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Autore: AmyJane    06/03/2020    1 recensioni
Questa storia parla del bianco, del nero e di tutto quello che sta al centro. Conviviamo con mille sfumature e oramai sappiamo che non esiste la purezza. Sappiamo che il buio non è eterno e che tutto incontra i cambiamenti. Nero e bianco coesistono. Si contrastano ma senza mai negarsi, accettando la consapevolezza di non poter esistere senza il proprio opposto. Si completano e quasi finiscono con l'essere solo una delle tante sfaccettature dell'altro. Un po' come i diamanti che, nella loro infrangibile purezza, si rivelano essere solo una versione del carbone. Il nero è l'assenza di colore, il bianco l'unione di ognuno. Eppure niente e tutto alla fine sono molto simili, quasi la medesima cosa. Lo Yin contiene in sé lo Yang e lo Yang fa altrettanto.Sherlock è nero quanto una minacciata ombra ma ha un cuore puro quanto il diamante. Ha scelto di mostrarlo piano piano e di lasciarlo luccicare per contrastare la propria oscurità. Gwendolyn, al contrario, ha scelto la luce per accecare gli altri e mascherare un cuore color carbone. Gli opposti si attraggono per poi lottare senza mai né morire né trionfare. Si cede solo a un fragile compromesso.
Genere: Malinconico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il pianto delle banshee

Londra, Baker Street

Sherlock passeggiò per il salotto con le mani congiunte dietro la schiena e, completamento privo di materiale con cui dilettare il proprio intelletto, inaugurò una nuova giornata di visite al 221 B di Baker Street. La mattinata, tuttavia, fu ricolma di appuntamenti molto poco eccitanti.

Coloro che erano giunti presso l'abitazione avevano portato soltanto qualche fattaccio scialbo e senza alcun fascino. Le menti criminali del Regno Unito non sembravano aver alcun collegamento con le storie didascalicamente narrate.

L'ultimo cliente – un uomo di mezz'età, alcolista e con problemi d'alitosi – si appollaiò sulla sedia disposto in fondo alla stanza. Con enfasi e un tono burbero, blaterò un'insulsa storia riguardante il come, la sera addietro, qualcuno avesse gravemente ferito il suo bobtail e poi dato fuoco al suo sgabuzzino esterno, così provocando enormi danni. Il tutto mentre lui era addormentato al piano superiore di piccola casa presso la cittadina di Farningham.

Sherlock esaminò attentamente l'individuo, rilevando con attenzione i peculiari dettagli. Ben presto, colse il segno di un'abrasione sulla pelle intorno al pollice e parte del dorso della mano del cliente. Per di più, dei corpuscoli rossastri si erano introdotti nelle unghie dell'indice e del medio.

«È stato lei. Solo che era ubriaco e non ne ha ricordo. Monotono!» La soluzione fu espressa.

Il cliente, faticosamente, si sollevò con la medesima ineleganza di un orso e rivolse uno sguardo corrucciato al bruno, che ancora passeggiava in salotto con aria tediata.

«Lei cosa osa insinuare?» domandò, riscaldandosi.

John, ben ritto dinnanzi al camino e con le braccia incrociate, gonfiò il petto e corrugò la fronte, come per ammonire il comportamento di quel piantagrane. Dopodiché, fece per contraddirlo, ma la voce del collega troncò ogni sua intenzione.

«Ieri le temperature nel Kent si sono abbassate fino a toccare i meno tre grandi. Lei vive in una abitazione in aperta campagna, una casa in pietra molto probabilmente. Ubriaco, ha tentato d'accendere il fuoco. Per questo si è recato nel suo personale sgabuzzino esterno, dove ha preso dei fiammiferi extra large. Completamente incapace di ragionare, ne ha acceso uno, come deduco dalla ferita creata dalla carta abrasiva e dai residui di clorato di potassio sotto le unghie. Per sbaglio ha dato fuoco al legno e, nel panico, è riuscito persino a ferire il cane. Fortunatamente per lei, l'incendio non si è propagato oltre.»

