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Autore: Melanto    24/02/2020    5 recensioni
[Soulmate Series - #5.6]
La Famiglia.
Mamoru e Yuzo le attribuiscono ruoli completamente differenti.
Per Mamoru è il suo 'guardaspalle': qualcuno che può lasciare indietro, ma su cui sa di poter contare e che non è lì per tarpargli le ali, quanto per aiutarlo a spiegarle.
Per Yuzo è il nido che saprà sempre tenerlo al sicuro, quando fuori c'è la tormenta, e di cui essere grato ogni giorno.
Fiducia. Rispetto.
Proprio la famiglia è al centro di questa piccola raccolta: cinque one-shot per nove personaggi... e cinque aspetti fondamentali dei rapporti famigliari.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Mamoru Izawa/Paul Diamond, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Soulmate Series'
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Family... concerns

 

 

...concerns

Soulmate series - #5.6.4

 

 

 

 

Baiko guardò l’orologio e si accigliò, poi alzò il viso sul negozio che aveva davanti: piccolo, con porta d’ingresso e una sola vetrina dal vetro opaco, decorata dal disegno di un Misshaku Kongo, la cui bocca spalancata era un monito di minaccia e violenza. Fuori dalle villette si metteva il cartello ‘attenti al cane’ e qui, invece, c’era un Agyo. In alto, l’insegna in legno aveva tutti i suoi anni e la scritta in nero vergata a mano, da un maestro calligrafo.

Mori no Kokoro.

Un nome molto poetico per lo studio di un tatuatore; anche se chiamarlo ‘studio’ faceva troppo moderno. Bottega pensò gli si addicesse di più, perché, da come aveva capito, il suo proprietario aveva scelto di crearsi una bolla temporale in cui isolarsi dal progresso per mantenere viva la tradizione nella sua purezza originaria. Ammirabile, avrebbe detto, molto nazionalista, se non fosse che non sapeva che pensiero nutrire verso il maestro che la portava avanti. Un uomo che aveva visto solo da lontano, nelle volte che aveva pedinato Shuzo e nelle altre che era tornato da solo, ma di cui conosceva tutto. Prima di andarci a parlare, però, si era preso del tempo, aveva atteso che suo figlio fosse stato sicuro della propria scelta. Ora che stava per iniziare il percorso di apprendista non aveva potuto rimandare ancora. Il momento che Baiko e il maestro Mori si conoscessero era arrivato e lui si era presentato in anticipo di venti minuti, la serranda era ancora alzata, per questo era accigliato. Guardò ancora l’insegna e trovò che l’uguaglianza del kanji ‘mori’, presente nel cognome di entrambi, fosse quasi di buon auspicio. Ci sperò, e di solito le sue sensazioni fallivano poco, così entrò con un po’ più di serenità e fiducia, ma non avrebbe abbassato la guardia: sapeva bene chi avrebbe avuto davanti.

I campanelli sulla porta tintinnarono quando l’aprì e richiuse. La prima cosa che gli arrivò dell’interno fu l’odore di incenso e tabacco, più una nota particolare che non riuscì a inquadrare, perché coperta dalle altre. Un ambiente non troppo grande e spartano: banco dell’accettazione accanto all’ingresso, divanetti antichi – per non dire vecchi – tanto quanto l’aria che si respirava nel locale addossati alla vetrata opaca che non permetteva di sbirciare dall’esterno e viceversa. Un separé con il Monte Fuji, riproduzione di una stampa dell’epoca, divideva la sala centrale: da una parte i già citati divanetti d’attesa, preceduti da un tavolino in bambù, e dall’altra… non lo sapeva; il separé precludeva la visuale. Scorse solo la porta scorrevole in carta di riso sul fondo, che creava un’ulteriore separazione dalle salette private, dove il maestro effettuava lavori più complessi e lunghi che richiedevano una certa intimità. E proprio da quella porta vide emergere il motivo della sua visita. L’horishi, il maestro tatuatore.

