Come What May
Il primo istinto di Noriaki Kakyoin, nell’aprire gli occhi, è quello di cercare l’elsa della propria spada. Il sonno appesantisce le sue palpebre, la stanchezza le sue braccia, ma l’istinto corre più veloce del pensiero e della razionalità: si solleva seduto ed inspira, a malapena conscio delle proprie condizioni e di dove si trovi.
« Noriaki-sama, no…! »
Una mano si posa sul suo petto, un tocco caldo e gentile; Kakyoin si ferma per prendere fiato, gli occhi sgranati ed ogni muscolo teso, pronto all’azione. La stanza in cui si trova è scarsamente illuminata, unica fonte di luce una lanterna in carta alla sua destra, contro la parete; disegna ombre scure sul viso dell’anziano che non conosce, incidendo le rughe di preoccupazione nella sua espressione.
« Sdraiatevi, vi prego. », gli intima, gentilmente. Kakyoin lo ascolta: ancora una volta l’istinto, che cerca debolmente di farsi largo nella confusione dei pensieri, gli suggerisce che quella sia la cosa migliore da fare. Si adagia nuovamente sul futon, la testa che affonda nel cuscino morbido; si prende un istante per inspirare ed espirare, per comprendere.
Un istante prima, almeno così ricorda, era nel bel mezzo di una battaglia: dolorante, ferito, ma in piedi. Ricorda la sensazione dell’elsa della katana nelle sue mani sudate, la pesantezza del corpo che aveva trapassato e da cui aveva poi sfilato la lama ed il caldo del suo sangue che era scivolato sui suoi pugni chiusi. A discapito dei racconti, delle leggende e delle favole, un campo di battaglia non è un luogo di eleganza ed onore – men che meno lo è l’assalto di una taverna, l’assassinio di un gruppo di dissidenti. Non c’è niente di pulito, di onorevole o perfetto, nell’omicidio: l’avversario non ha il tempo di realizzare cosa stia per accadergli, non ha neppure il tempo di sguainare l’arma, prima di perdere la vita; ad accompagnarlo nella morte sono l’espressione paralizzata in una maschera di terrore e l’odore fetido delle budella che si liberano, un istante dopo il decesso. Ma le opinioni personali si sposano poco con il suo lavoro, e alla decisione dello Shinsegumi di assalire la taverna di Ikedaya Kakyoin ha compiuto il proprio dovere a denti stretti, abbandonando ogni morale per un bene superiore.
« I miei compagni... », sospira. Il corpo gli duole interamente, ma il dolore più intenso è all’altezza del petto: un fuoco che brucia senza sosta, più forte ad ogni respiro. Inizia a collegare i pezzi, a tracciare le linee assenti dal disegno che gli si dipana davanti, nonostante la mente brancoli ancora nel buio. L’uomo gli concede un sorriso, seppur breve.
« Stanno tutti bene. Hanno accusato ferite leggere, e non c’è stata nessuna perdita. », lo rassicura. L’espressione torna greve. « Non posso dire lo stesso di voi, mio signore. Nessuno dei vostri sfidanti è riuscito ad assestare un singolo colpo, non avete riportato ferite; tuttavia, in quanto medico, sono stato chiamato d’urgenza a seguito di un vostro mancamento sul campo di battaglia. Pare che, prima di perdere i sensi, abbiate tossito sangue. Non è mia intenzione insinuare, ma una rapida occhiata alle condizioni rende ovvio ad uno sguardo esperto che… »
« Basta così. »
La voce giunge tanto inaspettata da soffocare il respiro di Kakyoin, per un istante. È una voce familiare, ma non si aspettava di risentirla tanto presto; volta il capo e cerca nell’ombra la figura che si delinea meglio man mano che la osserva – quella di un uomo, seduto per terra. Jotaro Kujo indossa ancora l’uniforme della loro divisione, ed il suo sguardo è fisso sul pavimento avanti a sé; si volta lentamente – un’abitudine che snerva chi lo conosce e spaventa chi lo teme – e fissa il dottore con un’espressione vuota.
« Avete detto abbastanza. », prosegue. « Potete congedarvi. »
Sia per timore o per semplice rispetto di una figura tanto autoritaria, l’uomo non contesta la decisione di Jotaro, né la commenta: si alza in piedi e, raccattati da terra i suoi strumenti in un’ampia borsa di pelle nera, lascia la stanza con un inchino. La porta scorrevole si richiude con un lieve tonfo; dopodiché non un singolo suono disturba la tensione calata sulla stanza. Kakyoin si rende conto di star sorridendo: è la sua risposta preferita all’indole cupa di Jotaro, e ormai è qualcosa che gli viene istintivo fare. Lo osserva sollevarsi in piedi, alto quanto la maggior parte dei giapponesi di sangue puro non potranno mai essere, e sedersi di nuovo, più vicino a lui. Non tenta neppure di distruggere il silenzio, per il momento: lo lascia estrarre una pipa da una tasca cucita all’interno dell’haori, che accende con gesti oculati ed attenti. Il fumo si solleva alto sopra le loro teste ed occasionalmente, sotto forma di soffi gentili, scivola tra le labbra di Jotaro.
