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Autore: WhiteLight Girl    23/03/2020    1 recensioni
Papillon è stato sconfitto e Gabriel Agreste è in prigione; Marinette non ricorda come sia successo, né riesce a smettere di preoccuparsi per la sparizione improvvisa di Adrien. Con Chat Noir che le si rivolta contro e cerca di ucciderla, Maestro Fu irreperibile e la scatola dei Miraculous dispersa, Ladybug si ritrova da sola a cercare di capire cosa sia successo dopo che, durante la battaglia finale contro il suo peggior nemico, ha perso i sensi.
Genere: Angst, Dark, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Adrien Agreste/Chat Noir, Gabriel Agreste, Marinette Dupain-Cheng/Ladybug, Plagg, Tikki
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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18
IL GIORNO IN CUI PAPILLON FU SCONFITTO - 4


Queen Bee si trasformò subito dopo che ebbe capito ciò che era accaduto. Le immagini di Chat Noir che cercava di uccidere Ladybug erano ormai diventate virali, non c'era una sola rete televisiva che non le avesse mandate in onda almeno una volta, né qualcuno che non ne stesse parlando giù in strada. Ladybug stava bene, lo sapevano tutti, grazie a Carapace e Rena Rouge, e nessuno si stava preoccupando di Chat Noir se non per chiedersi cosa l’avesse portato a reagire in quel modo.

Lei, però, sapeva bene che quell’attacco non era stato volontario, sapeva che ovunque fosse andato a rintanarsi probabilmente stava peggio di Ladybug, che aveva bisogno di conforto e, probabilmente, di due ceffoni ben assestati che lo costringessero a smettere di autocommiserarsi.

Trovò l'amico sul tetto del vecchio cinema, quando il sole era ormai quasi tramontato, accucciato nella penombra, abbastanza in alto perché nessuno dalla strada potesse vederlo. Era seduto sulle tegole, con le gambe strette tra le braccia. Aveva la fronte premuta sulle ginocchia, le orecchie basse e la coda immobile dietro la schiena. Il vento agitava i suoi capelli già scompigliati, lui non dava cenno di accorgersene, né diede segno di notare il suo arrivo.

Chat Noir non sollevò lo sguardo neppure quando le suole delle scarpe di Queen Bee scricchiolarono contro le tegole del tetto, così lei ebbe tutto il tempo di avvicinarsi e pensare a cosa dire prima che lui muovesse il capo.

Queen Bee rimase in piedi, le braccia incrociate dietro la schiena, un ginocchio piegato e la punta della scarpa che poggiava sul tetto mentre muoveva la caviglia riflettendo sul da farsi.

«Ladybug sta bene.», disse come prima cosa, era probabilmente questo ciò che lo preoccupava di più, tutti sapevano quanto Chat Noir tenesse a Ladybug, tutti avrebbero potuto intuire che avrebbe sofferto se le fosse successo qualcosa.

Il ragazzo sollevò il volto, scoprendo gli occhi arrossati. «Non sarebbe dovuto succedere.» disse.

Queen Bee sbuffò. «Non è colpa tua, non potevi controllarlo.»

Aspettò che lui ribattesse, ma lui si limitò a scuotere il capo ed a nascondere il volto tra le braccia ancora una volta, se Papillon fosse stato ancora libero, rifletté, probabilmente avrebbe inviato decine di Akuma solo per lui. Subito dopo questo pensiero ricordò chi era, però, Papillon, e se da una parte le piaceva pensare che Gabriel Agreste non avrebbe mai fatto questo a suo figlio dall’altra realizzò che non poteva esserne certa, che in fondo non lo conosceva così bene per poterlo dire con certezza.

Si chinò al fianco di Chat Noir e tese un braccio verso di lui, gli posò una mano sulla spalla.

«Non puoi capire,» le disse lui. «Sarebbe stata al sicuro se non ci fossi stato io.»

«Ma non potevi impedire che la cosa che hai dentro prendesse il controllo e la andasse a cercare.» ribatté Queen Bee.

«Sono stato io ad andare a cercarla.» rispose Chat Noir allora. «Io che sono andato a scuola, che mi sono avvicinato per vederla, pensavo che se fossi rimasto abbastanza lontano sarei riuscito a non perdere il controllo.»

Lui batté il pugno al suo fianco, a Queen Bee parve di vedere per un istante l’energia oscura che lo avvolgeva e si chiese se solo il suo umore potesse scatenare il cataclisma. Solo dopo le parole dell’amico fecero presa nella sua testa e realizzò che era ancora in sé quando aveva deciso di andare a scuola per vedere Ladybug, che quindi aveva perso il controllo solo dopo, quando ormai era quasi certo che non sarebbe successo.

E, come se la sua testa avesse deciso da sola di scegliere l’ordine delle priorità di ciò che fosse più importante capire per primo, come ultima cosa realizzò che questo significava che Ladybug frequentava la loro stessa scuola, che forse l’aveva incontrata nei corridoi durante l’anno scolastico, che forse le aveva parlato e così anche Adrien, prima che sapesse che era proprio lei sotto la maschera.

