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Autore: Helmwige    01/03/2020    3 recensioni
SPOILER TROS
Storia ambientata alla fine di Episodio IX, subito dopo la morte dell'Imperatore. Rey torna su Ajan Kloss dai suoi amici, cercando di raccogliere le fila della sua vecchia vita. Ma non è così semplice, ora che ha perso quasi tutto. Dovrà affrontare verità amare, solitudine e disillusioni, con la speranza che prima o poi ciò che è morto torni a vivere.
Una Reylo un po' diversa dal solito.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ben Solo/Kylo Ren, Finn, Poe Dameron, Rey
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“High in the halls of the kings who are gone
Jenny would dance with her ghosts,
The ones she had lost and the ones she had found
And the ones
Who had loved her the most.”
Florence and the Machine – Game of Thrones
 
Rey infilò le dita affusolate nel compressore del Falcon, avventurandosi nel labirinto di cavi elettrici, pulsanti e circuiti. Le sue mani si muovevano da sole, come se avessero ripetuto quei gesti per tutta la vita. Il passato da cerca-rottami in quel momento le faceva comodo; magari le dinamiche nei rapporti umani non le erano molto chiare, l’amicizia aveva ancora il profumo allettante della novità e la fiducia era qualcosa di troppo complesso e delicato… ma quella tecnologia era un’estensione del suo stesso corpo, la conosceva meglio di se stessa. Sistemare la nave di Han – o meglio, di Chewie – le diede finalmente quel senso di pace che tanto aveva cercato negli ultimi tempi.
E, per quanto potesse sembrare scorretto da parte sua, l’assenza di Chewie le era stata d’aiuto. Il Wookie non sembrava avesse la minima intenzione di riprendersi da tutto ciò che era successo; la perdita di Han e Leia era stata troppo dura da sopportare e, benché Lando fosse rimasto ancora lì con loro su Ajan Kloss, l’umore di Chewie non era migliorato nemmeno un po’. Faceva fatica a lasciare andare il passato. Lo si vedeva da come si rigirava la medaglia di Han tra le mani, con gli occhi fissi sulla superficie d’oro, o da come teneva la testa china mentre camminava tra i ribelli, perso tra i suoi pensieri.
Rey collegò l’ultimo cavo e richiuse lo sportello del compressore. Rimase a fissarlo senza vederlo davvero, la testa immersa nei ricordi. L’espressione di Han Solo si fece largo prepotentemente nella sua memoria. Ricordava quando aveva bypassato il compressore davanti ai suoi occhi, lo sguardo di incredulità e sorpresa con cui l’aveva fissata, come se non potesse accettare che una ragazza superasse la sua conoscenza del Falcon. Chissà, forse era stato allora che gli era venuto in mente di chiederle di far parte del suo equipaggio. Per Rey quell’offerta era stata un sogno ad occhi aperti. Non avrebbe mai dimenticato come la felicità e l’orgoglio l’avevano invasa, facendola sorridere come una bambina mentre la sua fantasia galoppava, immaginando chissà quali avventure insieme a Han e Chewie. Sotto un certo punto di vista, aveva fatto parte dell’equipaggio: aveva portato il Falcon su Ahch-To, aveva ingaggiato battaglia con i caccia TIE su Crait e gli aveva fatto fare un atterraggio di fortuna su Kef Bir… ma Han non era stato presente, non era stato lo stesso.
Rey voltò le spalle al compressore e guardò la cabina di comando con un misto di malinconia e rimpianto, anche se non sapeva per cosa.
Fu allora che li vide.
Due puntini luccicanti, due fiammelle d’oro appese nella cabina di pilotaggio: i dadi portafortuna di Han, quelli con cui aveva vinto il Falcon durante la partita di Sabacc contro Lando. Il simbolo della sua vittoria, l’inizio della più grande avventura della sua vita. E ora se ne stavano immobili da settimane, in attesa di un nuovo volo, un nuovo viaggio verso pianeti lontani, una nuova sfida che potesse competere con la celebre rotta di Kessel in meno di dodici parsec.
