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Autore: Digihuman    11/04/2020    21 recensioni
[IN CORSO]
Mi chiamo Brent Smith, ho trent'anni e voglio raccontarvi la mia storia. […]
A dirla tutta il mio certificato di nascita indica Tokyo come mia città natale, ma la città in cui ho vissuto per la maggior parte della mia infanzia e adolescenza è Exeter. […] E niente, la maggior parte dei miei ricordi sono proprio legati a questa città. Ricordi, che tra le tante cose, mi riportano a lei, alla mia dolce Yoshiko. […]
Spesso mi ritrovo a pensare a quando, temporaneamente parlando, potrei collocare il momento esatto in cui mi sono innamorato di lei. Avevo sentito le farfalle allo stomaco già la prima volta che la vidi. […] L'unica certezza che ho è che il mio amore è nato con lei e che morirà ciecamente con lei.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Questa storia ed i personaggi in essa descritti sono frutto della mia fantasia. Qualsiasi similarità con persone reali o scomparse, luoghi o eventi è puramente causale e non intenzionale.



Buongiorno,
questa storia originale si intreccia con una mia storia già scritta precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta, riconoscerà subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT! Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto poiché contiene spoiler per questa originale.
Il rating della storia varierà man mano scriverò i capitoli, motivo per cui per ogni capitolo avrà un proprio rating.

Ringrazio con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in veste di Beta Reader!

Rating capitolo: verde
Personaggi capitolo: Brent e Yoshiko


CAPITOLO 1





Avete mai sognato di essere una farfalla?
Le farfalle sembrano quasi danzare nell'aria quando sbattono le loro ali. Io ho sempre sognato di essere una farfalla monarca. Le monarca sono così regali e maestose, con le loro grandi ali arancioni contornate da uno spesso bordo nero. Nella loro diversità, sembrano tutte così ben delineate e perfette.
Da piccolino ero convinto che le farfalle monarca nascondessero tra le ali polvere di fata e forse chissà, nonostante i miei trent'anni suonati, mi piace pensare che sia ancora così.
Ricordo ancora un episodio piuttosto divertente della mia infanzia. Avrò avuto sì e no all'incirca quattro o cinque anni. Papà aveva appena lavato la boccia del mio nuovo e fiammante pesce rosso. Un vertebrato insulso, che mi era stato regalato dopo aver espresso il desiderio di voler un animale domestico. Mi aveva insegnato a prendermi cura di lui e a pulire la sua bolla di vetro. In realtà, la cura e l'attenzione da prestare ad un banale pesce rosso era più che elementare e, devo proprio ammetterlo, terribilmente noioso. Quel giorno rubai la sua retina di plastica verde. A quell'età la mia ambizione andava ben oltre lo spalare escrementi di pesce. Volevo catturare una farfalla monarca, volevo potermi cospargere della sua magica polverina e alzarmi in volo. E lo volevo a tutti i costi. Peccato non sia mai riuscito nel mio intento e credetemi, ci ho provato davvero, ma è sempre stato tutto invano. Passai inutilmente due buone ore a cuocere sotto il sole rovente di Agosto, nella vana speranza di poter accaparrarmi uno splendido esemplare di quella specie che tanto mi faceva sognare.
In realtà, non ho mai smesso di sperarci. Nonostante abbia trascorso quasi trentanni della mia vita a rincorrere il mio sogno più grande con scarso successo, non ho mai smesso di sperare. Non so, è come se quella farfalla rispecchiasse un po' il mio obiettivo finale. Ancora oggi non so spiegare il perchè di quella mia fissazione. Ed in realtà non è mai stata l'unica.
La mia fiaba preferita dell'epoca era niente di meno che Peter Pan. Lo vedevo almeno una volta a settimana, il cartone, ovviamente. In realtà non mi interessava molto poter restare bambino a vita, ma, caspita, Peter poteva volare davvero!
Io le avevo provate tutte. Avevo creato il mio modesto aereoplanino con la scatola in cartone del microonde. Le ali erano state ricavate da un paio di vecchie mensole in bambù trovate nella cantina della nonna defunta. Il telaio, finemente progettato, era stato trapiantato da un vecchio go kart del mio vicino di cottage, ormai archiviato tra le cose da rottamare. Il vecchio motore era ancora funzionante, un po' arrugginito, ma pur sempre funzionante. Faticava ad accendersi e spesso borbottava tanto quanto mio zio Benton dopo una tirata di sigaro. Quel piccolo relitto ricavato da materiali di recupero era un'oscenità da guardare, lo ammetto, ma faceva il suo sporco lavoro. Il weekend mi divertivo a fingere di essere un meccanico di fama mondiale, impegnato nella progettazione di un finissimo propulsore turbofan da montare sul mio velivolo. La fantasia non mi è mai mancata e la mia passione per i motori e per gli aerei non è mai morta.

