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Autore: Stella cadente    03/03/2020    3 recensioni
Hogwarts, 2048: dopo la Seconda Guerra Magica e una lunga ricostruzione, la Scuola di Magia e Stregoneria è di nuovo un luogo sicuro, dove gli studenti sono alle prese con incantesimi, duelli con compagni particolarmente odiosi, le loro amicizie e i loro amori – come qualunque giovane mago o strega.
Ma Hogwarts cova ancora dei segreti tra le sue mura; qualcosa di nascosto incombe di nuovo sul mondo magico e sulla scuola, per far tornare un conto in sospeso rimasto sepolto da anni...
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«Che cosa gli è successo?»
Il Preside sospirò.
«Anni fa, Black era Preside, ma... ben presto fu chiaro a tutti quale fosse la sua reale intenzione. Non voleva fortificare Hogwarts, bensì renderla più intollerante. Tutti noi insegnanti abbiamo temuto, finora, che tornasse. Io l’ho sconfitto ed esiliato, ed io l’ho privato di quello che era il suo posto. Un posto ambito, e soprattutto influente.»
[...]
«Ascoltami, Elsa» riprese, con tono cupo. «Fa’ attenzione, soprattutto al tuo potere. C’è bellezza in esso, ma anche un grande pericolo.»
Pausa.
«Ricorda», aggiunse, «la paura sarà tua nemica.»
Genere: Dark, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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41.
 
 
 
C’era nata, con quelle capacità. La prima volta che i suoi genitori se ne resero conto fu quando aveva sei anni, forse, e sprigionò una strana luce verde che fece carbonizzare la terra attorno a lei in giardino. Era rimasta basita, mentre guardava quello che aveva fatto; si era spaventata, ma sua madre Melisandre sembrava non essere della stessa opinione. Anzi, aveva fatto una faccia entusiasta – una lieve espressione su quel volto che pareva non scomporsi mai – e, con gli occhi che brillavano, aveva detto a suo padre di portarla da lui.
Adesso ricordava.
 
La guardava con i suoi occhi gialli, girandole intorno. Era impassibile, come ipnotizzata. Non riusciva a smettere di affogare nel colore degli occhi di quello strano mago, di un giallo quasi cangiante, di un colore simile al miele. La studiavano, imperterriti, come fosse una bizzarra creatura sotto un microscopio. Dentro di lei si agitavano emozioni differenti: da un lato soggezione, dall’altro... semplice curiosità. Era così piccola in suo confronto – in confronto a quel mago che sembrava come un’ombra gigantesca e minacciosa che torreggiava su di lei – ma al tempo stesso si sentiva come se nulla potesse farle del male.
«Melicent» il suo nome, accarezzato da quella voce quasi sinistra, in realtà sembrò armonioso e potente – come quello di una regina, pensò in quel momento.
«Ciao» la sua voce di bambina aleggiò nel silenzio della grande sala del castello, già con quella nota cupa che da sempre l’aveva caratterizzata. «Perché sono qui?»
L’atrio in cui si trovava era ampio, ricavato da una vecchia costruzione in rovina. Lo poteva notare dai soffitti alti e dalle pareti in pietra antica, oltre che al pavimento a scacchi su cui camminava. In fondo alla stanza, all’interno di un grande camino, delle lingue di fuoco danzavano come serpenti.
«Tanto tempo fa» iniziò il mago alto, avvicinandosi di più a lei. «In questa stanza, si riunivano dei maghi come te» proseguì. Aveva già capito che era una bambina intelligente, ricettiva, pronta ad immergersi in qualunque mito le venisse raccontato. «Erano molto potenti, e riuscivano a mantenere l’ordine nel Mondo Magico. Ti andrebbe di ascoltare la loro storia?»
Melicent lo guardò con i suoi occhi – così simili a quelli di lui nel colore e nelle espressioni – grandi, quasi sproporzionati sul volto magro.
«Sì» disse solo.
 
