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Autore: Ruta    07/04/2020    2 recensioni
“Sei così giovane,” mormora contro la sua pelle.
Bellamy le scosta i capelli dal viso. Sono lunghi e scarmigliati come li portava allora, una massa di trecce biondo sporco. Sembra che tra le sue ciocche sia nascosta un’intera polveriera o la sponda fangosa di un torrente. Quando avvicina la fronte alla sua, lei percepisce il suo respiro contro il naso. “Anche tu.”
“Non mi sento più giovane da tanto tempo.” È facile ammetterlo con questo aspetto, quando non era ancora diventata Wanheda, quando non aveva ancora scritto una lista di sopravvissuti condannando il resto a morte certa. Prima del Praimfaya, prima di Madi, prima di dieci anni di solitudine con una spada al posto del cuore.
(Clarke si sveglia cinquant'anni prima di chiunque altro dal sonno criogenico e impiega dieci anni per trovare una soluzione. Sesta stagione Canon Divergence. Spoiler-free.)
Genere: Angst, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Bellamy Blake, Clarke Griffin, Madi
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO II

 

 

Guilt is cancer. Guilt will confine you, torture you, destroy you. It's a black wall. It's a thief.
- Dave Grohl

 

 

Non importa quante volte riguardi gli ultimi messaggi di Clarke, ogni volta è dolorosa come se fosse la prima.
Mi manchi ogni ora di ogni giorno. Aspettami nel futuro. 
Anche dopo che spegne la registrazione e lo schermo diventa nero, Jordan rimane accostato a Madi, abbastanza lontano da concederle lo spazio che le occorre, abbastanza vicino da farle capire che è lì per lei se ne avesse bisogno.
Bellamy li osserva, riconoscendo facilmente il legame che si sta instaurando tra i due. È qualcosa che lui avrebbe fatto con Octavia. Memoria muscolare. Come un istinto di protezione impossibile da sopprimere o mettere a tacere.
Ad esclusione di Abby, rinchiusa in infermeria a cercare una cura per Kane, del resto del gruppo hanno voluto essere presenti solo Raven e Murphy e lo sono, anche se dislocati strategicamente in vari punti della stanza. Raven è vicina alla finestra e dà loro le spalle. Murphy è seduto al tavolo. Esattamente come la prima volta, nessuno proferisce parola. Non che si fosse aspettato reazioni differenti. È trascorsa una settimana dal loro risveglio e lui e Abby hanno discusso a lungo prima di decidere se svegliare Madi. Di opinione contraria a quella della madre di Clarke che avrebbe preferito aspettare ancora, gli era sembrata la cosa giusta da fare. Ora, osservando le spalle accasciate della ragazzina, si chiede se non sia stato crudele da parte sua, se non abbia commesso un errore.
"Madi," dice. Poggia una mano sulla sua spalla. Lei fa una smorfia e lui cerca di non prenderla sul personale. Ha appena perso sua madre, o almeno è ciò che pensa. La sua assenza è la realtà con cui potrebbe dover convivere per altri cinque anni. È una reazione normale. Le passerà. "So che è difficile. Non devi sforzarti. È normale che tu sia arrabbiata con lei."
Lei scaccia la sua mano. Questa volta è impossibile non sentirsi ferito. È un gesto deliberato, voluto.
"Con lei?" ripete. La sua faccia è corrucciata. Il dispiacere che divampa nei suoi occhi è mischiato indissolubilmente a una rabbia che sembra esagerata per una persona così giovane. Sa che l'età non significa nulla. Lui ricorda un'altra ragazzina infelice e furente con il mondo, vittima delle circostanze e di un sistema inflessibile. "Credi che sia questo il problema? Io non sono arrabbiata con Clarke."
Bellamy spera che il suo viso non tradisca la confusione che sta provando. "Ti ha lasciato."
"Ha lasciato anche te," lei commenta con amarezza. "Sei ancora arrabbiato?"
Non sa cosa rispondere. La verità è che vorrebbe essere arrabbiato con lei per aver gettato la spugna e per averlo lasciato, ma non riesce a farlo, non davvero. È arrabbiato perché non è lo è e perché vorrebbe esserlo. La rabbia che prova è rivolta principalmente contro sé stesso, non contro Clarke.
"Vedi?" Madi scuote la testa come se gli avesse letto nel pensiero. "Sei come me. La ami troppo per odiarla davvero."
Lo guarda con occhi lungimiranti e troppo vecchi. Sono gli occhi di chi ha vissuto cento vite e combattuto mille battaglie, versato il sangue dei suoi nemici e sotterrato famiglie e alleati, visto devastazione e morte. Sono gli occhi di Clarke dopo Mount Weather. L’orrore di quella scoperta gli toglie il respiro.
"Se non sei arrabbiata con lei, allora-"
"Non capisci ancora? Sono furiosa con te, con tutti voi. Ti ho detto delle chiamate radio. Gliene hai parlato?"
"Aspettavo il momento giusto." Odia il modo in cui appaia sulla difensiva, ma odia ancora di più la delusione con cui Madi lo sta guardando.
"Ti ha aspettato per sei anni," lei dice, inaspettatamente dura nella sua brutale schiettezza. Volge la testa verso gli altri e, se possibile, il suo viso sembra incupirsi ancora di più. "Ha aspettato tutti voi per sei anni. Sei anni, riuscite a immaginarlo?" Nell’impeto del movimento i suoi capelli tracciano un arco minaccioso nell'aria, trecce spesse come spire di serpenti. Assomiglia a una delle Erinni, spietata e sanguinaria, pronta a vendicare il delitto contro la sua famiglia. "Poi ne ha trascorsi altri dieci da sola."
"Avrebbe potuto svegliare chiunque di noi," fa notare Raven, fronteggiando il suo sguardo senza la minima esitazione o vergogna.  
Madi si irrigidisce e la sua espressione tradisce un lampo di sorpresa. Memore di quello che Jordan gli ha mostrato, Bellamy ripensa alle telecamere di sicurezza e sta per intervenire. Madi lo anticipa. "Ha scelto di non farlo," dichiara e la sicurezza nella sua voce brilla come un faro. La fiducia che ripone in Clarke è accecante, indistruttibile. Gli ricorda quella che un tempo è stata anche la sua. "Sapete perché? Ha portato il peso da sola perché non dovesse farlo nessun altro di voi, ancora una volta. Quando eravamo solo noi due, Clarke mi raccontava storie su di voi. A volte erano storie divertenti, a volte storie che la facevano piangere. Parlava di voi tutto il tempo, di cosa eravate disposti a fare pur di proteggervi l'un l'altro. Eravate sempre voi gli eroi, ma non lo siete." Se uno sguardo potesse tramutare in pietra- lui chiude gli occhi, sconfitto già prima che lei sferri il colpo di grazia. "Mia madre lo è."
Il silenzio è fragoroso, indigesto, e sembra che la realtà possa collassare da un momento all’altro sotto il peso dell’acredine che si respira nell’aria come una cosa viva, multiforme, rancida. Jordan alterna momenti in cui è a testa china con altri in cui i suoi occhi hanno un’espressione smarrita e frastornata.
Madi ha le labbra così pressate tra loro che la sua bocca assomiglia a una cicatrice sottile, le sue guance sono pallide.   
"Ciascuno di noi ha fatto cose sbagliate per i motivi giusti o cose che rimpiangiamo," lui cerca di placarla, poggiandole una mano sul gomito. Lei fissa intensamente la sua mano e poi il suo volto prima di scuotere la testa, nella negazione di quello che lui ha appena detto.
"Mi ha mentito. Aveva detto che saremmo stati una famiglia," la sente dire a bassa voce, rivolta a nessuno in particolare.  
La sta perdendo. È come con Octavia tutto daccapo. La tragedia di un'altra ragazzina che smette di idealizzarlo come un eroe e riconosce la sua natura umana, imperfetta. "Lo siamo." Cerca di suonare rassicurante, persuasivo e non terrorizzato come se si trovasse sull’orlo di un precipizio. "Possiamo esserlo."
"A voi non interessa nulla di Clarke." Non sta urlando e forse è la cosa peggiore. Non è lo sfogo di una bambina, ma l'analisi accurata, convinta e disillusa di un'adulta. "Non la meritate."
"Cosa vuoi saperne? Sei soltanto una bambina," interviene Murphy. Non c’è reale mordente né cattiveria nel suo tono, ma le sue parole pungono lo stesso. Non sembra passato molto tempo da quando la stessa frase è stata rivolta a tutti loro. Con supponenza, alterigia, come un dato di fatto. Qualcosa di cui vergognarsi.
"No, non lo sono," ribatte Madi calma e tra i due è Murphy il primo a distogliere lo sguardo. Vorrebbe che Clarke fosse qui per vederla. Sarebbe fiera di lei e forse, oltre l'orgoglio, proverebbe anche una trafittura di dispiacere, di tristezza all'idea che sia cresciuta così velocemente. "Non più grazie a lui," lei continua, sollevando il mento e raddrizzando le spalle. "Sono il Comandante."
"Madi." Fa un passo verso di lei, ma non la tocca. Scaccerebbe la sua mano di nuovo? "Sai perché l'ho fatto. Hai accettato."
"Io lo so, ma lei lo sapeva?" Eccola di nuovo l'accusa, la cruna dei suoi dubbi esacerbati. "Glielo hai mai detto? No, perché aspettavi il momento giusto. È colpa vostra se non vuole svegliarsi." Poco più di un bisbiglio amaro, ma ugualmente udibile: "Vorrei che foste rimasti dov'eravate."
Quando gli dà le spalle ed esce dalla stanza, a passi rapidi e misurati, sa di averla persa. È tentato di seguirla e di prendere a pugni qualcosa. Non necessariamente in questo ordine.
"Abbiamo visto dei video diversi senza che me ne accorgessi o mi sono perso qualcosa?" domanda Murphy.
"Sta' zitto, Murphy," lui e Jordan dicono contemporaneamente.
Murphy rotea gli occhi nella sua direzione poi, rivolto a Jordan, si porta una mano al petto con fare mortalmente offeso. "Credevo di essere il tuo preferito."
Jordan reagisce come se non avesse aperto bocca. "Madi ha ragione."
"Non anche tu," grugnisce Murphy e fa ricadere la testa sulle braccia come se tutto quel discutere lo avesse sfiancato.
"Voi non riuscite a capire perché non ci siete mai passati. Non immaginate cosa significhi, non davvero. Si può morire di solitudine o si può impazzire. Clarke è riuscita a non fare nessuna delle due cose."
"Abbiamo un altro ammiratore di Clarke Griffin," ironizza Murphy.
"Qualcuno deve," ribatte Jordan con insolita fermezza.
"Questo cosa vorrebbe dire?" domanda Raven.
"Avete reso chiara l'idea." Jordan alza le mani in quello che dovrebbe essere un gesto conciliatorio. La sua espressione tradisce un sentimento diverso, simile alla delusione di Madi, ma più profondo, altrettanto maturo. "Questa è la vostra famiglia e siete disposti a tutto pur di proteggervi a vicenda eppure le rinfacciate di avervi tradito per aver fatto lo stesso. È una madre e cercava di proteggere sua figlia in una guerra in cui voi l'avevate resa un bersaglio. Le avete mai chiesto perché abbia fatto quello che ha fatto?" Il silenzio che ottiene è una risposta sufficiente. "No, ovviamente no."
Prima che anche lui esca, Bellamy cerca di fermarlo. "Dove stai andando?"
"A cercare Madi," lui risponde e si divincola facilmente dalla sua presa. "Posso capire la sua delusione. Anch'io vi preferivo quando eravate solo storie."

