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Autore: Ghen    18/04/2020    3 recensioni
Dopo anni dal divorzio, finalmente Eliza Danvers ha accanto a sé una persona che la rende felice e inizia a conviverci. Sorprese e disorientate, Alex e Kara tornano a casa per conoscere le persone coinvolte. Tutto si è svolto molto in fretta e si sforzano perché la cosa possa funzionare, ma Kara Danvers non aveva i fatti i conti con Lena Luthor, la sua nuova... sorella.
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Non solo quello che sembra! AU (no poteri/alieni) con il susseguirsi di personaggi rielaborati e crossover, 'Our home' è commedia, romanticismo e investigazione seguendo l'ombra lasciata da un passato complicato e travagliato, che porterà le due protagoniste di fronte a verità omesse e persone pericolose.
'Our home' è di nuovo in pausa. Lo so, la scrittura di questa fan fiction è molto altalenante. Ci tengo molto a questa storia e ultimamente non mi sembra di riuscire a scriverla al meglio, quindi piuttosto che scrivere capitoli compitino, voglio prendermi il tempo per riuscire a metterci di nuovo un'anima. Alla prossima!
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altri, Kara Danvers, Lena Luthor
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ours'
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61. Marsington 


C'era una volta un borgo, lungo la costa, di onesti e umili pescatori: Marsington. Il duro lavoro e la dignità contraddistinguevano i paesani, dediti alla salvaguardia del proprio approvvigionamento e autonomia lunga secoli. O così si diceva. Il tempo spesso mite favoreggiava la pesca e Marsington divenne presto uno dei maggiori fornitori di pesce di tutta la contea. Un avvenimento tanto importante, però, non poteva che portare con sé visibilità e gli sguardi ghiotti di chi vedeva nel nostro bel paesino un'opportunità maggiore di far denaro. A quel punto arrivarono gli uomini e le donne di città, coi loro abiti puliti e i soldi che, erano certi, avrebbero aperto loro tutte le porte. Costruirono nel cuore della piccola Marsington la loro azienda all'avanguardia e portarono via lo spazio a chi per quel lavoro, che era molto più che un lavoro, aveva dedicato la vita. Marsington si spezzò a metà: da una parte chi si arricchiva in modo veloce, arraffando ciò che il nostro mare offriva, e dall'altra ciò che restava degli umili pescatori che, insieme, poterono coalizzarsi per mettere in piedi un'impresa che potesse competere con l'altra. Perché era impensabile arrendersi, bisognava lottare e tenere duro per preservare ciò che era caro. E così, nel tempo, le due metà di Marsington combatterono duramente per la sovranità del territorio; battaglia che non si era mai spenta. Neanche oggi. Ciò che restava di noi, con le tute e gli stivali di gomma verdi. Contro i loro discendenti, con i colletti bianchi delle camicie ordinate. Verdi e Bianchi non avrebbero mai smesso di farsi la guerra. Mai.
Megan non poteva dimenticare quelle parole, sua nonna non faceva che ricordargliele non appena ne aveva occasione, perdendosi nei ricordi della sua infanzia quando, i ragazzi dei Bianchi e i ragazzi dei Verdi come lei, si davano battaglia nella pineta di Marsington, all'epoca molto più estesa. Aveva sempre notato come dell'astio di fondo covava nell'animo dei suoi concittadini, ma non ci aveva dato peso fino a una certa età, quando alcuni avvenimenti familiari la portarono proprio a stare a casa della nonna, dal territorio dei Bianchi a quello dei Verdi. L'odio era un sentimento che veniva tramandato nelle generazioni e avvelenava Marsington. Non fu mai così felice come quando si trasferì a National City per frequentare la Sunrise, allontanandosi da quel luogo che, temeva, l'avrebbe trasformata. E c'era stato un periodo in cui si era sentita tanto vicina a farlo.
«Mia nonna mi riempiva di storie dei ragazzi Bianchi che odiava», sospirò con espressione triste, staccandosi dal finestrino su cui si era appoggiata. «Una volta, un ragazzo le aveva fatto lo sgambetto e le aveva spinto la faccia su una pozzanghera piena di fango», la guardò, scuotendo brevemente la testa. «Era assurdo pensare che quel ragazzo non era che il figlio dei suoi vicini: il padre aveva firmato un contratto con la Swordfish Company proprio qualche giorno prima di quello scontro. Per mia nonna, quel ragazzo con cui era cresciuta, era improvvisamente diventato uno di loro e nient'altro. È stato così anche per mio padre, che era suo figlio. Quando nacqui io, per lei, lui era già un traditore».