Mi chiamo Brent Smith, ho trent'anni e voglio raccontarvi la mia storia. Una storia tanto triste quanto ricca di forti emozioni, toccata da un'infanzia relativamente serena vissuta tra le campagne inglesi ed un'adolescenza più turbolenta, forse troppo vivace e ribelle per un mezzo anglosassone come me. La vita mi ha sempre concesso un'infinita varietà di possibilità. Sapete quel detto che fa "si chiude una porta e si apre un portone"? Beh, è proprio il caso di dirlo. Di porte sbattute in faccia ne ho viste parecchie, eppure ho sempre raccolto i miei quattro stracci e ho navigato a vele spiegate verso l'oceano della vita, abbracciandolo e facendolo mio nonostante le avversità incontrate. Alla fin fine era solo questione di tempo, prima o poi, come tutti del resto, ho trovato il mio portone. Peccato però che per aprirlo ci volesse una chiave d'oro che, ahimè, non era in mio possesso. Ma non temete, ho trovato una soluzione anche a quello. D'altra parte a cosa serve possedere una chiave, quando si ha l'abilità di saltellare e scavalcare anche la cancellata più alta. Insomma, una vita ricca di ostacoli, che però mi ha sempre dato tanto e a cui non posso negare di dover molto.
Sono nato dall'amore proibito tra un giovane uomo inglese, che all'epoca non aveva più di venticinque anni, ed una splendida donna giapponese di ben dodici anni più grande. Da quel poco che sono riuscito a sviscerare da mio padre, si sono conosciuti durante una torrida estate in Venezuela. Mia madre si era presa un anno sabbatico dal lavoro e si era unita ad un'associazione di volontariato per poter - a detta sua - espiare le proprie colpe. Non so bene di quale colpe parlasse, né l'ho mai saputo, ma sicuramente si trattava di qualcosa di grosso. Papà, al contrario, faceva parte di un gruppo di medici senza frontiere, i cosiddetti Doctors without Borders. Non era altro che un giovane laureando in medicina che tentava di trovare il suo posto nel mondo dando la propria disponibilità a chi più lo necessitava. Mio padre è sempre stato così, un uomo tutto d'un pezzo dai sani principi, ligio al proprio lavoro e dal senso civico molto sentito. Si sono conosciuti e si sono amati sin dal primo giorno.
Passarono solo quattro mesi insieme prima che mio padre decise di rincasare in Inghilterra per via dei propri studi. Da allora silenzio stampa, fino a quando, sette mesi più tardi, mia madre gli ha bussato alla porta donandogli il frutto del loro amore proibito e invitandolo a non farsi mai più sentire nè vedere. Questo è tutto ciò che so di mia madre, si chiamava Sanae Shinbaya, era una giovane donna d'affari, dalla carnagione candida come la neve e dai lineamenti morbidi e ben delineati. Mio padre non ha mai saputo raccontarmi altro, né ha mai avuto modo di mostrarmi una sua foto.
Ciò nonostante non ho nulla da rimproverargli. Ha cresciuto un figlio in completa solitudine, senza una donna al proprio fianco e per di più riuscendo ugualmente a laurearsi in medicina con il massimo dei voti. Insomma, un degno personaggio di un qualsiasi romanzo di Sparks.
Per quanto riguarda me, che dire, non posso certo vantarmi di essere come mio padre. Probabilmente non potrei mai essere come lui, d'altra parte siamo così diversi. Fisicamente ho il suo aspetto, ma nell'anima sono un tipo ribelle, molto espansivo e solare. Lo porto nel cuore, lo tengo stretto nei miei ricordi, ma niente di più. Già, mio padre è ormai morto da diversi anni a causa di un brutto male. Lo stesso male che tentava di estirpare ogni giorno dai suoi giovani pazienti. Papà era un oncologo pediatrico. Buffo come la vita alle volte ti si ritorca contro e ti schernisca in tal modo, vero?

Essere per metà inglese e per metà giapponese ha i suoi pro e contro. In realtà so ben poco del paese di origine di mamma. La maggior parte della mia vita l'ho trascorsa in Inghilterra con mio padre e successivamente slittando tra una città e l'altra delle campagne meridionali inglesi. A dirla tutta il mio certificato di nascita indica Tokyo come mia città natale, ma la città in cui ho vissuto per la maggior parte della mia infanzia e adolescenza è Exeter. Si tratta di un tipico borgo inglese, di quelli che spesso si vedono nei film con quei vialetti perfetti, contornati da villette bifamiliari altrettanto perfette, tutte rigorosamente in mattone con un immancabile giardino perfetto. Insomma, una cittadina all'apparenza perfetta, ma che nel suo profondo cela grandi misteri. Exeter si trova nel Devon, una contea a sud-ovest dell'Inghilterra sita in Cornovaglia, forse una delle zone più verdi dell'isola.
In realtà sono cresciuto in un piccolo sobborgo non molto distante da questa città, Torquay, una frazione costiera di Torbay distante meno di trenta chilometri da Exeter. Avevo poco più di tre anni quando ci siamo trasferiti in quest'ultima città, proprio grazie ad una promozione che mio padre ebbe a lavoro. E niente, la maggior parte dei miei ricordi sono proprio legati a questa città. Ricordi, che tra le tante cose, mi riportano a lei, alla mia dolce Yoshiko.