La somiglianza fisica che correva tra loro l’aveva colpito fin da che aveva visto una sua foto, all’interno del vecchio e corposo fascicolo relativo al Clan Narasugawa. Akio Mori era più alto, una struttura fisica più imponente e occhi scuri scuri, ma le linee del viso, il taglio della mandorla, finanche la linea del naso – che loro avevano sempre avuto così caratteristica da essere rara – richiamava l’aspetto di entrambi. L’unica differenza sostanziale era che per quanto Mori avesse un paio di anni in meno di lui, ne dimostrava dieci in più. Oh, e i tatuaggi. Anche se ben nascosti dallo yukata scuro che indossava, Baiko sapeva che ne aveva coperte entrambe le spalle a partire dai gomiti.

«È in anticipo.» Mori lo fece presente subito dopo aver gettato uno sguardo all’orologio appeso sopra il banco dell’accoglienza. Ancor prima di dargli il ‘benvenuto’.

Baiko minimizzò il sorriso in una stretta di spalle. Le mani ben affondate nelle tasche del lungo impermeabile.

«Ho terminato il lavoro prima del previsto», mentì, «e ho deciso di passare comunque, per non farle perdere tempo.»

Akio si fermò a un passo e Baiko l’osservò con attenzione e discrezione al contempo; il collo lungo, messo in risalto dai capelli tagliati molto corti e la linea allentata dello yukata, lo faceva sembrare ancora più alto di quei reali cinque/sei centimetri in più che aveva nei suoi confronti. Forse sette.

«La puntualità è rispetto, dicevamo noi un tempo, anticipare è paura.» L’horishi infilò i pollici nell’obi e lo guardò dritto negli occhi senza fare una piega. «La innervosisce avere a che fare con uno yakuza

«È per mio figlio che sono preoccupato.»

Akio abbozzò e si fece da parte. Con il braccio indicò verso il fondo del locale. «Si accomodi, ispettore.»

Baiko lo superò di un paio di passi, cercando di imporsi un’andatura rilassata e sicura, ma si guardò alle spalle dove vide Akio chiudere a chiave l’ingresso, in modo che nessuno potesse disturbarli. Andando avanti, scoprì due lettini, dietro al separé, dallo schienale regolabile. Adagiate sui braccioli movibili c’erano delle macchinette per tatuare. Poi, la porta scorrevole e dall’altra parte iniziava il tatami. Sopra vi oscillava un noren color avorio su cui guizzavano carpe oro, nere e rosse nel passare da un pannello all’altro.

Baiko tolse le scarpe e le appoggiò nella piccola scarpiera posta subito all’interno dello stretto corridoio che si snodava in una sola direzione nel retro del negozio.

«Entri nella seconda stanza a sinistra.»

La voce cavernosa e un po’ rauca di Akio Mori lo seguiva alla distanza di un passo e mezzo. Non gli piaceva avere uno yakuza alle spalle, ma si sentiva abbastanza sicuro dei propri mezzi e della ristrettezza del posto in cui si trovavano per reagire a qualsiasi gesto inatteso. Eppure, sapeva che quella tensione fosse solo dovuta alla sua abitudine nel trattare con i criminali e non frutto di un reale pericolo. Akio Mori non aveva atteggiamenti minacciosi nei suoi confronti, anzi, era molto educato. Avrebbe detto ‘signorile’.

Passando davanti alla prima camera, che aveva il pannello d’entrata leggermente aperto, Baiko notò un piccolo futon aperto e, di sfuggita, colori e strumenti lunghi dal manico in legno, guanti di lattice usati e appallottolati e dei fazzoletti sporchi di inchiostro nero. Lì doveva essere dove praticava la tecnica tebori sui clienti che la richiedevano, come quello che aveva visto uscire cinque minuti prima che entrasse lui. Il suo anticipo doveva averlo sorpreso, impedendogli di mettere tutto in ordine.