Da quel giorno, Pitch Black era sempre comparso, di tanto in tanto, nella sua vita. Compariva ogni volta che i suoi poteri si manifestavano, per ricordare ai suoi genitori che dovevano essere preservati per il momento opportuno. C’erano periodi in cui veniva più spesso a far visita alla sua famiglia, e allora si chiudevano tutti nello studio di suo padre a parlare; numerose volte aveva provato ad ascoltare, ma evidentemente i suoi facevano un incantesimo insonorizzante alla stanza, perché nessun rumore trapelava mai.
Le visite del mago erano sporadiche, apparentemente senza motivo; ma Melicent sapeva che c’era qualcosa dietro, e che prima o poi l’avrebbe scoperto. Con il passare degli anni era diventata una ragazzina seria, intelligente e con quell’unico obiettivo nella testa; nessun altro avrebbe dovuto saperlo, ma letteralmente viveva per scoprire l’origine di quella luce verde che era esplosa dalle sue mani – la stessa che aveva bruciato tutto ciò che c’era intorno quella volta in giardino, quando aveva sei anni.
 
«Mamma» proruppe quella sera.
«Dimmi, Mel.» Apparentemente quel modo di parlare poteva sembrare dolce, ma nella voce di Melisandre non c’era mai nulla che potesse essere associato a quell’aggettivo. Le aveva parlato sempre in modo, piuttosto, affettato. Finto.
Era la sera del suo quattordicesimo compleanno, e dopo la festa con le sue amiche e i suoi compagni di Casa, era sprofondata in una delle due poltrone di pelle nera del salotto. Sua madre aveva fatto lo stesso, ma erano rimaste entrambe chiuse in un silenzio fitto di pensieri. Il fatto di aver festeggiato con i suoi compagni di scuola l’aveva fatta riflettere sul momento del suo smistamento, e sulle parole che le aveva riservato il Cappello Parlante.
 
Sento che la tua grande intelligenza e amore per la cultura ti renderebbe molto adatta per Corvonero; hai un temperamento misterioso, enigmatico, orgoglioso.
 
Aveva gustato quelle parole come se fossero caramelle, immaginando già di trovarsi nella Casa a cui aveva sempre immaginato di appartenere... ed invece il Cappello l’aveva collocata in Serpeverde.
La sensazione che aveva provato in quel momento, non l’aveva mai saputa spiegare. Come se qualcosa fosse andato storto, come se Hogwarts le stesse nascondendo qualcosa.
«So a cosa stai pensando» sua madre aveva il dono della telepatia, e anche quella volta non si era smentita. «Forse è arrivato il momento che tu sappia» concluse poi, con voce incolore.
La ragazzina aspettò, sforzandosi di ignorare il cuore che aveva iniziato a batterle più forte nella cassa toracica.
«Il Cappello è stato manomesso» iniziò, e Melicent seppe che era solo una frase preparatoria, buttata lì appositamente per ammorbidire quello che avrebbe sentito dopo.
«Non è possibile» obiettò. «Solo un incantesimo confundus di potenza superiore alla media potrebbe farlo. Forse neanche in quel caso.»
Brillante come sempre, ma no, sembrò dire il leggero sorriso che comparve sul volto di sua madre. «È stato Black a farlo. Ti abbiamo detto tante volte che è un mago molto potente.»
«Esatto» replicò lei, freddamente. «Ma non avete mai specificato fino a che punto.»
Melisandre apparve sconcertata dalla maturità che sua figlia dimostrava, e al tempo stesso esaltata. Melicent sapeva che c’era di più, che lei era parte di qualcosa che tutti si ostinavano a nasconderle. Ormai i segnali erano palpabili.
«I maghi di cui Black ti ha parlato anni fa si chiamano Antichi» iniziò sua madre, e ormai la ragazzina capì che stavano pian piano arrivando al nodo cruciale della questione. «Da sempre sono i regolatori del Mondo Magico. Beh, da quando questo ha avuto origine, in realtà. Ma adesso sono stati abbattuti tutti. Tutti tranne lui. È l’ultimo rimasto.»
«Arriva al dunque» Melicent non aveva mai avuto un rapporto affettuoso con sua madre – e neanche con suo padre, se è per questo. Avevano sempre parlato come se fossero ad un tavolo di trattative, come se fossero colleghi piuttosto che familiari.
«Tu potresti rappresentare un tassello mancante. Black ti vuole con sé, Mel. È il nostro destino.»
«Quale?»
Sua madre fece una faccia corrucciata, come se non riuscisse a comprendere il senso della sua domanda.
«Discendiamo da loro – dagli Antichi. Pertanto, il nostro destino è quello di fare ciò che loro hanno sempre fatto.» Melisandre sorrise, serafica. «Non dovrai fare assolutamente niente. Tutto verrà da sé; vedrai che col tempo ciò che ti ho appena detto assumerà un senso. Sarai l’inizio, Melicent» e la guardò con affetto, ma sembrava più fanatica ammirazione, in realtà. «L’inizio di un rinnovamento.»
Cosa stesse cercando di dirle, iniziò a capirlo effettivamente solo un anno dopo.
 
