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Autore: ChiiCat92    29/02/2020    0 recensioni
In un mondo distopico in cui i malati vengono isolati dalle persone sane per "proteggerle" quando si presenta un'epidemia, Ethan e Vick scoprono cosa vuol dire essere divisi.
AKA il mio tentativo di scacciare la paranoia per l'attuale emergenza sanitaria in Italia.
Peace.
Genere: Angst, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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25/02/2020

 

Isolation

 

« Ehi, respira. » 

Gli accarezzo la schiena, la mano con il palmo aperto, lentamente, in piccoli cerchi.

Il suo respiro è rantolante, ogni boccone d’aria faticoso. 

Il cuore mi fa male a vederlo così.

« È tutto okay. » ripeto, un sussurro appena. Non posso fare più di così. 

L’asma di Ethan ultimamente è peggiorato, le crisi sono dietro ogni angolo e diventano più aggressive ogni volta. 

Lui fa scattare l’inalatore e respira a fondo. I suoi polmoni scricchiolano come pop corn in padella.

Ancora qualche secondo e il suo respiro si calma, ma non smetto neanche per un attimo di accarezzargli la schiena.

« Meglio? » gli chiedo con un sorriso quando finalmente si volta a guardarmi.

Ethan non ha mai paura, i suoi occhi verdi come i germogli di primavera sono chiari, morbidi. Anche stavolta sono spocchiosi e irriverenti. 

« Sì. » si rialza, raddrizzando la schiena. Così piccolo quando una crisi lo attacca, così enorme quando il peggio è passato. « Grazie. » 

« Solo grazie? » incrocio le braccia al petto, fingo un broncio.

Lui fa roteare gli occhi verso l’alto. Amo quando lo fa.

Si avvicina e mi bacia, pian piano, sottovoce. Sulle labbra ha ancora il sapore del farmaco, il pizzetto mi solletica il mento.  

« Meglio? » dice, ripetendo la mia stessa domanda, con lo stesso tono, come se fossi io quello da confortare. 

Quando fa il duro è adorabile. 

« Meglio. » 

 

*

 

La malattia di Ethan non è mai stata un problema nella nostra relazione. Ormai stiamo insieme da tre anni e mi sono abituato a portare con me un inalatore di emergenza, e soprattutto a gestire le sue crisi.

Il suo corpo non sembra essere ben consapevole di essere fragile, perché è cresciuto così alto e robusto da far credere che sia indistruttibile. Ma lui è come una stalattite di ghiaccio: si spezza alla minima pressione. 

Forse è stato questo a farmi innamorare di lui, l’insita fragilità del suo animo, o forse le mani grandi, esili, vibranti sui tasti del pianoforte, o la sua voce, o le fossette sulle guance quando sorride: qualsiasi cosa sia stata è stata forte, una coltellata allo stomaco e poi dritta al cuore. 

Non mi piace pensare a lui come malato, neanche lui pensa a se stesso come malato. Qualcuno, qualche volta, l’ha fatto, ma lui ha scrollato le spalle e ha continuato a camminare dritto come se non l’avesse sentito. 

Gli scatoloni da portare in soffitta sono rimasti accatastati alla base della scala, lì dove la polvere o forse solo l’aria troppo spessa ha solleticato il sistema respiratorio di Ethan mandandolo in tilt.

Sui bicchieri di tè freddo si è formata la condensa, i cubetti di ghiaccio cominciano a sciogliersi. Fa caldo, il ventilatore fa del suo meglio per rendere 40° sopportabili.

Siedo di fronte ad Ethan al tavolo della cucina. Lui giochicchia con la cannuccia nel suo bicchiere. Non ha bevuto neanche un sorso. 

« Vuoi mangiare qualcosa? » gli chiedo. So che è difficile per lui ricominciare dopo una crisi, non perché il suo corpo non ce la faccia, è l’orgoglio a risentirne. E lui è un tipo veramente orgoglioso. Tanto da urlare fino a perdere la voce, tanto da diventare tutto rosso, tanto da perdere il respiro, a volte letteralmente.

« È rimasto del gelato? » 

« Credo di sì. »

Lui annuisce, di nuovo con il broncio. Vorrei poter ridere, ma lui crederebbe che lo stia prendendo in giro. In realtà adoro davvero quella sua espressione da bambino. 

Non è cambiato dalle foto della sua infanzia, è sempre quel piccolo moretto imbronciato con il muso sporco di cioccolato. 

Gli metto un cucchiaio di vaniglia e uno di fragola in un bicchiere e poi glielo passo. Lui mormora un “grazie” sottovoce e comincia a mangiare, distrattamente. 

« Mi dici che hai? » non riesco a trattenermi dal chiedergli. Il silenzio è rotto solo dalle pale del ventilatore che continuano a tagliare l’aria.