*

Lui e Miller hanno appena finito di organizzare i turni di guardia sul ponte. Bellamy sta per allontanarsi, ma nota l'esitazione di Miller, il modo in cui stia indugiando nel corridoio.
"C'è qualcos'altro di cui dobbiamo discutere?"
Miller incrocia il suo sguardo con difficoltà, come se odiasse quello che sta per fare, ma sentisse di non avere scelta. È più che mai simile al ragazzo che era il suo braccio destro alla Navicella, i fantasmi di quanto è successo nel bunker intrappolati con Octavia. "Dobbiamo decidere cosa fare con Clarke."
Bellamy si immobilizza e sente il sorriso impietrirsi sulle labbra. Quando, esattamente, il nome di Clarke è diventato un taboo? Gli sembra di essere tornato a sei anni prima, di rivivere l’orrore e il dolore di un incubo passato. Corsi e ricorsi storici.
Storce la bocca e annuisce bruscamente. "Avvisa gli altri. Ci riuniamo tra un'ora sul ponte."

*

"Credo che le uniche persone che abbiano diritto di votare al riguardo siamo io, Madi e -"
Bellamy si intromette prima che possa finire. È di Clarke, del suo futuro che stanno discutendo. Non c’è modo che si lasci estromettere da una decisione di quel calibro. "Se pensi che vi lascerò decidere senza di me-"
Con la coda dell'occhio coglie la leggera increspatura delle labbra di Abby, come se si fosse preparata esattamente a quel genere di reazione da parte sua e lui non avesse disatteso le sue aspettative. In qualsiasi altro momento penserebbe che sia divertita esasperazione la luce nei suoi occhi, così simili a quelli di Clarke e allo stesso tempo così diversi. "E tu, Bellamy," lei conclude come se non l’avesse interrotta. Qualunque cosa fosse, la luce si è già affievolita. I suoi occhi sono di nuovo cupi, il suo viso di colpo invecchiato di dieci anni, le labbra incurvate verso il basso. "È ovvio che mia figlia tenga a te, perciò ritengo che dovremmo essere noi tre a votare e nessun altro."
La strana, piacevole soddisfazione che lo coglie per il fatto di essere appena stato implicitamente riconosciuto come membro della famiglia di Clarke scompare subito. Non è così che dovrebbe succedere.

