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Autore: Kat Logan    17/03/2020    4 recensioni
Makoto ripulì il banco del bar dalla sabbia e dall’ appiccicume di qualche Margarita finito lì sopra per colpa di qualche bevitore distratto. Ne aveva piene le orecchie di storie e confessioni che la gente le faceva con i piedi affondati nella sabbia fine di Malibù. Chi credeva che fare la barista fosse un lavoro semplice, si sbagliava. Lei era il confessore dei peccati più bollenti di tutta la costa e nel suo tempio sacro ogni peccato veniva perdonato con un cocktail.
«Adesso ve la racconto io una storia davvero stramba».
Avrebbe dovuto starsene zitta, ma qualcosa in lei era scattato come una molla e da confidente silenzioso, Makoto, divenne oracolo senza peli sulla lingua.
«C’è un pompiere che rischia di bruciarsi per amore e convive con un’aspirante star della musica. Un artificiere incosciente, arrogante e pieno di sé. E poi c’è lei, con lo sguardo che nasconde una ferita profonda perché per la seconda volta nella vita ha fallito in qualcosa…».
«E poi?». Usagi la interruppe presa dell’entusiasmo. «Gli altri personaggi di quest’avventura chi sono?».
Makoto sospirò, portandosi lo strofinaccio sulla spalla.
«Un timido genio, una baby sitter fuori controllo e una stupida barista…»
Genere: Azione, Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Un po' tutti, Yaten | Coppie: Haruka/Michiru, Mamoru/Usagi
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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Usagi di una cosa era certa. Il primo appuntamento era quello decisivo. Proprio per quel motivo doveva essere perfetto. E lei era stata capace di organizzare con maestria un vero e proprio piano di battaglia - con tanto di sveglie puntate nel cellulare - per passare ad ogni fase della serata.
Fortunatamente la preparazione era stata più semplice del previsto.
Mamoru l’aveva già incontrata diverse volte, perciò sapeva benissimo che aspetto avesse. Così, l’ansia da primo contatto visivo era scongiurata. Come se non bastasse, la sua fata madrina Michiru, le aveva fatto trovare pronto sul letto l’intero outfit per la serata; insomma cosa poteva volere di più?
«SARA’ GRANDIOSO!» urlò come in preda ad un grido di battaglia senza quasi rendersene conto.
Aveva il cuore a mille e forse il nastrino di quel vestito azzurro pastello che Michiru le aveva scelto, non sarebbe riuscito a contenere la sua cassa toracica. Sarebbe esplosa per l’emozione. Ma subito quell’immagine si trasformò in una scena tanto macabra da farla dapprima rabbrividire per poi ridacchiare da sola.
«Ma guarda un po’ questa testolina cosa partorisce…» disse tra sé e sé mentre per un istante il pensiero di una carriera come regista di film splatter le solleticò il cervello.
«Ok, concentrati Bunny». Respirò a fondo guardandosi allo specchio.
L’abito ad altezza ginocchio con tante piccole margheritine bianche ricamate tra la stoffa le stava d’incanto. I lunghi capelli biondi, solitamente pettinati in due codine, erano acconciati in un’unica treccia. E Michiru, maniaca dei dettagli le aveva riservato un cerchietto floreale per sistemare la sua frangetta ribelle.
Usagi sorrise soddisfatta del risultato. Mandò l’indirizzo del ritrovo a Mamoru e mentre il tramonto bagnava l’east cost, lei prese l’ultimo autobus in direzione della collina.
 