Kara annuì lentamente, riflettendo. Dal finestrino, sembravano quasi arrivate. «I Bianchi…», annuì di nuovo, aggrottando la fronte. «Quante storie ti raccontava tua nonna su questi Bianchi?».
«Mh, tante».
«E… volevano ucciderla? Vo-Voglio dire, magari non ucciderla ucciderla, ma…».
Megan assottigliò gli occhi, riflettendo. «Beh, secondo lei… Perch-?».
«Ed erano Bianchi perché stavano in quella fazione, non perché… bianchi?!», assottigliò lo sguardo anche lei e si fissarono.
«Bianchi, Kara. Tutti quelli che stavano per la Swordfish Company, anche solo i clienti sono dei Bianchi».
«Bianchi», ripeté e Megan arcuò le sopracciglia.
«Bianchi».
«Bianchi», continuò. «È-È per essere sicura di una cosa».
«Quale cos- Oh!», allungò la bocca e dopo si mise a ridere. «Bianchi! Tu pensavi- ma no», sventolò una mano a un'anziana seduta dall'altro lato del bus che le stava fissando, «Non Bianchi davvero bianchi, o non tutti, non capisca… male», abbassò il tono della voce, «Si è girata. Ah, ora mi sta ignorando».
Kara trattenne una risata a labbra strette e l'amica le diede un colpo al braccio. Ma lei non credeva alle sue orecchie, finalmente quel borbottio durante il suo sonno aveva un'origine. Controllò il cellulare un attimo, gonfiando le guance.
«Va tutto bene? Mi spiace, non eri costretta a venire qui con me», sospirò di nuovo. «Con tutto quello che avrai per la testa, il funerale di mia nonna è l'ultima cosa di cui hai bisogno».
«Ma no», le sorrise subito, rimettendo via il telefono. «Mi fa piacere essere qui e mi aiuta distrarmi un po'. Appena tornerò a National City, sarà tutto cambiato. E l'idea di affrontare Millard, a essere onesta, mi terrorizza un po'…».
«Ti farò compagnia in panchina, ragazza. Quella finale sarà un vero disastro, te lo dico io».
«Perché in panchina? Cosa è successo?».
«Emh», Megan strinse i denti ma, appena realizzò di essere arrivate quando l'autobus scese da una stradina di collina, si accese, mettendosi in piedi. «Scendiamo qui, eccoci».
Le strade di Marsington erano pulite, un vento leggero soffiava l'aria di mare dal porto fino a lì, il cielo era poco nuvoloso ma non c'era freddo. Davanti alla fermata c'era un parco e dall'altra parte della strada piccoli locali con le facciate colorate; il marciapiede ospitava il via vai dei paesani. Di certo non erano a National City.
«Mi piace», Kara si guardò attorno, entusiasta. «Sembra di essere all'interno di una cartolina».
L'autobus partì e le ragazze iniziarono a camminare davanti al parco. «Forse, per ora… Questo posto nasconde bene i suoi demoni», abbozzò una risata e si guardò attorno nervosa, stringendosi le mani. «Ti ho mai detto che John ed io ci siamo conosciuti prima che entrasse come coach alla Sunrise?». Scrutò Kara annuire e infine realizzare ciò che stava per dirle, spalancando gli occhi. «Sì», alzò le braccia all'aria un momento, «Vieni. Seguimi». Tagliarono strada passando per l'erba del parco, vicino a dei bambini che giocavano con l'altalena. Oltrepassarono una stretta vietta e Megan portò Kara a passare per una scorciatoia attraverso il cortile di una casetta antica e abbandonata, saltando un piccolo muretto. Scesero qualche scalino e si ritrovarono davanti a un'altra strada e, più avanti, altri negozi. Megan sembrava conoscere quel posto come le sue tasche. Si fermarono ai pressi di altre casette a schiera e lei ne indicò una: dietro il cancelletto chiuso, un uomo era chino a innaffiare una piantina in un vasetto vicino alla porta e a una sedia usurata. Lo videro tossire e riprendere a innaffiare. «Anche John è di qui. I Jonzz sono pescatori da generazioni. Dei Verdi. E quella… quella è casa sua. Dov'è cresciuto».
«È…?».
Megan sorrise. «Suo padre». Si voltò indietro insieme a lei quando sentì le voci di alcune signore anziane che la chiamavano. Alcune del gruppetto si avvicinarono per salutarla e darle le loro condoglianze; tutte squadrarono Kara da capo a piedi, malnascondendo sorrisi schivi e critiche a bassa voce. L'amica la presentò come una collega dell'università e le donnine le lasciarono a breve, camminando in branco verso la fine della strada, mani in avanti e schiena ricurva. «Vanno in chiesa», spiegò, «Sono Verdi».