L'ho conosciuta diversi anni fa, durante un Maggio particolarmente freddo e lunatico. Un mese fuori dal comune, dicevano i telegiornali, il Maggio più freddo degli ultimi cinquantanni. Mai vista la neve in quel periodo dell'anno, eppure, con lei, arrivò anche Yoshiko. Nacque tutto come una banale cotta estiva. Nel tempo però è mutata sempre di più, mi ha portato a mettere in dubbio ogni scelta fatta, fino a trasformarsi in una travolgente storia d'amore che mi ha accompagnato durante l'adolescenza fino ad ora. Nonostante il segmento di tutto ciò possa apparire lineare e breve, la retta che riconduce inizio a fine non è altrettanto dritta. Ci sono stati eventi, taluni nefasti, che ne hanno curvato la scia. Perciò il percorso che abbiamo dovuto affrontare è sempre stato difficile. Per fortuna mio padre mi ha dotato di due gambe agili e robuste e la corsa ad ostacoli non è mai stata un grosso problema per me.

«Non capisco, la farfalla non è un essere troppo femminile per uno come te?» mi domandò Yoshiko un pomeriggio inoltrato mentre ci trovavamo sdraiati su un manto erboso non lontano dal fiume Quay(1).
«Cosa odono le mie orecchie» alzai il capo divertito e la guardai interrogativo «sbaglio o stai forse ponendo una domanda alquanto sessista?».
La giovane ridacchiò divertita, portandosi la mano davanti al volto e coprendo la bocca «riesci sempre a rigirare le mie frasi, Brent».
Io allungai un braccio verso il suo volto e le abbassai la mano stringendola nella mia «ti prego, smettila di coprire il tuo bel sorriso ogni volta che ti rendi radiosa ai miei occhi».
Yoshiko rimase sorpresa per quella frase «sei il solito adulatore, Brent» disse puntando lo sguardo ambrato al cielo «più che una farfalla a me sembri tanto un'ape travestita da farfalla».
Ridacchiai divertito «un'ape, seriamente?».
Lei mi guardò con occhi seri «un'ape, hai capito bene!» confermò ancora una volta «ti chiamerò Bee».
Io rimasi stregato dallo sguardo sicuro di lei «Bee, dici? Suona bene!».
Lei si accostò al mio fianco e mi puntò l'indice sul naso «le api sono laboriose e tu sei... un operaio. Sì, per l'appunto un'ape operaia».
La guardai stranito alzando un sopracciglio e curvando le labbra «le operaie sono tutte femmine sterili, non lo sai? Voglio essere un fuco io!».
Yoshiko scoppiò a ridere mostrando finalmente il suo sorriso radioso con grande grazia «non ho la più pallida idea di ciò che stai dicendo, ma se ti fa sentire meglio, ti lascerò fare il fuco!».
Contagiosa. Non mi serviva sentire altro se non lei ridere di gusto.