*

L'irritazione verso Abby riaffiora dopo appena mezz'ora di discussione. Rimpiange l'assenza del gruppo, in particolar modo di Jordan. Negli ultimi giorni ha avuto modo di osservarlo interagire con gli altri, di valutare il suo potenziale. Quello che ha scoperto è promettente. Ha la mente perspicace e brillante di Monty, è empatico come lo era Harper. Gli piace rimanere nelle retrovie. Di primo acchito può apparire introverso e timido, ma è solo perché si sta ancora abituando all'idea di essere circondato da così tante persone.
“Confusa?” ripete Madi. Sta rispondendo all’implicita accusa di Abby, che ha appena commentato con quella parola lo stato mentale ed emotivo in cui Clarke verteva quando ha registrato i video per loro, motivo per il quale nella sua opinione professionale di medico deve essere preso in considerazione il fattore psicologico. Non importa ciò che Clarke vuole, ma ciò di cui ha bisogno e per Abby lei ha bisogno del supporto della sua famiglia, di rassicurazioni e ambienti familiari. Non di altro isolamento e di essere estraniata dalla realtà che la circonda più di quanto non lo sia già.
“Clarke è stata chiara,” afferma Madi lapidaria. “Non intende essere svegliata prima di cinque anni.” È evidente quanto la richiesta di Clarke l’abbia devastata, quanto la prospettiva di dover aspettare così tanto prima di riabbracciarla sia penosa per lei. Allo stesso tempo lo è anche il suo desiderio di rispettarne la volontà. È qualcosa che lui può capire: panico e tormento. Svegliarsi la notte di soprassalto, il bagno di sangue dell’ennesimo incubo ancora impresso come uno squarcio dietro le palpebre, e ricordarsi che non è persa, ma solo in stasi; permettersi di controllare con i suoi stessi occhi, andare a sedersi accanto al suo baccello, a volte in silenzio, a volte trascorrendo le ore di buio prima dell’alba a raccontarle dei sei anni che ha trascorso sull’Anello convinto che fosse morta.     
“Possono succedere molte cose in cinque anni,” replica Abby.

Non quante in dieci, pensa, ma rimane in silenzio e in disparte ad osservare quello scontro tra titani.
“Conosco mia figlia. È una combattente.”
Osserva il modo in cui i muscoli facciali di Madi si contraggono in un’espressione di frustrazione e decide che è arrivato il momento di intervenire. “Forse è meglio fermarci,” dice. “Non arriveremo mai a una conclusione così, non oggi.”
“No.” Madi scuote la testa. “Voglio che decidiamo adesso.” Lo sguardo nei suoi occhi gli rende difficile respirare per la sensazione di familiarità che rievoca e i ricordi che risveglia.   
“Non dobbiamo per forza.”
Madi distoglie lo sguardo e assottiglia le labbra. “Sì invece. Mia madre, una mia responsabilità, giusto?”

E Dio, Dio, perché deve essere tutto così dannatamente difficile? Bellamy annuisce, stringendo i pugni. “Sarebbe fiera di te.”

*

Quando Echo lo tira di lato, un paio di giorni più tardi, ogni fibra del suo corpo e frammento della sua mente sa già cosa intende dirgli. Nonostante tutto, quando lei affronta di petto l'argomento e senza giri di parole parla di come tutto sia cambiato, che non è colpa di nessuno, ma è lo stato delle cose, lui prova ugualmente un dolore sordo all’altezza del petto.
"Ti amo," dice e in una realtà che è diventata un incubo sembra uno spiraglio di conforto.
Echo incrocia il suo sguardo con fierezza e appena un velo di amarezza. "Lo so. So che mi ami, ma ami di più lei. Non mi piace, però lo capisco. Lei è stata con te sin dall'inizio."

Tu sei rimasta con me quando mi mancava la terra sotto i piedi. Letteralmente oltre che figurativamente. Vorrebbe dirlo, invece si ritrova a battere le palpebre e a dire rocamente: "Non posso scegliere."
"Non devi." Non è un'accusa, solo una constatazione. Entrambi sanno che Clarke verrà sempre al primo posto. Se anche c’è stato un momento, dopo che l’ha ritrovata, in cui lo aveva dimenticato, ora è tutto tornato alla memoria. È la realtà dei fatti ed è immutabile, incontrovertibile.
"Mi dispiace." Non sa cos'altro dire. Cosa si fa in queste circostanze? Non ha mai detto addio prima d'ora, non come scelta consapevole. Di solito la morte lo ha sempre anticipato. Non è un addio definitivo questa volta, solo un cambio di prospettiva, di priorità.
Lei annuisce, ma non sorride. "Anche a me."

*

Da quanto va avanti? La verità è che non lo sa neppure lui.
È una bugia. La verità è che non ricorda un giorno in cui quello che prova per Clarke non sia esistito. Una presenza costante, forte e mai espressa, accettata silenziosamente. Ha accompagnato ogni decisione che ha preso. Fa parte di lui, nel bene e nel male. Completa ogni ricordo della sua vita sulla terra. La luce abbacinante del sole. La quantità prolifica di stelle nel cielo notturno. È il rumore del vento tra gli alberi la prima volta che gli ha accarezzato il viso. È il sapore della pioggia. La sensazione solida del terreno, della pietra e del fango. La vertigine della morte. Il ruggito della colpa. Il brivido dell'assenza. L'amarezza della nostalgia. La ferocia di un bisogno che travalica ogni ragione, ogni logica, ogni buonsenso.
La vita prima di incontrare Clarke Griffin è un ricordo nebuloso. Un'infanzia di responsabilità e segreti finita in un salto nel vuoto, nell'eco ridondante di un colpo di pistola. È legata indissolubilmente alla morte del dovere e al dolore della perdita, alla libertà colposa che ne è scaturita. C'è un prima Clarke e un dopo Clarke.
Non è ironico? Che lui scandisca il tempo, tracci la sua storia in base a lei?

*

“Sei il loro leader oppure no?” domanda Russell, gli occhi curiosi e inquisitori.
Bellamy non risponde, ma si sforza di mantenere un’espressione accuratamente neutra mentre la sua mente è attraversata in rapida successione da una serie di immagini mozzafiato. Uno sprazzo di capelli color sole, occhi mercuriali e pieni di segreti, un carattere carismatico e il sorriso nella sua voce quando pronunciava il suo nome.  
“Lo è,” risponde Abby, spostandosi al suo fianco. L’occhiata che gli rivolge è di incoraggiamento e muto apprezzamento. È quella che lei gli avrebbe rivolto. “Lui può parlare per noi.”