« Mah, niente. » fa lui, vago, il cucchiaio che affonda nel gelato. Se lo porta alla bocca quasi vuoto, e intanto sul fondo comincia a sciogliersi. 

« Se è per la crisi di prima lo sai, non è un problema per me e… »

« Non è per quello. »

Incasso quelle parole quasi come se mi avesse tirato uno schiaffo. L’ho sentito arrabbiarsi tante volte, con tante persone, ma anche nei nostri litigi non è mai stato così freddo, secco, all’improvviso e tutto in una volta.

Batto le palpebre per scacciare la visione che per un attimo mi offusca la vista e ignoro il battito del cuore che aumenta appena. 

« Okay. Allora per cos’è? »

Ethan stringe il bicchiere con il gelato. Mi sembra di sentirlo scricchiolare ma è solo il crepitio del suo respiro. 

Rimane in silenzio così a lungo che mi sembra non voglia più parlare. Ho appena il tempo di aprire la bocca per chiamare il suo nome quando lui mi interrompe.

« Mi mettono in isolamento. » 

Lascio depositare quelle parole nello spazio che si divide, le sento quasi incidere il legno del tavolo. 

Le pale continuano a girare e girare, woomp woomp woomp, fanno fatica a muoversi con quel caldo, tanto quanto Ethan fa fatica a respirare senza l’inalatore. 

« Cosa...? »

A quel punto si alza, non riesco a seguirlo, congelato sulla sedia.

Torna un attimo dopo, sbatte sul tavolo una lettera aperta malamente, il timbro del Ministero sul davanti, il suo nome sul retro. 

« È arrivata ieri. »

« I-ieri? » mi sento stordito.

Cos’è successo ieri?

Ho portato gli scatoloni con la roba avanzata dal trasloco di mia madre a casa, mi sono fermato a prendere un dolce in centro, sono tornato a casa e insieme abbiamo scaricato gli scatoloni per poi lasciarli tutti alla base della scala con l’idea di aprirli e sistemarli l’indomani. Poi abbiamo ordinato cinese per cena, e bevuto una bottiglia di vino.

Una bella giornata. Non ricordo nessuna lettera, non ricordo neanche di essermi avvicinato alla cassetta della posta.

Mi passo una mano tra i capelli, sono zuppi di sudore eppure sento freddo. 

« Perché non me l’hai detto prima…? »

« Non sapevo come dirtelo. » 

Rimango a fissare la busta del Ministero della Salute come se fosse un serpente velenoso. Pericolosa, corrosiva, viva. Trovo il coraggio di prenderla solo dopo un lungo respiro. 

 

Con la presente il Ministero della Salute invita il paziente N° 2808 affetto da ASMA a prepararsi per essere prelevato e portato al più vicino punto di Primo Soccorso, dove soggiornerà in isolamento fino a data da destinarsi, quando l’emergenza sanitaria nel paese sarà… 

 

Non riesco a finire, la vista mi si appanna. Tremo ma non è per la rabbia, è lo shock.

« Assurdo! » devo afferrarmi il polso con l’altra mano per far placare il tremore. « Sei stato in quarantena fin adesso, e io ho seguito tutte le norme igieniche che mi hanno imposto! E non c’è nessun caso in città che… »

« È una misura preventiva. » 

« È una stronzata! »

Il cuore batte così forte nelle tempie che mi sembra mi stia per scoppiare la testa. Ethan rimane immobile. Certo, lui ha avuto il tempo di abituarsi all’idea, lui ha avuto modo di accettarlo, mentre io me ne andavo ignaro per la città facendo commissioni e comprando dolci.

« Abbiamo seguito tutte le misure preventive. Perché adesso ti mettono in isolamento? Io non… »

Mi prende una mano. L’avevo stretta a pugno senza neanche accorgermene. Piano piano mi aiuta a distendere le dita, le nocche si rilassano, sento i polpastrelli formicolare.

« Abbiamo parlato di questa eventualità. » 

« Non voglio che tu te ne vada… » 

Lui scuote la testa. Da quando si è fatto crescere il pizzetto sembra un bambino che gioca a fare l’adulto. Dovrebbe radersi, dovrei dirglielo. Forse non è il momento. Perché riesco a pensare solo a cose così stupide?

« È per il mio bene. » mormora. Quando mi porta una mano sul viso in automatico mi ci strofino contro, come un gatto. Sento che non riuscirò a trattenere le lacrime, mentre lui, la mia stalattite di ghiaccio, rimane fiera e scintillante al suo posto. 

