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Autore: AdelaideMiacara    29/03/2020    0 recensioni
Questa storia è la dimostrazione che non sempre tutto va secondo i nostri piani, nonostante la precisione a regola d'arte, l'organizzazione, c'è sempre un 1% di probabilità che tutto vada in fumo, è la dimostrazione che giocare con il fuoco ci fa scottare. Ma questa storia è anche rivincita, crescita personale attraverso la comprensione delle sfumature: quando non sappiamo come cambiare una situazione, ciò che ci può aiutare è cambiare punto di vista.
Il nero costituisce l'assenza dei colori e definisce il punto di partenza della nostra storia, al momento inesistente, che prenderà forma durante la lettura con la nascita dei colori, per terminare con il bianco: l'unione di tutti.
Non ci resta che affrontare questo viaggio. E si prega di allacciare le cinture.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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Odio il martedì. Non quanto il lunedì, sia chiaro, ma in genere qualsiasi giorno infrasettimanale che non sia il venerdì mi provoca il disgusto. Principalmente per la fatica di svegliarmi sempre alle 7, sempre nella stessa casa rumorosa e piena di gente che al mattino non sa starsi un po’ zitta.
Trascino le mie gambe pesanti per il corridoio principale dell’edificio con gli occhi socchiusi a causa del bruciore che provocano le luci bianche dei faretti sul tetto. Miracolosamente, ieri io e Chiara siamo riuscite a portarci avanti con tutto il materiale per il progetto che inizierà venerdì, al costo però di perdere le nostre usuali ore di sonno fondamentali e riducendoci come due zombie deambulanti. Camminando lentamente e a testa bassa, mi imbatto in una matricola che si scontra senza pietà e rimbalza quasi perdendo l’equilibrio.
«Ragazzino, sta’ attento a dove metti i piedi!» gli sbraito contro, aggiustandomi la maglietta. «Sono diventata una calamita per caso?»
Il ragazzo spalanca gli occhi e, trattenendo le risate davanti al mio nervosismo, indietreggia leggermente e dice: «S-Stasera alla Nona del campus ci sarà un p-party, tutti gli studenti del college sono invitati. È una festa a tema “hippie”, divertiti!» recita quasi urlando, prima di scappare via lanciando qualche volantino per aria. Quello che mi stupisce, oltre allo strano terrore nei suoi occhi alla mia vista, è questa frenesia che specialmente i giovani hanno al mattino. Sono appena le 9 e hanno già tutta questa energia? Si vede che il tempo passa in fretta, chissà forse ero così anche io al primo anno. Afferro uno dei volantini gialli da terra e lo leggo in mente.

 
“Questa sera, dalle 9.30 fino al coprifuoco la Nona del campus ospiterà il primo party del semestre e totalmente a tema hippie! Tutti gli studenti sono invitati, a patto che rispettiate il dress code. J.W.”

