollice oltre la sua spalla.

“Okay, ho preparato tutto in un angolo della stanza degli allenamenti.”

La guardò con aria interrogativa mentre la seguiva fuori dalla cucina. “La stanza degli allenamenti?”

“Sì, ci sono degli apparecchi per il collegamento mentale lì che posso collegare al mio computer e Coran, per chissà quale ragione, non mi lascia portarli fuori dalla stanza.” Rispose lei con una punta di divertimento. “Insiste che devono rimanere lì perché sono importanti per l’allenamento, ma credo che pensi che li perderei o altro.”

La rabbia di Lance sbolliva a ogni passo e il ragazzo si ricordò che Pidge lo stava facendo per lui perché ci teneva. “Perdi spesso le cose?”

Lei lo guardò dall’angolo degli occhi e le sue labbra ebbero un fremito. “Mi piace studiare le cose per capire come funzionano; non le perdo, le tengo e basta.”

Lance ridacchiò a quella risposta e Pidge si mise a blaterare della scienza che stava alla base di quella roba dei collegamenti mentali e del leone rosso e di come avesse deciso di unire i dati insieme e poteva anche star parlando in un’altra lingua per quel che il ragazzo ne capiva. Annuì per cortesia ed emise dei “hmm” e “ahh” nei momenti opportuni. Sembrò che il solo fatto che volesse ascoltarla fosse sufficiente per lei; quando raggiunsero la stanza, Lance si sentiva molto più a suo agio e il volto di Pidge splendeva di emozione.

Lo condusse in un angolo e quasi fremeva mentre si sedeva per terra a fissare lo schermo del suo computer. Lanciò un oggetto a forma di corona nella sua direzione. “Mettiti questo in testa. Connetterò la frequenza e ci aggiungerò i dati che ho estratto da Rosso. Se funzionerà – quando funzionerà – si aprirà un piccolo schermo davanti ai tuoi occhi con sopra i tuoi ricordi, okay?”

Lance fece come gli era stato detto e si sedette sul pavimento a gambe incrociate con la schiena contro il muro. Mentre le dita di lei volavano sulla tastiera, lui inclinò la testa all’indietro e osservò il soffitto alto, cercando di reprimere con forza la sua speranza di vedere qualcosa, di stimolare i suoi ricordi. Infilò la mano nella tasca della sua giacca verde e sfiorò la lettera; il conforto che gli diede quel gesto lo rilassò subito. Gli sembrava quasi una cosa buona il fatto che il Lance del passato fosse stato così codardo; non sapeva come avrebbe fatto senza quel pezzo di carta a tenerlo ancorato in tutte le situazioni che minacciavano di farlo scoppiare in un disordine emotivo.

“Okay, sono pronta. Sei pronto?”

Alzò lo sguardo e vide Pidge che lo fissava, i suoi occhi che brillavano mentre il suo dito torreggiava sopra un tasto.

Inspirò a fondo, strinse la lettera nella mano di nascosto, e annuì. “Sì. Pronto.”

Lei premette il tasto. Lance aspettò che succedesse qualcosa, sentendo i suoi battiti accelerare; qualunque cosa. Ma la corona continuava a vibrare contro la sua testa trasmettendogli una minima e vuota brutta copia dell’energia prorompente del leone rosso. Chiuse gli occhi, accettandola. Non apparì nessuno schermo e sentì il suo stomaco farsi di piombo nonostante si fosse ripetuto con disperazione di non aspettarsi niente. Certo, di tutti i motivi per cui aveva pianto di recente, quello non gli sembrava sufficiente. Aveva già perso i suoi ricordi; non era che li stesse perdendo di nuovo.

Aprì gli occhi e vide Pidge aggrottare la fronte. “Non sta funzionando?” Chiese.

“Credo che tu abbia solo decriptato la traccia energetica del leone rosso.” Le rispose. “È come sentissi Rosso attraverso un muro o qualcosa del genere.”

Lei richiuse il laptop con uno scatto, sbuffando. “Maledizione, pensavo di avercela fatta.”

Lance si tolse la corona e la appoggiò per terra. “Ehi, non c’è problema-”

“E invece c’è un problema, Lance. Ci ho lavorato per una settimana e questo è il risultato.” Il suo volto si iscurì. “Ho perfino chiesto consiglio a Matt e non ho ottenuto niente.”

“Non è che si tratti di una questione di vita o di morte.” Disse. “Non ha niente a che fare con il difendere l’universo o cose simili. Non è un problema.”

“Devo continuare a provare.” Borbottò lei frustrata, distogliendo lo sguardo e fissandolo su una macchia sul pavimento. “Rielaborerò i codici o qualcosa di simile. Forse c’è un indicatore nella tecnologia di Rosso che mi sono persa.”