« So cosa stai pensando. », mormora, finalmente. Solleva un braccio, che ha tenuto sdraiato lungo il fianco fino a quel momento, e con un dito indica il volto di Jotaro. « Posso leggerti nella mente, sai? »
Jotaro non gli risponde. Aspira una boccata di fumo, non accenna una reazione né lascia trasparire una qualsiasi emozione. Kakyoin, abituato ai suoi ritmi e ai suoi silenzi, procede da sé.
« Ho acquisito questo potere senza che tu te ne accorgessi, Jotaro-san. », rivela. « Ora stai pensando che sei arrabbiato con me, addirittura furioso, perché ti ho tenuto segreto qualcosa. Stai pensando: perché Kakyoin ha tossito sangue, se nessuno è mai riuscito neppure a sfiorarlo? Non può trattarsi di emorragia interna: per quello c’è bisogno che qualcuno ti colpisca, e… »
« Ti sbagli. », Jotaro lo interrompe. « Non sono arrabbiato. »
« Ah, no? », il sorriso di Kakyoin si fa appena un po’ ampio. « Come ti senti, allora? »
Ancora una volta, la domanda di Kakyoin non trova alcuna risposta. Jotaro lo fissa, occhi azzurri sotto folte ciglia nere; è figlio di una donna straniera ed il suo sangue misto, da molti visto come una maledizione o motivo di disgusto, lo ha sempre affascinato. Jotaro non gli ha mai parlato di sua madre, né di suo padre: non una parola in nove anni, da quando è stato chiamato a servire per lo shogun nel Roshigumi, da quando Kakyoin lo ha conosciuto. Naturalmente taciturno, lascia che sia la sua abilità con la spada a parlare per lui – distogliendo l’attenzione dalle proprie origini, facendo sì che l’unico criterio per cui gli altri possano giudicarlo dipenda dalle sue azioni, e non da qualcosa su cui non ha il minimo controllo.
« Da quanto tempo lo sai? »
Kakyoin chiude gli occhi, sconfitto. Li riapre verso il soffitto, incapace di guardare Jotaro in volto, almeno per un po’. « Due anni. », rivela; è più semplice, così: non guardandolo negli occhi può convincersi che non vi sarà alcun cambiamento nella sua espressione, non troverà né compassione né dolore nel suo sguardo. « L’ho scoperto due anni fa. »
Il silenzio è tale che Kakyoin sente il tabacco bruciare.
« E ha un nome, questa… »
« Tubercolosi. », risponde. Anticipare la parola “malattia” ha un effetto catartico, quasi quanto poter pronunciare il nome della sua condizione ad alta voce. Si volta a guardare Jotaro, per comprendere quanta familiarità abbia con quel termine, o se debba spiegargli di cosa si tratta: lui fissa un punto nel pavimento, ancora una volta – distante, eppure terribilmente presente. Le parole che vengono dopo Kakyoin le vomita in un delirante, liberatorio sfogo: « È lenta, e nelle mie attuali condizioni è mortale. Mi sta divorando da dentro, uccidendo i miei polmoni e la mia forza: tra non molto non potrò neppure sperare di morire in una maniera più dignitosa. Sarò troppo debole per sollevare la mia spada. »
La gola gli si chiude, l’emozione troppo forte per continuare a parlare. Inspira profondamente, furioso nel poter eseguire un gesto simile con tanta facilità, spaventato alla prospettiva di non poter fare lo stesso, in futuro. Ora ricorda chiaramente di essersi inginocchiato, di aver preso a tossire; ricorda il sangue sul palmo della propria mano – non estraneo, non nemico, ma suo.
« Ancora non sei arrabbiato con me? », domanda. Jotaro chiude gli occhi; posa la mano che stringe la pipa sul ginocchio. Dalla posizione in cui si trova Kakyoin, il filo di fumo separa a metà il suo volto severo.
« Non ti avrei concesso di combattere se me lo avessi detto prima. », mormora, in un filo di voce.
« Lo so. », replica Kakyoin. « Per questa ragione, io… »
« L’unica ragione che ho di essere arrabbiato con te è la totale indifferenza che dimostri nei confronti di uno dei doni più preziosi che possiedi. », lo interrompe. Kakyoin lo fissa, sinceramente sorpreso: raramente lo ha sentito parlare in quella maniera concitata, raramente ha avvertito il nervoso nella sua voce. Gli sorride, sollevandosi seduto a fatica, allungando una mano per posarla sulla sua gamba.