« Lo sai che siamo in un momento di emergenza. » dice, scandendo ben bene parole che ci siamo detti dieci, cento, mille volte, tante che sento lo stomaco rivoltarsi per la nausea. Ancora? Devo sentirmelo dire ancora? « Il governo vuole solo assicurarsi che i membri più fragili della società siano al sicuro. » 

« Quel virus non è così letale. »

« È vero, ma non è meglio evitare che io lo prenda? »

La stessa domanda, a cui rispondo sempre allo stesso modo: scoppiando a piangere e saltandogli al collo per abbracciarlo.

Ricordo il momento in cui il Ministero della Salute ha dichiarato che i malati, i fragili, le persone sotto trattamento farmacologico, gli immunodepressi, sarebbero stati messi in strutture isolate nel momento in cui si fosse presentata un’emergenza sanitaria. Lì per lì è sembrata una buona idea, un sollievo per le persone sane, libere di continuare a fare la loro vita senza preoccuparsi di infettare i propri cari. Soprattutto sembrava una cosa lontana, irrealizzabile dato che non si parlava di “emergenza sanitaria” da anni.

Poi è arrivata un’epidemia portata dagli uccelli. I vecchi, sopra i settant’anni, sono stati portati via, ma all’epoca i miei genitori erano ancora così giovani, e i miei nonni erano morti molto tempo prima: la nostra famiglia non è stata toccata.

Sembrava ancora una buona idea. 

Quando ho conosciuto Ethan la prima, imbarazzata presentazione che ha dato di sé, come un biglietto di scuse sul comodino dopo una discussione, riguardava la sua malattia. Lo stigma impostogli dallo Stato sin da quando era bambino l’aveva costretto a farlo. Per questo, mi aveva detto ridendo un po’ nervosamente, era single da così tanto tempo: le persone si spaventavano, lo vedevano come una creatura strana, avulsa dal contesto sociale, e lo evitavano. A me però non è importato. 

E non mi importa neanche adesso, anche se entrambi sapevamo che era solo una questione di tempo, che prima o poi sarebbero venuti a prendere anche lui.

Me lo porteranno via, me lo porteranno via davvero.

« Quando…? » quando verranno a prenderti? Ma non ho la forza di dirlo. 

È assurdo, è sbagliato. Perché abbiamo permesso che succedesse? Perché abbiamo deciso che la vita delle persone che amiamo sia più al sicuro lontano da noi?

Perché deve andare via? 

« Stasera. Ma non sarà per molto. Solo finché il contagio non sarà contenuto e sarà sicuro per me stare qui. »

Annuisco ma non mi allontano, voglio stare accoccolato al suo petto. Per la prima volta maledico quel suo respiro rantolante, quegli spifferi d’aria che fischiano dentro i suoi polmoni, come vento che soffia tra le cavità vuote di una grotta. 

E maledico le persone, quelle come me, quelle sane. È facile pensare che i problemi siano risolvibili finché non vengono a bussare alla tua porta.

Adesso ho paura.

Non so quanto tempo rimaniamo abbracciati, c’è così caldo che ho l’impressione che i nostri corpi stiano cominciando a fondersi. Forse potrei dare a Ethan la mia forza, il mio respiro, quella fortuna genetica che ho avuto nel nascere sano in un mondo che allontana i malati.

Poi lui scioglie l’abbraccio, a fatica, come quando si separano due pezzi di velcro. 

« Devo fare la valigia. » 

Sento un singhiozzo incastrarsi in gola mentre annuisco. 

Mi sforzo per ricordare i numeri dell’epidemia. Quanti malati sono stati portati nei punti di Primo Soccorso, in quali città, quanto tempo ci sono rimasti, ma tutto si confonde in un’unica miscela di numeri che rimbalzano da una parte all’altra della mente, senza logica. 

Lo seguo come un’ombra mentre prende la valigia (quella grande, quella dei lunghi viaggi) dal sottoscala e poi la porta nella nostra stanza. Cerco di imprimermi i gesti, i movimenti, i colori della luce estiva sulla pelle chiara, il sudore che gli incolla la maglia sulla schiena. Tutto il mio mondo che lentamente di scioglie, come il gelato nel bicchiere. 

Sceglie con cura le magliette e i pantaloni, le ripiega in modo che non occupino troppo spazio, una dentro l’altra, come fa con ansie e insicurezze: alla fine riesce sempre a chiudere la valigia, non importa quanto piena sia. 

« Scappiamo. » dico all’improvviso, una scarica di adrenalina mi raddrizza la schiena e ferma il prurito delle lacrime. « Prendiamo un...un aereo, andiamocene da qualche parte. Un posto fresco. »

Ethan si blocca, in mano la sua t-shirt preferita, quella della sua band che abbiamo comprato al concerto, due anni fa, quando niente di tutto questo sembrava possibile o solo immaginabile.