Yoshiko era giunta in Inghilterra grazie ad una borsa di studio piuttosto abbiente. Studiava presso l'International School tramite un programma di scambio. Grazie alla sua borsa di studio poteva permettersi la retta scolastica, una serie di agevolazioni fiscali e assicurative, l'abbonamento alla rete dei bus ad una tariffa ridotta e l'alloggio in una famiglia ospitante. Il miglior modo per imparare la lingua, le avevano detto.
La sua famiglia ospitante era piuttosto canonica. Il padre, Andrew, era il classico uomo inglese, dal pancione colmo di birra e dai tratti tipici anglosassoni, pelle chiara, biondo quasi platino a chiazze rossastro, barba a spiga e occhi color cielo. La moglie, Marie, poteva essere mezza spanna più bassa di lui, capelli lunghi e lisci, rossi lucenti e privi di volume, occhi anch'ella color cielo e dal corpo piuttosto voluminoso. Al loro seguito vi era la piccola Cody Hellen, una frugoletta di pochi mesi, dalla carnagione candida quasi riflettente e dal ciuffo ramato piuttosto ribelle.
Avevano accolto Yoshiko in casa loro quasi come fosse una seconda figlia. La loro villetta si reggeva su tre piani dalla scarsa metratura. Al terzo ed ultimo piano, rigorosamente mansardato, vi era la sua cameretta ed un angusto bagno privato. Nonostante le scarse dimensioni, non le mancava nulla. Vi era un letto, dal materasso paffuto e piuttosto comodo, una bella finestra che affacciava sulla riva del Quay, un armadio incassato nel muro, un'ampia cassettiera sotto la rete del letto ed uno splendido lucernario. Posso ancora rammentare il color panna delle pareti e l'odore lavanda che areggiava in quella stanza. Sopra la testata del letto, Yoshiko aveva appeso alcune foto di amici e parenti per poterli sentire più vicino a sé.
Lei aveva dodici anni compiuti quando giunse per la prima volta in città. Io ne avevo quindici, ma ne dimostravo qualcuno in meno, devo ammetterlo. Certo non si può parlare di amore vero e proprio quando ci si ritrova a far fronte a determinate emozioni ad una giovane età come la nostra, eppure qualcosa era scattato sin dal primo istante in cui il mio sguardo si era posato su di lei.
Era Maggio inoltrato eppure l'aria era ancora secca e gelida. Mi ritrovavo a sfrecciare lungo il letto del fiume Quay con la mia canoa. Quell'estate avrei dovuto affrontare una gara importante contro un nemico di lunga data, perciò seguivo rigidi programmi di allenamento volti a raggiungere il podio. Lei, al contrario, passeggiava beatamente con delle amiche non curante della tempesta che di lì a breve si sarebbe abbattuta sulla città. La vedevo sorridere e coprirsi il volto con la mano, quasi a voler nascondere il suo dolce sorriso. Ne rimasi incantato sin dal primo istante.
Aveva una lunga chioma di capelli neri che le svolazzava audace lungo le spalle fino a sfiorare con la punta le natiche. Occhi nero corvino, brillanti e vivaci, leggermente velati da due spesse lenti poste sul suo volto dalla montatura lilla opaca. Labbra morbide, non particolarmente pronunciate, color pesca messe in risalto da un filo di lucidalabbra. Il viso era ovale, morbido e delicato, terminava con un mento non troppo pungente. Il suo fisico era asciutto, non del tutto formato, poco ondulato rispetto ad altre ragazze della sua età, sinonimo che la sua maturità non era ancora sbocciata del tutto.
Poi il suo sguardo, acceso e vivace, si posò su di me e lì ebbi il primo vero contatto con lei. Peccato che quel che successe dopo fu da dimenticare. Impanicato, o forse preso alla sprovvista, mi agitai eccessivamente e con fare goffo dimenai fin troppo la pagaia tanto da finire in acqua senza neanche accorgermene. Inutile dire che quando tornai a galla, udì solo un coro di ragazzine petulanti che ridevano e additavano nella mia direzione.
Nonostante il mio primo istinto fosse quello di raccogliere tutto e allontanarmi da loro il prima possibile, non potei far a meno di notare che Yoshiko allungava una mano nella mia direzione e mi incitava ad uscire dall'acqua.
«Va tutto bene?» mi domandò con un accento piuttosto scolastico.
«Sì, ecco, io... veramente...» farfugliai grattandomi nervosamente il capo «ho perso solo l'equilibrio».
Yoshiko mi allungò gentilmente la propria giacca e mi invitò ad appoggiarla sulle spalle «prenderai freddo così bagnato».
Rimasi interdetto a guardarla per chissà quanto tempo. Forse secondi, forse ore. Il tempo in certe circostanze è relativo.
Non posso dire di averla amata sin dal primo sguardo, perchè a quindici anni con quale esperienza si può parlare di amore. Però la trovavo magnetica, la sua gentilezza per me era una ventata d'aria calda. La ringraziai inchinandomi leggermente. I suoi tratti, chiaramente asiatici, mi fecero compiere quel gesto con estrema naturalezza «arigato» le dissi.
Il suo sguardo si illuminò decisamente sorpreso «nihongo wa hanasemasu ka?(2)» mi domandò infine.
Io rimasi come un ebete a fissarla per una manciata interminabile di secondi per poi rispondere «la mia conoscenza circa la lingua giapponese nasce e muore qui».
Yoshiko dovette coprirsi la bocca con entrambe le mani per soffocare il fiume di risate che seguì la mia frase «sei buffo» disse semplicemente.
Mi guardai intorno imbarazzato notando che le amiche non parevano altrettanto innocue. Una ragazza la strattonò dalla maglia e le sussurrò qualcosa in giapponese indicando con sguardo severo un agglomerato di villette non molto distanti dalla nostra zona. Yoshiko annuì e tornò a fronteggiarmi «la giacca puoi tenerla, me la ridarai domani».
Io la guardai ancora una volta intontito. Non mi potevo certo definire un vero e proprio sciupa femmine, ma generalmente me la sapevo cavare abbastanza bene con il gentil sesso. Eppure sin da subito con Yoshiko era stato diverso. Era come se lei avesse espugnato la mia robusta fortezza e avesse avuto libero accesso alla mia vulnerabilità.
Annuì lentamente mentre potevo scorgere la sua figura che mano a mano veniva trascinata lontana dalle sue amiche «domani, stessa ora, stesso posto» aggiunse voltandosi verso di me e sorridendo amabilmente.
Il nostro primo e raccombolesco incontro. Come scordarlo, soprattutto vista la figuraccia fatta.