«Hai notato che alcune ti hanno salutata e altre… non proprio?», ridacchiò e lei scrollò le spalle.
«Perché per alcune sono dei Verdi anch'io, ma per altre resto una Bianca come i miei genitori. È complicato, Kara. Questo posto è… come ti dicevo. Anche per il padre di John sono una Bianca», si voltò di nuovo, vedendolo rientrare, lasciando la porta aperta.
«Lo conosci di persona?».
«Sì, ma», sbuffò, «perché lo conosceva mia nonna. Lui non sa che sto-», si fermò, prendendo fiato, «stavo con suo figlio. È di vecchio stampo, Kara, qui sono tanti come lui. Immagina la faccia di quest'uomo quando John ha preferito andarsene invece di ereditare l'attività di famiglia. John voleva fare altro, ma qui non è qualcosa che si accetta con naturalezza. Nessuno arriva, pochi se ne vanno davvero», chiosò con rassegnazione. «È come se fosse un mondo a parte che… che tenta di tenerti qui».
Kara cominciava a capire com'era che la sua amica non parlasse spesso del suo paese d'origine; d'altronde, ora che ci faceva caso, si sentiva osservata: non solo le signore poco prima, ma qualunque abitante di Marsington passasse di lì la teneva d'occhio neanche fosse diventata un'attrazione da circo.
«Ignorali», scosse una mano, facendole cenno di seguirla ancora. «Si staranno chiedendo chi sei, cosa sei venuta a fare, qual è il tuo nome, il tuo stato sociale, che numero di scarpe porti. Gli stranieri fanno sempre quest'effetto e», gesticolò, allargando gli occhi, «adesso che le signore del gruppo della chiesa sanno che sei qui, lo saprà tutta Marsington prima che si ricordino del funerale di mia nonna».

John Jonzz si grattò la nuca, addentrandosi all'interno della piazza. Alcuni bambini si divertivano a schizzarsi con l'acqua delle fontanelle, seguiti a vista dai genitori seduti sulle panchine. Il sole batteva cocente, non c'era vento, si sudava un po'. Seguì la scultura disposta al centro, accompagnata dalla fontana più grande e maestosa di tutta la piazza, inquadrando Alex Danvers seduta sul muretto vicino all'acqua limpida. Batté i fascicoli che teneva in mano contro una coscia e si schiarì la gola, fermandosi e attirando la sua attenzione. Lei sospirò non appena lo vide, alzandosi in piedi.
«Credevo avrebbe fatto tardi, signore».
«Sono tornato da Ivy Town giusto qualche minuto fa. Ti avrei avvertito se avessi fatto ulteriormente tardi».
«Ivy Town?», si fece sorpresa, «Credevo fosse a Metropolis».
«Sì, infatti. Spostamenti… privati», pensò di sorridere e si guardò attorno di nuovo, osservando la scultura e i piccoli angeli rappresentati. Angeli su sedie a rotelle. «Immagino tu non abbia scelto questo posto casualmente».
«No, signore», guardò anche lei. «L'Angel Children's Memorial. Mi è rimasto impresso da quando Maxwell Lord mi fece avere il vecchio progetto sull'impianto idrico delle fontanelle per conto dell'organizzazione. Mi sono scervellata a lungo per capire quale fosse il nesso tra loro e questa piazza, ma…», prese fiato e strinse le labbra. «So che è stata fondata nel millenovecentosessantatré a seguito di un incidente stradale ai danni di uno scuolabus di ragazzi disabili, ma non ho trovato altro».
«Era il pullman di un'associazione che si occupava di ragazzi con disabilità fisiche e mentali», la corresse John, aprendo uno dei fascicoli che aveva con sé e passandoglielo. «Andavano in gita. Ho fatto qualche ricerca anch'io. Online non si trova nulla ma, se sai dove scavare, d'altronde… Non sono rimasto con le mani in mano mentre mi fingo in vacanza», le fece l'occhiolino e Alex sbirciò all'interno, esaminando le foto riportate del grave incidente: il pullman finì sotto una scarpata e morirono tutti, dodici ragazzi, l'autista e due educatori. Ma qualcos'altro attirò la sua attenzione e la ragazza spalancò gli occhi:
«I Luthor? I Luthor commissionarono il memoriale nel sessantatré?», lo guardò, incredula.