«Vieni a casa con me.» disse a Chat Noir. «Ti faccio portare una cioccolata calda.»

Lui scosse il capo. «Ti farò del male, non voglio farti del male.»

«Non me ne farai.» lo rassicurò Queen Bee sollevando lo sguardo per l’esasperazione. Non le piaceva vedere l’amico in quel modo, se fosse stato chiunque altro probabilmente l’avrebbe già lasciato lì, dopo avergli ricordato senza troppi giri di parole che se non si fosse deciso a darsi una mossa allora avrebbe potuto benissimo andare a buttarsi nella Senna e liberare Parigi dalla sua inutile e depressa presenza, ma si trattava di Adrien e per lui sarebbe stata disposta a sopportare.

Chat Noir rimase in silenzio ancora qualche secondo, poi si voltò a guardarla, le guance arrossate. «Davvero Marinette sta bene?» chiese.

«Marinette?» domandò Chloe. Ripensò a quella mattina, a quando, nonostante fosse stata vista entrare a scuola prima di tutti, la ragazza era scomparsa per ore, per poi ricomparire solo dopo la pausa pranzo assieme a Nino ed Alya. A pensarci si sentiva stupida a non esserci arrivata prima, visti i codini che aveva sempre avuto in comune con Ladybug e tutto il resto.

«Stava bene, a pomeriggio è stata in biblioteca con Alya e Nino e camminava sulle sue gambe.»

Chat Noir sospirò, le orecchie gli si sollevarono tremolanti rizzandosi per un momento sulla testa. «Che sollievo.»

Queen Bee strinse i denti, dentro era un subbuglio di emozioni, ammirazione e fastidio si mescolavano a rabbia e orgoglio. Non poteva credere che fosse proprio lei, né che fosse per lei quello sguardo adorante di Chat Noir, che non poteva fare a meno di vedere riflesso in quell’immagine di Adrien che aveva in testa. Strinse i pugni. «Andiamo.» disse ancora.



Il giorno in cui Papillon fu sconfitto:

Chat Noir strinse i denti, chinò il capo, strinse tra le mani il bastone, pronto a combattere. Anche Ladybug, ora, era sull'attenti. La sentiva rigida, pronta a dare il meglio di sé nella battaglia finale, anche se ancora esitante.

«A suo figlio non piacerebbe sapere quello che sta facendo qui.» la sentì dire a suo padre.

Non sfuggì l'occhiata che l’uomo le lanciò in risposta, forse si stava domandando se lei sapesse chi fosse, forse si stava preparando a dirglielo lui, per spiazzarla e riuscire a sopraffarla. Non glielo avrebbe permesso. Rimase all’erta, mentre Gabriel Agreste si avvicinava a piccoli passi. «Allora,» disse Gabriel. Tese la mano verso di loro, il palmo aperto e sollevato in attesa che loro consegnassero il Miraculous. Nessuno dei due si mosse, allora lui fece un passo ancora e, prima che arrivasse troppo vicino, Chat Noir sollevò il bastone e gli colpì il polso, respingendolo.

Non osare, pensò.

«No!» gridò Ladybug.

Se Adrien si aspettava che suo padre avrebbe reagito con contegno e si sarebbe dimostrato indispettito dal loro comportamento e dal fatto che loro stessero facendo resistenza, si sbagliava di grosso, perché lui sollevò gli occhi al cielo quasi rassegnato e sospirò. Fu il gesto più plateale che Adrien gli avesse mai visto fare, mezzo momento prima che lui si sfilasse il fazzoletto al collo. Allora notò la spilla che vi era celata sotto, e fu certo che era stata nascosta lì da sempre. Era il Miraculous della farfalla, di riflesso contrasse le dita, il pensiero di allungare il braccio e afferrarlo fu forte, ma si trattenne. In quello stesso momento, suo padre sollevò una mano e si trasformò. Il lampo di luce viola che lo circondò li accecò per un istante, fu costretto a distogliere lo sguardo per non restare abbagliato e, anche dopo che la luce si fu dissipata e che suo padre aveva lasciato il posto a Papillon, Chat Noir avvertiva ancora dei piccoli bagliori che gli rendevano lo spazio attorno confuso.

«Non farlo.» supplicò. Ma la voce uscì tanto flebile che dubitò di essere riuscito a pronunciare quelle parole. Scosse il capo come per riscuotersi da quei pensieri e si voltò verso Ladybug alla ricerca di qualche indicazione. Sperò che lei potesse dirgli cosa fare, che avesse già una soluzione; il timore di non essere in grado di affrontare suo padre fu grande fu grande.

«Mia signora.» disse.

Lei lo fissò, le labbra ancora dischiuse per lo sgomento, occhi gli occhi coperti da una mano.

