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Autore: AmyJane    06/03/2020    1 recensioni
Questa storia parla del bianco, del nero e di tutto quello che sta al centro. Conviviamo con mille sfumature e oramai sappiamo che non esiste la purezza. Sappiamo che il buio non è eterno e che tutto incontra i cambiamenti. Nero e bianco coesistono. Si contrastano ma senza mai negarsi, accettando la consapevolezza di non poter esistere senza il proprio opposto. Si completano e quasi finiscono con l'essere solo una delle tante sfaccettature dell'altro. Un po' come i diamanti che, nella loro infrangibile purezza, si rivelano essere solo una versione del carbone. Il nero è l'assenza di colore, il bianco l'unione di ognuno. Eppure niente e tutto alla fine sono molto simili, quasi la medesima cosa. Lo Yin contiene in sé lo Yang e lo Yang fa altrettanto.Sherlock è nero quanto una minacciata ombra ma ha un cuore puro quanto il diamante. Ha scelto di mostrarlo piano piano e di lasciarlo luccicare per contrastare la propria oscurità. Gwendolyn, al contrario, ha scelto la luce per accecare gli altri e mascherare un cuore color carbone. Gli opposti si attraggono per poi lottare senza mai né morire né trionfare. Si cede solo a un fragile compromesso.
Genere: Malinconico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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I gioielli di famiglia

1.

Coleford, Gloucestershire

«L'uomo non ha accesso al paradiso, ma si deve accontentare dell'inferno» era ciò che Mycroft Holmes aveva sempre ripetuto al giovane Sherlock per meglio temprarlo agli amari frutti della malasorte. «Veniamo al mondo da soli e da soli moriremo. Questa è l'unica e triste realtà delle cose, fratellino.»

Ciò si era imposto, dopotutto, come un mesto frammento di saggezza collegabile un po' a tutti gli uomini: l'essere delle stelle incastonate nell'oscurità, pronte a farsi luce per combattere il buio della solitudine, ma senza ottimi risultati. Sherlock Holmes, tuttavia, aveva sempre cercato oltre la coltre di pece fino a scorgere un bagliore pronto a gettare sulla sua esistenza un tiepido alone. La luce, generosamente offerta dalla compagnia di John Watson, era il suo tesoro inestimabile, l'ancora a cui aggrapparsi durante i momenti tempestosi.

Erano bastati solo pochi anni e tra di due la lega si era fusa, consolidandosi e dando origine a un peculiare rapporto, troppo indefinito e atipico per essere etichettato con comuni termini di definizione. La complicità saldata con tanta naturalezza, si era perfettamente armonizzata alle loro abitudini e persino ai loro ritmi circadiani, creando un atmosfera contraddistinta da fiducia e affetto.

Ciononostante, quel giorno, Sherlock era stato condannato a essere un'ombra senza proprietario. La figura che lo seguiva in ogni dove – come fosse una sua protesi – era da tutt'altra parte, abbandonata nella Londra centrale e circondata da ben altre compagnie oltre quella della figlia e della cara Mrs. Hudson. Per la prima volta, John aveva scelto di rimanere rintanato al 221 B di Baker Street con il fuoco acceso e le coperte calde sopra le ginocchia piegate.

Il perché di quell'insolita decisione ronzò come un molesto insetto nella mente del detective, che cercò un'esplicazione che non fosse interamente riconducibile alla presenza della piccola Rosamund e un mal di schiena di poco conto. C'era qualcosa di strano nel suo collega, qualcosa che si era palesato pian piano, come i sintomi di una malattia; l'uomo era sempre curato, rasato e alquanto irritante in certe occasioni.

L'influenza di Gwen su di lui era interessante da studiare. Il medico, in alcuni momenti, si trasformava in un sussulto ininterrotto, altre volta in un melenso. Erano bastati solo un bell'aspetto e uno sguardo da daino ferito per allontanarlo dagli impegni, dalle responsabilità e, sopratutto, da un suo amico. Il fedele soldato lo aveva lasciato solo, in mezzo alla campagna, con i piedi impastati di fango, la faccia schiaffeggiata dalle raffiche e l'udito assordato dal continuo sbattere delle fronde di querce.