La ragazza ignorò le lacrime che minacciavano di farsi largo tra le sue ciglia e allungò una mano verso di loro. Il metallo risultò gelido contro la sua pelle, eppure sentì la necessità di lasciarli andare subito, come se si fosse scottata. Un’ondata di rabbia l’avvolse, mozzandole il respiro. Una rabbia che non le apparteneva. Cieca, potente e risoluta. Un’ira capace di investire qualunque cosa si trovasse erroneamente sulla sua strada.
La realtà svanì davanti ai suoi occhi, mentre i dadi la risucchiavano nella dimensione dei ricordi. Tutto divenne buio e silenzioso, come se si trovasse nello spazio profondo. Poi, nell’oscurità più nera, emerse la figura di Chewie. Il Wookie se ne stava in piedi, con la testa china infossata nelle spalle e gli occhi fissi sulla propria mano serrata. Una catenina dorata dondolava fuori dal pugno, in netto contrasto con il pelo scuro di lui. Aveva in mano gli stessi dadi che Rey stringeva fino a farsi male.
Sentì il dolore di Chewie così concretamente che per un attimo credé che il cuore le si sarebbe lacerato in due. E insieme alla disperazione giunse anche l’odio. Un odio animale, profondo, viscerale.
Rey, incapace di distinguere i suoi pensieri da quelli di Chewie, si abbandonò ai ricordi di lui.
 
Avrebbe voluto ucciderlo. Ci aveva provato, infatti, ma il tentativo era andato miseramente a vuoto. La pena, la pietà o la perdita gli avevano inizialmente fermato la mano, facendogli sbagliare mira. L’aveva colpito al fianco, e il mostro si era accasciato a terra. Per un attimo aveva creduto di averlo ferito a morte. Ma subito si era dovuto disilludere.
Era ancora vivo.
Si erano guardati negli occhi e, se uno sguardo fosse stato capace di uccidere, Kylo Ren sarebbe morto di certo. Ma quello sguardo, anche se stracolmo d’odio, era solo uno sguardo. Niente di più.
Aveva avuto l’occasione per sparare di nuovo, ma l’aveva sprecata: la pietà gli aveva fermato la mano. L’arrivo degli assaltatori gli aveva poi precluso ogni altra possibilità.
Il mostro si era rimesso in piedi e, un passo dopo l’altro, aveva attraversato il ponte e si era dileguato, inseguendo le sue prede come un cane rabbioso.
E a Chewie non era rimasto che il rimpianto più feroce della sua vita. Il rimorso per averlo lasciato andare non l’avrebbe mai abbandonato.
Quello non era più il neonato in fasce che aveva tenuto in braccio, quel fagottino minuscolo che aveva cullato in silenzio per ore. Non era più il bambino malinconico e allo stesso tempo iperattivo con cui aveva giocato per interi pomeriggi, non era più il figlio di Han e Leia, che una volta aveva amato come se fosse stato il suo.
Ben Solo era morto, rimpiazzato senza pietà da un assassino. Un assassino che gli aveva portato via il suo migliore amico e che meritava di morire. Ma lui non l’aveva ucciso, non aveva vendicato la morte di Han. E non se lo sarebbe perdonato mai.
 
Rey sbatté le palpebre, ritrovandosi nel Falcon. Chewie era sparito, portandosi via tutte le sue emozioni. La ragazza non provava più tutta quella rabbia, quell’odio  insanabile che corrodeva le viscere.
Ad un certo punto si sentì leggera, come se fosse stata svuotata. Una spensieratezza nuova, che forse non aveva provato nemmeno da bambina, la pervase, accompagnata subito dopo da un gran senso di noia esasperata.
Le orecchie captarono un movimento alle sue spalle, unito a un flebile lamento, simile a quello di un bambino capriccioso.
Si voltò verso i sedili della cabina di pilotaggio, serrando ancor di più le dita attorno ai dadi, come per accertarsi che fossero ancora lì.
Il respiro le si bloccò in gola. Socchiuse le labbra per parlare, ma non emise alcun suono… e a dir la verità, non avrebbe saputo nemmeno che dire.