L'uomo subì il peso di quelle parole e, completamente ammutolito, strabuzzò gli occhi a causa della sorpresa. Pettinandosi i baffi, cominciò pian piano a realizzare di essere il principale colpevole di tutti i suoi mali.

«Io pensavo fosse stato quel matto di Gibbs. Maledizione!» disse, affranto.

Sherlock, fermatosi nei pressi della finestra, parlò con fare scocciato. «E invece no, molto rincuorante. Adesso, la prego di andarsene!»

2.

Tutti i possibili clienti non si erano risparmiati nell'infrangere la soglia di sopportazione del detective che, frustrato, cominciò a frugare in ogni pertugio dell'abitazione. Esausto a causa dell'inutile perdita di tempo, si dilettò nello schiantare qualche libro a terra e a insinuare le dita all'interno di ogni spazio ristretto della libreria, dei comodini, persino fra le fenditure di ambedue le poltrone. Inaspettato fu un bisogno che lo bersagliò così tanto da renderlo, in tutto e per tutto, un continuo fremito.

«Quattro clienti e ancora niente» disse il detective. Schiodandosi da un punto all'altro, cominciò a dar segno della propria iperattività. «Troverei più eccitante una giornata tra le mummie del Diogenes Club che ognuna delle loro insulse richieste. Come possono sperare nel mio contributo?»

John con le pupille seguì Sherlock che, freneticamente, si era dedicato alla ricerca delle sue Silk Cut. Senza lasciar passare troppi pensieri per la testa, controllò il coinquilino.

«Cosa stai facendo? Spero tu non stia cercando le tue sigarette.»

Il bruno si girò di scatto e i riccioli neri ondeggiarono sulla sua fronte, sempre più solcata da una sottile vena pulsante. La dolce nicotina, benché solo la più innocua tra le sue droghe, supplicava di essere scovata e consumata.

«Ne ho bisogno, non biasimarmi!»

Dunque l'ex soldato, come era solito fare, si cimentò nell'interpretare la parte della coscienza e cercò di arginare la trepidazione del collega.

«Ti darei della nicotina solo per metterti a tacere ma, fino a quando starò qui dentro, ti toccherà accontentati e rigettare la tua frustrazioni su altro. E per la cronaca, il caso del Weimaraner con il collier di zaffiri, non era poi così male. Per lo meno sembrava interessante.»

«Sì, certo» mormorò l'altro, rimbeccandolo.

John raggiunse il culmine della sua pazienza. Da tempo aveva letto le news giornaliere, aveva guardato la tv, ogni singolo servizio, e aveva persino controllato più volte il telefono, ma senza riuscire a reperire alcuna violenza, né alcuna terribile calamità. Poiché scocciato, si mise presso la vetrata e da lì osservò la gente passeggiare serenamente per i marciapiedi, incurante di qualsiasi rischio latente.

Giacche e cravatte non hanno alcun senso se sotto di loro si nasconde una bestia. È solo questione di tempo...

Presto un aspirante criminale avrebbe fatto la sua comparsa e avrebbe dato a Sherlock il compiacimento tanto anelato. Tuttavia, non potendo sperare in una qualche carneficina, mise le mani in tasca e adottò un timbro pacato.

«Sherlock, di certo non posso scendere giù in strada, e dire alla gente "Senta, non può commettere qualche omicidio? Sa, il mio coinquilino si annoia". Ti consiglio di essere più indulgente con chi cerca il tuo aiuto o passerai i prossimi giorni ad aiutarmi a pulire il frigorifero. Ti ricordo che ci hai lasciato marcire un piede.»

Il detective diede per scontate le parole dell'amico e continuò a perlustrare ogni centimetro del soggiorno, tastando e palpeggiando ogni superficie, da quelle più morbide alle più compatte.

«O potrei passare tutta la settimana a cercare le mie sigarette. È incredibile che tu riesca a pensare a un buon nascondiglio. Giurerei che le hai buttate» dichiarò, per poi indugiare su quella deduzione. «Tu le hai buttate...»

John non riuscì nemmeno a controbattere che un suono secco e ben articolato spezzò la situazione. Due battiti secchi diedero segno di una presenza al di là della porta d'ingresso.