« Ho sempre ritenuto che la mia vita fosse molto meno preziosa della mia abilità. », gli risponde. « Combatterò finché il mio corpo mi consentirà di farlo, Jotaro-san. Ti chiedo di lasciarmi almeno questo. »
Lo sguardo di Jotaro lo trafigge come una lama. Sente la sua mano scivolare su quella che ha posato sulla sua gamba – gliela stringe dolcemente, con una delicatezza che chiunque riterrebbe impossibile, da parte sua. « Forse non è preziosa per te... », sussurra; non termina la frase, ma le implicazioni di quell’affermazione aleggiano tra loro, inconsistenti e sottili come il fumo che si solleva dalla pipa. Kakyoin lo guarda a bocca aperta, per la prima volta confuso dalla sua immobilità, dai suoi silenzi. Lo ricorda improvvisamente, un ragazzino spaesato, forte e determinato abbastanza da essere messo a capo di uomini più anziani ed esperti; ricorda notti passate ad esercitarsi con lui, le numerose occasioni in cui l’alba aveva sorpreso i loro corpi affaticati e le loro espressioni soddisfatte, le spade in legno rovinate dai colpi subiti. Fin da subito lo aveva considerato il suo maestro, lo aveva seguito con piacere; tra i pochi suoi coetanei, nelle fila del Roshigumi, non aveva mai osato sperare in qualcosa di più del rapporto che normalmente si crea tra un generale ed uno dei suoi sottoposti.
Ma Jotaro non si era limitato a quel genere di trattamento. Nella sua maniera schiva, senza mai tradire il proprio carattere naturale, gli aveva sempre dimostrato rispetto ed affetto. Ogni correzione ed ogni notte passata assieme avevano formato Kakyoin come persona e come soldato – e nonostante i sorrisi fugaci, nonostante la furia con cui Jotaro correva ad aiutarlo se lo riteneva in difficoltà sul campo di battaglia, non aveva mai osato credere – non si era mai considerato prezioso.
Scivola, ora, di nuovo verso il basso; non in direzione del futon, ma verso il corpo di Jotaro – si lascia cadere, debole e provato nell’anima tanto quanto nel corpo. La mano sinistra si aggrappa ad un lembo dell’haori e la stringe. Il corpo di Jotaro è caldo ed accogliente, rivela dettagli della sua anima che rimarrebbero altrimenti nascosti – ed è in quella culla calda, in quel silenzioso conforto, che Kakyoin si concede di piangere per la prima volta in due anni. Le lacrime scivolano sul suo volto e bagnano la spalla di Jotaro, le sue dita lo afferrano e cercano con pacata prepotenza, esprimono l’ossimoro di desiderio e timore. Si sente felicemente privato della dignità di cui tanto gli piace blaterare, estasiato nel sentire la mano di Jotaro che si posa sulla sua schiena ed al contempo terrorizzato a quella che all’improvviso è divenuta, da dubbio, certezza: morirà presto, e morendo non perderà solamente sé stesso ed il proprio futuro – perderà Jotaro.
« Non voglio… », annaspa. La voce è soffocata dalla vicinanza con il corpo di Jotaro, il suo fiato scalda il tessuto e la sua pelle. La mano di Jotaro, una presenza quasi ornamentale fino a un istante prima, diventa pesante – lo preme a sé, stringendolo in una morsa che rivela più di quanto le parole potrebbero mai fare, almeno tra loro.
Tanta felicità lo paralizza. Comprende ora di non essersi mai concesso niente di quanto sta vivendo in quell’istante per paura, più che per semplice modestia. « Più si ha, più si rischia di perdere. », sussurra. Le dita di Jotaro affondano nei suoi capelli.
« Non ti impedirò di combattere. », gli mormora. La sua guancia è calda contro la sua, la pelle tenera e liscia. « Ma in cambio ti chiedo una cosa soltanto. »
Si solleva dalla sua spalla, perché il bisogno di guardarlo in faccia – di assicurarsi che l’uomo che lo sta abbracciando sia veramente lui, il timido amore di un’intera vita. Anche Jotaro lo sta guardando; occhi e mani corrono a raccogliere le sue dita, che prontamente bacia.
« Permettimi di starti accanto. », lo prega. « Finché mi sarà concesso di farlo. »
E Kakyoin ride. La risata gli nasce da un punto profondo sepolto nel suo cuore, nasce dal bambino dentro di sé, a cui si rifiuta di dire addio; un soffio di felicità, nel pianto. « Ti prego... », gli risponde. Chiude gli occhi un istante prima che le labbra di Jotaro si posino sul suo viso, a interrompere il corso delle lacrime, a scongiurare il suo dolore. Kakyoin lo stringe a sé, il sorriso ben fermo sul viso; si sente più che mai in colpa. Mai prima di allora ad un peccatore è stato concesso di provare tanta gioia.
Questa storia è stata
scritta su commissione. I più
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AL POST (Aggiornato 8/07/20). Ricordo che potete anche contattarmi su EFP!
Vi ringrazio per l’attenzione, alla prossima!
-Joice