Da dietro lo schienale di uno dei sedili comparve una mano rosea, piccola e paffuta, seguita da una folta chioma di capelli neri come la pece. Poi una seconda mano fece capolino accanto alla prima. Le piccole dita artigliarono la pelle del sedile, sforzandosi di trainare il resto del corpo. Comparvero un paio di occhi scuri, curiosi e attenti, accompagnati da un nasino affilato.
Rey si sentì mancare la terra sotto i piedi. Avrebbe riconosciuto quegli occhi in tutta la Galassia.
 
Un piccolo Ben Solo, di quattro o cinque anni al massimo, appoggiò il naso allo schienale e roteò gli occhi, analizzando l’interno della cabina. Conosceva quel luogo a memoria, ma tutte quelle luci colorati e quei pulsanti continuavano ad affascinarlo. Amava stare lì, nella plancia di comando del Falcon. Era il suo posto preferito, anche se Papà non ce lo portava spesso. Mamma diceva che era pericoloso per un bambino così piccolo, ma Ben sapeva che niente poteva trasformarsi in una minaccia se suo padre era lì con lui.
Il problema, piuttosto, era che si stava annoiando da morire.
Papà gli aveva detto di rimanere lì mentre lui e lo Zio Chewie andavano a sistemare una cosa… un poppusore, l’avevano chiamato. O forse polsore. Ben faceva fatica perfino a ricordarsela, quella parola, figuriamoci a capirne il significato. Non sapeva cosa fosse né a cosa servisse; l’unica cosa certa era che erano spariti da troppo tempo e lui, da solo in quella cabina dove non poteva toccare niente, non ci voleva più stare. Se non fossero tornati nel giro di pochissimo, si sarebbe messo a strillare a pieni polmoni.
Fu allora che li vide. Il suo sguardo annoiato si soffermò sui due sassolini luminosi poco sopra la sua testa. Senza pensarci due volte, Ben indirizzò le sue forze verso di loro nel tentativo di tirarli giù. L’aveva fatto altre volte, non era difficile. Mamma aveva detto che non doveva farlo, che quel potere non era un gioco e che, se voleva prendere qualcosa fuori dalla sua portata, doveva chiedere a un adulto. Ma Ben non era d’accordo; perché non usare un potere così comodo, che poteva rendergli tutto più facile?
Eppure Mamma in quel momento non c’era e Ben, senza farsi problemi, fece librare i due sassolini nell’aria e li avvicinò a sé, afferrandoli goffamente con la punta delle dita.
Si era sbagliato: non erano dei puntini, ma dei dadi. Avevano delle strane incisioni sopra, dei disegni che non aveva mai visto prima. Se li rigirò tra le mani, osservandoli con attenzione come se volesse fissarli per sempre nella memoria.
“Mettili giù, piccolo ladruncolo.”
La voce di Papà risuonò all’interno del mercantile. Ben alzò la testa di scatto, nascondendo d’istinto i dadi dietro la schiena, come se questo potesse farli magicamente sparire.
Nonostante il tono burbero, lo sguardo di Han Solo non presentava la minima traccia di rimprovero. Si chinò verso il sedile, sollevò il bambino come se pesasse poco più di una pagnotta e lo prese in braccio. Ben si agganciò al padre, circondandogli il fianco con le gambe. In mano stringeva ancora i dadi.
Han lo sostenne con un braccio solo, riprendendosi l’oggetto conteso con la mano libera.
“Come l’hai preso, Ben?” domandò, fingendo un tono da paternale davvero forzato.
Per tutta risposta, Ben sogghignò. Fu un ghigno da vera canaglia che provocò un moto di puro orgoglio nel cuore del padre.
Avrebbe dovuto sgridarlo, Han lo sapeva. Eppure non ci riusciva, era più forte di lui. Il tempo che passava con suo figlio era sempre troppo breve e non voleva sprecarlo con brevi rimproveri e punizioni. Voleva godersi quel mostriciattolo il più possibile.
“Sai cosa sono questi?” chiese. Ben gli lanciò uno sguardo curioso, mettendosi in attesa proprio come era solita fare Leia. “Sono i dadi con cui ho vinto il Falcon.”
Ben inclinò la testa di lato. “Cosa vuol dire che lo hai vinto?”