Come un segugio solitario, Sherlock subodorò persino l'aria, fiutando il penetrante odore delle ortensie che erano state piantate al limite della possedimento terriero appartenente a Cloverfield Manor.

Secondo le parole di Fiona, l'intera residenza risaliva all'inizio del XIX secolo, ed era stata edificata per volontà di un certo conte, Ferdinand Januarius Chandler, che le aveva dato il nome di Hazelfield Residence. Solo qualche secolo dopo, un certo irlandese di nome Phineas O'Ghallager era riuscito a comprare l'intera proprietà, ribattezzandola Cloverfield – trifoglio – in onore della cultura celtica.

«Un pezzo di terra niente male» disse un uomo bianco, pallido e villoso.

Dwayne O'Ghallager era un individuo alquanto appariscente: tanto alto quanto massiccio e con una chioma fiammeggiante ben nascosta sotto una coppola piatta e bluastra. Seppur di sangue nobiliare, era solito indossare gli abiti di un comune campagnolo, parlava come un assiduo frequentatore di pub e portava delle mani sfregiate da calli e tagli.

«Notevole, e soprattutto molto utile con una famiglia è così numerosa» convenne il detective, dandosi un tono mansueto.

«Be', forse lei non lo sa, Mr. Holmes... ma qualsiasi magione o castello non è mai troppo grande quando è affollato di gente.»

Proprio per questo era necessario fare un po' di pulizia e potare un pezzo del ramo familiare, rifletté Sherlock, analizzando l'espressione beffarda del l'interlocutore che, come un megalite, si era inchiodato al terreno con tutta la sua abnorme stazza.

«Si dedica molto alla sua produzione. Sente passione per questa terra e il suo aspetto ne porta ogni marchio» confermò il bruno, fingendosi interessato al panorama campestre.

O'Ghallager, tutto contento, si avvicinò alla vite più prossima e, come un buon padre, accarezzò la corteggia ruvida, smorta e priva di fogliame, sfiorandola con una delicatezza prima non molto ostentata.

«Wortham Pinot, un clone minore del più che conosciuto Noir, ma altrettanto buono e pregiato» disse allungando il braccio sinistro in direzione dell'intero vigneto che, devastato dalla fredde temperature inglesi, quasi pareva un singolare cimitero di sole stecche ben allineate.

«Interessante. Immagino, quindi, siano presenti delle cantine, qui vicino.» Il bruno parlò con serenità sol per non apparire rigoroso o troppo aggressivo dinnanzi a uno dei tanti componenti della famiglia. «Tenete le botti presso le stalle. Le ho adocchiate dal primo giorno. Non sono molto grandi, ma non posso dire lo stesso delle cantine. Tiene tutto lì dentro o mi sbaglio?»

O'Ghallager sorrise, comprimendo le sue guance rubiconde e aggredite dal pizzicore del gelo britannico.

«Di certo non ho ma messo le botti in cucina, tanto meno nel soggiorno della magione. Se fossi stato così sprovveduto, avrei di cambiato mestiere, mi creda.»

Sherlock individuò nel comportamento istrionico dell'uomo un insidioso mascheramento: rideva convulsamente e senza ritegno, ma quelle due sopracciglia rosse restavano ferme, come se alcuni muscoli della faccia fossero completamente immuni alle più banali contrazioni.

Stando alla micro-mimica facciale e le norme del linguaggio non verbale, l'ospitante ha qualcosa da nascondere. Cela i suoi segreti con una gestualità da abile millantatore. Il detective scavò più a fondo.

«Dicono che un buon Pinot abbia effetti benefici sull'organismo, proprietà antiossidanti, polifenoli...»

«Un bicchiere e si fa pace con il mondo, Mr. Holmes.»

Anche Sherlock sorrise, ma molto delicatamente. «Era il mio modo per dire che non mi dispiacerebbe assaggiarne un po'.»

O'Ghallager chinò la testa e fece un cenno al suo ospite.

«Mi segua, allora.»