Il giorno successivo, come pattuito da lei, ci incontrammo nuovamente sulle rive del Quay. Quel giorno, lo ammetto, mi sentivo al quanto nervoso e non ne conoscevo il motivo. Quando la vidi da lontano, alzai un braccio per farmi notare. La giovane ragazza non si scompose e non ricambiò il gesto, si limitò ad avvicinarsi da me sorridendo.
«Konnichiwa» le dissi accompagnando il saluto con un breve inchino.
«Buongiorno» mi rispose lei ridacchiando «non è necessario essere così formali».
Mi grattai il capo. Avrei tanto voluto farle una buona impressione ed invece mi ero solo messo in imbarazzo da solo.
Decisi di interrompere il silenzio che era calato tra noi presentandomi «sono Brent» le allungai una mano sorridendo.
Lei l'afferrò saldamente con la propria e la strinse scuotendola leggermente «Yoshiko».
Con lo sguardo indicai il viale asfaltato che costeggiava le rive del fiume e le feci cenno di seguirmi. Mentre camminavamo l'uno affianco all'altra rubandoci di tanto in tanto lo sguardo, lei prese coraggio e mi domandò «come mai parli giapponese?».
Io sorrisi divertito in parte da quella domanda «parlarlo è forse un parolone, conosco qualche termine» le risposi notando quanto fosse insoddisfacente la mia risposta. Mi sentii quasi in dovere di approfondire l'argomento «mamma era giapponese».
Lei mi guardò con lo sguardo spento, quasi cupo e sussurrò «perdonami, non avrei dovuto chiedertelo».
La guardai confuso per poi comprendere la sua reazione. Purtroppo il mio tempo verbale al passato era stato male interpretato, perciò mi apprestai subito a correggere il mio errore «no, lei è viva» mi soffermai un secondo per poi aggiungere «almeno credo».
Lei interruppe la camminata per guardarmi dritto negli occhi e stortare il naso. Ridacchiai imbarazzato grattandomi ancora una volta il capo «non so nulla di lei, mi ha abbandonato alla nascita».
Yoshiko coprì involontariamente la bocca con la propria mano e sgranò gli occhi incredula da quanto sentito «ma è orribile!».
«No beh, a dirla tutta non lo è» le risposi guardando il cielo «ha preferito non aver nulla a che fare con me» alzai le spalle con fare neutrale e aggiunsi «alla fine è stato meglio così, non avrei mai sopportato di vivere con una persona che non mi avrebbe mai amato».
Lei mi guardò piuttosto sconcertata. La prima impressione che ebbi guardandola fu quella di aver appena detto un'eresia. Sicuramente Yoshiko aveva una bella famiglia alle spalle, si vedeva anche solo dal suo modo di vestire, molto curato, raffinato seppur noioso.
«Io comunque volevo ringraziarti per avermi tirato fuori dall'acqua ieri» le dissi timidamente.
Lei mi guardò ancora una volta facendo penzolare il capo a destra e sinistra come a voler cercare qualcosa «la mia giacca?» mi domandò infine.
Io avvampai dall'imbarazzo e cominciai a dimenarmi nervosamente fino a schiaffeggiarmi da solo la fronte «che stupido, la giacca!».
Per la prima volta Yoshiko si abbandonò alla spenzieratezza e ridacchiò divertita «sei buffo». E siamo a due.
«Mi dispiace moltissimo» le dissi cercando di scusarmi in tutti i modi possibili ed inimmaginabili.
«Brent» disse ad un tratto lei catturando la mia piena attenzione «va tutto bene!».
Il mio sguardo saettò rapido verso di lei fino a focalizzarsi sui suoi occhiali lilla «cosa gli è successo?» le domandai indicando un'asticella riattaccata alla bene meglio con il nastro trasparente(3).
Yoshiko si sfilò agilmente gli occhiali del volto per poi guardarli affranta «mi si sono rotti in aereoporto appena sbarcata qui» rispose piuttosto intristita «un signore mi è venuto contro senza farlo apposta e mi sono caduti a terra».
Mi avvicinai a lei guardandoli meglio «per fortuna non ti si sono rotte le lenti» lei mi sorrise parzialmente confortata «ho un amico ottico che riuscirebbe ad aggiustarteli in giornata».
I suoi occhi si illuminarono di speranza. Sono piuttosto convinto di aver visto in lei un fuoco accendersi «mi potresti portare da lui?».
Le sorrisi con affetto «ma certamente».
Quel pomeriggio mi resi utile e la portai ad aggiustare gli occhiali concedendole anche una breve gita presso il centro città e le zone circostanti. Fu il nostro primo vero appuntamento mascherato. Nessuno dei due avrebbe mai potuto definirlo tale, non eravamo innamorati né avevamo l'età per esserlo. Eppure vi erano tutte le carte in regola: ora e luogo prestabiliti, un giro per la città, un gelato in centro e il rientro a casa all'orario stabilito dalla sua famiglia ospitante.