Han soffocò una risata. “È come quando io e te ci giochiamo l’ultima fetta di dolce. Chi vince mangia la fetta, giusto?”
Il bambino annuì convinto.
“Ecco, più o meno è stata la stessa cosa con il Falcon. L’ho vinto proprio con questi,” spiegò, rigirandosi i dadi tra le dita e mostrandoli al figlio. “Mi portano fortuna, per questo li tengo qui,” continuò, allungando il braccio verso l’alto e rimettendoli al loro posto.
“Non puoi darli a me, così avrò anche io fortuna?” chiese Ben, esibendo la sua espressione più implorante. Il contrabbandiere sorrise, passando una mano tra i capelli scompigliati del bambino.
“Un giorno, quando lo Zio Chewie e io andremo in pensione e non mi serviranno più, li darò a te. Fino ad allora, dovrai fare affidamento sulle tue capacità.”
“Quindi un giorno me li darai? Promesso?”
Han avvicinò il volto a quello di Ben, annusando a fondo il suo odore e scoccandogli un bacio sulla fronte.
“Promesso.”
 
L’immagine di Han e suo figlio si dissolse davanti ai suoi occhi. Rey si ritrovò con le labbra strette e il cuore traboccante di nostalgia. Si era sempre concentrata sulla propria sofferenza, sulla propria perdita, sul quel grido di dolore che aveva lanciato quando Kylo Ren le aveva portato via Han davanti ai suoi occhi.
Ren il mostro, il serpente assassino.
Non aveva mai realizzato che anche lui, molto tempo prima, era stato un bambino, con i suoi sogni, le sue speranze e i suoi giochi. E mai, mai aveva pensato a come potesse essere morire per mano del proprio figlio, quando per anni aveva vegliato su di lui, prendendolo in braccio e aspirando il profumo della sua pelle.
L’ennesima ondata di infelicità la travolse, violenta come un pugno in pieno petto.
Basta, per favore. Basta.
Ma invece di rimettere i dadi al loro posto e uscire dal mercantile, Rey li strinse con forza e si preparò ad affrontare la nuova visione. Seppur sfinita da quei continui tuffi nel passato, una parte di lei desiderava ardentemente vedere il resto.
Il dolore che aveva avvertito nella visione di Chewie era niente in confronto a quello che le s’insinuò violentemente sotto la pelle. Si ritrovò a boccheggiare, come se l’aria si facesse sempre più rarefatta. Sentiva i polmoni accartocciarsi come carta avvolta nelle fiamme, la gola trafitta da lunghe spine acuminate.
Emersero davanti ai suoi occhi flebili e leggeri come fantasmi, eppure le loro emozioni erano così forti che Rey temette di accasciarsi al suolo. Fece appello a tutta la sua forza e al suo coraggio e continuò a guardare, sbattendo piano le palpebre. Voleva sapere.
 
Han e Leia si guardavano, l’uno davanti all’altra. Il silenzio gli avvolgeva, tentando di isolarli dal resto del mondo, ma senza riuscirci: la Galassia era lì fuori e li chiamava a gran voce. Non c’era spazio per il cordoglio in una guerra, non c’era tempo per piangere i propri cari.
Non avevano bisogno di parlare, ognuno sapeva cosa provava l’altro: un dolore sordo e profondo, quello di una ferita che non si risanerà mai e che li continuerà a tormentare giorno dopo giorno, senza sosta. Quel dolore enorme di un genitore che ha perso il figlio.
Han fece un passo verso la moglie, allargando le braccia con esitazione. Leia si avvicinò cauta, come se ogni movimento sbagliato potesse costarle altre sofferenze. Affondò il viso nel petto di lui, sospirando.
“Non posso restare,” sussurrò lui. Profonde occhiaie gli cerchiavano gli occhi gonfi e lucidi. Le rughe, accentuate dalla stanchezza, gli solcavano il viso. Sembrava terribilmente invecchiato, come se il peso degli anni e della guerra si fosse riversato su di lui tutto d’un colpo. Era irriconoscibile. Dov’era il vero Han Solo, eroe della Resistenza? Dov’era la canaglia dalla lingua affilata e dalla battuta sempre pronta che ubriacava i suoi clienti di chiacchiere? Il Corelliano più veloce della galassia era stato sostituito da un uomo sconfitto, prosciugato fin nel midollo dal lutto.