La stanza successiva, invece, quella in cui venne fatto accomodare, era riassumibile come un piccolo monolocale di foggia quadrata. Un armadio occupava per intero la parete di sinistra. Al centro vi era un tavolino basso e due sedie zaisu dai cuscini consumati. Sulla parete destra erano appoggiati un frigorifero, una piccola libreria e un cucinino. La televisione sopra il frigo era spenta e silenziosa come tutta la casa. Vi aleggiava un rigore d’altri tempi; freddo, solitario. Nemmeno la luce, che di giorno sarebbe dovuta entrare dalla finestrella sul fondo, doveva essere sufficiente a rendere quel luogo ‘accogliente’ e ‘vissuto’. Sembrava che da un momento all’altro un fantasma avesse dovuto attraversare le pareti e scivolare via.

«Mi dia pure l’impermeabile. Posso offrirle qualcosa? Tè, sakè

Baiko tolse la giacca e gliela lasciò. «Tecnicamente sarei ancora in servizio», rispose, prendendo posto in una delle sedie.

«Vada per il sakè

Gli venne da ridere. «Non accetta i rifiuti, Mori-san?»

«Solo quelli inutili.»

Da una piccola credenza, alla base dell’altrettanto piccola libreria – tutto in quella casa era piccolo se relativo alla sfera personale; come se, della vita privata, Akio Mori non avesse altro che briciole da voler conservare – recuperò una bottiglia e due bicchieri.

Doveva ammetterlo, si era aspettato qualcosa di molto diverso dall’uomo che prendeva posto davanti a lui e gli allungava un bicchierino: lo riempì di sakè fin quasi all’orlo e fece lo stesso col proprio.

Li sollevarono, accennarono l’un altro un principio di brindisi e bevvero. Baiko solo un sorso, Mori ne vuotò poco più della metà e tornò a riempirlo.

«Era da parecchio che non leggevo il nome dei Narasugawa da qualche parte. Capirà la mia sorpresa quando ho visto il suo legato a quello del clan di Yujiro ‘lo scorticatore’

Akio gorgogliò una risata. «Yujiro-sama non ha mai scorticato nessuno. Ero presente quando si è guadagnato quel soprannome e, mi creda, non è per ciò che immagina né per inenarrabili torture inflitte ai suoi nemici. I nomignoli sono fatti anche per gonfiare storielle sciocche.»

«Ciò non cambia che il clan sia stato al centro di numerosi fatti, come la scalata al Gruppo Amazu, o i ‘cementati di Mabuchi’.» Quell’ultimo, soprattutto, era rimasto nelle memorie di chi quegli anni li aveva vissuti. Lui era stato agente semplice, già desideroso di fare carriera. Nel quartiere di Suruga ci era stato mandato e i ‘cementati di Mabuchi’ – come erano stati ribattezzati dai media – li aveva visti con i propri occhi: gente murata viva nel cemento usato per edificare alcuni palazzi abusivi, poi abbattuti. Baiko tornò a bagnarsi la gola, questa volta con maggiore veemenza. Strinse leggermente gli occhi per il forte dell’alcool e Mori gli riempì di nuovo il bicchiere.

«Da allora è passato troppo tempo, neppure ricordo dove fossi, ma ciò che è stato non cambia ciò che è ora: il Clan Narasugawa è finito. Io sono l’ultimo rimasto: alla mia morte, anche il clan morirà.» Mori arrischiò una smorfia sorridente. «E comunque anche per me è una sorpresa sentirlo nominare dopo tutti questi anni.»

«Mi risulta strano credere che tutti gli affiliati siano passati a miglior vita.»

«Non lo sono infatti. Chi è ancora vivo si è unito ad altre famiglie e gruppi. Io non amo i cambiamenti, e non mollo la scuderia solo perché il cavallo di razza è diventato troppo vecchio. Non sono mai stato chissà quanto uomo di azione al tempo, ma di sicuro sono stato leale.»

«È questo che vorrebbe insegnare a mio figlio?» Baiko affilò lo sguardo.