 
Dopo Serenity, per Mamoru, era la prima volta.
Se fosse stato per lui sarebbe arrivato con l’auto sotto casa di Usagi a prenderla, ma lei era sembrata decisa a fare di testa sua e mandarle la posizione del posto che avrebbe fatto da cornice al loro primo appuntamento.
L’auto tossì tra la polvere e la salita ripida che il navigatore gli stava indicando.
«Ma dove diavolo sto andando?».
Di certo, le colline californiane, non lo avrebbero fatto sprofondare nel panico dopo aver passato anni in laboratorio o sui libri a studiare le armi batteriologiche, ma più macinava chilometri e più si allontanava dalla città. Dovette ammetterlo, tra le nuvole di terriccio arido e lo sbuffare del motore quello che prima era una sorta di stranimento cominciò a divenire curiosità.
Aveva già imparato una cosa su Usagi: era fuori dagli standard. E questo non poteva giocare che a suo favore.
Sovrappensiero si ritrovò ad inchiodare arrivato davanti ad una staccionata in legno.
Spense il motore e rimase in silenzio.
Riecheggiò soltanto un nitrito lontano e per un momento credette di essersi catapultato nel passato, al suo ranch, dove i giorni in famiglia avevano il gusto di quelle commedie romantiche americane.
Perse un battito. Il tramonto pareva lo stesso, quando un “toc toc” al vetro del passeggero lo fece sobbalzare.
Era Usagi che con le nocche attirava la sua attenzione.
Mamoru abbassò il finestrino di rimando, cercando di ritrovare il proprio contegno.
«La P di parcheggio è di là» commentò lei sbracciandosi a ‘mo di vigile.
«Oh cavolo». Per la prima volta si sentì un’idiota impacciato. Ma lei non sembrò darci peso perché si sporse dentro al finestrino come a voler giocare alla contorsionista.
«OMMIODDIO MA QUELLO E’ PER ME!». Usagi era in preda all’entusiasmo. Ben allacciato con la cintura di sicurezza un orsetto con una scatolina sedeva accanto a Mamoru.
«Allora sei un bravo soldato!» sorrise lei. «Hai eseguito gli ordini!».
«Non proprio…signor tenente» rispose divertito.
«Anche se è settembre, è ancora troppo caldo per la cioccolata. Quella si scioglie…».
«Credo ti perdonerò». Le brillavano gli occhi. Nessun ragazzo l’aveva mai omaggiata di un dono. E in cuor suo sapeva che Mamoru non aveva solo eseguito gli ordini, ma aveva fatto di testa sua.
Usagi cercò di allungarsi per agguantare l’orso, ma lui giocò d’anticipo slacciando la cintura al peluche e allontanandoglielo ancora un po’.
«Ehi ma che fai?!» protestò lei con l’aria di un insettino buffo che sbatte le zampette per ritrovare l’equilibrio.
«La pazienza è la virtù dei forti. Fammi parcheggiare e avrai ciò che è tuo!».
Lei protestò con un borbottio per poi ubbidire.
Lui accese il motore e prima di fare manovra si permise di alzare la voce per farsi sentire. «Sei molto carina questa sera miss Usagi».
Bunny dovette pizzicarsi un braccio per verificare di non stare sognando.
 