*

“Dicci di più di questa donna, Clarke Griffin.” Russell ha appena bevuto un sorso di vino dal suo calice. Lo posa sul tavolo e Bellamy perde il filo dei suoi pensieri e ha un involontario tic all’occhio destro.
“Lei cosa c’entra?” domanda seccamente.
“Sappiamo che era lei a guidare il vostro popolo sulla Terra.” Russel incrocia le mani davanti a sé e si piega in avanti. Il suo interesse non mostra secondi fini e nonostante questo, lui prova un irrazionale moto di rabbia. “Perché non è qui?”
“Sta ancora dormendo.” La sua voce è noncurante quanto basta. “Rimarrà nel sonno criogenico per altri cinque anni.”
Russell inarca le sopracciglia, la curiosità ha ceduto il posto ad uno stupore genuino. Seduta nel posto accanto al suo, invece, sua moglie riesce a malapena a nascondere lo sdegno. “Non fingerò di capire le dinamiche del vostro rapporto.”
“Buona fortuna con quello,” commenta sarcastico. “A volte non le capisco neppure io.”
“Forse è un bene che non sia qui. Abbiamo sentito molte cose sul suo conto. Racconti di sangue e di morte. Sappiamo che il tuo popolo la chiama Wanheda.”
La rabbia ritorna, prepotente, e questa volta non bada a nasconderla. “I nostri nemici la chiamavano così,” corregge con freddezza.
“Nemici che sono diventati vostri alleati,” replica Russell.
Bellamy stacca un acino d’uva e se lo rigira tra le dita. “L'apocalisse costringe a rivalutare le priorità di chiunque. Così i nemici si trasformano in alleati, gli amici diventano una famiglia.”
Russell annuisce con l’aria perplessa di chi vorrebbe capire, ma non riesce a farlo completamente, non davvero. “Sono certo che date le circostanze tu possa comprendere la nostra riluttanza nell'accogliervi tra di noi. Non possiamo prendere alla leggera la minaccia che rappresentate. Il vostro passato può essere un ostacolo per il futuro della mia gente.”
“Avete già distrutto un mondo,” interviene Simone. È la prima volta che prende la parola e ovviamente è per manifestare l’evidente opposizione all’atteggiamento assai più bendisposto del marito. “Cosa vi impedisce di farlo di nuovo? Perché dovremmo fidarci di voi?” Mentre le rimostranze di Russell sono pragmatiche ed espresse con un’educazione snervante, il giudizio di Simone è rumoroso e pieno di biasimo.    
“Simone,” dice Russell a voce bassa per placarla, ma lei non dà segni di averlo sentito.
“Guerrieri. Assassini. Ladri. Delinquenti,” sputa senza badare a celare il disgusto. Ogni parola esprime condanna, è una censura.  “Questo è ciò che siete.”
“Che eravamo,” lui replica senza perdere un battito. Mantenere la calma è indispensabile. Sa cosa succederebbe in caso contrario. Ogni parte di lui vorrebbe raccontare a questi due estranei cosa sono stati costretti a fare per sopravvivere. Non solo le atrocità, ma anche gli atti di clemenza. E non è assurdo, vorrebbe urlare loro, che siano le azioni commesse in nome dell’amore ad essere le più terribili? C’è una parte di lui, la parte di coscienza che gli parla con la voce di qualcun altro, che smussa la contrarietà che lo sta divorando con carezze gentili e gli intima in tono di comando di agire con circospezione, di rimanere lucido e per l’amor del cielo, Bellamy, usa la testa. “Abbiamo imparato dai nostri errori e stiamo cercando di essere migliori,” prosegue. “Continuiamo a farlo ogni giorno. Questa è la nostra seconda possibilità e abbiamo intenzione di dimostrare che la meritiamo.”
“Ti aspetti che ti crediamo sulla parola?” domanda Simone con una smorfia collerica. “Che mettiamo a rischio la nostra gente per la tua?”
Questa donna comincia a dargli sui nervi. “Non deve esistere per forza quella distinzione. Mia, vostra. Possiamo essere un unico popolo. Possiamo convivere in pace.”
“Credi davvero che sia possibile?” domanda Russell.
Bellamy si volta verso di lui, intravedendo ancora un barlume di speranza nonostante le premesse tutt’altro che positive. “Devo crederlo,” risponde onestamente. Questa volta non sta pensando a Clarke, ma a Monty e Harper, a Jasper e a Maya. “So che non è facile, ma non è impossibile. Noi ne siamo la riprova. Abbiamo messo da parte i nostri conflitti per concentrarci sulla sopravvivenza comune. Possiamo cambiare.”
Russell lo valuta come se volesse determinare il valore delle sue parole e della sua sincerità. Qualunque sia la conclusione che ha raggiunto, non è a suo favore perché la sua espressione si tinge di rammarico. “Io credo che tu voglia, Bellamy, soltanto che non credo che sia possibile. Cerca di capire, la violenza è un contagio. Sono sinceramente dispiaciuto, ma non posso lasciare che il vostro male spazzi via ciò che ora dobbiamo presumere sia l'ultimo avamposto dell'umanità nell'Universo."
Bellamy capisce di aver perso. Non è riuscito a convincerli. Clarke ci sarebbe riuscita. Sapeva essere maledettamente persuasiva quando voleva. Ma lei non è lì e lui sta cominciando a credere che sia davvero colpa sua.

*

Dopo l'attacco dei figli di Gabriel tutto sembra cambiare e volgere a loro favore. C'è qualcosa che gli sfugge, che non riesce ancora a individuare nell'intera faccenda. Non gli piace. Il nuovo interesse di Russell in Abby, per esempio, prontamente motivato dalla sua conoscenza medica.
"A Clarke piacerebbe qui," dice Madi.
Sono all’aria aperta e stanno guardando i bambini giocare a rincorrersi tra le aiuole del giardino mentre alcuni adulti innaffiano i fiori. Il cielo è una fiamma cremisi all’orizzonte e il panorama che li circonda è un vivido tripudio di colori. In lontananza un cane abbaia e la quiete è frammentata da risate sonore e dal vociare allegro dei passanti. È come dovrebbe essere, tutto ciò che hanno sempre sognato e anche di più. È la pace per cui hanno combattuto.
Se tutto procedesse secondo le previsioni, molto presto Madi potrebbe cominciare ad andare a scuola, avere l'infanzia che Clarke avrebbe voluto per lei. Non spesa a combattere o a nascondersi, ma tra ragazzi della sua età. Normale. Noiosa. Al sicuro.
"Lo credo anch’io," lui risponde e la stretta al cuore quando pensa al posto vuoto accanto al suo è più dolorosa del solito e meno facile da nascondere.
Madi gli stringe la mano, gli occhi scuri e perspicaci sono pieni di comprensione. Ha imparato a riconoscere i momenti in cui Clarke gli manca maggiormente. Gli interludi di calma in una quotidianità frenetica di impegni, che solitamente non gli lasciano il tempo per pensare.
Russell discute con lui della possibilità di costruire un complesso per loro, di individuare insieme aree che diventerebbero comuni. Si parla di condivisione e per un po' - giorni che si trasformano in settimane, settimane che diventano mesi - la pace è una realtà, qualcosa di concreto e tangibile, finché non lo è più. Smette di esserlo il giorno in cui Abby e Madi scompaiono.