«Rimandiamo a dopo questo argomento. Questo dovrebbe essere l'ultimo cliente...»

Sherlock, inquieto, s'accovacciò sulla poltrona tirando su le lunghe gambe e appiccicandole al busto, proprio come un bambino ammorbato dal tedio. «Se è così, mandalo via!»

L'ex soldato per un attimo sospese le sue emozioni, ma ben presto la collera gli annebbiò i sensi.

Cosa mi porta a sopportare un idiota che non sa fare altro che infantilizzare continuamente ogni suo comportamento?

«Spero tu non dica sul serio» disse. I panni del genitore autoritario gli stettero sin troppo scomodi, ma lo stesso si posizionò accanto al coinquilino con l'indice puntato. «Ascolto le tua lamentele da troppo tempo. Adesso, io aprirò la porta e lascerò entrare il cliente. Mi auguro tu abbia almeno la decenza di ascoltare cosa ha da dire.»

Toc-Toc-Toc.

E altri tre colpi, molto più decisi, echeggiarono nella camera.

Sherlock, come per allontanarsi da tutta quella situazione, si acciambellò ulteriormente, voltandosi esclusivamente verso il camino pieno di cenere. Nel frattempo John, ignorato quel comportamento puerile, si indirizzò alla porta e la spalancò, con un gesto rapido. Quando mosse il braccio, la prima cosa che colse fu la familiare e sempre sorridente Mrs. Hudson.

«John, caro» disse quest'ultima.

«Mrs. Hudson... prego!»

Il medico si fece da parte e, dopo un cenno, permise alla donna di entrare.

«Spero di non aver interrotto qualcosa?»

«No, non ha interrotto proprio niente. Glielo assicuro.»

L'appassita proprietaria del 221 B camminò dentro le quattro mura, facendo da strada a una seconda figura, che prima si era rintanata nella parte dell'atrio più nascosta. La seconda donna entrò a passi sicuri all'interno del soggiorno superiore del 221 B di Baker Street, ben mostrando una florida età e un'apparente risolutezza. Si mise ferma, lasciando agli altri notare il suo crine biondo e luminoso quanto una scia di oro colato, gli occhi grandi quanto chiari, e un viso delicato, seppur arrossato da qualche inestetismo.

Mrs. Hudson aggrovigliò le dita delle sue mani rinsecchite. «Prima che possiate cacciarmi, sono qui solo perché questa dolce creatura era così smarrita. Vi stava cercando e mi sono sentita in dovere di accompagnarla.»

Sherlock pescò quelle parole con l'orecchio attento e, ancora accovacciato, mosse leggermente la testa e puntò l'occhio ceruleo sull'ingresso per meglio scorgere colei che si era insediata nello spazio circostante. La bionda, al quanto sorpresa, mirò prima al medico e solo dopo alla strana creatura raggomitolata sulla poltrona. Espulso l'attonimento, fece un cenno con la testa, limitandosi ad un brusco:

«Mi scuso per l'intrusione, ma l'appuntamento era per oggi. Ho le indicazioni nella mia borsa. E anche l'orario dell'incontro.»

John, che per un istante parve essersi congelato, riacquistò mobilità e asserì. «Sì certo, lo ricordo.» Dopodiché rispose anche alla sua affittuaria. «Ha fatto benissimo, Mrs. Hudson.»

«E lo credo. Sono l'unica che ha ancora la decenza di occuparsi degli ospiti. Sa cosa le dico? È meglio che prepari per tutti qualcosa di caldo con cui scaldare la pancia. Questo freddo è un tormento per le mie povere ossa. Buon Dio, quando finirà?»

Detto ciò, l'anziana si nascose nella cucina, s'attinse a prendere una scatolina di tè nero e dopo mise il bollitore sul fornello meglio pulito. Nel frattempo il medico, dedicandosi alle presentazioni più formali, gonfiò la voce e porse la mano in attesa di una semplice stretta.

«Buongiorno, sono il dottor Watson. Per intenderci, quello che ha risposto alle sue e-mail. Se non sbaglio lei è...»