 
§§§
 
 
Ha detto che sono carina.
Usagi avanzava a un palmo da terra verso la macchina del suo principe azzurro, finalmente messa al suo posto.
Era incredula. Il suo appuntamento da sogno non sarebbe potuto cominciare meglio. E mentre lei sentiva già le campane a suon di nozze nella testa, finalmente Mamoru si palesò in piedi in tutta la sua bellezza.
Ora svengo. Pensò lei.
Le parve più alto del solito. Ma doveva essere la sua testa troppo presa a cercare di rimanere lucida e non sprofondare in un sogno ancora più bello di quello che stava vivendo.
Usagi era così. Perennemente con i pensieri in preda a fantasie amorose degne di una favola. Ma il fatto che Mamoru fosse un uomo di bell’aspetto era un fatto oggettivo.
I suoi capelli mori danzarono nel vento caldo scompigliandogli la zazzera e facendo svolazzare i lembi della camicia a quadri sbottonata.
«Ecco a te» disse lui porgendole l’orso.
Era strano, come per la prima volta si sentisse finalmente a suo agio in sua compagnia.
«Quindi al posto della cioccolata cos’ha nella scatola?» domandò lei incuriosita.
«Caramelle gommose».
«Che col caldo si appiccicano di più!».
«Esattamente» rise lui. «Però ha uno zainetto…» le indicò lui. «Lì dentro c’è qualcosa che è un po’ una parte di me».
Usagi era tutt’orecchie e senza riuscire ad aspettare sbottonò il piccolo bagaglio del peluche.
«Così saprai meglio chi sono. In un certo senso».
All’interno vi trovò una bustina trasparente ben sigillata.
«Cosa sono?» domandò lei.
«Dei semi. Ne ho portati un po’ dall’Arizona prima di trasferirmi. Sono di alcune piante grasse che avevo al ranch. Se le tratterai con cura faranno dei fiori spettacolari, è una promessa».
«Perciò in un certo senso hai portato anche il mazzo di fiori!».
«Non perdi un colpo».
«Grazie».
«Lo so è una cosa un po’ strana, ma è una delle cose che amo».
«Non è strano» lo interruppe lei, risistemando il suo nuovo amico peloso e tutto il suo bagaglio. «Credo sia molto bello».
«Meglio così allora».
A Usagi vibrò il cellulare nella tasca. Era la prima sveglia. Era l’ora di entrare a destinazione.
«Tu hai portato un orso e io i cavalli».
In quel momento fu lo sguardo di Mamoru ad illuminarsi.
«Avevo visto un evento di questo posto tempo fa». Santo Facebook. «E ho scoperto che oltre ad essere un maneggio, hanno adibito una vecchia stalla a ristorante. E siccome si tratta anche di un’azienda agricola, organizzano cene con degustazione a base dei loro prodotti. Ma ho pensato fosse più carino che andare al ristorante. Siamo tutto il giorno in mezzo al caos della città e qui invece è tutto più tranquillo. Poi ci sono i cavalli appunto. E ci aspetta una piccola passeggiata prima dell’antipasto e…» non si fermava più. Ma a Mamoru non importava della sua parlantina. O della differenza di età che tanto lo aveva spaventato sino a poco prima. Lei non aveva idea del regalo che le aveva fatto.
Avrebbe soltanto voluto abbracciarla.
 
 
§§§
 
 
Non era stato facile scovarla, ma Dan era uno che non si dava per vinto. E forse, proprio per questo era entrato sin da subito nelle grazie di Haruka.
 
Un altro scossone e avvertì nuovamente gli ammortizzatori della macchina rimbalzare tra le buche dello sterrato, sino ad arrivare a ridosso di un piccolo piazzale nel bel mezzo del nulla.
 
Spense il motore tamburellando nervosamente le dita sul volante della vettura.
 
Non aveva mai pensato quale tipo di luogo potesse essere adatto a lei.
Alle volte riusciva ad immaginarla nel bel mezzo di una folla brulicante di colletti bianchi giapponesi, in una metropoli dalle luci pulsanti e un pacifico villaggio ai piedi del monte Fuji per sfuggire alla frenesia di una settimana intensa. Ma tremendamente lontana da quel riserbo garbato appartenente alla sua gente, da quella pacatezza di cui Dan aveva solo sentito parlare – o visto in qualche documentario - ma mai sperimentato in prima persona. Questo non perché lei fosse in qualche modo maleducata o poco elegante, ma perché era piena di vita.
Glielo si leggeva negli occhi.
Arrivava ogni giorno al lavoro con lo sguardo di una guerriera, impavida come appartenesse ad una lunga stirpe di samurai. Setsuna, era quel tipo di donna che non taceva, che urlava a pieni polmoni -  senza paura di venire giudicata - ad una massa di uomini che volenti o nolenti avrebbero eseguito i suoi ordini. Lei era quel tipo di donna che avrebbe potuto intimorire un uomo. Quel tipo di donna che non abbassa la testa e procede come un carrarmato per una giusta causa, anche se significa soffrire le pene dell’inferno.
Ecco che idea aveva lui di lei.
Ecco, come l’aveva guardata ogni sacrosanta mattina da qualche anno rimanendo sempre al suo posto. Sull’attenti come un soldato in attesa di ricevere ordini dal proprio tenente. E tra una presa in giro dei compagni, un commento o le provocazioni di Haruka, Dan di Setsuna aveva sempre notato quei particolari che nessuno si era mai curato di cogliere.
 