 

 

I swear I only want to hear about you, to know what you've been doing. It's a hundred years since we've met- it may be another hundred years before we meet again.
-Edith Wharton

 

 

“Dobbiamo svegliare Clarke,” dice Jordan. Hanno appena scoperto la verità sui Primes.
“Non se ne parla.” Bellamy digrigna i denti, l’orrore di quanto hanno appena visto scalzato via dall’irritazione. Perché, come può svegliarla proprio adesso? Come può svegliarla, guardarla negli occhi e ammettere di aver infranto una volta di più la promessa di mantenere Madi al sicuro?
“Hanno preso Madi e Abby in ostaggio,” insiste Jordan e nonostante i suoi occhi siano lucidi per il pensiero che quello debba essere stato anche il destino di Delilah, il suo tono è stentoreo. “Sappiamo cosa potrebbero fare se non riusciamo a fermarli. Credi davvero che non vorrebbe essere svegliata per questo? Se non lo fai, non ti perdonerà mai. Non commettere lo stesso errore. Sai che ho ragione.”
Bellamy chiude gli occhi. Ci sono mille cose che vorrebbe dire, urlare, invece si concentra sulle parole di Jordan. Hanno un sapore amaro e fin troppo familiare.

Se lo fai, non ti perdonerà mai. Non è ironico che sia la seconda volta che gli viene posta questa domanda in meno di sei mesi? Ricorda la paura negli occhi di Madi alla vista della Fiamma e poi la sua risoluzione nell’accettare il destino da cui è fuggita per tutta la vita quando l’ha messa di fronte alla prospettiva dell’alternativa in caso di rifiuto – un futuro senza Clarke -. Ricorda la disperazione nella voce rotta di Clarke, le sue grida, il rumore delle catene quando l’ha pregato di farlo. E poi la penombra della tenda, il rituale, il rancore e il tradimento racchiusi in uno schiaffo che l’ha fatto tremare come poche altre cose in vita sua hanno avuto il potere di fare. Solo lei e Octavia hanno questa capacità, quella di togliergli la terra da sotto i piedi, di rubargli il respiro, di fargli provare ansia e uno sgomento che a volte sembra atavico, una parte di lui antica quanto il tempo stesso, risvegliata nell’ora del bisogno.    
Ricorda quello che ha fatto, quello che sarà sempre disposto a fare per le persone che ama. Non lo fa perché deve, ma perché non ha scelta. Ha perso quella facoltà anni e anni fa. Sull’Arca, quando sua madre gli ha messo un fagotto sanguinante tra le braccia e l’ha chiamato una sua responsabilità. Nel cuore di una montagna, quando ha poggiato la sua mano sopra quella di Clarke sopra una leva e l’ha chiamato dovere. Ma non si è mai tratto di quello. Dovere, responsabilità. Sono solo i nomi che ha scelto di dargli, dietro cui ha scelto di nascondersi. Sin dall’inizio, dagli albori di quella che è stata la sua storia, si è sempre trattato di amore, del suo cuore.
Quando riapre gli occhi, la decisione è già presa.

*

“Lo ha bloccato con un codice di protezione.” Raven impreca e dà un pugno alla capsula.  
“Cosa?”
“È una specie di serratura,” chiarisce, sfregandosi la fronte. Sta riflettendo, la mente già concentrata nella ricerca spasmodica di una soluzione. “Il suo baccello non si aprirà se non inseriamo il codice che ha scelto.”

Maledizione. “Puoi aggirarlo?” domanda Bellamy.  
“Potrebbe volerci un po' per decriptarlo,” risponde lei con le sopracciglia aggrottate, senza distogliere lo sguardo dall’assurdo groviglio di cavi che ha appena tirato fuori dal pannello di controllo e attorno ai quali ha già cominciato ad armeggiare. “Tempo che noi non abbiamo. Dannazione, Clarke. Perché un codice?”
“Considerato quello che stiamo per fare, non puoi darle torto se aveva problemi di fiducia,” commenta Murphy. “Di quante cifre è? Il codice.”
Bellamy gli lancia un’occhiata e Murphy scrolla le spalle.  “Andiamo gente, è Clarke. Quanto può essere difficile trovarlo?”
Le mani di Raven si arrestano e la sua fronte si spiana per un momento infinitesimale prima di accigliarsi di nuovo, questa volta però la sua espressione è determinata e Bellamy comincia a intravedere la luce alla fine del tunnel.  La lascia fare la sua magia per un minuto. Capisce che ce l’ha fatta ancora prima che lei parli.
“È un codice decimale di tre cifre,” spiega Raven. “Sapendo che due cifre sono pari e una dispari, questo limita il numero di combinazioni possibili a trecento.”
“Utile,” ironizza Murphy e batte le mani, prima di guardarlo in attesa. “Bene allora. Perché non stai provando?” La sua confusione deve essere tangibile. “Non guardarmi così, amico. Siamo tutti sulla stessa barca, ma tu e la principessa siete sempre stati su una barca differente. Nessuno la conosce meglio di te.”
Forse un tempo è stato così e anche allora non sarebbe stato del tutto vero. Provare non costa nulla però. Un codice di tre cifre, di cui due sono pari. Oh, pensa e prova una lancinante sensazione di tenerezza per la donna che dorme indisturbata al di sotto della teca.
Quando Murphy vede la prima cifra che ha digitato sulla tastiera, rotea gli occhi. "Sapevo che in fondo era un idiota romantica, ma non fino a questo punto." Sbuffa. “Lasciami indovinare… cento?"
Bellamy sorride e digita l’ultimo tasto. “Hai dimenticato me e Raven.”

*

"Ciao, straniera."
Se si trattasse di un altro giorno, riderebbe di se stesso, si vergognerebbe del modo in cui la sua voce abbia tremato, di come stia praticamente annaspando, di come gli batta forte il cuore. Troverebbe ridicolo il fatto che si senta un quattordicenne sprovveduto alle prese con la sua prima cotta. Divora il suo viso con occhi affamati e francamente non gli importa di fare la figura dell'idiota. Non quando Clarke è così vicina, reale, sveglia.
La osserva mentre si mette a sedere sui gomiti e si sfrega la fronte. “Bellamy,” dice e davvero, non dovrebbe provare questa specie di vibrante orgoglio nel sapere che il suo nome è stata la prima parola che ha pronunciato svegliandosi. Non sta sorridendo e qualunque barlume di emozione le abbia attraversato gli occhi muore nel momento in cui nota l’assenza al suo fianco. “Bellamy,” ripete in tono monotono, freddo e il cambiamento radicale nella sua voce è repentino, gli gela il sangue. “Dov'è Madi?”