 
Era strano avere quella consapevolezza che la faceva sentire in qualche modo definita, come se finalmente avesse un posto, una collocazione. Era tranquillizzante dare un senso a quelle capacità che aveva da sempre – che avevano sempre sussurrato, dentro di lei.
Aveva quindici anni, quando successe la prima volta. La prima volta che il discorso di sua madre arrivò a diventare concreto.
 
Era seduta sul muricciolo del cortile di Hogwarts, sotto gli archi a sesto acuto che risalivano a mille anni prima, i lunghi capelli neri dolcemente manipolati dal vento. Versava lacrime, come le era capitato poche volte, mentre una rabbia cocente si agitava nelle sue vene.
Aveva solo perso tempo. Mesi prima aveva conosciuto Stefano, un ragazzo del settimo anno con cui aveva iniziato a sentirsi; e per un po’ – per un po’ – aveva avuto quasi l’impressione di piacergli. Si era messa a fantasticare come una stupida; evidentemente era stata solo un’illusione. Sicuramente lo era stata.
Le aveva detto che doveva parlarle, quella mattina, e la sua voce le era sembrata seria, come se dovesse dirle qualcosa di terribile. Si ritrovò a pensare a quello che da lì a poco avrebbe sentito, e ad averne paura. Il nervosismo la mangiava viva: perché si stava facendo attendere tanto? Si erano dati appuntamento proprio lì.
«Melicent» la voce del ragazzo la riscosse bruscamente, e sobbalzò appena sul muricciolo.
«Ciao» disse, guardandolo con i suoi strani occhi color miele. Stefano le sembrò quasi impaurito, e odiò quello sguardo carico di preoccupazione; perché non poteva semplicemente amarla?
«Scusami se sono arrivato in ritardo, ma avevo lezione fino a poco fa» Mel non faticò a notare che stava parlando a caso per prendere tempo, e stette in silenzio, il volto una maschera di pietra. Le venne in mente la frase che Eris le rivolgeva sempre: come fai ad essere così?
Ovviamente si era sempre riferita al fatto che, già a quindici anni, fosse seria – troppo seria – e sicura di sé. Melicent era troppo tutto, tranne che allegra e spensierata come una qualunque ragazza della sua età. Sembrava talmente fuori da quel mondo, talmente adulta da essere quasi inquietante.
«Cosa dovevi dirmi?» fece infatti, troncando di netto ogni tentativo del Grifondoro di girare intorno al motivo per cui si erano visti.
Stefano cambiò atteggiamento ad una velocità quasi surreale. «Mel, io penso che sia meglio non vederci più.» Qualcosa si spezzò, nel petto della Serpeverde, che però rimase come sempre impassibile.
«Perché?»
«È vero che fai incantesimi oscuri? O che comunque... la tua famiglia li fa?»
Non andava fiera di quello che facevano i suoi genitori. Non particolarmente, almeno. Se l’interesse fosse stato solo accademico, avrebbe capito, ma...
«Chi ti ha detto questo?»
Non puoi nasconderti per sempre, Mel. La nostra origine è questa. Apparteniamo a questo mondo.
Quella frase, suo padre, gliel’aveva detta tante volte, da quando Melisandre le aveva parlato degli Antichi, ma lei la rifiutava. O perlomeno, non voleva che gli altri conoscessero questo lato di lei.
«Lo sanno tutti. Perché non mi hai risposto?» chiese; il suo tono vagamente inquisitorio non fece altro che indispettirla ulteriormente.
«Sei già giunto ad una decisione» disse, con voce di ghiaccio.
«Non voglio stare con una persona che mi nasconde la sua vera identità.»
«E quale sarebbe la mia vera identità?» chiese la ragazza, con voce insidiosa.
Cominciava a capire perché, sia lui sia i suoi amici, avevano iniziato ad evitarla. Cominciava a capire che idea si erano fatti. Era vera? Forse. Ma nessuno doveva saperla, o anche solo vagamente intuirla. La sua famiglia era stata molto chiara al riguardo.  
«Una strega oscura. Già a questa età» disse lui, con un tono vagamente intimorito che Mel si ritrovò ad apprezzare sadicamente.
«Quindi hai paura?» lo incalzò. «Hai paura di me?»
«No, ma...»
«No no» lo frenò lei. «È tutto molto chiaro. Davvero. Va bene così. Effettivamente non voglio esporti a determinati rischi... anche se, certo; come ti ho detto tante volte, il mio è un interesse puramente accademico.»
«Davvero? Sicura che non ci siano problemi? Insomma... ci siamo frequentati per tanto tempo, e ad essere onesti mi dispiace.»
Allora fregatene di questi pregiudizi idioti, fu tentata di dirgli. Ma stette zitta.
«Anche a me» disse. Cercò di contenere il compiacimento, perché lui non sapeva per quale motivo quella strana nota fosse bloccata nella sua voce seria, incastonata nelle sue parole ambigue.
Non lo seppe nemmeno quando, mentre si allontanava, una cappa di invisibile fumo nero calò su di lui, silenziosa.
Stefano morì esattamente un anno dopo, e le autorità non trovarono mai il colpevole, perché la Traccia per lei non era ancora svanita.
 