Scese dall’auto e con lui anche il sole scivolò oltre la sua posizione.
Il crepuscolo intingeva il cielo della California e Dan sentì venir meno la convinzione che lo aveva portato sin lì.
Non era mai piombato a casa di qualcuno che non fosse Kansas. E sebbene di Haruka potesse prevedere ogni reazione ad una sua azione con Setsuna era come brancolare nel buio.
Oltrepassò un’aiola semicircolare fatta di pietra bianche ed atta a circoscrivere un agglomerato di piante grasse e cactus di forme e specie differenti.
Il flebile brusio di un televisore e nessun altro rumore proveniva dalla piccola ma graziosa abitazione che aveva dinnanzi.
Salì i gradini in marmo chiaro con fare circospetto, quasi dovesse nascondere il fatto di trovarsi lì o la sua identità, sino a che decise di suonare il campanello. Dopo di che solo il battito incessante del suo cuore. Una marcia dapprima cadenzata e poi sempre più veloce di tum, tum, tum.
«Chiunque tu sia vattene». Nessun viso oltre la porta, solo una voce.
«Sono Dan» disse tutto d’un fiato. «Harris» si corresse come avesse sbagliato a dire il proprio nome.
Passò un’istante, come se lei stesse esitando per dare la risposta corretta ad un quiz televisivo.
«Vattene comunque». La sentenza.
«Setsuna…».
«Ho detto vai».
«Capo Meiō, uhm…».
«Dico, MA SEI SORDO PER CASO HARRIS?!» questa volta oltre alla sua voce ci fu anche lo spalancarsi della porta. Setsuna lo fece con così tanta foga che a Dan sferzò in viso una ventata d’aria calda nonostante la temperatura stesse per precipitare considerevolmente col calare della sera.
Fresia, pensò. Il profumo che portava sempre lei e che era rimasto intrappolato anche nell’ufficio che lui aveva setacciato per trovare il suo domicilio.
«Come mi hai trovata?» domandò lei con sguardo confuso e una bottiglia che pendeva pericolosamente dalla mano sinistra.
«Non sono un detective ma sai…».
«No, aspetta. Non m’interessa. Ciao, vai».
Dan bloccò la porta prima che potesse richiudergliela in faccia.
«Che diavolo stai facendo?!» si era innervosita.
«Non ti permetto di cacciarmi».
«Bene, d’accordo». Setsuna alzò le mani al cielo in segna di resa. Aprì la porta uscendo sul piccolo porticato con andatura barcollante. «Me ne vado io» annunciò.
Camminava scalza e una sottile cavigliera scandiva ogni suo singolo passo incerto che compiva sulla veranda.
Dan la guardò come potesse trovare nella sua figura il giusto approccio.
«Mamoru mi ha detto delle voci che girano al dipartimento, come stai?».
Lei parve ridere. Ma non era la risata serena del loro appuntamento. Era arresa, amara, spenta.
Per un momento sembrò fare stretching nei suoi leggins neri poi si appoggiò a una colonna. «Le voci…» rise di nuovo, guardando la sua macchina, poi altrove, evitando accuratamente di incrociare lo sguardo del giovane.
«Quante ne ho dovute sentire…». Bevve un lungo sorso e Dan poté scorgere la bottiglia di vino scendere oltre la metà del suo contenuto.
«Ma queste…queste sono tutte vere. Vi siete liberati finalmente di me».
Dan venne colto dallo stesso impeto che lo prese in ospedale «E’ PALESE CHE NON SIA COLPA TUA, NON POSSO FARLO!». Una protesta urlata al vento.
Lei non parve turbata dal suo tono alto e concitato, gli si avvicinò, con sguardo sottile; felino quasi.
«Possono. Lo hanno già fatto» il che si traduceva in questione chiusa.
Lei le batté sul petto la bottiglia vuota e gliela mollò passando oltre.
Erano giorni che in televisione i tg la martellavano sottolineando la sua incompetenza. Ignorando e vanificando il lavoro che aveva fatto per una vita intera, per un singolo errore umano.
Se non le permettevano di sbagliare, di essere umana, allora Setsuna gli avrebbe accontentati uno ad uno, smettendo di esserlo. Avrebbe fatto l’automa sarebbe stata all’altezza delle aspettative.
«SETSUNA» tuonò il suo nome tanto da farla bloccare.
«Io non ti lascio da sola». Lo disse con una tale fermezza nella voce da non poterne dubitare.
C’era sempre qualcosa in lui capace di farla tremare. Come se riuscisse a scuoterle un terremoto dentro che la costringesse ad abbassare ogni difesa, ogni muro che lei aveva pazientemente costruito per arrivare fino a quel punto. Anche se ora, dalla cima della sua piramide era stata buttata giù con una sola e poderosa spinta.
 