La ragazza strinse la sua mano, o meglio, stritolò le sue ossa con energia. «Piacere, io sono Miss O'Ghallager, Fiona O'Ghallager. E sono qui per Mr. Holmes. Come le ho comunicato tempo fa, ho un assoluto bisogno di un buon professionista che indaghi per me e con la massima discrezione.»

John, provato dall'energica stretta, portò la mano sul fianco e cominciò a scuoterla un poco per scrollare un po' di quel dolore.

«Be', chi viene qui, di solito, cerca le stesse cose. Queste richieste non sono una novità» disse. «Sherlock?»

Il detective, come ritornato al mondo, si prese la briga di girarsi, mostrando il suo aspetto alla cliente. Poggiato lo sguardo su di lei, cominciò a reperire ogni sorta d'informazione. Era Donna sulla trentina e irlandese, di origine nobile. Impegnava il suo tempo con una lunga serie di passatempi. 

Calli da pianista, un iperlordosi lombale causata dalla danza classica; ha i polsi pallidi tipici del tennista e un costoso abbigliamento molto somigliante allo stile di un'amazzone. Ricca e disoccupata...

John, nel frattempo, cedette a qualche presentazione. «In cosa non te ne fossi accorto, lei è... »

«Ho sentito, John. Non soffro ancora d'ipoacusia» dichiarò l'altro, rapido e tagliente come il colpo di una spada. Si mise composto e assunse un tono decente. «Spero per lei che la sua storia sia interessante. Gli altri clienti mi hanno annoiato e non sono una buona compagnia quando mi annoio. Quindi, si sbrighi e mi dica tutto.»

Un'ultima possibilità fu tutto ciò che l'uomo concesse alla donna. Tuttavia, quest'ultima sembrò modificare il suo atteggiamento e la sicurezza ostenta si ridimensionò fino ad estinguersi del tutto.

«Non credo che la mia storia sia noiosa. A essere sincera, è anche troppo incredibile per essere raccontata a un normale agente. Proprio per questo ho sempre pensato a lei come mio detective privato. Io... non sono sicura che...»

«Mi ascolti. Qui non deve sentirsi in imbarazzo, o preoccupata. Le assicuro che siamo abituati un po' a tutto.»

Il medico la incoraggiò. La donna intanto prese una boccata d'aria e il coraggio con due mani. Ciononostante, le parole che desiderava staccare dal bocca sembrarono perire prima ancora di toccare la lingua. Il timore di fare il passo più grande della gamba con una storia così straordinaria da sembrare un mucchio di fandonie, giunse. Malgrado tutto, lei riuscì a dare un inizio al suo discorso coinciso.

«Sì. Be'... Io abito a Coleford, nel Gloucestershire, nei pressi della Foresta di Dean [1]. Tutta la mia famiglia si è staziata in quella zona da anni. La nostra permanenza è stata abbastanza tranquilla fino al marzo di due anni fa. Quando mio padre... Be', lui... ha deciso di suicidarsi.»

Fiona irrigidì il busto dopo la propria confessione, mentre John al silenzio predilesse una la formalità.

«Mi dispiace molto per la sua perdita, Miss O'Ghallager.»

Sherlock, indifferente a ogni garbo, sorrise appena.

La ragazza, sempre più tesa, ben face intendere che la precedente dichiarazione era solo la foglia di un intero cespuglio. Il resto presto sarebbe giusto sotto forma di frasi incerte e titubanti.

«Mi ha parlato di un storia incredibile. Se c'è qualcosa a cui tutti credono è un banale caso di suicidio. C'è dell'altro, a quanto noto. Continui pure a parlare» ordinò il bruno, leggendo l'irrequietezza della cliente.

Fiona deglutì e, con lo sguardo sempre più sfuggente, continuò la sua storia. «Sì, be'... Il giorno prima che accadesse, è successa una cosa... una specie di... apparizione.»

«Che genere d'apparizione?» domandò l'altro, intrigato dal racconto.

Lo donna, completamente turbata dal timore di non essere creduta, diede vita a un inutile giro di parole atto a somministrare con delicatezza ogni insolita informazione.