 
«Mi dispiace, Mel.»
La frase che le rivolse Megara l’anno successivo, così, senza neanche girarci intorno, la spiazzò in quel momento. Lei non ci pensava neanche più; aveva elaborato lei stessa la maledizione in poco tempo, sapeva gli effetti che avrebbe avuto e le era piaciuto. Era felice che fosse morto, perché con lui erano morti anche le sue idee pericolose. Ma non era ovviamente una frase da dire alla sua amica.
Melicent aveva imparato che era bene non dire molte delle cose che le passavano per la testa, così come molte delle cose che aveva già fatto.
«Grazie. Anche a me» disse, mantenendo un atteggiamento impassibile. Evidentemente, però, Meg lo interpretò come sofferenza malcelata, quindi non destò sospetti. Meglio così, pensò immediatamente la Serpeverde.
«Insomma, sapevo quanto ti piacesse, e da quello che mi ricordo non ti è mai piaciuto nessuno. Perciò... mi dispiace tanto.»
«Spero solo che prendano la persona che lo ha ucciso. Merita di stare chiuso in una cella di Azkaban per il resto dei suoi giorni.» Era così che avrebbe detto una persona normale, giusto?
«Già» disse la sua amica, racchiudendo in quella parola una miriade di sentimenti. Perché Meg era fatta così: sarcastica e sempre con la risposta pronta, ma al tempo stesso capace di provare empatia come pochi altri. «Vedrai che succederà.»
«Dai, adesso andiamo» disse Melicent dopo una manciata di secondi. «Faremo ritardo a lezione» aggiunse, come per dire che era meglio cambiare argomento.
Megara capì l’antifona, e fortunatamente non fece più domande.
 