“Vorrei rimanere con te,” continuò, la voce rotta dalle lacrime. “Ma non posso… non posso combattere contro di lui.”
Leia lo strinse, senza staccare il volto dalla giacca di lui. Sì, lo sapeva. L’aveva capito già da tempo. Han non aveva mai combattuto per la pace, né per la Resistenza. Aveva sempre e solo lottato per Leia. E lei non poteva fargliene una colpa, perché Han era sempre stato così. Non aveva passato tutta la giovinezza a combattere per la ribellione, cercando di ricostruire la nuova Repubblica Galattica. Non era cresciuto con il peso di ciò che rimaneva del Senato sulle spalle, né aveva giurato a suo padre di portare a termine la missione che avrebbe riacceso la speranza negli animi. Non aveva affrontato le torture dell’Impero, non aveva visto il proprio pianeta ridotto a un campo di asteroidi. E men che meno era pronto ad affrontare il rischio di uccidere Ben in uno scontro a fuoco, o di abbattere il caccia guidato da lui. E lei lo capiva, lo capiva davvero.
“Ho paura che non ne avrò il coraggio nemmeno io,” rispose, soffocando le parole contro il petto di Han. Non c’era rimprovero nella sua voce. Poi si allontanò con un sospiro, alzando gli occhi verso di lui. “Ma so che è quello che devo fare.”
“Mi dispiace,” sussurrò lui. “Vorrei essere al tuo fianco, davvero, ma il pensiero di ucciderlo…”
Non riuscì a finire la frase, ma Leia annuì lo stesso. Non aveva bisogno di spiegazioni, percepiva i sentimenti del marito come se fossero i propri.
“Voglio portarlo a casa, Han.” Una lacrima si liberò dalle lunghe ciglia della principessa, rotolando lunga la guancia. Il Corelliano allungò una mano verso il suo viso, asciugandoglielo con una carezza. L’altra mano la infilò nella tasca dei pantaloni, estraendo i dadi e porgendoglieli.
“Tieni, ti porteranno fortuna.”
Le labbra di Leia si stiracchiarono in un sorriso amaro. Scosse la testa. “Non ne ho bisogno.”
Si tuffò tra le braccia di Han un’ultima volta, mentre altre lacrime scendevano copiose lungo le guancie.
 
Le gambe di Rey non la ressero più. Scivolò in ginocchio, con il petto che si alzava e abbassava freneticamente. La gola le faceva male come se fosse sul punto di piangere, ma questo non avvenne.
I dadi le sfuggirono dalle dita inerti. Rotolarono sul pavimento, il clangore del metallo risuonò in tutto il mercantile. Rey li seguì con lo sguardo mentre si allontanavano da lei, incapace di distogliere l’attenzione dalle facce intagliate che si susseguivano ripetutamente.
La loro corsa terminò davanti a un paio di stivali neri.
Il cuore della ragazza precipitò sul fegato, dandole una fitta improvvisa. I battiti cardiaci le risuonarono nelle orecchie come tamburi forsennati.
Quando i polmoni glielo permisero, inspirò profondamente e si convinse a rimettersi in piedi. I suoi occhi rimasero fissi sul portafortuna di Han, imperterriti, finché una mano non si abbassò per afferrarli. La pelle degli stivali scricchiolava mentre il loro padrone si chinava, appoggiando un ginocchio a terra.
“Dameron ha ragione.”
Per un attimo, Rey credé di assistere all’ennesima visione, frutto questa volta di un suo ricordo. Aveva già visto Ben in quella posizione, quando ancora si faceva chiamare Leader Supremo e aveva una lunga cicatrice a deturpargli la guancia. Era tutto perfettamente identico: il modo in cui i dadi tra le dita, il ciuffo di capelli che gli nascondeva gli occhi, il mantello che gli ricadeva attorno come a proteggerlo. Forse era stato proprio in quel momento, su Crait, che aveva davvero compreso il suo ruolo in tutta quella storia, che si era reso conto di essere stato vittima e strumento del male assoluto. E forse ora, a bordo della vecchia ferraglia di suo padre, con quegli stessi dadi in mano, stava afferrando un’altra importante verità. La espresse in un debole sussurrò, come se temesse il suono della sua stessa voce.