Cerco di passare in rassegna l’intero corpo studentesco per individuare i ragazzi della Nona che in questo momento mi sfuggono, ma oltre i due famosi scoppiati e un amico di mio fratello nessuno risponde alle iniziali di J. W. Sarà un nome d’arte? Probabile, ma in questo momento non è la mia preoccupazione maggiore. Ritrovatami davanti la porta dell’aula che ospita la lezione di matematica il dilemma è questo: seguire o non seguire? Forza Sam, ti sei svegliata alle 7, ce la puoi fare. Ma proprio quando sto per appoggiare la mano sulla maniglia della porta mi ricordo che non sono ancora riuscita a stendere nemmeno un terzo dell’articolo da consegnare entro venerdì sul progetto The ArtCity. Se da un lato mi sembra un’ottima scusa per allontanare la mano dalla maniglia che apre la porta della sonnolenza, allo stesso tempo non posso negare di sentire in fondo al mio cuore un minimo di senso di colpa per tutte le lezioni che sto saltando in questo periodo. Ma nella mia scala gerarchica, il gruppo di giornalismo resterà sempre più in alto rispetto alla matematica.
Quando arrivo al terzo piano dell’edificio centrale del college, i corridoi sono semideserti, se non per qualche inserviente che fa avanti e indietro dallo stanzino delle scope alla macchinetta del caffè, e viceversa. La stessa desolazione la trovo nell’aula dedicata al giornale e dove io e il mio gruppo ci ritroviamo abitualmente almeno tre volte a settimana per revisionare i rispettivi articoli. Non posso assolutamente lamentarmi sui miei colleghi: oltre ad essere tutti simpatici e talentuosi, la maggior parte di loro sono anche capaci di seguire tutte le lezioni e restare al passo con le materie, in modo da mantenere una buona reputazione del gruppo intero agli occhi di tutti. Mi siedo alla mia solita scrivania dove mi attende il vecchio grosso computer fisso che ancora non si sono decisi a cambiare dopo anni di lamentele al personale delle segreterie. Come da routine, e ringraziando il cielo, controllo le mie mail e mi accorgo di averne ricevuta una nuova dalla professoressa Greater ieri sera, cioè la coordinatrice del corso di Giornalismo in generale che supervisiona costantemente il nostro gruppo e la maggior parte dei progetti dell’università.

Gentili studenti partecipanti al progetto The ArtCity, ho il piacere di comunicarvi che stiamo rinforzando la nostra cavalleria. Oltre al gruppo già prestabilito, si aggiungerà un altro gruppo di studenti alla manifestazione, data la crescente richiesta di guide turistiche presso i siti assegnati alla Goldsmiths. È un’ottima occasione non solo per socializzare, ma anche per alimentare un pizzico di sana competizione. Buon lavoro.”