Da quel giorno sino ai successivi sei mesi, ci siamo frequentati come una giovane coppia di amici. Le ho mostrato la città, la main street(4) e i luoghi di aggregazione giovanile. L'ho portata in canoa con me, le ho mostrato le rive del Quay, quelle meno esposte al turismo e l'ho portata a mangiare sul fiume la nostra tipica pizza all'anatra. Già, avete capito bene, pizza all'anatra. Per non parlare delle serate trascorse fuori dalla cattedrale ad assaggiare tutti i tipi di birra analcolica artigianale del luogo o i pomeriggi passati a giocare a bowling con le sue amiche che, con il tempo, hanno saputo lasciarsi andare.
Tutti i weekend li passavo in sua compagnia lungo le sponde del fiume Quay, entrambi sdraiati sul manto erboso del posto. Lei spesso aveva un libro in mano, era molto dedita alla scuola e i suoi voti rispecchiavano perfettamente la sua attitudine allo studio.
«La lettura è importante, alimenta la nostra anima e la arricchisce con esperienze che mai nella vita ci sogneremmo di fare» mi disse un giorno sorniona mentre sfogliava un libro piuttosto consumato.
«Perchè non ti compri un Kindle? La copertina di quel libro sta cadendo a pezzi» le risposi notando il pietoso stato in cui si trovava quel povero testo.
«Mai!» mi rispose con forza e convinzione «la carta ha quell'odore... inebriante».
Il mio sguardo dubbioso le diede l'imput per proseguire con il suo discorso «... quell'odore di vecchio e vissuto, di storie fantastiche e magiche che ti fanno sognare e ti catapultano in un mondo del tutto nuovo» i suoi occhi socchiusi quasi a voler materializzare nella propria mente sogni e speranze «le pagine ruvide, l'inchiostro stampato e in rilievo... come puoi non amare i libri?» mi domandò ad un tratto.
Io rimasti sbigottito da quella domanda, in realtà non sapevo bene cosa risponderle «probabilmente non ho mai trovato il libro adatto a me».
Lei mi guardò con occhi di sfida e sorrise «posso farti alcune domande?».
Ciò che seguì fu una vera e propria intervista, degna di un investigatore affermato. Saettò tra un argomento e l'altro nella vana ricerca di un genere letterario, di uno scenario o anche solo di un personaggio che potesse fare al caso mio.
«Va bene, bandiera bianca!» mi rispose alzando le braccia in segno di resa «però, visto che ti piacerebbe diventare un aviatore, potresti leggere la biografia di Amanda Earhart».
«So tutto su di lei!» le risposi preparatissimo «è nata a fine ottocento negli Stati Uniti ed è stata la prima aviatrice donna a sorvolare l'Oceano Atlantico» allungai lo sguardo verso Yoshiko convinto di aver fatto centro e ripresi il mio monologo «ha imparato a volare dopo la ventina e ha comprato quasi subito un biplano con il quale ha anche stabilito un record femminile».
Yoshiko mi guardò ammaliata «ti prego, non fermarti» mi risponse sarcastica.
«Qualche anno prima di morire ha stabilito il record mondiale di altitudine. Venne soprannominata Lady Lindy perchè è stata l'unica, insieme a Lindbergh, ad aver trasvolato da sola l'Atlantico» avevo ormai catturato l'attenzione di Yoshiko ed ero consapevole di tenerla in pugno «un altro record è stato scoccato negli Stati Uniti per aver sorvolato da costa a costa l'intera Nazione senza effettuare alcun scalo».
Lei mi guardò attonita, quasi incredula da quanto sentito dire, mentre io mi alzai vittorioso inchinandomi ed emulando un trionfo con i fiocchi. Feci un giro intorno a Yoshiko imitando con la bocca un coro di tifosi e ritornando prontamente innanzi a lei.
«Ebbene sì, devo proprio ammetterlo» rispose lei chiudendo il tomo che aveva tra le braccia «Brent Smith, tu mi hai spiazzata».
Le sorrisi divertito e le posai un bacio fugace sulla guancia «uno a zero per me, allora».
Yoshiko si imporporò visibilmente e girò lo sguardo altrove fingendosi distratta. Ma invano furono le sue gesta, perchè subito notai la mano risalire lungo il busto per poi carezzarsi la guancia arrossata.
Quel giorno lo capì lei e lo capii anche io, qualcosa tra di noi era cambiato.