Avrebbe voluto sentirsi in colpa, per quello che aveva fatto – perché sarebbe stato giusto così, in fondo – ma le era impossibile. Per tutto quel tempo aveva creduto di non aver avuto una vera identità; quel senso di non appartenenza l’aveva sempre schiacciata... aveva sempre trovato il conforto nei libri, libri di magia oscura che adesso avevano un perché, un motivo che si ricollegava a lei e a quello che era. E questo sorpassava ogni possibile rimpianto, ogni possibile emozione normale.
Al compimento dei suoi diciassette anni – allo svanire della sua Traccia – lui aveva finalmente smesso di chiudersi nello studio di suo padre e sua madre escludendola.
Aveva iniziato a volere anche lei, in quelle riunioni.
 
«Merman ha provato a scaricare la responsabilità sui suoi studenti, ma ovviamente non ci è riuscito» iniziò, con voce ferma.
«Il preside non ci ha mai detto niente che riguardasse questo» fece la ragazza, fissandolo ostinata, come per incitarlo a proseguire.
«Esatto. La missione in cui è morta la tua amica – Megara – era una missione suicida. Lei lo sapeva bene. E anche Merman, ma semplicemente ha ritenuto opportuno tralasciarlo.»
Fece una pausa, poi continuò. «Quando diventai Preside, lui mi ostacolò. Non è mai stato quello che voleva farvi credere di essere.»
«Parla!» la voce decisa di Melicent, ora dotata di un suono sorprendentemente maturo, fendette l’aria. La mano di suo padre le si posò sulla spalla magra, come per ammonirla; lasciò andare un sospiro, lentamente.
«Deriva dalla stirpe dei maridi» disse Black, dopo un istante di silenzio. «Penso tu sappia cosa siano: sirene. Nient’altro che questo. Creature mitologiche, che successivamente hanno avuto la pretesa di mettersi a capo della scuola. Ma nessuno lo sa» si interruppe, poi riprese.  «Ti sei mai chiesta per quale motivo non faccia niente, adesso, mentre io sto prendendo possesso di tutta la scuola?»
Silenzio.
«Abbiamo stipulato un accordo. Se lui tradisse, in qualche modo, la verità, tutta la sua Stirpe andrebbe perduta. Io sono la paura, Melicent. L’oscurità. Pochi sanno di quelli come me, perché pochi sono quelli come me. Ma è la legge del Mondo Magico: ordine e caos, che si alternano ciclicamente» sorrise. «È così che vanno le cose. E adesso tocca a me – a noi.»
 
I suoi pensieri vennero interrotti bruscamente quando sentì dei passi dietro di lei; tenne lo sguardo fisso sulle statue degli Antichi, figure scomparse e sopravvissute solo attraverso la pietra, alte e inquietanti. «Ciao Melicent.» La voce di Pitch Black squarciò il silenzio, arrivandole familiare e rilassante – quella voce sinistra, in cui lei però si ritrovava perfettamente.
Non dovresti sentirti in colpa per aver ucciso le tue migliori amiche, Mel?
Perché c’era lei dietro, sin dall’inizio. Era stata quella che aveva mosso i fili di quello spettacolo insieme a Pitch – insieme a quel burattinaio fatto di buio e paura – quella che aveva dato inizio al procedimento, quella che aveva visto che cosa era successo – e che cosa sarebbe successo – prima degli altri. «Ti stavi preparando?» le chiese, avvicinandosi a lei.
Melicent sollevò una mano; sottili volute di fumo nero si sollevarono dai suoi palmi, danzando armoniosamente. «Sì» disse, la voce persa mentre osservava il suo potere. «Ho sempre avuto questa capacità, è solo che non me lo ricordavo» continuò.
«Premeva per uscire, certo» le diede manforte lui. «Ti ho osservata molto, quest’anno, e quando ho capito è stato subito tutto molto chiaro. Una coincidenza come questa non avveniva da secoli. Ma in fin dei conti, è da quando ti hanno portata da me che lo immaginavo» proseguì, con una voce calma che risuonò ancora più intensamente nell’eco dei sotterranei.
Melicent chiuse la mano, poi la riaprì; stavolta fu una piccola sfera di luce verde a sollevarsi dal suo palmo. «Quando è successo, l’ultima volta?»
Aveva solo dei flash nella mente, instillati da lui.
 