Leggendo queste parole sento un piccolo principio di mal di testa insinuarsi nella mia tempia sinistra, mentre roteo gli occhi in un profondo respiro. Il proseguire delle giornate, come si può notare, non fa altro che minacciare la mia capacità di intendere e di volere: aggiungere un altro gruppo di ragazzi a questo punto significa soltanto diminuire per tutti le possibilità di vincere la borsa di studio! Mentre i primi due anni li ho trascorsi lamentandomi e protestando con i professori, la vecchiaia mi ha resa meno combattiva, ma di sicuro non meno lamentosa. Stringendo i denti, scorro tra le cartelle del computer in cerca della mia personale dove si trova la prima bozza dell’articolo. Nel frattempo apro gli articoli che finora mi sono stati consegnati dai ragazzi del gruppo per revisionarli. Come dice la Greater, un lavoro senza revisione non è un buon lavoro, per cui meglio rimboccarsi le maniche e, armata di pazienza, inizio a leggere i vari documenti.
Quando finisco di leggere – e correggere – l’ultimo articolo sul progetto sento gli occhi che stanno per cadere dalle orbite per quanto bruciano. Mi allontano dalla scrivania con una spinta sulla mia sedia girevole con le rotelline, la migliore della stanza, stiracchiando ogni muscolo possibile da questa posizione. Con gli occhi ancora semichiusi controllo l’orario sul display del cellulare: le 11 in punto. Ho trascorso le ultime due ore a fare revisioni, il ché mi fa sentire meno in colpa dato che il mio articolo è ancora a mare. Decido di abbandonare momentaneamente la scialuppa, chiudendo dietro di me la porta a chiave con un mezzo sospiro di sollievo. A quest’ora il gruppo di Chiara dovrebbe essere in teatro per le prove del loro spettacolo, decido di andare a trovarla. Dopo aver sceso le scale, mi incammino verso l’ala est della scuola a grandi passi, diretta verso l’auditorium. Una volta arrivata alla fine del corridoio davanti a me si presenta l’uscita di emergenza, solitamente vietata in situazioni di normalità, ma che ormai da tempo costituisce il mio passaggio segreto per arrivare più in fretta sia al teatro ché alla palestra. Bisogna ingegnarsi anche quando si è pigri. Una volta uscita fuori dall’edificio, percorro la passerella di mattoni coperta da una tettoia in vetro fino ad arrivare all’uscita di emergenza dell’auditorium, che apro lentamente, e che mi fa sbucare esattamente in fondo alla sala nella navata di sinistra. In punta di piedi, cercando di non farmi notare, mi siedo in una delle poltrone rosse dell’ultima fila, mentre cerco di capire cosa stanno facendo sul palco. Chiara sta cercando di sistemare correttamente gli attori, ognuno alle proprie postazioni, le mani tra i capelli.
«Tu! Ho detto schema a “W”! Sai che è da settembre che ci lavoriamo, eh? Che lavoro sprecato!» impreca dietro un ragazzo che ha sbagliato la sua postazione. A questo punto non riesco a trattenere le risate, cosa che coinvolge anche la maggior parte dei ragazzi sul palco e alla fine riesce ad ammorbidire anche Chiara.
«Tu che ci fai qui?» inizia quest’ultima, alzandosi da dietro la sua scrivania bianca sotto il palco.
«Quello che faccio tutti i giorni,» replico sorridendo e alzando le braccia « niente!». Mi alzo per andarle incontro, mentre i ragazzi alle sue spalle si dileguano strappando una pausa non autorizzata dal Comandante.
«Dovresti essere con il tuo gruppo a preparare l’articolo, lo sai.» rincalza lei, con la sua solita faccia da rimprovero. È sempre stata quella più diligente.
«Dovrei, sì.» le rispondo, sedendomi sopra la sua scrivania bianca. «e tu dovresti dire ai tuoi attori che forse li ucciderai prima delle prove generali.». A questa mia ultima affermazione entrambe ridiamo, almeno per un attimo sono riuscita ad allentare la pressione di questo spettacolo. Ho già detto che cosa andrà in scena? Dalle prime settimane di settembre già Chiara aveva tutto in mente: riprodurre in versione teatrale n’opera letteraria di Giovanni Verga, cioè Rosso Malpelo. Non ho ben capito perché giusto questa, ma le novità non fanno mai male, e finché è contenta lei siamo tutti fuori pericolo.
«Comunque, my dear, non sono venuta a disturbarti per nulla. Stasera alla Nona c’è una festa, ci andiamo?» le propongo istintivamente, tirando fuori dalla borsa il volantino che ho raccolto stamattina presto da terra. Lei prende il foglio dalle mie mani, scrutandomi con aria divertita, per poi scrutare ciò che c’è scritto.
«A dire la verità, per stasera avevo in programma una serata depressa alla confraternita della dodici con Amie…» ammette, senza nascondere il ghigno che le sta nascendo sulle labbra. Amie è la sua coinquilina che studia Storia dell’Arte, abitano nella Settima insieme ad altri due ragazzi che fanno parte del mio gruppo di giornalismo.
«Bene, allora dì a Amie che se vuole stasera noi andiamo a una festa.» le annuncio sorridente, strappando il volantino giallo dalle sue mani, ormai ridotto malissimo. «e se non vuole, peggio per lei. Ci vediamo più tardi, dear.» concludo, con un bel bacio sulla guancia e mi avvio verso l’uscita del teatro. Tra progetti, lezioni, esami ultimamente non abbiamo avuto nemmeno il tempo di respirare: una festa è quello che fa al caso nostro. Che sia per festeggiare la riuscita del progetto o il suo fallimento, l’importante  è festeggiare.

Ore 10 p.m.