Le cantine erano composte da una sequenza di ampie stanze, tutte costituite da fredda pietra scura, ottima per tenere l'umidità. Sotto agli archi, presso la scalinata collegata al sottosuolo, erano disposte una lunga fila di botti robuste e ben incastrate al muro. Un odore pungente infettava l'aria, rendendola troppo sgradevole per essere inalata dai nasi non abituati al tanfo. In quel puzzo, una scrivania era stata coperta da scartoffie riguardanti la contabilità e altri documenti di differente genere. E a vigere su essi, c'era una donna dalla costituzione robusta e un abbigliamento comodo.

«Mr. Holmes, le presento la mia adorata moglie Helen» disse Dwayne O'Ghallager, rivestendo il ruolo di guida per il londinese che, nel frattempo, mosse i piedi sugli ultimi gradini della scalinata.

Helen O'Ghallager, come ridestata dal suo stato di pura concentrazione, spostò lo sguardo dalle sue carte per volgerlo verso le due nuove figure che avevano riempito, con la sola presenza, quell'ambiente così vuoto. Sorpresa a causa dell'inaspettata visita, spostò qualche ciocca mora dietro l'orecchio, per poi dischiudere la bocca fine ed esclamare:

«Oh cielo, Dwayne! Non aspettavo alcuna visita oggi.»

L'uomo, ridendo leggermente, s'avvicinò alla moglie e le baciò la fronte, come per rabbonirla.

«Esistono le eccezioni, cara» disse, richiamando con un piccolo gesto alla presenza del detective ancora fermo, nel suo bel cappotto, dinnanzi alla scalinata e in attesa delle presentazioni.

«Mr. Holmes, che grande piacere fare la sua conoscenza» dichiarò la donna, strofinando la mano sul pantalone e poi porgendola educatamente a quell'individuo ancora sconosciuto.

«Onorato» recitò lui, con i palmi incollati alle tasche.

Rinnegata la stretta, Helen ritrasse il palmo aperto, ed esibì un sorriso marchiato dall'imbarazzo. Dopodiché chiese: «Cosa vi porta qui?»

«Ho portato Holmes qui solo per fargli assaporare il Gloucestershire. Non capita tutti i giorni di avere ospiti del genere in questa cantina. Be', non capita tutti i giorni di aver ospiti qui, a dirla tutta. Preferiamo accoglierli in casa.»

Dwayne con movimenti burberi si diresse presso un mobiletto aderente all'arcata principale, aprì lo sportello, esibendo una lunga serie di calici contraddistinti da brillante vetro sottile e da un collo sin troppo esile per delle dita troppo grasse. Il nobiluomo, tuttavia, preferì cingere la porta superiore di uno dei bicchieri, per poi riempirla con il corposo liquido color rubino.

«Un piccolo omaggio della casa» aggiunse, cimentandosi nelle galanterie ed esponendo il bicchiere colmo.

Sherlock lo accettò di malavoglia e portò il suo bordo presso le bocca, tanto per bagnare le labbra con il vino aromatico. Deglutii quel misero sorso e subito ritornò il calice educatamente.

«Un sapore inconfondibile!» esclamò O'Ghallager, riprendendosi il calice e lasciando scorrere nell'esofago il liquido rimasto.

Il detective esaminò ogni piccola azione, ogni singola sillaba appartenente al suo ospitante. Quella pavoneggiante estrosità sembrava comunicare qualcosa di molto inconsueto e preoccupante. Effettivamente, quell'esuberanza era tutt'altro che spontanea.

«È una zona molto ampia. C'è un'altra stanza» notò il bruno, concentrandosi sulla disposizione delle umide cantine.

È a elle, comprese allungando il collo verso l'apertura parallela alle botti. Si trattava di una coincidenza assolutamente interessante, soprattutto se collegata ad altre considerazioni prima plasmate.

«Non si stupisca. La fama del Pinot inglese sta crescendo con il tempo. Per soddisfare tutte le richieste di produzione è necessario tanto spazio. Riempiamo ogni anno circa duecentotrenta botti, per un totale di 23000 litri. Una cifretta niente male. Non è così?» Dwayne cinse con il braccio le spalle della moglie in modo apparentemente affettuoso.