La sua voce riecheggiava nella stanza e le sue parole rimanevano sospese tra loro; Lance, calmo, pensò che era stanco. Non voleva sperarci. Non si sarebbe lasciato trascinare così.

“No.” Disse.

Lei lo guardò stupita. “No?”

“No.”

“E perché diavolo no?” Lo stupore cedette il passo all’irritazione che l’aveva preceduta. “Posso farcela, Lance. Posso-”

“No,.” Disse, cercando di non far tremare la voce mentre si alzava. “Forse a te sta bene perché è una sorta di sfida, ma a me no. Non voglio essere ottimista. Fa male.”

Si mise in piedi anche lei, il volume della sua voce che si alzava. “Allora sei un idiota! Posso farti ritornare la memoria; puoi essere di nuovo te stesso. Ho solo bisogno di tempo!”

“Ugh, basta, smettila!” Urlò Lance seccato, passandosi le mani sul volto con frustrazione.

Pidge lo guardò in cagnesco. “Sto solo cercando di aiutarti! Perché non vuoi che ti aiuti?!”

“Perché ti comporti come se fossi rotto.” Sibilò. “Tutti voi. Non sono chi ero e mi dispiace non poter più essere quella persona. E sì, non sapere un cazzo fa schifo, ma questo non significa che chi sono ora è una situazione temporaria. Sono comunque io anche se non sono l’io che volete che io sia. Non puoi forzarmi a farmi tornare come prima, Pidge! Non puoi cancellare il fatto che sono morto e che ho perso tutto perché di me è tornato indietro solo un pezzo!”

“Non sto cercando di cancellarlo-”

Si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli e distogliendo lo sguardo. “E invece sì, è quello che stai facendo! Cazzo, solo perché non flirto con Allura o non faccio battute stupide a colazione non significa che io sia sbagliato. L’hai appena detto anche tu. ‘Puoi essere di nuovo te stesso.’” Alzò gli occhi al cielo e la sua voce si fece più amara. “Ora sono me stesso.”

Lei lo fissò con rabbia e incredulità. “Non vuoi ricordarti di noi? E che mi dici della tua famiglia? Della Terra? Non te ne importa niente?”

A quelle parole ringhiò, sentendosi insultato profondamente, e sentiva le lacrime pizzicargli gli occhi dall’esasperazione. “Certo che me ne importa! Ma sono morto! C’è questo muro nero nella mia testa che non si muove; non ricordi niente di quello che è successo prima di svegliarmi dentro Rosso con Allura chinata sopra di me. I miei ricordi sono persi. Sono fottutamente scomparsi. Non farmi sperare in qualcosa che so non esserci più.”

“Lance-”

La interruppe e si staccò dal muro, marciando verso la porta. “Me ne vado. Ora come ora non ci riesco. Grazie per averci provato, davvero, ma preferirei solo- Dimenticare.” Inspirò a fondo. “Lasciatemi dimenticare e basta.”

Pidge emise un verso di profonda frustrazione dietro di lui, ma Lance non si voltò. Uscì di fretta dalla stanza e si diresse immediatamente verso la sua stanza.

Dopo essersi assicurato che la porta fosse chiusa, calciò via le scarpe e si arrampicò sul letto per collassare di faccia sul cuscino. Si sentiva troppo scosso per piangere, ma emise comunque un gemito drammatico e si calcò il cappuccio della giacca in testa. Con un po’ di pazienza riuscì a controllare il suo respiro affannato e si rigirò su un fianco per fissare il muro.

Non avrebbe mai dovuto lasciare che Pidge mettesse quella stupida cosa sulla sua testa, tanto per cominciare. Dentro di lui, sapeva che non avrebbe funzionato. Lo sapeva, eppure si era permesso di sperarci. Anche solo quel poco di speranza lo aveva ferito dolorosamente e aveva peggiorato il suo senso di colpa per non riuscire a ricordare nulla. Non riuscì a provare rimorso per quello che aveva detto a Pidge, nonostante glielo avesse detto con cattiveria. Un po’ sperava che lo avessero potuto sentire anche gli altri.

Che schifo. Dio, faceva proprio schifo. E pensare che quella mattina era stato proprio di buonumore. Si tirò ancora di più il cappuccio sulla testa fissando con intensità un punto sul suo cuscino, un braccio piegato a cingergli la testa. Si sentiva il cuore pesante, sconvolto dal fatto che la soluzione di Pidge non aveva funzionato per niente, che non era riuscito a ricordare la sua famiglia o… o Keith. Un sospiro gli si accoccolò sul petto, denso come una nebbia.