John le indicò di proseguire e Alex girò pagina, trovando due foto sbiadite e rovinate sui bordi: nella prima due ragazzi e una ragazza, nella seconda il più piccolo dei tre era solo, su una sedia a rotelle. «Louie… Louie Luthor? Non l'ho mai sentito…. Perché non l'ho mai sentito?», aggrottò lo sguardo.
«Fratello più giovane di Lara e Levi Luthor. Nato prematuro con conseguenti danni nello sviluppo, le sue condizioni si sono aggravate negli anni ed è morto nel millenovecentosettantacinque».
«Louie aveva… sedici anni quando successe l'incidente, giusto? Era-?».
L'uomo annuì. «Risulta tra gli iscritti all'associazione. Ma non era con loro quando accadde: i suoi lo avevano sottratto per iscriverlo in un istituto privato, dove forse speravano di vederlo fare progressi. Si ritiene che sia stato lui a volere il memoriale».
Alex sospirò, abbassando gli occhi. «I suoi amici… Non capisco, signore. In quel periodo, non esisteva ancora l'organizzazione… credo».
«Ancora», ripeté quella parola, osservando i piccoli angeli della scultura. «Non esisteva ancora. Si pensa che Levi Luthor sia stato uno dei fondatori, Alex. Più scavo su questa famiglia e più mi domando se non troverò in questo modo le radici di quell'organizzazione, se non sia tutto collegato. Se Louie Luthor non faccia parte, a suo modo, di un disegno più grande. Tutto parte da qui, ne sono convinto», annuì per sé, per poi girarsi e guardarla negli occhi. «È per questo che sono diventato un agente. Proprio per questo tipo di cose».
Ricordava che la televisione faceva i capricci e l'immagine saltava, ma lui cercava di non perdersi nemmeno un fotogramma sui detective nel programma che seguiva, restando a bocca aperta e picchiando la scatola a mano aperta. Suo padre lo aveva sgridato di non farlo e dopo era andato ad aprire la porta di casa, sentendo il campanello suonare. La casa della famiglia Jonzz era antica come tutte quelle della zona, non c'erano tante stanze e lui era costretto a vedere la tv nel soggiorno che faceva da ingresso; appena quella donna era entrata, bagnando il tappetino e lasciando lì il suo kway fradicio, lo aveva salutato mettendogli una mano sulla testa, infastidendolo.
Una donna era morta in un paese come il loro, negli anni settanta. I detective interrogavano dei sospettati, scavando nel loro passato e in quello della vittima. In sottofondo, la nave mercantile era in ritardo a causa del brutto tempo, sarebbe tornata al porto la mattina successiva: la donna e suo padre erano preoccupati.
«Beh, questi sono quelli che ti dovevo». La signora aveva appoggiato una mazzetta sul tavolo, spostando i lunghi capelli bianchi che, a riccioli, le scendevano lungo il seno prosperoso sotto il maglione. «Allora, domani cosa vuoi fare? Chiami i ragazzi?».
Suo padre aveva brontolato e John scosso la testa, cercando di seguire il programma. «Se riesce a smettere di piovere sì, volevo salpare il prima possibile. Mi sarebbe piaciuto portare i miei di ragazzi. Iniziare a fargli conoscere il mestiere. Ma con questo tempo…».
John aveva spalancato gli occhi: per fortuna, avendoli alle sue spalle, poteva fingere di non aver sentito e sperare che il maltempo perdurasse.
«Vero, Johnny?». Lo aveva interpellato e, non ricevendo che una debole scrollata di spalle, aveva ripreso a parlare con la signora: «È incantato. Non c'è modo di schiodarlo da quella televisione; è tutti i giorni che guarda di queste stragi, rapimenti, gente morta ammazzata… Con sua madre non lo faceva».
«Quanto ha, adesso? Dieci?».
«Dodici», aveva sospirato l'uomo. «Non so neanche se siano programmi adatti a dodicenni… Io non me ne intendo. Io…», la sua voce era mancata e la signora lo aveva preso per le spalle e aiutato a sedere.
«Stai facendo del tuo meglio. Sei un buon padre. I ragazzi sono tutti così, eh», aveva cercato di rassicurarlo e John, che sentiva tutto, aveva stretto le labbra dal fastidio. «Anche quel disgraziato di mio figlio da ragazzino non ti dico… E adesso è peggio», si era fermata, alzando le braccia per poi sbatterle sui fianchi rotondi. «Sta per diventare padre, il traditore, e sai che mi ha detto? Vorrebbe che li aiutassi, che ci fossi per quando nasce la bambina. Quello è tutto matto!», aveva sbottato e il padre di John si era messo a ridere. «Se pensa che farò finta di niente… Ma guarda un po'. La vedrò da lontano quella bambina. Eccome. Chi sta per i Bianchi non può pretendere niente. I figli non smetteranno mai di darti problemi». Aveva grugnito con sdegno.