«Un lavoro decisamente sfiancante. Ma ora, se non le dispiace, devo ritornare al mio lavoro. È stato un incontro molto interessante.»

Come se niente fosse, il detective girò il piede e fece per ritirarsi.

«Mr. Holmes, aspetti!» esclamò Helen, improvvisamente.

La donna, presa dalla frenesia, si liberò dalla stretta del compagno, per raggiungere rapidamente la sua consueta postazione. Con gesti lesti e maldestri, recuperò un brandello di carta e ci scrisse sopra poche parole mal annodate.

«Per lei» disse, porgendo il biglietto ben ripiegato all'ospite. «È il numero del nostro assistente Louis Thompson. Se ha bisogno di qualche bottiglia, non esiti a contattarlo. Sono sicura che il prodotto sarà apprezzato dai suoi familiari. O dalla sua clientela, perché no?»

Sherlock arraffò la carta e osservò la donna per cogliere un qualcosa d'inespresso. Invero, Mrs. O'Ghallager, divenuta molto più scrupolosa e attenta, prese la sua mano e la strinse con vigore. Troppo vigore.

L'uomo comprese il necessario e, con un cenno di saluto rivolto ai coniugi, risalì la scalinata per allontanarsi dalle cantine e immergersi ancora nell'invernale atmosfera offerta dall'ambiente esterno. Posta fine alla recita del gentleman, distese la carta sdrucita e, facendo scattare le pupille, lesse.

Benvenuto tra i gioielli di famiglia. In mezzo ai diamanti, carbone da vendere agli stolti. [1]

Le sue labbra si piegarono in un sorrisetto malizioso. La situazione, minuto dopo minuto, stava cominciando ad acquisire sempre più fascino.

2.

L'interno di Cloverfield Manor era sgombro, ampio e stantio. Le sconfinate camere si succedevano l'una dopo l'altra, costituendo file di lunghi spazi che assai ricordavano un caratteristico labirinto composto da un'obsoleta oggettistica e un mobilio consumato. La luce, filtrata da gigantesche lastre circondate da una possente intelaiatura, rifletteva sull'onnipresente pulviscolo galleggiante. Tutta la struttura quasi sembrava un mausoleo.

E proprio come un gigantesco sarcofago, tutta l'abitazione era l'involucro a un intera famiglia di mummie. Gli O'Ghallager – a eccezione di Dwayne e della sua coniuge – erano persone abbastanza smorte e poco interessate a qualsiasi elemento esterno. Difatti, passavano intere giornate rintanati nelle proprie camere, come delle serpi nel periodo del letargo. Ciò li portava a incontrarsi raramente; preferivano rimanere in determinate zone del maneggio, già spartito per non essere condiviso dai singoli nuclei familiari.

L'ala est era stata assegnata a Fiona e alla madre, confinate tra due camere da letto, un bagno e ampio salottino riscaldato da pareti di legno levigato e cosparso da pregiate decorazioni accuratamente intagliate. La camera principale era stata munita di un bel tavolo, due divani in pelle e un caminetto in pietra ben isolato dalle mura in ciliegio.

Accomodatosi sul cuscinetto della poltrona, Sherlock si era dedicato a una proficua conversazione con la propria cliente che, ritta presso le braci del focolare, lo puntava assiduamente in cerca di informazioni e altri indizi che testimoniassero i fatti.

«Non mi menta, lo capirei. Piuttosto mi dica a chi era realmente destinata questa proprietà?» chiese il detective.

Fiona, con le mani tese in direzione del calore emanato dai carboni incandescenti, rispose schietta: «A mio zio Dwayne, Mr. Holmes.»

«Eppure siete in sei in tutta l'abitazione.»

La ragazza, prese la paletta e spazzolò accuratamente la cenere dal camino, pulendolo distrattamente e senza alcun impegno.