Quando si può realmente parlare di amore? Vi è un'età a partire dalla quale si può trasformare una simpatia in un qualcosa di più? Queste sono le classiche domande a cui non saprò mai rispondere, ma so per certo che per Yoshiko ho sempre provato qualcosa. Il problema è sapere che cosa.
A quindici anni avevo in testa una sola cosa, il sesso. Tutti parlavano di sesso, chi a scuola si fingeva grande raccontando di avere certe riviste piccanti nel comodino di camera propria, chi al contrario si vantava di aver già scoccato il primo bacio ad una ragazza più grande, chi descriveva l'arrivo in seconda base e chi, come me, restava seduto e ammutolito ad ascoltare i racconti degli altri.
Pensando a Yoshiko mi domandai se potessi realmente associarla al sesso. Alla fine la nostra amicizia era appena sbocciata e in lei avevo trovato una buona amica e una spalla su cui fare affidamento, perchè rovinare tutto. Inoltre, a breve sarebbe dovuta tornare in Giappone e di me le sarebbe rimasto solo un lontano ricordo. Eppure sentivo di dovermi togliere un pensiero dalla testa.
«Hai mai baciato un ragazzo?» le domandai un giorno mentre passeggiavamo lungo la main street.
Si voltò verso di me ridacchiando divertita «a dodici anni? E chi mai vorrebbe baciarmi?».
Mi grattai nervosamente il capo e soffocai una risata incontrollata «hai ragione».
Lei interruppe la sua passeggiata per fronteggiarmi accigliata «ho ragione? Stai forse intendendo dire che nessuno vorrebbe mai baciarmi?».
«No, ma che dici» le risposi preso contro piede «non intendevo dire questo».
«Già certo, chi mai vorrebbe baciarmi a dodici anni» rimarcò nuovamente lei portandosi le braccia ai fianchi.
La situazione si stava scaldando e io necessitavo più che mai di uscirne vivo.
Sino ad allora mi ero sempre reputato un ragazzo sveglio e coraggioso. Eppure in quell'occasione avevo perso il mio tocco e le parole mi morirono in gola. Mi ero ritrovato ad annaspare e boccheggiare nella speranza che prima o poi la bocca riuscisse ad emettere un qualsiasi verso. Man mano la mia agitazione cresceva, notavo aumentare la rabbia di Yoshiko. Aveva serrato i denti e stretto i pugni. Sono convinto che in quell'occasione avrebbe voluto tirarmi un pugno in faccia. Perciò feci l'unica cosa che ero in grado di fare. Mi avvicinai a lei con fare lesto, le presi il volto tra le mani e le schioccai un casto bacio sulle labbra.
La guardai spaurito e le dissi «io vorrei baciarti» e girai prontamente i tacchi per scappare via quando lei allungò una mano nella mia direzione e afferò saldamente la manica della mia giacca.
Mi voltai verso di lei e la vidi toccarsi le labbra con occhi sgranati.
«Era il mio primo bacio...» sussurrò con voce flebile.
Avrei voluto dirle che non volevo, che non era mia intenzione e che non sapevo che altro fare, ma la verità è che io volevo baciarla. Ma nella sua innocenza di dodicenne, capì subito che lei non era pronta a fare quel passo.
La riaccompagnai a casa nel silenzio più totale, guardandola di nascosto mentre camminava al mio fianco ancora sgomenta.
«Perdonami...» le sussurrai cercando di trovare un contatto con lei.
Lei si voltò verso di me e mi chiese molto dolcemente «è stato come le altre volte?».
La guardai leggermente confuso non capendo bene a cosa volesse alludere. Si toccò nuovamente le labbra e approfondì la sua domanda «è stato come baciare le altre ragazze?».
«Beh...» da dove iniziare, la mia esperienza in quel campo non poteva certo vantare chissà quante vittime «è stato diverso».
«Diverso in che modo?» domandò ancora quasi volesse sentirsi dire un qualcosa in particolare.
Difficile dare una risposta concreta ad una domanda simile. Avrei voluto dirle che ogni ragazza è a sé, che il mondo è bello perchè è vario, che generalmente baciavo solo ragazze mature. Eppure le parole mi morirono in gola e annaspando risposi semplicemente «tu hai qualcosa di speciale».
Non sapevo se la mia frase fosse giusta o sbagliata, né seppi dire se a lei bastò quella risposta. Lei rimase in silenzio per il resto del tragitto ed io la imitai senza fiatare.
Arrivati sotto casa sua, le afferrai una mano guardandola dritta negli occhi con lo sguardo da cane bastonato, nel tentativo di far risorgere in lei un sentimento di pietà. Non funzionò, il suo carattere era troppo forte per farsi abbindolare in quel modo. Spezzò quel contatto tra noi e mi guardò apaticamente, quasi con disprezzo «domani sera tornerò a casa, lo sai questo, vero?».
Come dimenticarlo, purtroppo. Ero perfettamente conscio del fatto che quei sei mesi erano volati via come cenere al vento. Mi limitai ad annuire convinto che anche questa volta lei sarebbe rimasta impassibile innanzi alla mia tristezza. Invece allungò una mano in mia direzione, mi guardò dritto negli occhi quasi a volermi leggere nell'anima e sorrise «mi mancherai».
Il mio sguardo si accese e il petto si gonfiò con quanta più aria possibile. Sospirai dalla gioia per poi ritrovarmi, ancora una volta, a perdermi nei suoi dolci occhi «ti scriverò una lettera tutte le settimane» le dissi.
Fu allora che notai una sottile patina opaca oscurare il suo sguardo. Avrei potuto giurarlo, stava cercando con tutta sé stessa di trattenere le lacrime che, insolenti, tentavano di rigarle il volto «me lo prometti?» mi domandò singhiozzando.
«Croce sul petto» le risposi abbozzando una X con l'indice.
«Croce sul petto» ribadì lei imitandomi prima di lanciarsi tra le mie braccia abbracciandomi forte «mi mancherai, Bee».
«Mi mancherai anche tu, Yoshiko» le risposi allontanadola da me e donandole un sorriso di conforto.
Rincasò senza voltarsi verso di me. Potevo sentire la tensione galleggiare nell'aria e renderla quasi irrespirabile. I suoi passi si fecero lenti e pesanti, come se in quell'attimo il tempo si fosse fermato.
Non potevo certo impedire la sua partenza, ma avrei potuto renderla indimenticabile.
La mattina successiva lasciai davanti a casa della sua famiglia ospitante un cestino di vimini con un sacco di prelibatezze della zona. Le feci avere anche un paio di latte di thè early gray che tanto le piaceva, i classici biscotti di frolla al cocco tipici del luogo, la tovaglia scaccata bianca e rossa che usavamo sempre per il pic nic del sabato pomeriggio, una copertina in pile con lo stemma della città per coprirsi dall'aria condizionata dell'imminente volo e un album contenente le moltissime foto scattate in quei sei mesi insieme. Al suo seguito, inoltre, vi era una busta piuttosto spessa con una lunga lettera scritta a mano.
Queste attenzioni sono il frutto di un amore immaturo, cosa che a quindici anni, spesso, non si concepisce fino in fondo, figuriamoci a dodici. Eppure tra di noi vi è sempre stato un legame speciale, profondo, che ancora oggi non riesco a spiegare a parole. Yoshiko per me è e sempre resterà il mio primo e vero amore.