«Giuro che sono pronta!» urlo dalla mia camera al piano di sopra. Da un quarto d’ora circa mio fratello e quegli altri imbecilli non fanno altro che pressarmi, ma non hanno capito che sui volantini l’orario è sempre indicativo? E poi, è sempre meglio arrivare quando c’è già gente per farsi notare meglio. Se non fosse per questi stupidi vestiti da figlia dei fiori…
«Sam, non rompere le palle! Siamo in ritardo già di mezz’ora!» urla in risposta Cooper dal piano di sotto. Vorrei ricordare al caro Cooper che se non fosse per me che ho convinto Harry e Lucas, di sicuro non avrei portato con me solo lui che era l’unico entusiasta di questa festa.
Mentre scendo le scale, ogni gradino mi sento sempre più ridicola avvolta da questi vestiti colorati e scoordinati tra loro, per non parlare della coroncina di fiori sulla testa… e chi avrebbe mai detto di vedermi con una collana col simbolo della pace! Io, proprio io, la pace! Ma ad attendermi alla fine delle scale c’è Lucas, che con il suo fischio che accompagna puntualmente ogni mio qualsiasi cambio d’abito, mi prende per la mano e mi fa girare per guardarmi bene.
«Ok, ok, va bene così.» interrompe Harry, fingendo di essere geloso e intromettendosi tra me e Lucas. «Possiamo andare adesso? Chiara ci raggiunge alla Nona.»
Durante tutto il percorso per arrivare da casa nostra alla Nona – meno di cinque minuti – non facciamo altro che lanciarci battutine sui nostri outfit, rimpiangendo di essere usciti, talvolta minacciando di tornare a casa a guardare una serie tv. Vedo persone sparse per i viali con la nostra stessa direzione e vestite anche peggio di noi! Menomale che c’è sempre qualcuno da prendere in giro in questo campus, altrimenti mi annoierei sempre. Una volta arrivati davanti veniamo colti dal solito senso di insicurezza mista al senso di vergogna per essere usciti dalla nostra comfort zone e alla pigrizia, e lì troviamo Chiara ad aspettarci.
«Io propongo di tornare a casa. Siamo ancora in tempo!» dico loro ridendo, ma parlando piuttosto seriamente, tra i consensi generali tranne quello di mio fratello che mi fulmina con lo sguardo.
«Allora, ascoltatemi bene…» inizia, passandosi una mano tra i suoi capelli morbidi nervosamente. Si vede proprio che siamo fratelli. « mi avete fatto vestire come uno scoppiato, con queste infradito scomodissime e mi avete fatto camminare da casa mia fino a qua, quando non volevo nemmeno venire! Adesso noi entriamo subito, anzi entrate prima voi!» conclude, soddisfatto del suo discorso, per poi spingermi violentemente dentro la Nona. Dietro di me, uno dietro l’altro, mi segue la carovana dentro uno scenario ormai consueto all’interno del campus: musica a tutto volume, la casa semidistrutta, alcol e gente buttata ovunque. Niente male per essere solo le 10:15. Decido di prendere la situazione in mano: con Chiara piantiamo in asso i ragazzi davanti l’ingresso, sperando che se la cavino da soli, e ci avventuriamo per la casa in cerca del laboratorio di alcol, la cucina. In tutte le stanze la luce è soffusa e i padroni di casa hanno deciso di esagerare con l’incenso, che Chiara prontamente ha chiamato “Vincenzo” davanti a persone sconosciute provocando le loro risate. E, quasi dimenticavo, con il buio pesto tutti gli invitati indossano gli occhiali tondi come quelli di John Lennon. Che originalità! In cucina lo scenario apocalittico è, da regolamento, sempre più accentuato rispetto alle altre stanze: gente che si bacia e si palpa qua e là, gente che beve come se non ci fosse un domani, e le due vecchiette del paese che guardano i giovani dalla persiana e li giudicano – io e Chiara.
Una volta riuscite a prendere le nostre birre senza versarcele addosso rispettivamente, torniamo nel cuore della festa: il salone. Qui tutto sembra più pacato, ma in realtà è un effetto delle luci viola soffuse, perché le persone continuano a far baldoria vicino la consolle del dj. Noto con piacere che l’impianto della Nona è migliore rispetto ad altre case che hanno tenuto feste in questo primo semestre; se durante i primi tempi non ci perdevamo nemmeno un evento del campus, adesso per fortuna siamo diventati un po’ più selettivi. Meglio una festa fatta bene ché due disastrose, no? Ci facciamo strada in mezzo alla pista verso le casse, quando incrocio lo sguardo di Harry. Dimenticavo: nei party come questo, solitamente, la regola è fare finta di non conoscersi per evitare di farci fare brutte figure a vicenda. E infatti, come da protocollo, giro lo sguardo ma questa volta mio fratello mi afferra per un braccio e mi trascina verso la consolle, dove ci sono anche Cooper e Lucas con Nick, un altro loro amico che abita proprio qui.
«Che cosa vuoi?» gli chiedo, cercando di liberarmi. «Pronto?! Noi non ci conosciamo!» continuo, cercando approvazione da parte di Chiara, anche lei confusa quanto me ma abbastanza divertita.
«Ora taci» mi intima mio fratello a denti stretti, poi rivolgendosi al ragazzo che fa il dj: «Lei è mia sorella Sam, e lei la nostra amica Chiara». Guarda un po’ come cambiano le carte in tavola! Da sconosciuti a fratelli è un attimo, solo mi domando da quando in qua Harry cerca il mio supporto per fare amicizia.
«Ciao» rispondo seccata, rivolta verso il ragazzo nella penombra che nemmeno riesco a guardare bene in viso. Lancio un’occhiata divertita a Chiara, anche lei come me è stranita dal comportamento dei ragazzi che stasera non hanno paura di fare brutta figura a causa nostra.
«Ma io ti conosco!» risponde il dj, sempre dalla sua penombra, quando sto per girare i tacchi. Ne approfitto per avvicinarmi e scorgere meglio i tratti del ragazzo: capelli neri rasati, occhi scuri, mai visto prima.
«Io no. Ora se permettete…» replico scrollando le spalle, ma questo tizio mi ferma ridendo. Oggi tutti hanno voglia di bloccarmi in qualche modo, ma perché? Lo volete capire che non mi piace il contatto fisico? Ognuno alla debita distanza, grazie, e nessuno si farà male.
«Sono il ragazzo delle fotocopie! Ricordi?» continua, sempre ridendo. Cerco di collegare nella mente le parole “ragazzo” e “fotocopie” con qualche immagine nella mia memoria danneggiata, ma…
«Ma certo! Sei lo stronzo che mi ha pestato il piede!» rispondo, improvvisamente colta da un lampo di genio, con tutta l’acidità che mi contraddistingue. Mentre il ragazzo inizialmente sconvolto scoppia a ridere, mio fratello furioso mi porta via, rimproverandomi per il mio comportamento. Mi dispiace, fratello, ma prima o poi avrei dovuto dirgliene quattro.
 