«Il mio bisnonno Phineas ha ritenuto molto più equilibrato comprendere nella sua eredità tutti i nipoti, non solo uno. Proprio per questo la residenza è stata suddivisa in ben tre parti. L'ala est appartiene a mia madre, Edith. L'ala ovest è stata data alla nostra cugina Catherine e a suo figlio, Desmond. La parte centrale è di mio zio Dwayne e di Helen.»

Il bruno ascoltò attentamente, deducendo che un qualcosa di grande portata aveva violentemente sfilacciato ogni legame di quell'assurda famiglia. Un cavillo, seppur sepolto nel passato e ancora poco comprensibile, doveva aver fatto marcire ogni rapporto di parentela, lasciando solo astio da digerire.

Che sia solo per una questione d'eredità?

Sherlock cercò di calibrare la mente, così da renderla più efficiente, molto meno limitata. «Cosa è avvenuto tra i suoi familiari?»

Fiona rivolse all'altro uno sguardo indignato.

«Prego?»

«Non mi lascio abbindolare da qualche donazione a un ente benefico o dalle croci appese nei corridoi. Cerchi di non farmi credere che la sua sia l'allegra famigliola cattolica del Gloucestershire? Ho avuto modo di sondare la vostra indiscutibile coesione» dichiarò il detective, ostentando un sarcasmo amaro quanto la china.

La ragazza, come per sfogo, prese l'attizzatoio e menò qualche colpo sulla legna superstite, spezzandola e rendendola più consumabile dal calore del fuoco che pian piano divampava.

«Non lo è, lo so benissimo. Ma siamo sempre stati così» disse, infine. «L'unica cosa che siamo in grado di condividere è il cognome. Mi rendo conto quanto ciò possa apparire ridicolo, Mr. Holmes.»

«Non è affatto ridicolo. È stimolante» dichiarò l'uomo.

Fiona posò l'asta e andò a mettersi comoda sul sofà. Completamente ignorando le bizzarrie della persona accanto, si decise di sapere qualcosa di più riguardo al caso e proprio per questo, mossa dal bisogno di conoscenza, chiese:

«Come procede con il suo lavoro? Ha scoperto qualcosa?»

Sherlock, come di consueto, tenne per sé le conclusioni più eclatanti, come per dare maggiore protezione all'indagine.

«Può darsi» disse, senza lasciare intendere alcunché. «Fino ad ora, ho compreso che suo padre era nelle cantine quando ha visto la donna in nero. È stato di notte.»

La donna, come sradicata dal suo lembo di sicurezza, sentì le forze retrocedere a causa dello stupore. La sua testa soccombette all'impossibilità di riuscire a comprendere come l'uomo fosse riuscito a intuire così tanto.

«Come fa a saperlo?»

«Ho solo preso in considerazione la sua descrizione dell'essere. Ieri ha parlato di una figura leggermente trasparente e capace di galleggiare a mezz'aria. Una specie d'ectoplasma dalle macabre sembianze femminili e con un lungo abito scuro.»

Fiona, abbrancando quel poco della sua consueta sfacciataggine, tallonò il detective con convinzione. «E questo cosa vuol dire?»

L'uomo, sentendosi puntato, si scollò dalla poltrona e s'alzò, un po' per sottolineare il suo ruolo di unico responsabile nei riguardi delle indagini attuate. «Ha mai sentito parlare del Fantasma di Pepper?» [2]

La donna mosse spasmodicamente il viso. «No!»

E quindi, il bruno, gesticolando di un attore, esplicò ogni cosa.

«È un illusione ottica, particolarmente usata nell'ambiente teatrale. La cantina, con le sue pareti sufficientemente scure e la sua disposizione, è la zona che più permette una buona realizzazione del trucco. Sono sufficienti una lastra di plexiglass e una buona illuminazione per la creazione di un'immagine speculare che, in tutto e per tutto, ha le sembianze di un spettro.»

Fiona passò la mano sulla fronte, fino a sezionare con le dita la chioma dorata. Un brutto presentimento sembrò contaminare la sua risolutezza, regalandole uno sguardo vacuo, spento.

«E con questo?» domandò.

«Qualcuno ha macchinato tutto solo per dare un senso alla morte di suo padre. Non esiste altra spiegazione, Miss.»