Spesso mi ritrovo a pensare a quando, temporaneamente parlando, potrei collocare il momento esatto in cui mi sono innamorato di lei. Avevo sentito le farfalle allo stomaco già la prima volta che la vidi. Quel brontolio interiore poi non aveva fatto altro che aumentare man a mano la frequentavo ed uscivo con lei. Penso che quel primo bacio fu solo una virgola posta all'interno della nostra storia, la prima di molte.
Quei sei mesi trascorsi insieme furono un qualcosa di magico, forse un periodo fondamentale per la mia maturazione spirituale. Probabilmente non sarei quello che son diventato. Posso dirlo con certezza, poiché tutte le scelte prese successivamente furono solo dettate dal mio cuore. Tutto mi riportava a lei, regolarmente e con prepotenza, come se fossimo destinati a rimanere per sempre insieme. Ma si sa, il per sempre nella vita reale non esiste. O forse è un bene che in pochi si possono concedere, ma soprattutto che in pochi hanno il piacere di poter sperimentare. Penso che ritrovarsi ad amare fino alla morte una sola ragazza sia il sogno di tutti. Ma le avversità, gli ostacoli della vita la rendono una vera e propria utopia.
Non lo nego, anche io, da perenne sognatore, avrei preferito poter raccontare una storia in cui il mio amore giovanile è stato il primo e l'unico. Purtroppo però la realtà dei fatti non me lo consente. Il mio amore è iniziato con lei, ma ha preso altre strade nel corso degli anni a causa di alcune mie scelte sbagliate. Se potessi tornare indietro cambierei tutto questo? Mi assicurerei di poter vivere solo con lei e per lei? Creerei il mio personale "per sempre felice e contenti"? Forse sì, forse no. Non sono scelte facili perchè ciò che sono diventato ora è frutto di ciò che ho fatto prima. Nulla ci può far intendere che a cambiare il passato, si ritroverebbe una figura migliore di se stessi nel futuro.
L'unica certezza che ho è che il mio amore è nato con lei e che morirà ciecamente con lei.



(1) Il fiume Quay viene correttamente letto /chii/ [clicca qui per tornare alla lettura]
(2) parli giapponese? [clicca qui per tornare alla lettura]
(3) perdonate la scelta lessicale fatta, ma non avrei mai potuto chiamarlo "scotch" in quanto, essendo la storia ambientata in Inghilterra, avrebbe assunto in significato differente [clicca qui per tornare alla lettura]
(4) si tratta della strada principale, il cuore della città, dove si trovano la maggior parte dei negozi [clicca qui per tornare alla lettura]



Angolo dell'autrice.
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