Si sentiva ancora gli occhi bruciare. In quei giorni era sempre sull’orlo delle lacrime e lo odiava, ma non poteva fare niente per impedirlo. Si domandò quanto sarebbe stato diverso perdere la memoria se Keith fosse stato lì al suo risveglio. Desiderò che fosse andata a quel modo, aprire gli occhi e vedere Keith, il suo cuore che lo riconosceva all’istante. La confusione e la paura sarebbero state più facili da digerire? Si rispose di sì. Tutto sarebbe stato più semplice.

Lance si strofinò il viso con la manica della giacca, il respiro che gli si spezzava in gola come un singhiozzo.

Dio, se solo potesse- se solo avesse potuto sapere che aspetto aveva Keith, gli sarebbe bastato.


Gli ci vollero due settimane dopo il fallito esperimento per chiederlo. Keith era ancora disperso e Pidge non gli parlava ancora, e Lance stava cercando di non compatirsi, ma senza successo. Non vedeva Allura da giorni – preoccupata com’era per quella nave che stava costruendo con Lotor – e Shiro era distante come suo solito. Ebbe una conversazione piacevole con Coran a proposito di alcuni pianeti di galassie lontane, ma non lo aiutò a cancellare quanto il resto avesse fatto schifo. Perfino la missione improvvisata che avevano fatto con Voltron – che era stata relativamente pacifica; Lance era riuscito a seguire tutti gli ordini con facilità – non gli fece sentire niente.

Era seduto sul ponte di osservazione; Hunk era dietro di lui e parlava in dettaglio di mille cose della Terra. Lance stava facendo del suo meglio per restare concentrato, ma i suoi pensieri erano catalizzati da Keith come una falena verso una fiamma e la sua mano si chiuse attorno alla lettera che teneva in tasca.

“Che aspetto ha Keith?” Chiese, fissando quella vasta e nera distesa di spazio. In quei giorni nessuno aveva neanche nominato il suo nome e Lance si sentiva fragile perché la presenza di Keith nelle vite degli altri non era grande come nella sua. Pensò che era stato scortese a interrompere Hunk, che gli stava parlando della Terra solo per lui, ma aveva bisogno di sapere. Necessitava di sentire Hunk parlare di Keith come se anche per lui significasse qualcosa.

Hunk si fermò a metà frase e si girò per guardare Lance con un’espressione di pura sorpresa. “Cosa?”

Lance mantenne lo sguardo sulle stelle. “Keith. Che aspetto ha?” Si domandò se la sua voce suonava così vulnerabile o se si trattava solo della sensazione nuda e cruda di aver esposto qualcosa che aveva tenuto in silenziosa cattività per così tanto tempo.

Sembrava che Hunk stesse ancora cercando di capirci qualcosa, come se la domanda di Lance gli avesse tirato una scudisciata. “Keith? Perché?”

Lance fece spallucce mentre lo sguardo di Hunk gli bruciava il lato del volto, curioso. “Perché no?” Si meritava un qualche premio per la nonchalance che fu capace di tirare fuori. Gli stava sfarfallando lo stomaco e il cuore gli si stava arrampicando in gola. “Mi hai raccontato tutto sugli altri che sono su questa nave. Perché non mi dici anche di Keith?”

“È solo… strano.” Ammise Hunk dopo un breve silenzio tra loro. “Vogio dire, Keith se n’è andato e a te non interessava. Lo dicevi sempre ad alta voce quanto non ti interessasse.”

Mi importava, pensò Lance con dolore. “Beh, me ne sono dimenticato.” Disse, invece, e Hunk fece una smorfia. Infine, distolse lo sguardo dal vetro e lo guardò con un’espressione inamovibile. “Non sono più quella persona. Ora voglio sapere.”

Hunk aggrottò leggermente le sopracciglia, ma annuì lentamente e appoggiò il peso indietro sulle mani. “Sì… okay. Bene, uh, vuoi sapere nello specifico che aspetto ha?”

Lance faticò per non arrossire e riportò lo sguardo sul vetro. “Sì.”

“Okay.” Hunk si schiarì la voce, ancora visibilmente confuso, ma dato che non aveva mai vietato a Lance un’occasione di sapere qualcosa sul suo passato non esitò neppure in quel momento. “Keith è per metà Galra, ma ha comunque un aspetto umano, sai, quindi per un bel pezzo nessuno di noi sapeva che fosse un vero e proprio alieno. A dirla tutta, sono stati i tipi della Spada di Marmora che lo hanno aiutato a capirlo, ma questa è un’altra storia che posso raccontarti più tardi, se ti va.”