«La lealtà è un valore onorevole, dentro e fuori dalla yakuza, ma, no, non voglio insegnargli la vita criminale, se è questo che teme. Sono anni che neppure io la pratico. Con il crollo del clan sono diventato un semplice tatuatore, come il mio horishi prima di me. Ho raccolto la sua eredità e ora la insegnerò a Shuzo. Se riuscirà a tenere il passo.» Mori ruotò il bicchiere sul tavolo. «Già che ci siamo, mi dica: è la spina in culo che sembra o è tutta apparenza?»

Baiko per poco non sputò il sorso di sakè che aveva bevuto. Soffocò una risata in mezzo ai colpi di tosse. «Un po’ tutti e due, ma è un bravo ragazzo.»

«Questo l’avevo capito, altrimenti non avrei scelto di tatuarlo e, soprattutto, non avrei scelto lui come apprendista.»

«Glielo avevano già chiesto?» Baiko poggiò le mani sulle gambe per concentrarsi solo sul maestro. Da ciò che avrebbe visto e sentito avrebbe dovuto trarre la scelta: permettere o meno a suo figlio di affidarsi a quell’uomo, permettere o meno ad Akio Mori di stare a contatto con Shuzo.

«Svariati nel corso degli anni. Li ho rifiutati.»

«Ma ha accettato mio figlio. Cosa l’ha convinta?»

«La storia che voleva gli raccontassi addosso.»

Baiko tirò indietro il mento e Mori ne sorrise. Adagio il maestro si alzò e scostò appena l’anta dell’armadio alle sue spalle. Quando tornò a sedersi, sul tavolo appoggiò un borsello di pelle nera consunta dall’uso, attaccata a un lungo contenitore laccato lucido, su cui era disegnata in oro la sagoma di un airone. Akio non l’aprì subito; vi incrociò sopra le mani.

«Cosa crede che siamo, noi, ispettore? Tra tutto quello che pensa la stupirà sapere che siamo anche narratori. Io non tatuo chiunque me lo chiede. È per questo che la nostra arte sta sparendo a poco a poco sommersa da quella più spicciola, consumistica e anche narcisista delle sole macchinette. Noi siamo silenziosi, e chi decidiamo di tatuare non è spinto dalla necessità di mostrarsi come un trofeo: la storia che vuole raccontare apparterrà a lui soltanto.»

«La storia…»

«Sì. La storia. Per questo siamo narratori. Credeva che io tatuassi gattini?»

«Che storia voleva raccontare mio figlio?»

«Ha visto il suo tatuaggio?»

«Sì.»

«Allora la conosce già e meglio di chiunque altro. Non giriamo attorno al motivo per cui Shuzo abbia deciso di chiedere proprio a me di fargli da horishi, tanto l’abbiamo capito entrambi.» Akio aprì l’astuccio laccato. La kiseru aveva il corpo centrale in bambù colorato di nero, e le due estremità in ottone. Anch’essa aveva i suoi anni, vissuti come tutto ciò che circondava Akio Mori.

L’ultima volta che Baiko aveva visto una pipa tradizionale come quella era stato molti anni prima, quando era andato a trovare un vecchio zio che abitava in campagna. Della campagna riconobbe anche il modo in cui Akio la teneva: noumin, lo stile usato dai contadini, che la afferravano per l’estremità anteriore.

«Shuzo ha una buona mano», continuò il maestro, pizzicando una manciata di tabacco dalla borsetta di pelle. La pressò nella testa della pipa. «Migliore di chiunque lo abbia preceduto, e una visione che guarda indietro, ma non solo, e poi guarda avanti senza essere presuntuoso. Per questo l’ho scelto.»

Una storia, una visione equilibrata, un talento. Baiko abbassò gli occhi sulle proprie mani e si chiese se avesse mai davvero notato, con tale profondità e acutezza, le capacità di quel figlio scapestrato che stava iniziando solo adesso a trovare la propria strada. «Crede ch’io lo stia sottovalutando?»