Quello stesso presentimento esplose all'interno nella testa della ragazza, sbrindellando tutte quelle supposizioni create solo per allontanare il dolore offerto dalle peggiori aspettative.

«Intende quindi, che...»

«Che suo padre è stato ucciso, Miss O'Ghallager.»

3.

Londra, Baker Street.

Il seguente giorno, a dispetto di quello precedente, sembrò ammorbato da una spiacevole sfortuna. Il sabato era iniziato con una tetra alba intrisa di freddi colori bluastri e Marylebone mai era apparsa così spenta e moscia. John aprì lentamente le palpebre e pian piano realizzò di essere nella propria stanza, immobile al di sotto di una flebile luce grigiastra e con il corpo intrecciato al suo lenzuolo, la cui stoffa sgualcita si era impregnata di uno strano odore di alcol e sudore.

Le domande corsero nella sua testa ma in quel frangete, sia per il sonno che per la stanchezza, non ebbe nemmeno la forza di spronare la memoria. L'unica cosa che desiderò fu spazzar via quella angosciante sensazione giunta con la prima luce del giorno. Quindi, premette la faccia contro il cuscino, soffocando un rantolo. 

Cosa accidenti è successo questa notte?

La preoccupazione giunse nell'arco di poco tempo, tramutandosi in una piccola ossessione.

Le sono saltato addosso? No, no... Lei è saltata addosso a me. Era ubriaca e farneticava, non aveva idea di quello che stesse facendo. No, non ce l'aveva. Non poteva davvero volerlo. È stato un errore! Uno maledettissimo errore!

Nonostante la leggera ansia e la debolezza, John cercò di farsi coraggio e di trovare l'energia indispensabile per trascinarsi via dal letto. Con lentezza, cominciò a muoversi, per poi sedersi a sul materasso cigolante. Solo dopo qualche minuto realizzò di non indossare il cardigan, né la camicia. Si ricordò della seria addietro, del petto rovente quanto un ferro da stiro e della voglia di distendere la pelle nuda contro il lenzuolo freddo. Per tal motivo, s'era tolto di dosso qualche indumento.

Ma c'è dell'altro...

Rifletté, prima di ricordare ogni cosa, ciò che aveva fatto prima di raggiungere la camera. Con innata semplicità aveva condotto Gwen nella camera di Sherlock – assente da un solo giorno – per poi adagiarla sul suo letto. Infine, se ne era andato con la stanchezza nelle gambe e il batticuore nel torace.

Nient'altro. Non era successo nient'altro.

Eppure il medico, in quella mattinata, sentiva ancora il sapore dolciastro di quel bacio sulle labbra e ciò basto a farlo ricadere nel senso di colpa. L'aver corrisposto a quella insolita richiesta lo portò a maledirsi per aver approfittato della poca lucidità della giovane. Non avrebbe dovuto cedere alla bocca di lei, né tanto meno avrebbe dovuto prolungare quel contatto.

Oh, dannazione!

Fortunatamente, era riuscito ad arrestare il tutto prima del pericolo, della via senza ritorno. Con un unico gesto l'aveva staccata dal proprio corpo, quietandola dolcemente. Gwen, a causa dell'alcol, aveva assecondato ogni suo volere e, nonostante lo stato di trance, era riuscita a contenersi.

Sono un idiota. Ecco, sono un idiota!

Le reminiscenze riaffiorarono nella testa dell'ex soldato, che preferì ignorare il ticchettio della sveglia al di sopra del comodino. Se non fosse stato per il forte stato di vergogna, sarebbe già sceso a ritirare il quotidiano e a fare colazione sorseggiando caffè.

Riuscì a prendere coraggio e, infilato un maglione, uscì dalla sua camera per scendere verso il soggiorno. Raggiunse l'ingresso e allungò l'occhio da una parte a all'altra, fino a scorgere una figura rannicchiata sulla poltrona e con le braccia attaccate alle rotule. Gwen, seppur ancora provata dalla lunga nottata, volse il viso verso John e con tono emaciato, lo salutò. 