Era per metà Galra? Porca merda. Lance rabbrividì a quell’eccesso di informazioni improvviso e la sua mente si svuotò cercando di assorbire tutto come una spugna. Avrebbe trascritto meticolosamente ogni singola parola nel suo quaderno il prima possibile.

Hunk continuò. “Uhm… è un po’ basso, immagino? Sicuramente più basso di noi due. Ha i capelli scuri e li tiene un po’ lunghi sulla nuca. L’hai sempre preso in giro per quello chiamandolo mullet, il che non gli piaceva molto. Non sorride molto; è un po’ intenso come persona, credo? Quindi, non molto abituato a sorridere. È più tipo da sorrisini sarcastici e mi ricordo che la cosa ti irritava parecchio. Credo che il suo colore preferito sia il nero perché, tipo, è l’unico colore che indossa.”

Lance sentì che le sue emozioni stavano avendo la meglio su di lui e non voleva che Hunk se ne accorgesse. Si abbracciò le ginocchia contro il petto e affondò il viso nelle braccia, sopraffatto dall’immagine di Keith che era riuscito a comporre nella sua mente. Formata a metà e comunque sfocata, ma ora aveva un’idea di base ed era decisamente troppo da elaborare. Si costrinse a contare i battiti del suo cuore per cercare di regolarizzare il suo respiro.

“Uh… Lance? Stai bane, amico?” Gli chiese Hunk; la sua voce suonava confusa.

“Sto bene,” Borbottò Lance.

“Ti sto stancando?” Era una domanda premurosa, tipica della gentilezza di Hunk. Capiva sempre quando doveva smettere di parlare del passato, quando diventava troppo da sopportare per Lance, e Lance non era mai riuscito a dirgli quanto lo apprezzasse.

Sollevò di poco la testa in modo che la sua voce non suonasse ovattata. “No… scusami, ti ho interrotto. Puoi descrivermi di nuovo la pioggia?”


Passò più giorni brutti che belli, ma una sera a cena Shiro riuscì a raccontare una storia su Keith di quando erano al Garrison che fece ridere tutti. Lance ci pensò per una settimana intera e riusciva sempre a farlo sorridere, una sorta di cura temporanea per la sua tristezza.

A volte, per capriccio, indossava la giacca di Keith quando era da solo nella sua stanza. A volte, la indossa e sgattaiola nell’hangar del leone rosso nel bel mezzo della notte per addormentarsi nella cabina di pilotaggio con le gambe appoggiate sul bracciolo. A volte, passava notti intere insonni perché la sua vita era un dannato casino e si trovava in un posto strano dove nessuno lo guardava come se fosse normale e Keith era ancora disperso.

La lettera bianca era sul punto di sbriciolarsi per le pieghe; era molto rovinata e stropicciata, ma non poteva buttarla e quindi questa continuava a deteriorarsi lentamente sul fondo della tasca della sua giacca verde per colpa della sua mano ansiosa. Gli faceva venire voglia di piangere, cosa che a volte faceva.

Col tempo, divenne un esperto a rifare il letto di Keith e a risistemare i suoi vestiti piegati e freschi di bucato nell’armadio. Lance si addormentò in quella stanza in più di un’occasione fino a quando non ammise a se stesso che non succedeva per caso. Non è che quella stanza fosse diversa; l’unica cosa che aveva un valore personale lì dentro erano i vestiti. Ma si trattava della stanza di Keith e Lance aveva ormai superato il punto in cui si preoccupava di ciò che era inquietante o meno.

Gli mancava e basta.

Keith gli mancava così tanto che ogni respiro che gli riempiva i polmoni e ogni battito del suo cuore gli parevano una lama incandescente nel petto. Non poteva neanche desiderare di non aver ricordato Keith a quel modo perché avrebbe significato non ricordarselo affatto, e solo quel pensiero era agonia per lui. Conoscere Keith era più una necessità che un desiderio, una parte integrante di Lance, a dispetto di chi era stato o di chi era o di chi sarebbe stato in futuro.

Dunque, indossava la giacca di Keith di nascosto e visitava Rosso alle 3 di mattina per chiacchierare e continuava a riversare i suoi pensieri nel quaderno.

Lance voleva davvero stare bene, ma gli era impossibile guarire in quel nero vuoto che era l’assenza di Keith.


Allura e Lotor finirono di costruire la navicella spaziale due mesi dopo la morte di Lance. Lui e Pidge avevano ripreso a parlare e il suo rapporto con Shiro era diventato meno strano in qualche modo e ora riusciva a capire quello che Coran stava dicendo il 72% delle volte. Quindi, non stava bene, ma almeno c’erano stati dei progressi in alcune parti della sua vita.