«No. È solo preoccupato, perché è suo padre. Fuma?»

«No, grazie.»

Akio sfregò la testa del fiammifero contro il bordo del tavolino. La fiamma accese subito il tabacco. Un paio di boccate veloci e poi il fumo venne esalato con una nuvola sottile verso l’alto. Tra le volute, Baiko riconobbe lo stesso aroma particolare che aveva percepito appena entrato nel locale, ma stavolta non c’era l’incenso a falsarne l’odore. Aggrottò le sopracciglia.

«…marijuana?»

«Medica», precisò il maestro, divertito dalla sua sorpresa. «Vuole arrestarmi?»

I segnali, le parole, la calma di Akio Mori, Baiko le osservò da una prospettiva che non aveva considerato, perché non raggiunta da ciò che narravano i fascicoli dell’archivio, ormai fermi da anni.

«No», scandì adagio.

«Per quanto riguarda il carattere di Shuzo, che definire ‘di merda’ sarebbe fargli un complimento, ci sto già lavorando. È venuto da me questa mattina e per tutta risposta gli ho detto che se fosse voluto diventare mio allievo, avrebbe dovuto liberarsi dell’arcobaleno che si porta in testa.»

«Niente più capelli colorati?!»

«No.»

«Ma mi piacevano…»

«Anche a me.»

«E allora perché gli ha detto di toglierli?»

«Disciplina.» Il maestro agitò la pipa con severità. «La disciplina è fondamentale; senza sei una mina che vaga alla cieca aspettando di esplodere e poi divenire rottame. La disciplina ti focalizza, ti regola, a partire dalle cose più insignificanti come un taglio di capelli. Shuzo deve imparare a disciplinare sé stesso, se vuole davvero fare questo lavoro. Una volta che ci sarà riuscito, potrà fare ciò che vorrà, che sia del proprio aspetto o della propria vita.» Akio bevve ciò che restava del sakè, ma non se ne versò altro. «Ad ogni modo, se può consolarla, capisco le sue preoccupazioni, ispettore. Anche se non ho figli.»

«Per scelta o destino?»

«Tutti e due. Mia moglie non ha mai goduto di buona salute e una gravidanza sarebbe stata pericolosa. Lei avrebbe voluto rischiare, io no.»

E anche se queste domande non facevano parte dell’interrogatorio che stava portando avanti, Baiko le pose lo stesso, per conoscere meglio quell’uomo che non aveva paura di vivere con lentezza il tempo troppo veloce che gli scorreva attorno.

«È mancata da molto?»

«Circa nove anni.»

«E lei vive qui?»

«Ormai, sì. Essendo solo, non ho grandi bisogni o necessità. Il Mori no Kokoro è tutto ciò che reputo importante.»

«È un bel nome per un locale.»

«Lo ha scelto mia moglie, io sarei stato molto meno romantico.» Entrambi sorrisero di quella complicità maschile. «Ho visto l’altro suo figlio in televisione. Non seguo molto il calcio, ma è capitato. Gli dèi si dovevano essere sentiti parecchio in colpa con lei. La loro somiglianza è impressionante; Shuzo lo nomina spesso.»

«Sono molto legati. A volte troppo. Shuzo è convinto di doverlo difendere dall’universo.»

«È un bel pensiero ed è importante che i fratelli si guardino le spalle a vicenda. Quando succede, significa che la famiglia li ha cresciuti bene.»

«Lo speriamo. Anche se la maggior parte del merito va a mia moglie. Il lavoro non mi ha mai permesso di essere molto presente.»

«Non è la quantità del tempo che trascorre con loro, ma la qualità.»

Per Baiko, quello era sempre stato un cruccio: nonostante amasse il proprio lavoro di poliziotto, le assenze da casa gli erano pesate. Le feste mancate, i momenti importanti sentiti raccontare. Aveva vissuto, con costante rammarico e senso di colpa, la crescita dei suoi figli che in fretta divenivano autosufficienti. Forse era per questo che non si era arrabbiato più di tanto quando aveva scoperto che Shuzo si era tatuato ben prima della maggiore età: era già più adulto dei suoi diciassette anni. Ora ne aveva diciannove e il suo tempo era lì, era già iniziato.