“L’essere stato la pedina di Palpatine non fa di me un innocente, né cancella le mie colpe.”
La bocca di Rey si mosse d’istinto, rispondendo senza dare al cervello il tempo di rielaborare la frase di Ben. “Ma tu sei stato perdonato. Luke, Han, Leia… ti hanno perdonato tutti.”
L’ex Leader Supremo si rimise in piedi, srotolando la spina dorsale vertebra dopo vertebra. All’interno della cabina sembrava ancor più alto del solito. Lo sguardo di Rey per un attimo s’incatenò a quello straziato di lui prima di scivolare sulla mano chiusa a pugno che teneva i dadi. Li stringeva così forte che i muscoli tremavano sotto la pelle traslucida.
“Ma io no, non posso farlo.” Non c’era alcun lamento nel tono di lui, solo cupa rassegnazione. “Il passato non può essere cancellato.”
“E allora uccidilo!” gridò Rey, scegliendo le stesse parole che le aveva rivolto Kylo Ren su Ahch-To. “Hai già espiato le tue colpe, il continuo pentimento non ti darà la pace che cerchi.”
La ragazza era sicura che, se Ben fosse stato vivo, le sue parole avrebbero di sicuro smosso qualcosa. Forse non l’avrebbero convinto, ma almeno avrebbero prodotto una reazione in lui… un moto di soddisfazione, magari. Ma questo non accadde.
Ben scosse la testa, negli occhi neri regnava la stessa disperazione malcelata che lo aveva dominato prima di uccidere il padre. Rey sentì il suo bisogno impellente di liberarsi di quella pena, di mettere a tacere tutti i sensi di colpa che lo tormentavano. Eppure non sapeva come, anzi, si stava convincendo di non poterlo fare. Era tardi, ormai. Certe cose non si potevano dimenticare.
Ma Rey percepiva anche qualcos’altro in lui, un pensiero che agli occhi di lei era davvero ridicolo: Ben riteneva – anzi, era convinto – di meritarlo. Credeva che sarebbe stata quella la sua punizione; avrebbe continuato a inseguire il perdono senza mai raggiungerlo, vagando in eterno.
Ironico. Salvato per sempre dal Lato Oscuro e per sempre tenuto prigioniero dalla Luce.
Poi accadde l’incredibile. La ragazza, che non aveva distolto lo sguardo nemmeno un momento dal volto di lui, si ritrovò a strabuzzare gli occhi per la sorpresa quando una lacrima si staccò dalle ciglia del fantasma. Rey rimase sbalordita da quella perla trasparente spuntata dal nulla che scivolava lungo la guancia, proprio lì dove una volta lo deturpava la cicatrice. Ne aveva viste tante da quando aveva sistemato il compressore, ma quella l’aveva sorpresa e confusa. Mai avrebbe potuto immaginare di vederlo piangere.
Ma il suo smarrimento durò solo un attimo, giusto il tempo di riconoscere le stesse lacrime silenziose che aveva visto prima sul volto stanco di Han.
Guidata dall’istinto, fece un passo verso di lui, ritrovandosi a meno di un metro di distanza. Allungò la mano verso il suo viso e gli asciugò la guancia con il pollice. Sentì il freddo di quella lacrima solitaria penetrarle sotto la pelle mentre abbassava il braccio.
Ben rimase a guardarla, talmente sorpreso da non riuscire a dare un senso a quel gesto.
Lo sguardo della ragazza si spostò su ogni centimetro del volto di lui con devozione, soffermandosi sulle ciglia lunghe, il naso dritto, le labbra piene, per poi tuffarsi di nuovo in quelle iridi profonde e luccicanti.
“Lo faremo insieme, Ben. Ti aiuterò.”
La sorpresa si trasformò in comprensione negli occhi del fantasma. Aveva riconosciuto le parole di Rey, le stesse che gli aveva detto prima che la portasse al cospetto di Snoke.