Non è qualcosa in cui ci s'imbatte tutti i giorni. Si tratta di un'apparizione molto rara. Lei crede all'impossibile, Mr. Holmes?»

Impossibile. Sherlock gustò il suono di questa parola che nient'altro era se non il limite tanto bramato, il confine da recidere per mezzo di ogni straordinaria capacità mentale.

«Preferisco credere a tutte le cose possibili che si nascondono dietro ciò che sembra infattibile, Miss O'Ghallager» specificò.

Fiona annuì e, presa da una scarica di fiducia, disse: «Spero lei sappia cosa sia una banshee. Ne ha mai sentito parlare?»

3.

Mrs. Hudson verso il tè bollente nelle tazze, colorando ogni fondo di porcellana con l'ambrato liquido fumante e aromatizzò l'atmosfera, rendendola serafica. Ricoprì un piatto con dei sandwich con burro salato e cetriolo; infine, prima di portare tutto ai suoi inquilini, ripescò dal disordine la sua bella zuccheriera.

Fiona, seppur ritemprata da tutti quegli onori di casa, non volle nemmeno mandar giù qualcosa e, perciò, si limitò a prendere la propria tazzina e lasciare che le dita assorbissero il calore della superficie bianca e traslucida. Bevve un sorso per fare compagnia e, in seguito, mise da parte l'amaro tè.

John, disteso sul sua poltrona, si lasciò prendere dal desiderio di conoscere. «Una banshee? È così che ha detto?»

La donna, più sicura e calma, annuì.

«Noi abbiamo sangue irlandese, dottor Watson. Siamo molto legati alle nostre tradizioni. E qualcuno anche alle nostre leggende. La mia è una famiglia antica e molto superstiziosa. Proveniamo da Tulach Mhór, una cittadina posta nell'attuale contea dell'Offay. Ci siamo trasferiti in Inghilterra circa cinquant'anni fa, ma non è qui che sono le nostre radici.»

John cercò di rimuginare sul termine prima udito. «Banshee. Forse ho già sentito questo termine. È fantasma? O una specie di... spirito indemoniato?»

«Non proprio. Si tratta di una figura appartenente al folklore celtico. Per l'esattezza è ritratta come una donna con un abito nero e la faccia coperta. Ogni famiglia irlandese è legata a una banshee e quando un membro s'imbatte in lei o persino nel suo pianto... be', è un presagio, un cattivo presagio...»

«Un presagio di morte.» Il bruno irruppe, freddo.

«È esatto!» confermò la ragazza.

Sherlock rimase composto e concentrato, ma dentro al corpo sentì l'eccitazione divampare come un fuoco costantemente alimentato. «Suppongo, quindi, che suo padre prima di morire abbia malauguratamente fatto questo tipo d'incontro. Tuttavia, anche lei ha assistito a quel fatidico momento.»

Fiona spalancò gli occhi e dischiuse le labbra. 

«E lei come lo sa?»

«È cresciuta in tempi troppo moderni per credere a questo genere di situazioni. Le leggende appartengono agli anziani e ai pazzi. E se non sono loro a tramandarle, si disperdono come nebbia al sole. Ha parlato con sicurezza e non si è mostrata scettica. Se ci crede è perché ha toccato con mano ogni cosa.»

La donna sentì di poter esporre le sue impressioni.

«Lei è davvero efficiente, Mr. Holmes!»

Sherlock congiunse i palmi, come in preghiera, e disse: «Non sarebbe venuta qui, tanto per cominciare.»

4.

Londra, University College Hospital.

Gwen, dopo un lungo periodo di stallo trascorso in ospedale, era riuscita ad acquisire sessioni di sonno meno ammorbate dagli incubi e dalle brutte sensazioni. La resilienza, sia fisica che psicologica, era cresciuta con il passare del tempo. Un solido aiuto fu ampiamente offerto dal buon John che, essendosi sentito in dovere di aiutare una cliente, quasi ogni giorno era andato a informarsi sulle sue condizioni mediche, portando di tanto in tanto qualche attimo di compagnia.