«Tu.» disse Papillon, che Chat Noir non riusciva più a riconoscere come il proprio padre, «Fidati di me, è per il meglio, se sapessi perché lo sto facendo anche tu mi appoggeresti.

«Che significa?» chiese Ladybug.

Chat Noir non diede il tempo a Papillon di rispondere, afferrò Ladybug per il fianco, la strinse a sé e prese le distanze. Gli sarebbe piaciuto poter mettere tra loro e suo padre una distanza infinita.

«Ragazzino testardo.» disse Papillon allora, sollevò il bastone, Chat Noir penso che l’avrebbe usato per colpirli, per un attimo dimenticò chi si nascondeva sotto la maschera, alzò un braccio a sua volta per respingere il colpo, ma quello non arrivò mai.

Vi furono, invece, uno sciame di falene che, arrivando loro alle spalle, invasero la stanza battendo le ali e sfiorandoli per raggiungere Papillon. Lo avvolsero e lo celarono alla loro vista. Pochi secondi dopo si dissipano disperdendosi nell'aria e, quando ciò accade, Papillon era sparito, tutto ciò che rimase e che Chat Noir poter vedere fu il ritratto di sua madre appeso alla parete.

Se ci fosse stato un momento adatto a defilarsi e sparire dalla faccia della terra, Adrien era convinto che sarebbe stato quello; gli sarebbe bastato poco per voltarsi uscire dalla porta e attraversare Parigi lasciandosi tutto alle spalle e tutti, ma non lo fece. Era troppo impegnato a cercare di metabolizzare e trarre conforto dalla presenza di Ladybug al suo fianco ed a voler pensare che, ancora una volta, se fosse stato con lei sarebbe andato tutto bene. Comunque fossero andate le cose Ladybug non l'avrebbe abbandonato, si ripete, nonostante avesse chiarito che non ricambiava i suoi sentimenti quanto lui sperava che facesse. Come avrebbe potuto prevedere, Ladybug si era già ripresa dallo shock, o se ancora aveva dei pensieri per la testa era particolarmente brava a nasconderli. Sperava di poter dire la stessa cosa di sé stesso.

«Andiamo,» gli disse a un soffio dall'orecchio, «sono sicura che non sia andato lontano, i suoi poteri non comprendono il teletrasporto.»

Annuì, mentre lei si sporgeva in avanti e si avvicinava al punto in cui da cui lui era scomparso si piegano entrambi sul pavimento e Ladybug premette le mani sulle mattonelle.

«Qui c'è qualcosa.» disse, «forse una botola.»

Chat Noir sospirò, ecco un'altra cosa che non sapeva di casa sua e di suo padre. Ormai poteva dire di non averlo conosciuto affatto.

Sollevò lo sguardo, incapace di sostenere quello dell'amica. Nei suoi occhi erano evidenti impazienza, ansia, anche un pizzico di accettazione.

«Ci siamo.» gli disse lei, «È il momento della Battaglia finale, dopo saremo finalmente liberi, noi e Parigi.» Poi lei gli sfiorò un braccio e aspettò che lui tornasse a guardarla.

«Tutto bene?» gli domandò, «So che è tanto da scoprire così all'improvviso, ma non potevamo sperare di meglio.

«Già, certo.» disse Chat Noir.

«Dopo, continuò Ladybug, «potremmo fare un ultimo giro di Parigi come supereroi prima di ritirarci. Non saremo più succubi di queste identità segrete.»

Avrebbe dovuto essere confortante, probabilmente lei stava dicendo ciò che avrebbe voluto che le dicessero, ma proprio lui che aveva sempre desiderato conoscere la sua identità con tutta l’anima ora aveva cambiato idea. Suo padre gli avrebbe lasciato una brutta eredità e lui non aveva modo di evitarlo. «Andiamo.» lo incoraggiò Ladybug. E la sua voce, che era sempre stata così confortante per lui, per una volta lo stava spingendo nell'unico posto da cui avrebbe voluto fuggire.

Posò una mano accanto a quella di lei sul pavimento, là dove due mattonelle non combaciavano alla perfezione. Dove Era palese che ci fosse un passaggio segreto, misero entrambi i palmi sul marmo e vi premettero sopra i polpastrelli.

Chat Noir si sarebbe aspettato che accadesse qualcosa, che vi fosse uno scatto e la botola si aprisse, invece non successe proprio nulla e loro rimasero lì, in attesa, inutilmente.

Alzati gli occhi incrociò l’immagine di sua madre, immobile in quel sorriso che gli aveva regalato ogni giorno dalla sua scomparsa, così confortante eppure così non reale. La raggiunse, non seppe neanche perché, per un momento si chiese cosa avrebbe voluto, cosa avrebbe detto nel sapere che le due persone che più amava stavano per scontrarsi. Non seppe di aver sollevato le mani finché non sfiorò il dipinto, trovando i bottoni che avrebbero attivato l’ascensore.

   
 
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