Dopotutto, la più grande qualità della ragazza era la tenacia: non si era arresa sulla Supremacy, non si sarebbe arresa adesso.
Ben avrebbe davvero voluto crederle, arrendersi a quella smisurata fiducia che lei gli stava dimostrando, ma non ci riusciva. “Non è la stessa cosa, Rey.”
In parte aveva ragione. La redenzione era stata un atto di ribellione, coraggioso e profondo. Ma perdonarsi era diverso; ci voleva compassione e amore verso se stessi. Ben si era odiato fino allo sfinimento, ma era mai riuscito, anche solo per un attimo, ad amarsi?
Eppure Rey non si poteva arrendere, non lo avrebbe lasciato lì da solo nelle mani del suo peggior nemico. Leia, Luke e Han non lo avevano mai abbandonato, non sarebbe stata lei a farlo.
Non aver paura di chi sei.
La voce di Leia risuonò prepotente nei suoi ricordi.
Fu in quel momento che Rey capì.
Ben Solo aveva cercato il Lato Oscuro in ogni modo, rinnegando se stesso e la sua famiglia, uccidendo innocenti, nascondendosi dietro una maschera nel goffo tentativo di imitare suo nonno. Aveva provato con tutte le sue forze a saturarsi di malvagità e crimini. Aveva provato a farsi sedurre dal Lato Oscuro, ma non ci era riuscito. Ogni sforzo era stato vano, perché non era mai stato abbandonato dalla Luce. La Forza aveva fatto di tutto per non perderlo.
E a differenza di suo nonno, Ben aveva avuto la fortuna di essere amato. Sempre, in ogni circostanza, anche quando lui stesso si disgustava per le sue azioni. Aveva tentato di cadere nel Lato Oscuro, trascinandosi verso la vergogna, il dolore, la rabbia. Ma non era riuscito ad affogarci totalmente, no, perché il destino aveva avuto altri piani per lui.  
Rey si era sbagliata su di lui. Aveva creduto che dimostrargli fiducia nel chiedergli di farle da Maestro sarebbe bastato, ma non era così, non poteva bastare. Rey doveva dargli la stessa fiducia che gli avevano dato Han e Leia. Fino all’ultimo i genitori di Ben avevano creduto in lui, a discapito di tutto quell’orrore che lo circondava e che lui stesso seminava in tutta la Galassia. Non avevano mai smesso di cercarlo per riportarlo a casa. Non avevano mai smesso di amare quel figlio perduto, perché sapevano che era l’unica cosa che davvero poteva salvarlo. Un amore in cui si doveva credere fino in fondo, anche nei momenti peggiori.
Amore, nient’altro.
E se ancora non riusciva a distinguere i propri sentimenti dalla Diade, non importava, non ora. Al contrario, proprio in nome del loro legame e di quell’amore sconfinato che le avevano insegnato Han e Leia, lei non avrebbe smesso di combattere al fianco di Ben.
“Ce la faremo, Ben. Insieme.”
Il fantasma fece per scuotere la testa, ma Rey fu più veloce. “No, non è tardi,” disse, fermando ogni possibile protesta sul nascere.
Il tempo sembrò fermarsi mentre affondavano l’uno negli occhi dell’altra e i loro sentimenti si mescolavano, perdendo i propri contorni.
Ad un tratto, Rey si alzò in punta di piedi e lo abbracciò, appoggiandogli la testa tra il collo e la spalla. Fu come abbracciare un enorme pezzo di ghiaccio, eppure il freddo non le diede il minimo fastidio. Il primo abbraccio di cui lei avesse memoria.
Ben fu così sorpreso che rimase immobile, con le braccia inerte lungo i fianchi. Poi, finalmente, i muscoli tornarono a rispondergli. Si aggrappò al corpo di lei, avvolgendola con le braccia. La stringeva così forte che sembrava volesse cancellare la barriera fisica dei loro corpi e sparire dentro di lei.
“Non aver paura di ciò che sei stato,” gli sussurrò lei, stringendolo ancor di più. “Io non ne ho.”
E a quelle parole il cuore di Ben Solo, per un attimo appena, riprese a battere di nuovo.

 
  
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