Si voltò, piantando gli occhi scuri nei suoi come a sondarne lo sguardo.
«Perché devi essere così?» tremava anche la sua voce. «Perché devi fare l’eroe della situazione? Perché sei il principe azzurro pronto a salvare la donzella in pericolo?». Le sue parole non suonavano come un rimprovero sebbene forse in parte lo fossero. A lei non avevano mai porto una mano per rialzarsi. Aveva sempre contato solo su se stessa, sulle proprie forze e in questo era simile ad Haruka più di chiunque altro in quella cerchia di persone che si erano ritrovate assieme durante quella maledetta notte.
In lei combattevano due poli opposti. Uno la spingeva ad allontanarlo, come se quel destino che si era accanito all’improvviso su di lei potesse divenire contagioso per chiunque altro. Poi c’era l’altra parte. Il nervo scoperto. La sua debolezza finalmente venuta a galla e che implorava silenziosa di non abbandonarla, di restare con lei.
Che lei volesse ammetterlo o no, la verità è che Dan riusciva a farla sentire al sicuro; Protetta.
Nonostante le sue stranezze e il suo fare un po’ bambinesco Dan Harris poteva essere la sola ed unica roccia di Setsuna Meiō.
«Perché l’hai mai sentita una storia dove il principe lascia affondare nelle sabbie mobili la principessa che ama?».
«Harris» lo pronunciò con suono morbido abbandonando l’ascia di guerra. Stanca di mantenere quell’atteggiamento da dura e indifferente che aveva provato ad ostentare con lui. «Forse sono  un po’ alticcia…» confessò.
Lui sorrise intenerito.
«Ma stai forse cercando di dirmi che mi ami?».
 