*

“Hai intenzione di ignorarmi tutto il tempo?”
È come se non avesse aperto bocca. Clarke continua a sfogliare il diario di Madi con l’espressione di qualcuno che sta vedendo accadere sotto i suoi occhi la sua peggiore paura.
È stata una sua idea, quella che Madi iniziasse a scrivere una sorta di resoconto giornaliero per Clarke, ma questo non gliel’ha detto e quando gliel’ha porto ha finto di non notare i suoi occhi lucidi e il leggero tremore che le ha attraversato le mani. Resistere all’impulso di prenderla tra le braccia è stata forse una delle cose più difficili che abbia mai fatto.
Le annotazioni dimostrano un impegno costante nella perseveranza con cui sono state aggiornate quasi quotidianamente e Madi ha arricchito i bordi delle pagine con ghirigori e commenti personali che all’inizio le hanno strappato una o due risate. Tra le pagine fitte di scrittura e bozze di disegni ci sono una piuma, fiori lasciati ad essiccare, un pezzo di stoffa che ricorda quelli appesi a mezz’asta nell’insediamento del Sanctum.
Ormai è trascorsa mezz’ora da quando Jackson ha finito di visitarla e sottoporla a un accurato controllo medico. Nessuno di loro vuole correre rischi, non dopo che hanno perso cinque uomini per un’insufficienza renale diagnosticata troppo tardi e provocata da un malfunzionamento delle capsule criogeniche. È la nuova procedura standard in caso di risveglio e sebbene Clarke si sia opposta inizialmente, considerandola un’inutile perdita di tempo, di fronte alla loro intransigenza ha dovuto arrendersi.
Sono in attesa degli ultimi risultati e il silenzio è un muro impenetrabile tra di loro, alto e lunghissimo come la Grande Muraglia nei libri di storia della Terra prima della prima Apocalisse.      
Finalmente lei chiude il quaderno, accarezza il frontespizio in punta di dita. Il suo viso è nascosto dietro la cortina di capelli. “Non ho intenzione di rimanere sveglia a lungo.”
Bellamy si sente come lo avesse colpito fisicamente. Sulla guancia percepisce, acuta e anomala, la sensazione fantasma dello schiaffo che lei gli ha dato a Polis. Quello che ha appena ammesso non dovrebbe arrivargli come una sorpresa. Era il piano iniziale dopotutto. Altri cinque anni. Lo sa, eppure aveva pensato, parte di lui aveva sperato che -
“Una volta salvate Madi e tua madre, intendi tornare nel sonno criogenico,” dice a scanso di equivoci e decide di tradurre la sua assenza di risposta come un tacito assenso. “Clarke,” il suo nome suona stonato sulle sue labbra, la sua voce sembra provenire da molto lontano, “cosa ti è successo?”
Lei si volta come una furia ed eccola lì, la donna che conosce, un assaggio di scintille di luce e pericolosità che gli brucia gli occhi per la troppa intensità, come se avesse osservato il sole troppo a lungo. È una conferma. Dietro la maschera di distacco che ha indossato da quando si è svegliata, Clarke sopravvive, il suo cuore continua a battere, a combattere.    
“Spero che tu stia scherzando,” sibila.
Lui indietreggia, reagendo istintivamente all’ostilità e alla violenza che scorge nel suo sguardo. “Quello che intendo-” Ma non fa in tempo a spiegarle quello che intendeva. La porta si apre e d’un tratto non sono più soli.
“Clarke!” esclama Jordan con un sorriso che gli va da un orecchio all’altro. Deve aver notato la tensione tra di loro, ma sorvola con il solito tatto. La sua attenzione è rivolta interamente a Clarke e Bellamy osserva con stupore il suo viso contratto rilassarsi nel primo vero sorriso che le abbia visto da non ricorda neppure lui quando. Clarke lo attira in un abbraccio, gli scompiglia i capelli. Jordan cerca di impedirglielo, ma sta ridendo e non sembra davvero infastidito da quelle attenzioni. Mamma Orsa, ricorda di averla chiamata una volta.
“Jordan,” dice Clarke e il sorriso le ha raggiunto gli occhi, creando minuscole rughe di espressione attorno alle palpebre. “Ti trovo bene. Ti sei acclimatato alla vita tra i Delinquenti, vedo.” Gli rivolge un’occhiata sfuggente da sopra la spalla di Jordan, prima di aggiungere in tono più sobrio: “Bellamy mi stava aggiornando.”
Jordan annuisce, di nuovo serio. “Lei hai già detto di Madi?” Bellamy sta per rispondere, ma Clarke non glielo permette.  “Cos'è successo di preciso?” domanda.
Non dovrebbe fare male, scoprire di aver perso la sua fiducia al punto che lei preferisce ascoltare un ragguaglio della situazione da qualcuno di cui si fida. È lo stato del loro rapporto nella sua forma attuale e accettarlo è il primo passo per cercare di riparare le cose tra di loro. Non dovrebbe, ma lo fa. Fa un male del diavolo.        
Se anche è sorpreso dalla domanda diretta o dal fatto che gli stia stata rivolta, Jordan non lo lascia vedere. “Dopo che tu- dopo che è stato deciso di non svegliarti, pensavo che Madi avesse reagito bene. Sembrava aver accettato la tua scelta. La addolorava ovviamente, ma era più arrabbiata che dispiaciuta e non con te, non davvero.”
“Aspetta,” dice Clarke. Ha le sopracciglia aggrottate. “Di cosa stai parlando?”
“Ci ha fatto a pezzi,” si intromette una voce dalla porta. Murphy li raggiunge. Bellamy vede il modo in cui il corpo di Clarke si sia proteso automaticamente verso di lui, in cui abbia aperto le braccia come se volesse abbracciarlo e come in ultimo scelga di non farlo. Le sue braccia ricadono contro i fianchi rigidamente e il cenno che rivolge a Murphy è sbrigativo e di cortesia.
Murphy infila le mani in tasca e ciondola sul posto, ricambiando il saluto con un’espressione esageratamente tediata. “Ha detto delle cose molto poco carine, discutibilmente vere su di noi. Tra le righe mi sembra di ricordare qualcosa del tipo che nessuno è senza macchia e tra di noi tu sei l'unico vero eroe che riconosce.”
“Ha detto sul serio così?” Per un attimo Clarke cerca il suo sguardo in un riflesso naturale, come se cercasse una conferma da parte sua. Il momento di condivisone passa. Bellamy batte le palpebre e Clarke ha di nuovo riportato lo sguardo su Murphy e Jordan.
“Sì, uno spettacolo penoso,” commenta Murphy. “Rimproverato da una ragazzina. Sembrava di rivedere te nei tuoi giorni di gloria alla navicella.”
“Come hanno scoperto che sono una sanguenero?”
“Colpa mia.” Jordan alza la mano e sorride timidamente, colpevole. “Potrei aver raccontato un paio di storie su di te.”
Clarke gli sorride di nuovo e la trasformazione quando parla con Jordan, rispetto ai suoi scambi con lui o Murphy, è innegabile. “Sono il tuo asso nella manica per impressionare le ragazze?” Gli strizza l’occhio. “Adulatore.”