«Buongiorno.»

Il medico parve non avvertire più la scarica d'audacia che, come un medicina, aveva preso pieno possesso del suo flusso sanguigno. Non appena le sue pupille codificarono l'immagine della donna, un senso di debolezza smorzò ogni sua precedente intenzione.

«Buongiorno anche a te» biascicò il medico.

«Io...» La ragazza cominciò a balbettare. «Sono mortificata. Terribilmente mortificata, per ieri. Non sono riuscita a contenermi. E se si è offeso, lo capisco.»

I suoi occhi si fecero grandi e sempre più mesti; le sue guance bianche si ravvivarono a causa di una lieve sfumatura rosacea; la sua bocca, poiché contratta in una smorfia, si fece smilza e sottile. Tutti quei minimi particolari la resero associabile ad una statuetta di bianca porcellana danese, ben modellata e accuratamente colorata con pregiate tinture.

John ispirò, come per arginare quel guazzabuglio d'emozioni dentro al petto e ritornò ad ascoltare la donna.

«Non potevo immaginare che–»

Tuttavia, non volle sentire altro.

«Non ha importanza. È stato tutto un incidente!»

Un incidente evitabile per entrambi. L'ex soldato però, nonostante il risentimento, mosse l'occhio sulla giovane, concentrandolo involontariamente sulla sua bocca. Per la seconda volta immaginò quella soffice pressione, la stessa ricevuta nella sera addietro; la bramosia infiammò le sue labbra e lo portò a chiedersi se, baciandola in quell'istante, il contatto avrebbe avuto il medesimo sapore.

«Solo un incidente.»

Lui ripeté ancora quella frase e Gwen esibì un aspro sorriso per poi abbassare il capo, esponendo la tristezza al tappeto. «Certo» farfugliò, infine, con un che di malinconico.

John, toltasi la spina dal fianco, arricciò le labbra. Svelto andò a prendere il suo impermeabile e, con fare apparentemente disinteressato, s'appropinquò alla porta, fingendosi tranquillo.

«Be', io vado a prendere il Daily Mail. Non abbiamo del cibo per colazione, quindi se ti serve qualcosa, puoi dirmelo adesso.»

La ragazza sembrò riflettere per un poco e, solo dopo, cacciò via dalla sua lingua un secco «No, John! Non preoccuparti.»

Il medico annuì e, uscendo dalla porta, lasciò l'abitazione. L'eco del legno sbattuto sancì la solitudine di Gwen che, sentendosi un po' meno fragile, permise a stessa di erigersi. Il pugno chiuso picchiettò leggermente sulla sua fronte, come per assestare la valanga di pensieri appena scatenata. La mente l'aveva ancora tradita, imponendole di sfogare chissà quale bisogno di protezione, sopperito nel suo inconscio, su un uomo di quarant'anni stordito da un liquore.

Idiota, idiota, idiota, idiota...

Come per sfogo, la ragazza portò le dita intrecciate presso la bocca e con gli incisivi cominciò a mordicchiarsi le nocche.

Per lui è stato un semplice contrattempo.

Eppure era riuscita a percepire qualcosa di impetuoso rianimare John, durante quel contatto di labbra fameliche. Era stato come sentire un defibrillatore gettare una scarica sui loro corpi. Infine, lui si era lasciato trascinare come nelle tante assurde occasioni proposte da Sherlock.

In un primo momento, il medico era sempre in disaccordo con le cose sbagliate, ma dopo ne era attratto. Era costantemente immerso nel rischio, nei rapporti squilibrati e nelle follie di un coinquilino che si era prodigato a rincorrere crimini per tutto quanto il paese. Essere un medico-militare era stato parte di una natura consolidata nel tempo. Lui era un amante del caos e del disequilibrio, del pericolo e delle persone con storie atipiche.

«Proprio come me...»

Un pensiero sgusciò fuori dalla bocca e Gwen scorse il proprio riflesso emergere dalla finestra del soggiorno. In poco, si accorse di essere meno che la foce di un desiderio inconscio atto a fluire come un fiume impetuoso dentro il corpo di John.

  
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