In un’altra occasione le parole a Dan si sarebbero inceppate sulla lingue e avrebbe fatto la figura dell’ammasso di muscoli imbranato. Ma con sua grande sorpresa tutto gli scivolò fuori con una naturalezza mai avuta prima d’ora.
Come se niente potesse scalfirlo o abbatterlo.
«Capo Meiō…Setsuna. Probabilmente ti sembrerà impossibile quello che sto per dirti. Forse pensi che io sia un’idiota come tutti i miei compari artificieri. Forse, come molti credono io sono solo muscoli e ciambelle. E non posso dire che questo non faccia parte di me, che io non sia così, ma posso affermare con assoluta certezza che non sono solo questo. Io sono quello che sul posto aspetta di vedere scostarsi dalla transenna il poliziotto, perché quello è il momento in cui arrivi tu. E per quanto la situazione sia terribile, catastrofica…Nonostante vada tutto in fiamme, stia per scoppiare una bomba o ci sia una pioggia di proiettili in corso…Quel momento, quello in cui tu arrivi è l’attimo che preferisco della mia giornata. E’ il momento in cui mi sento vivo. Quello in cui il rumore del mio cuore supera il ticchettio della bomba che devo disinnescare…». Lo stava dicendo sul serio. Dan stava aprendo il suo cuore come mai prima d’ora, come fosse un fiume in piena. Come fosse in caduta libera dopo essersi buttato da un grattacielo.
«…E se quella bomba esplodesse fra le mie mani, se non riuscissi a fermare quel disastro, io morirei contento perché ti ho vista. Ci sono alcune situazioni in cui sono terrorizzato, in cui non so se riuscirò a fare il mio dovere fino in fondo. E in quei momenti io guardo te. Che gesticoli, che dai ordini a tutti e che riesci a mettere in riga chiunque voglia fare di testa sua. Tu che hai quel coraggio da leone, il coraggio di chi ha in pugno la vita di tutti i presenti e gioca a scacchi col destino ogni giorno per riportarci tutti sani e salvi a casa. Guardo te…che sei una forza della natura e sei bellissima. Con le tue unghie sempre di colori differenti, che arrivi di corsa in accappatoio, in pigiama, col vestito da sera, la tuta da ginnastica e quello che voglio dire…».
Dan si avvicinò a lei, mollando la bottiglia su un gradino.
«Continua…» Setsuna sembrò pregarlo. Aveva gli occhi lucidi e si ritrovò quasi senza sapere più chi fosse, ubriacata dalla percezione che lui aveva di lei.
«Quello che voglio dire è che sei tu, quella che mi fa diventare un eroe ogni sacro santo giorno della mia vita. Sei tu quella che da un senso alla giornata, quella che fa il bello e il cattivo tempo. Se questo vuol dire amarti, allora ti amo. Probabilmente sono anni che ti amo senza dirtelo. Ma lo dico ora se può servirti a non farti mollare, a non permettere che ti butti via. Perciò non me ne vado via. Rimango qui, con te. Che tu lo voglia o no».
 
§§§
 
 
Minako aveva subito intuito dallo sguardo di Yaten che si trattava di buone notizie.
Da quando lo aveva conosciuto sul molo non gli aveva mai visto quella luce negli occhi. Quei piccolissimi barlumi appartenenti a un sogno nel cassetto che d’improvviso scintillavano nelle sue iridi chiarissime.
«Ce l’abbiamo fatta» aveva detto buttandole le braccia al collo come non si era mai permesso di fare prima.
L’aveva stretta forte e Minako in quell’abbraccio aveva quasi dimenticato la telefonata ricevuta da suo padre.
«La canzone è piaciuta e abbiamo già due date fissate in un paio di locali. Vogliono metterci sotto contratto ma dobbiamo lavorare ad altre tracce. Dobbiamo farlo da subito».
A Minako batteva il cuore all’impazzata. Era anche il suo sogno quello ad essersi appena avverato. Ma se Yaten pareva essersi risvegliato da un torpore durato per anni di solitudine, lei per quanto fosse felice non lo era abbastanza.
Eppure aveva lavorato duro per quel momento. Si era consumata le dita sulle corde della sua chitarra nelle notti di solitudine in riva al mare mentre Rei era al lavoro.
«Allora Mina, sei felice?». Lui lo aveva domandato sinceramente. Con il sorriso in volto di un bambino e per un momento la ragazza dubitò che chi aveva davanti fosse la stessa persona per cui aveva perso la testa.
Aveva annuito, sorridendo di rimando. Ricacciando in un antro oscuro dei pensieri quello che realmente le balenava per la mente. Una preoccupazione che doveva sedare nell’immediato. Una preoccupazione che in fondo però sapeva di non poter combattere se non arrendendosi.
Ma non avrebbe inferto quel colpo a Yaten. Non nel momento in cui finalmente il ragazzo aveva assaporato il suo riscatto. Quello di aver dimostrato di essere davvero bravo in qualcosa. Di essere bravo quanto quel fratello che aveva da sempre occupato il primo posto sul podio di famiglia.
Erano andati a festeggiare. Avevano mangiato frittura di pesce, brindato con qualche bottiglia di birra al largo e ballato sul ponte della blue lagoon come in preda al ritmo dei tamburi tribali dell’Africa nera. Poi si erano baciati fino a far venire sera e Minako aveva perso la cognizione del tempo tra quelle braccia che ormai erano diventate la sua casa.
 