*

“Hai lasciato che prendessero mia figlia. Di nuovo.”
Per un attimo non registra le sue parole. La realtà ha assunto i contorni surreali di un incubo e l’espressione feroce sul viso di Clarke, cambiato e allo stesso tempo immutato in tutto ciò che conta, è la stessa che popola le sue notti insonni.   
“Non è colpa sua,” lo difende Jordan; sembra a disagio. “Nessuno di noi voleva che succedesse, Clarke.”
Clarke stringe le labbra, ma non ribatte. Non che serva. Quello che sta pensando traspare chiaramente dalla determinazione con cui si vieta di guardare nella sua direzione. “Da quanto tempo avete perso contatto con loro?”
“Dieci ore.”
Può praticamente sentirla ragionare. “Perché avete aspettato così tanto?”
“Abbiamo aspettato te,” risponde Jordan, strofinandosi il retro del collo in un’abitudine che – Bellamy se ne rende conto – deve aver assimilato da lui. “All'inizio non eravamo sicuri che fossero stati loro.”
“Cosa vi ha convinto?”
“Jordan ha trovato un filmato,” interviene finalmente. Non può lasciare a Jordan il compito ingrato di dirle la verità. È soltanto un ragazzo. Non sarebbe giusto. Il fardello, così come la colpa di quello che è successo, sono unicamente suoi. “Ha scoperto cosa fanno a chi ha sangue come il loro, come il tuo. Li utilizzano come ospiti. Non sempre si offrono di loro spontanea volontà.” Lei impallidisce per le implicazioni e lui le sfiora il gomito per offrirle sostegno prima di ricordarsi che ha perso quel diritto, che lei non vuole essere toccata da lui. Lo ha reso evidente. “Clarke, le salveremo.”
Non lo sta guardando con diffidenza, ma c’è qualcosa di cauto nel modo in cui gli permette di lasciare la mano sul suo gomito, in cui non si ritrae nonostante il suo corpo si sia irrigidito. Come se volesse dimostrare qualcosa a sé stessa e non a lui. Alla fine, scuote la testa. “Non sai cosa potrebbe succedere. Non puoi prometterlo.”
È vero, non lo sa. Clarke si copre gli occhi ed è un gesto che gli stringe il cuore in una morsa d’acciaio per la vulnerabilità di cui è messaggero.  “Ho bisogno di rimanere da sola per un minuto.”
Jordan fa un cenno verso la porta e Bellamy annuisce prima di uscire con Murphy alle calcagna.
Una volta che sono nel corridoio, lui e Jordan si piantano ai lati della porta, Murphy con le spalle contro il lato opposto del corridoio. Sembrano sentinelle messe a guardia dell’entrata di un tesoro. Dall’interno non arriva un suono e c’è un silenzio di morte. La devastazione che lo pervade non è che un frammento irrisorio di quello che lei sta provando. Questa è la seconda volta che succede ed in entrambi i casi è stata sua la colpa.

*

Quando esce, i suoi occhi sono cerchiati di rosso, ma la sua espressione è risoluta e c’è un nuovo vigore nei suoi passi, il mento è sollevato nell’antica ombra di superbia. Si china per mormorare qualcosa a Jordan e quando la vede incamminarsi verso la sala comandi, la afferra per il polso per trattenerla. “Dove stai andando?”
Non evita più il suo sguardo ed è perfino peggio. Non c’è nessun calore, è la distratta cordialità riservata a qualcuno che a malapena conosci. Si divincola e per lo shock di quello che le ha letto negli occhi lui la lascia andare, ponendo una distanza tra di loro che appare tanto più insormontabile proprio perché non è fisica. “Voglio vedere quel filmato,” risponde in un tono che non lascia adito a diverse interpretazioni.   
Bellamy si riprende subito e storce la bocca in una smorfia. “Non è una buona idea.”
Lei non batte ciglio. “Mi dispiace, suonava come una richiesta?”
“Murphy, accompagnala,” ordina sbrigativo. “Non tu Jordan. Devo parlarti.”

*

“La conosci,” dice senza preamboli di sorta. Non riesce a evitare il tono vagamente petulante, l’implicita accusa.
Jordan ride, ma è una risata di puro nervosismo. “Certo, come conosco te e Murphy. Te l'ho detto. I miei genitori-”
“Non sto parlando di quello,” lo interrompe con un cipiglio. “L'avevi già incontrata. Avevi già parlato con lei. Quando? Cosa mi stai nascondendo? Ascolta, non sono arrabbiato per il fatto che tu e lei abbiate dei segreti.”
“Solo che io non li abbia condivisi con te,” replica Jordan amaramente.
“Non è quello che sto dicendo.”
“Ma è quello che pensi.”
“Se non vuoi parlarne-”
“Non è qualcosa di mio da raccontare.” Jordan abbassa lo sguardo, chiaramente sulle spine. “Devi parlarne con lei, okay?”
Bellamy esita. Sa che è un’intrusione, ma deve sapere. Rischia di impazzire altrimenti. “Jordan, ti prego. Io- Io devo sapere.”
Per un lungo, terribile momento è certo che Jordan si rifiuterà in modo educato, ma fermo. Invece mirabile dictu, comincia a parlare. “Quando mi sono svegliato, ero pronto a seguire le istruzioni di mio padre alla lettera. Clarke non me lo ha permesso. Sapeva che tu e lei sareste stati i primi che avrei svegliato.”
Bellamy annuisce. Aveva già ricostruito questa parte della storia e gli ha appena confermato che aveva ragione. “Perciò te lo ha impedito,” dice, ma c’è qualcosa di sbagliato. Qualcosa non gli torna. Capisce di cosa si tratta dall’espressione colpevole di Jordan. “L’hai svegliata. Ecco come la conosci.” Certo, ha senso. “L'hai svegliata,” ripete e poi, come un fulmine a ciel sereno, la verità lo trafigge da parte a parte. “I messaggi finali. Tu eri con lei quando li ha registrati. Quanto tempo è trascorso prima che svegliassi anche me? Dopo quanto è tornata nel sonno criogenico?”
Jordan deglutisce, le spalle accasciate.  “Due mesi.”
Il dolore non arriva subito.  
“Non è quello che sembra,” si affretta a dire Jordan e comincia a gesticolare, un vezzo in cui, lui ha imparato, ricade quando qualcosa lo agita. “Ci ha provato, d'accordo? Sapeva che avreste avuto bisogno di lei. Ha provato ad essere quel tipo di persona, quella che voi vi aspettavate che fosse, ma il peso era troppo. Quegli anni in isolamento l'hanno cambiata. Può sembrare che stia bene, ma ognuno ha i suoi limiti e lei ha raggiunto il suo. Non è indistruttibile. I nostri traumi sopravvivono dentro di noi, diventano i demoni che non smettiamo mai davvero di combattere.”
“Cosa è successo?” chiede raucamente.  
“Incubi. Allucinazioni. A volte era sua madre. A volte una donna di nome Lexa. A volte eri tu. Non ha mai avuto il tempo di metabolizzare. L'esplosione al Campo. Mount Weather. ALIE. Il Praimfaya. Voi non avete mai visto com'era dopo.” Non sono le parole, ma il sottotesto, quello che Jordan non sta dicendo a farlo sussultare interiormente.
“Di cosa stai parlando?”
“Che ogni volta che ha perso qualcuno o ha preso una decisione impossibile, è sempre stata da sola mentre cercava di capire come affrontare le conseguenze delle sue azioni, che fosse una sua scelta oppure no.”