«Mori-san, lei è convinto di poter essere il maestro adatto a mio figlio?»

«Sì.»

Una risposta secca e ferma. Akio Mori non aveva mostrato mezza incertezza da che lui aveva messo piede al Mori no Kokoro. Nelle sue parole, tutte, c’era stata una confidenza nei propri mezzi e nei propri valori pressoché totale.

«Allora le chiedo di prendersi cura di lui.» Baiko si inchinò fin quasi a toccare il bicchiere di sakè con la fronte.

«Lo farò.» Akio rispose all’inchino con un solo cenno del capo. «Vuole chiedermi qualcos’altro?»

«No, non serve. Ed è meglio che vada, mi attende ancora un po’ di strada prima di arrivare a Nankatsu.» Si alzò, sgranchendo le gambe, e recuperò da solo l’impermeabile.

«È stato piacevole scambiare due parole. Credo che l’ultima volta che qualche genitore si sia presentato da me, sia stato per maledirmi di aver tatuato i loro figli.»

«Non tutti comprendono certe storie, anche se ben raccontate.» Baiko aveva di nuovo le mani affondate nelle tasche; sentiva il duro del distintivo che aveva tolto prima di entrare nel locale. Lo avrebbe rimesso solo una volta fuori.

«È vero, non sono per tutti. Esca pure dal retro: arriverà prima alla macchina che ha parcheggiato fuori dal vicolo.»

Baiko si fermò sulla soglia aperta della stanza, girò adagio la testa: Akio stava esalando una sottile nuvola di fumo; ancora nessuna macchia nel modo che aveva di fissarlo, ma si concesse di snudare i denti in un sorriso che diceva anche quello che aveva taciuto.

Sì, si somigliavano molto e Shuzo non aveva lasciato nulla al caso nella propria decisione.

Mentre si lasciava alle spalle il Mori no Kokoro, con i suoi silenzi e il suo fumo, pensò che adesso fosse tutto nelle mani di quel testimone invisibile che aveva assistito alla conversazione con Akio Mori: il tempo avrebbe deciso del futuro di suo figlio. Lui sarebbe tornato a preoccuparsi a distanza, come facevano tutti i padri: perché non importava se gioiello o spina nel culo, avrebbe sempre tenuto gli occhi puntati sulle schiene dei suoi figli, per non lasciarli mai da soli lungo le strade che avevano scelto di percorrere.

 

 

 

 


 

 

Note Finali: ed ecco le ‘preoccupazioni’. E quali preoccupazioni possiamo avere se non quelle di un papà verso i propri figli? :D

Dite un po’, vi sareste aspettati di trovare Akio e Baiko a confronto?! XD Nella serie Soulmate non voglio farmi mancare proprio niente e visto che ad Akio mi sono affezionata davvero tantissimo, sono riuscita a trovare un modo per inserirlo… e per essere ancora una volta accanto a Shuzo, in un ruolo comunque importante e segnante: quello del Maestro!

Akio Mori, ex-yakuza, vedovo, ultimo rimasto del clan Narasugawa. Un uomo severo, dal carattere duro e l’incredibile talento nell’arte tebori. Lui ha tatuato Shuzo per la prima volta e lui gli insegnerà il mestiere. *-*

Da buon padre e ispettore di polizia, Baiko è preoccupato all’idea di suo figlio nelle mani di un ex-criminale! Ma direi che hanno saputo fare parecchia comunella! XDDDD

 

Prossima settimana ci troveremo con l’ultimo capitolo di questa raccolta e tra moniti, pettegolezzi, perdono e preoccupazioni chiuderà la fila la ‘comprensione’. :3

E sotto a chi tocca! :D

 

 

 

   
 
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