« Dove? » chiede lui, freddo, mi fa quasi paura. « Dove possiamo andare? Vuoi prendere un aereo per scappare all’epidemia o al governo? Perché non possiamo scappare da nessuno dei due. » getta la maglia in valigia, nonostante sia grigia in mezzo a quell’ordine risalta come fosse rosso fuoco, il colore del pericolo. Mi guarda e i suoi occhi sono spiritati, cerchiati di nero, come ho potuto non accorgermene prima? « Servono i documenti per viaggiare e su tutti i miei documenti c’è scritto che sono malato. Ci fermerebbero ancora prima di salire. E l’epidemia? Non l’ha fermata l’estate come ci avevano assicurato gli scienziati, pensi la fermerà il confine immaginario tra due Stati? » 

Il volto si imporpora e il suo petto si alza e si abbassa più velocemente. Due crisi in un giorno non vanno bene. 

In un attimo gli sono vicino, una mano sulla schiena, come sempre. « Respira. » 

Quante volte gliel’ho detto, sussurrato all’orecchio mentre dorme, nella speranza che una sola parola, come la formula di un incantesimo, possa permettergli di continuare a vivere? Quante volte l’ho ripetuto come una preghiera, respira, respira, respira, respira, mentre lo vedevo annaspare in cerca d’aria? 

Supera la crisi solo sfiorandola, l’ossigeno torna a crepitare nei suoi bronchi senza bisogno dell’inalatore.

« Dobbiamo solo aspettare che sia finita. » sussurra mentre torna a sistemare gli abiti in valigia. 

« Quando? Quando sarà finita? » 

« Non lo so. » 


Le luci blu e rosse delle auto del Ministero della Salute, come quelle dell’ambulanza, rischiarano a giorno il giardino. 

Il sole non è ancora tramontato, l’orizzonte è rischiarato da una luce color pesca e poi viola chiaro, le ombre degli alberi si arrampicano sulla tela di quel cielo alieno. 

Dalla finestra li vedo scendere dall’auto: due infermieri, vestiti di bianco, con la mascherina sul volto. 

Per settimane ho visto in TV scene come questa, famiglie spezzate dall’idea comune secondo la quale è meglio essere divisi che rischiare di isolare tutti. L’impegno dei sani di fare attenzione all’igiene, rimanere in quarantena al bisogno, o rinunciare alle abitudini quotidiane richiedeva troppa fatica.

Anche Ethan indossa una mascherina, quella che il governo gli fornisce da quando era bambino, per evitare che la sua malattia non contagiosa attecchisca nella mente delle persone.

L’ultimo abbraccio è fragile, è ghiaccio che si crepa sotto i piedi. Poi lui va ad aprire la porta.

Ethan mostra i documenti agli infermieri e quelli si accertano della sua identità con distacco professionale, onde evitare di provare un massacrante sentimento di pietà che gli impedirebbe di svolgere il loro lavoro.

Uno dei due prende la sua valigia, dopo aver indossato guanti di lattice, e la carica sull’auto. L’altro gli fa cenno di seguirlo, tenendosi a debita distanza. 

Ogni passo che Ethan muove verso la macchina è un pugno, una bastonata, un colpo di pistola, tanto che mi ritrovo ad aggrapparmi alla porta, le gambe che reggono a stento il mio peso. 

“Ti prego, ti prego fa’ che sia tutto un incubo, fa’ che possa risvegliarmi a letto, con lui ancora addormentato al mio fianco.” 

Prima di rendermene conto sto correndo, qualcuno prova a fermarmi, forse scalcio, forse picchio, non lo so, ma sono tra le braccia di Ethan.

« Si faccia indietro, si faccia indietro o la arresteremo per intralcio al pubblico servizio! » 

È uno strillo rauco, alle mie spalle.

Strappo la mascherina dal viso di Ethan e lo bacio. Non è perché siamo due uomini che ci guardano male, l’ho imparato da tempo, è perché io sono sano è lui è malato.

« Torno presto. » mi rassicura con una bugia, lo sappiamo entrambi, mi poggia una mano sul volto e, ancora, di nuovo, mi ci struscio contro come un gatto. 

Annuisco e lentamente mi stacco da lui.

Uno degli infermieri mi strattona per chiudere la portiera dell’auto. Riesco ancora a vedere il viso di Ethan nonostante il vetro oscurato. 

« Ringrazi che non la denunciamo, signore. Quello che facciamo è per la sua salute. » 

Non lo ascolto, non mi interessa.

La sirena quasi mi fa sobbalzare quando viene accesa, il lampeggiante mi acceca. 

Corro dietro l’auto per un po’ mentre si allontana lungo la strada, perché i miei polmoni sono pieni d’aria, i miei muscoli allenati. 

Perché sono sano.

Perché sono sano?  


 
   
 
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