*

“Dovrai perdonarla un giorno,” dice Emori, passandole il cacciavite che le ha chiesto. Deve aver parlato con Bellamy o Murphy deve averle detto qualcosa.  
Raven storce il naso. “Forse.” Stringe la vite sporgente e passa alla successiva. “Contavo su quei dannati cinque anni per cominciare a farlo.”
“Devi accelerare i tempi di lavoro.”
“Non se riesco a evitarlo,” risponde e scrolla le spalle, fingendo una noncuranza che è ben lungi dal provare. “Dopotutto non credo che abbia intenzione di rimanere a lungo.” Ripensa alla richiesta di Bellamy e si ripromette di controllare dopo aver sistemato il condotto di areazione nel settore 5.  

*

“Ho controllato le registrazioni di sicurezza come mi avevi chiesto,” esordisce Raven. È sbucata dal nulla. Bellamy non distoglie lo sguardo dai resoconti delle squadre di pattuglia sul lato della foresta al di fuori della giurisdizione del Sanctum. È un lavoro che in passato avrebbe svolto con Echo e per il quale ora, portandolo a termine da solo, impiega più tempo di quanto gli piaccia ammettere. Se non si arriverà a una guerra – anche se sembra inevitabile – hanno bisogno di un piano di riserva, di individuare quanto prima una nuova zona su cui costruire delle abituazioni adeguate.     
Il silenzio di Raven è snervante. “E?” la incalza, più brusco del necessario.
“Jordan ha detto la verità. I tempi combaciano. Due mesi.” La sua voce è incolore, meccanica mentre snocciola con fredda competenza le informazioni che le aveva chiesto di verificare. La conosce abbastanza bene da sapere che sta omettendo qualcosa, che parte di quello che ha visto deve averla turbata e che questo, il fatto di essere vittima delle sue stesse emozioni per una persona alla quale si era ripromessa di non tenere più, la infastidisce oltremodo. 
“Hai visto qualcos'altro?” inquisisce e anche se lo sapeva già, ha la conferma di essere nel giusto nel momento in cui la vede assottigliare lo sguardo e massaggiarsi il ginocchio. Lo fa solo quando è inquieta.   
“Abbastanza,” risponde bruscamente. Bellamy non insiste, attendendo. “Devi parlare con lei,” ammette alla fine e il suo viso è quanto mai espressivo, la tradisce. “Aveva una pistola. Era scarica. Un'altra volta era un pugnale e aveva una radio in mano, ma Jordan l'ha fermata.
Parla con lei.”

 

 

I see a stranger in your eyes, where once I saw a soulmate.
J. Střelou

 

 

 

“Assolutamente no,” Bellamy dice prevedibilmente. Clarke decide di non concentrarsi su di lui. Si era aspettata quella reazione.
“Il tuo piano è folle,” commenta Murphy, picchiettando due dita contro le tempie. “Giusto. Dove sarebbe la novità?”
“Almeno questa volta sarà lei a fare da infiltrato,” commenta Raven a voce bassa, ma udibilissima.
“Non sarebbe un infiltrato,” ribatte Bellamy stizzito e l’occhiata che indirizza a Raven potrebbe ghiacciare l’Inferno. “Diventerebbe un bersaglio. Russell sa che è una sanguenero.”
Clarke tamburella le dita sul tavolo e per la prima volta da quando si sono seduti, incrocia lo sguardo di Bellamy. “Conto proprio su quello.”

*

Sente i suoi occhi come se la stesse toccando fisicamente. Le perforano la pelle come aghi. Cerca di non badarci; fallisce miseramente. “Smettila,” sbotta.
Bellamy inarca le sopracciglia, preso in contropiede. “Di fare cosa?”
Ovvio che non ci arrivi. “So di essere diversa,” spiega, sentendo ogni parola pesarle sulla lingua come una pietra di fiume. “Sono passati dieci anni. Sono invecchiata, Bellamy.” Sa di suonare sarcastica, tende a diventarlo sotto pressione. Odia essere ironica su questo, ma è la verità e prima lui la accetterà prima potranno andare avanti. “Hai visto i miei messaggi. Pensavi che il sonno criogenico mi avrebbe fatta ringiovanire?”
L’espressione sul suo viso cambia in modo imprevisto, incupendosi. “È questo il problema? Credi che mi importi di questo?” Non c’è furia all’Inferno pari a quella di un uomo convinto di essere stato accusato ingiustamente. “Del fatto che sei invecchiata? Certo che mi importa,” ringhia ed è qualcosa che lei ricorda bene, quello sguardo ardente nei suoi occhi. “Mi importa che non siamo invecchiati insieme.”
Come a rallentatore osserva la mano di Bellamy avvicinarsi al suo viso. Clarke si ritrae prima che riesca a sfiorarla. “Non toccarmi,” dice sommessamente.  
Chiude gli occhi perché non sopporta l’espressione inorridita sul suo viso. È pallido come un uomo morto. “Clarke.” Da quanto non lo sentiva pronunciare il suo nome in quel modo? Con quell’intonazione a metà tra un tormento piacevole e una furia accecante? No, non può quantificare il tempo, rischia di impazzire. “Non capisco. È come se non fossi più tu.”

Oh, pensa. Riapre gli occhi e sa che anche se non è pronta, è qualcosa che deve affrontare.  
“Non lo sono infatti,” risponde e l’inverno nelle sue ossa ha raggiunto anche la sua voce. “Quella persona è morta il giorno in cui è stata l'unica a svegliarsi con cinquanta anni di anticipo. Ho pensato che sarei morta da sola. Di nuovo. Ho vissuto con il terrore che non vi avrei mai più rivisto per dieci anni finché quel terrore non si è trasformato in qualcosa di diverso e quando è successo era troppo tardi per combatterlo, era già parte di me.”
Lo guarda e sa di essere nel giusto. Lo guarda e si sente come se non potesse sentirsi addolorata. Non puoi piangere per la tua stessa morte.   
Bellamy respira profondamente e deglutisce a vuoto. “Dimmi cosa posso fare,” sussurra raucamente, con due caverne come occhi e una voce spenta.
“Non c'è niente che tu possa fare perché non ha niente a che fare con te.” Rivelare la verità è crudele, ma fingere e lasciarlo soffrire senza una spiegazione lo sarebbe perfino di più. Dieci anni l’hanno resa più testarda, ma anche egoista.
“Tutto ciò che ti riguarda ha a che fare con me.”
“Non più,” lei ribatte duramente. “Non sono mai stata una tua responsabilità.”

Non le passa inosservato il modo in cui Bellamy tenga le mani strette a pugno. Quando si alza, stavolta lui non cerca di trattenerla. Ora ha paura persino di toccarla. Clarke sente le dite fredde come il ghiaccio.  

  
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