Solo una volta rientrati al porto lei ritornò con i piedi sulla terra ferma.
Faticò a salutarlo. Lo fece col groppo in gola di chi dice inevitabilmente addio anche se non vorrebbe farlo.
Doveva trovare una soluzione e doveva farlo alla svelta. Perché se c’era una cosa di cui era certa era che suo padre non era famoso per la pazienza.
 
 
Minako salutò l’infermiera di turno. Anziché essere andata a casa era tornata in ospedale. Doveva parlare con Rei. Come avrebbero fatto sul divano alle due di notte.
«Rei…» entrò nella stanza richiudendosi la porta alle spalle. Non c’era nessuno e sul piano regnava un silenzio surreale.
«Ho bisogno di te. Devi aiutarmi. Devi fare come fai sempre…».
Se Rei fosse stata sveglia le avrebbe lanciato un’occhiata interrogativa, si sarebbe sistemata una lunga ciocca corvina dietro alle spalle e le avrebbe detto di sputare il rospo.
«Ho ignorato il suo primo avvertimento. Pensavo che ci sarebbe passato sopra, ma mi ha tagliato i fondi. Ho tutte le carte di credito bloccate. Mi rimangono…» frugò nella borsetta e controllò il portafoglio. «Sessanta dollari».
«Bastano a malapena per le scatolette di artemis e una spesa. Lo so che puoi anticiparmi una rata di affitto, ma fai già i salti mortali con quei turni. E poi lasciatelo dire…non ti pagano abbastanza. Non puoi sobbarcarti di tutto».
Minako avvicinò la sedia al lettino dell’amica. Le prese la mano e la strinse.
«Rei lo sai. Il problema non è trovare un lavoretto». Sospirò. «È solo l’ultimo dei suoi avvertimenti e poi passerà alle maniere forti.
Nessuna risposta se non il bip del monitor che controllava le funzioni vitali della mora.
«Ci andrà di mezzo Yaten. E non posso permetterlo…».
La biondina si alzò. Cosa avrebbe detto ora Rei?
«Buona notte, spero domattina ti sveglierai» sibilò, sospirando pesantemente.
Minako aprì la porta. Sentì un bisbigliare concitato dalla stanza accanto. Era quella di Haruka e un medico era appena entrato.
«Un, un…piano». Era la voce di Rei nella sua testa? La bionda sobbalzò.
«Ti serve…uno stramaledettismo piano».
 
 
§§§
 
«Mancavi a me».
 