Hunk gli aveva praticamente detto tutto quello che c’era da sapere sulla Terra e sulla sua famiglia, e il quaderno di Lance era quasi finito. Aveva preso a rileggerlo quando non riusciva a dormire. Era quasi imbarazzante quante volte vi comparisse il nome di Keith; o, perlomeno, lo sarebbe stato se Lance avesse provato una qualche forma di imbarazzo. E non la provava, non quando si trattava di Keith.

Indossavano tutti la loro armatura quando si trovarono sul ponte di volo per guardare Allura e Lotor svanire in una spaccatura sulla loro nuova astronave. Nessuno aveva un buon presentimento su quella missione, ma la nave era stata costruita per quello. Qualcosa a proposito della quintessenza e dell’equilibrio universale e altri paroloni sullo spazio che Lance non capì bene.

Doveva essere più concentrato, ma gli riusciva difficile seguire la discussione che si stava svolgendo sul ponte tra i membri del team. Non aveva dormito molto la notte prima e si sentiva stupido per lo stress che provava nel non avere la lettera con sé; la sua tuta spaziale non aveva tasche. Nonostante il foglio si fosse separato in tre parti, averlo lo rassicurava, e la sua assenza lo faceva diventare scattoso e ansiotico.

“Perché sei così sconvolto?” Lance si guardò intorno e notò Pidge che lo fissava con un sopracciglio inarcato. “Andrà tutto bene.”

Lance si passò una mano sull’armatura che gli proteggeva il petto e le rivolse un sorriso sbieco e insicuro. “Mi fido dei tuoi calcoli, ma si tratta della cosa più rischiosa che abbiamo mai fatto da quando ho memoria.” Avrebbe dovuto mettersi la giacca sopra l’armatura. Era troppo tardi per andare a prenderla? Non è che stessero facendo molto se non aspettare, dopotutto.

Si alzò e si rivolse a Shiro. “Io… Io devo andare a prendere una cosa. Va bene?”

Shiro gli rivolse uno sguardo strano e poi annuì. “Va bene, ma sbrigati.”

Lance si allontanò di corsa e afferrò al volo la sua giacca appesa a un gancio dietro la porta della sua stanza per poi alzare i tacchi e tornare indietro. Ficcò la mano nella tasca per sentire la carta sotto i polpastrelli della sua mano guantata e si sentì immediatamente più calmo.

Se aggrapparsi a una lettera in pezzi era tutto quello che gli serviva per ridargli forza e coraggio per andare avanti, cosa c’era di male nel farlo? Si tirò il cappuccio in testa e si accorse di sentirsi subito meglio.

La porta che conduceva al ponte di volo si aprì con un whoosh e Lance si ritrovò l’intero team di spalle che esultava, la loro attenzione catalizzata da uno schermo. Sbirciò cercando di vedere che cosa stava succedendo e-

Lance si fermò e prese fiato. Spalancò gli occhi per bere avidamente il contenuto del video che li sovrastava dallo schermo del castello. Capelli scuri, occhi scuri, espressione seria. La voce profonda e tinteggiata da qualcosa di pericoloso, le parole che schioccavano per la stanza come dei lampi. Lance lo sentì. Non aveva mai sentito niente di così forte in tutta la sua vita, non come sentiva quella voce nel petto risuonare profonda dentro di lui.

Strinse la lettera nella tasca così forte da sgretolarla nel pugno e il suo stomaco sprofondò, la gola che gli si chiudeva dall’emozione. Anche se Hunk non gli avesse detto com’era Keith, Lance l’avrebbe riconosciuto a vista. Ora riusciva a sentirlo, come il mondo si inclinava, come si illuminava, come gli era molto più facile respirare come mai prima.

Le lacrime si formarono veloci e gli scorsero lungo le guance, ma quello che gli riempiva la bocca era sollievo e gli riempiva anche gli occhi e strabordava. Si accasciò lentamente sulle ginocchia mentre fissava il ragazzo che stava parlando con Shiro.

Era Keith.


Note dell’autrice:
Questo capitolo è più corto del precedente, ma dato che tratta principalmente di Lance e delle sue memorie su Keith non c’era molto che potessi fare senza Keith dopo che Lance aveva finito di ficcanasare nella sua stanza. DUNQUE. Le voilà, Keith è tornato e probabilmente sverrò nello scrivere il prossimo capitolo LOL. Mi sento come se dovessi dire qualcos’altro, ma non ricordo cosa quindi, ops, sarà per la prossima volta!

   
 
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