Una ragazza con i capelli di fuoco e gli occhi azzurri, che parlava con lui. Black sorrideva, lei metteva le mani avanti. Mani pallide che crepitavano di ghiaccio e occhi insicuri e sottili puntati sul mago che si limitava a sorridere.

 
Glielo aveva fatto vedere durante una delle riunioni, ma non aveva mai capito veramente che genere di collegamento quella ragazza avesse con lei. Sembrava così fragile...
Le aveva sempre ricordato Elsa, in realtà.
«Cosa c’entra, lei, con me?» chiese, consapevole del fatto che Black avrebbe capito a chi si stesse riferendo.
«Si chiamava Iris Hale» rispose lui, sempre con quella voce flemmatica. «Ed è vissuta molto prima di te, nel 1648. All’epoca la situazione non era così drammatica come adesso, ma vi erano comunque le prime avvisaglie.»
Silenzio.
«Merman iniziava già allora a sospettare qualcosa. La Guerra civile aveva avuto ripercussioni anche sul Mondo dei Maghi, ma tutti erano tutto sommato tranquilli, anche se allarmati per via dell’Inquisizione. Dovevamo stare attenti a chi era incontrollabile, e consegnarlo agli Antichi. Perciò l’ho osservata... molto. Esattamente come ho fatto con te» la sua voce si impregnò di una nota nostalgica, che Melicent notò con curiosità; c’era di più, lo aveva già capito. Che si fosse affezionato alla ragazza? Allora aveva un punto debole? Improvvisamente avvertì la curiosità morderle il cervello come un animale feroce: voleva sapere che cosa le fosse successo.
«Mi ricorda Elsa» disse la ragazza, sovrappensiero. «E non solo per i poteri.»                
«Infatti non è casuale che la mia scelta sia ricaduta su di lei. Non succede da allora che ci sia qualcuno con delle capacità inerenti al ghiaccio.»
Si allontanò, poi, e Melicent sentì la consapevolezza che Pitch le nascondesse qualcosa pungolarla come uno spillo.
Subito dopo, lo percepì fermarsi di colpo.
«C’è qualcun altro» sussurrò. «Qualcosa che manca. Lo percepisco. Adesso.»
La fiamma di buio nel palmo di Melicent si spense di colpo, e la rabbia la abbracciò subito col suo tocco formicolante.
Qualcosa non andava come premeditato.
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Dopo essere stata letteralmente per mesi a pensare a come avrebbe potuto proseguire la storia – perché ovviamente ho di nuovo cambiato idea sui suoi sviluppi – sono giunta alla conclusione che avrei dovuto DAVVERO postare questo capitolo. Beh, ovviamente nella speranza che questa FF non sia caduta nell’oblio (e nel caso, so di meritarmelo).  Devo dire che, una volta terminato, ero particolarmente soddisfatta, e non vedevo l’ora di scrivere quello dopo: mi sono messa e… mi è sembrato tutto assurdo, poco plausibile. Spero davvero di venirne a capo: ho pensato per molto tempo a questa storia, e non mi va proprio di scrivere un finale “tirato via”, tanto per concluderla.
Scusate se ho parlato poco del capitolo, ma
  1. Mi devo vergognare di esistere solo per i ritmi con cui posto
  2. Il capitolo si commenta da solo
A questo proposito, spero vi sia piaciuta la frase ad effetto finale. Avete qualche idea su cosa aspettarvi – io sì, anche se vaga? Fatemi sapere!
Alla prossima <3
Stella cadente
 


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