Haruka era ancora frastornata. Non sapeva se fosse a causa di Michiru o del suo attuale stato di salute.
«Piano, fai piano…» le sussurrò lei con un fruscio di onde blu.
Quanto era bella. Le era sembrato passato un secolo dall’ultima volta in cui l’aveva vista davvero. Haruka trovò impossibile che Michiru fosse più bella nella realtà che in quei suoi strani sogni o qualunque cosa fossero.
Cercò di respirare profondamente. La guardò ancora una volta e la stanza smise di girare.
«Chiamo il medico» sillabò lei con un sorriso sollevato in volto.
Ma la bionda la bloccò, come a non volerla fare alzare da dove si trovava. Come se non potesse sopportare di mettere una distanza tra loro ora che la sentiva più vicina che mai. Una vicinanza strana, profonda. Come se appartenesse alla loro anima piuttosto che al piano fisico.
«Sul serio?» le domandò poi, litigando con uno dei tubini che le si era annodato al camice.
«Appena sveglia e sei già pronta a mettere in dubbio quello che dico?». Michiru le aveva risposto con un filo di voce ma in tono scherzoso. Aveva l’incurvatura di quelle labbra a cuoricino rivolta verso l’alto, come se non potesse smettere di sorridere e gli occhi lucidi di chi sta per piangere.
In effetti lo avrebbe voluto fare, avrebbe voluto piangere di gioia per quel dono che la vita le aveva concesso. Un altro giorno di spina-nel-fianco-Haruka.
Che nonostante la sfacciataggine, l’ironia pungente, la sua faccia tosta e quel carattere fumantino, era riuscita a rapirle il cuore più di quanto volesse ammettere a se stessa.
«Ti ho vista in quella tavola calda…e sulla spiaggia…» la bionda parve vaneggiare. Aveva lo sguardo ancora trasognato.
Michiru spinse il tasto di chiamata senza lasciare il capezzale dell’altra per poi avanzare una richiesta che l’altra mai si sarebbe aspettata.
«Haruka…posso abbracciarti?».
«Sapevo avresti ceduto. Se proprio insisti…» sorrise furba.
«Mi hai fatto passare la voglia!» scherzò Michiru. In realtà era al settimo cielo. Haruka sembrava essere tornata nel mondo dei vivi esattamente come aveva tentato di lasciarlo. Senza che una quasi morte avesse scalfito il suo spirito o il suo modo di fare da birbante.
La bionda allargò le braccia con un po’ di impaccio e Michiru, le cinse piano le spalle come potesse rompersi da un momento all’altro se avesse stretto con troppa forza.
Ed eccola lì, la certezza di aver trovato il proprio posto nel mondo.
«Sei sempre stata qui, vero?».
«Sempre. Non mi sarei mai perdonata se ti fosse successo qualcosa e ti avessi lasciata sola». Credette di sussurrarlo a se stessa, tanto era ormai abituata a parlare con lei senza ricevere risposta.
«Allora credo dovrai aiutarmi a fare una cosa…».
Di secondo in secondo, quel viaggio nel suo inconscio appena compiuto, stava svanendo come un sogno alle prime luci del mattino. Ma dentro di lei, indelebile, era rimasta la certezza di dover mettere a posto i tasselli più importanti della sua vita e per farlo avrebbe avuto bisogno di una compagna d’avventure.





NOTE DELL'AUTRICE:
In ritardo pauroso eccomi qui. Domani è il mio compleanno e per festeggiare (visto che sarà un compleanno in quarantena al momento) faccio un regalo a voi postandovi il capitolo. Ho raccolto tutto il tempo che avevo per finirlo in velocità, sperando vi possa aiutare a passarvi un pò il tempo se siete costretti/e in casa.
D'altra parte ce l'ho un pò con me stessa perché mi rendo conto che sia tutto di una noia mortale. Al prossimo giro, penso la cosa si farà più movimentata o di sicuro non sarà così piatta.
Detto ciò qualche piccolo appunto:
1. Rei doveva morire. Ve lo dico chiaramente, poi presa da non so quale mistica benevolenza l'ho fatta svegliare. Ho pure pensato di farla svegliare e morire dopo, ma vabbé, volevo essere positiva (?). Tutto questo per dirvi che non ho idea ora di che futuro avrà sta donna.
2. Nel testo "originale" Haruka chiede di Rei a Michiru praticamente appena sveglia. Ho tagliato la cosa non perché non gliene sbatta niente, ma perché non riuscivo a chiudere il capitolo e avreste aspettato invano altri due mesi. Perciò...come se fosse stato chiesto d'accordo?!!
Ho finito. Alla prossima! 
   
 
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