La serata prosegue abbastanza bene, contro le mie previsioni scettiche. Per la prima volta dopo tanto tempo siamo riusciti a stare tutti insieme e a divertirci, mettendo momentaneamente da parte i pensieri delle ultime settimane. Così che, mossa da un’improvvisa gentilezza, decido di accontentare Harry e andarmi a scusare con il ragazzo della consolle. Lo raggiungo, accerchiato da gruppo di ragazze che gli fanno gli occhi dolci, e quando richiamo la sua attenzione lui le manda via gentilmente.
«Senti, ti volevo chiedere scusa per quello che ti ho detto…» inizio imbarazzata, e mi giro verso Harry e i ragazzi alle mie spalle. Ho dimenticato il discorso, lo sapevo! «E poi?» sussurro verso di loro, mentre vedo Lucas rosso per le risate, Harry per la rabbia.
«Tranquilla, me lo sono meritato.» risponde lui sorridendo, mentre inizia a mettere via la sua strumentazione.
«Come ti chiami?» gli chiedo incuriosita. Nel frattempo Chiara mi ha raggiunta, è pronta a dirmi di andare a casa.
«Jay.» risponde il dj, con un sorrisetto malizioso mentre si passa una mano sopra i capelli. La mia unica risposta è una bella scrollata di spalle: sono già troppo stanca pure per essere cattiva. Alzo i tacchi e insieme ai miei amici torno verso casa.
 
   
 
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