In poco, l'ex soldato si era addossato il ruolo di consolatore e spalla su cui piangere nei momenti bui. La ragazza, allo stesso tempo, si era costretta a far uscire tutto il malessere e a combattere contro la paura di quei ricordi con chiacchierate e pianti catartici. Solo in un secondo momento, era riuscita meglio a elaborare la triste esperienza mettendo su di un foglio digitale l'accaduto.

John, assieme a lei, scrisse dell'attentato e di quella folle corsa all'ospedale. Tutto sommato, era riuscito a tirare fuori un pezzo ricco di particolari e pronto per la pubblicazione nel suo celebre blog; era necessario solo un degno titolo.

«Una questione di chimica.»

Gwen, con la schiena poggiata sul cuscino, assottigliò gli occhi e si mise a riflettere. «L'amore è una questione di chimica.»

Il titolo scelto si mostrò perfetto, poiché era capace di connettere tutti i punti del racconti: il passato dei due scaltri assassini in erba e una storia d'amore dai toni lugubri.

«I titoli non sono mai stati il mio forte. E tra i miei lettori c'è anche chi li trova dozzinali e poco pertinenti al vero» disse il medico, premendo sulla tastiera del portatile poggiato sul letto stridente.

«Ho una mezza idea di chi possa essere.»

John distolse lo sguardo dallo schermo e lo rivolse a lei. «Faccio finta di ascoltarlo da anni e credo che la cosa mi abbia risparmiato un'ischemia cerebrale da stress. Per fortuna ha un caso interessante, adesso. Lo terrà impegnato per un po'.»

La frase risultò concisa ma e ben lasciò intendere a Gwen il come quell'uomo, nonostante tutto ciò che era successo, si fosse già prodigato nel cercare un altro crimine con cui far cigolare gli ingranaggi nella testa.

«Si sta già occupando di un altro caso. Be', potrebbe alimentare il paese con tutta quell'energia» dichiarò la donna, per poi continuare. «Questo significa che mi rimanderete nello Yorkshire, non è così? Non gli interessa affatto scoprire cosa mi è successo. Preferisce pensare a indagini più interessanti.»

Le lacrime inumidirono gli occhi neri e l'ex soldato rispose.

«Sherlock non rinuncia mai a un caso che gli piace. È troppo orgoglioso per farlo. Ma dopo quello che ti è accaduto, ha preferito distrarsi con degli altri clienti. Tu hai bisogno di tempo per riposare e Baker Street non è un posto abbastanza sicuro.»

«Come se casa mia lo fosse. Non sarei qui altrimenti.»

La donna si mostrò decisa nel rendere chiara la situazione ed esprimere tutto il disagio nato nella sua mente dopo una mezza giornata di prigionia forzata. Il medico, d'altra parte, non resistette a quel pianto e pose una domanda.

«Prolungheresti ancora la tua permanenza al 221 B?»

«Dopo quello che ho passato, passerei le notti anche sotto i ponti del Tamigi, ma mai nello Yorkshire. L'ultima aggressione è stata abbastanza per me. E non ho intenzione di tornare a High Bradfield da sola.»

La sua espressione supplicante ben si amalgamò a quei tratti innocenti, sprigionando un'ondata di compassione. John non riuscì a resistere a quella preghiera silenziosa e, comprendendo quel terrore, cercò di edulcorare le circostanze.

«Sai bene che puoi restare con noi. Finché ci sarò io, farò in modo che non ti succeda nulla. Tu cerca solo di rimetterti.»

Il medico parlò con fare sincero e subito notò la bocca della sua protetta allungarsi in un sorriso grato. Per poco non cedette al desiderio di toccarle le spalle, accarezzargliele e sentire rimbombare dentro al petto i battiti mossi dall'imbarazzo.

Ricorda che ha solo ventiquattro anni. Non puoi permetterti certi pensieri.

Non approfittò mai del momento di debolezza, ma qualcun altro con tanta caparbia lo fece e senza nemmeno rimuginare tanto. Gwen allungò la mano e la fece aderire a quella dell'uomo. Mosse le dita, solleticandone il dorso e poi il palmo in segno di gratitudine per la tanta gentilezza. Infine, rese lo sguardo languido, lasciando che la labbra articolassero un sentito «Grazie!»

  
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