Dopo poco se n'era andata, infilandosi il kway zuppo. Suo padre aveva chiuso la porta a fatica poiché il vento lo spingeva all'indietro, bagnandosi il viso di spilli di pioggia ghiacciata. Anche se aveva riso poco fa, sembrava ancora triste. John odiava vederlo così: aveva sempre l'impressione che fosse colpa sua.
I detective non erano riusciti a capire chi fosse l'assassino e il caso era stato archiviato. La donna non aveva trovato giustizia e lui aveva protestato e spento la televisione, seccato.
«È per tua madre, eh?». Aveva inquadrato il figlio voltarsi verso di lui con la coda dell'occhio, mentre era intento a contare i soldi. «È per lei che sei così fissato con quella robaccia, la gente ammazzata?», si erano scambiati uno sguardo e l'uomo aveva alzato la testa, rigettando la mazzetta sul tavolo. «Devo ricominciare daccapo. Non mi piace che ti fissi con quelle cose, hai capito? La gente muore tutti i giorni, Johnny. Niente di più».
Il ragazzino lo aveva visto stringere i soldi ripescandoli dal tavolo banconota dopo banconota, allontanandosi borbottando dalla camera.
Sua madre era morta un anno prima; l'avevano investita in città, lontano dalle sicure vie di Marsington. Era con lui e suo fratello quando successe ma, a parte i forti rumori, non ricordava nulla di quel giorno. Eppure suo padre di una cosa aveva ragione: era per lei che si era interessato. O meglio, ne era stata una causa. Cos'aveva provocato quell'incidente che l'aveva portata via da loro? Un sedicenne non era stato attento e l'aveva messa sotto, ma perché era successo? Perché beveva, quel pomeriggio? Perché era scappato da casa? Perché suo padre lo picchiava? L'andare a ritroso con gli eventi che avevano portato alla morte di sua madre era stata la miccia che aveva acceso la sua passione. Non ricordava molto dell'incidente, ma ricordava bene la storia del liceale che l'aveva investita.
Cosa aveva spinto un ragazzo di buona famiglia come Levi Luthor a volere di più, a fondare un'organizzazione come quella una volta cresciuto? Era sempre stato nei suoi piani che diventasse ciò che era diventata? Un fratello più piccolo e malato aveva avuto una qualche rilevanza nelle sue decisioni? Chi erano stati i suoi compagni nella fondazione? Chi conosceva? Com'erano cresciuti i tre fratelli Luthor?

C'era un grande movimento davanti alle scale d'ingresso che portavano a casa della nonna di Megan. Lei e Kara restarono lì davanti qualche minuto, quello dato ad alcuni uomini di salire verso la porta con grandi vasi di fiori colorati. Poi si intravide una donna: Kara poteva dire di conoscerla, anche se ci aveva forse scambiato una parola sola in tre anni. Appena le inquadrò, scese le scale di corsa e abbracciò la figlia.
«Sono così sollevata che tu sia venuta. Ero preoccupata per il traffico, potevi inviarmi un sms».
«Nessuno invia più gli sms, mamma», delineò un sorriso. «Te la ricordi Kara?».
«Sì, ma naturalmente». Lei le mostrò la mano ma la donna l'abbracciò di scatto neanche fosse una vecchia amica e lei ricambiò battendole timidamente una mano sulla schiena, guardando l'altra. Appena la lasciò andare, la donna si asciugò un occhio lucido con una manica del suo cardigan color pastello. «Sono contenta che non sei venuta da sola. Tua nonna avrebbe apprezzato. Non sei più andata a trovarla».
Suonava come un'accusa e la ragazza deglutì, trattenendosi dal dire qualcosa. Kara sorrise con circostanza e allora Megan chiese alla madre se potessero entrare in casa. C'erano tante persone che passavano da una parte all'altra e, di tanto in tanto, si fermavano a salutare lei e la sua amica, riprendendo a fare o a pensare qualsiasi cosa stessero facendo o pensando.
«Sono tutti parenti?».
«Questi? Oh, no», Megan sorrise mestamente, «Sono la vera famiglia di mia nonna, i pescatori. Quelli della Very Bold Shrimp. Prima andava a pesca anche lei», spiegò e si avvicinò a un mobile, prendendo in mano un portafoto d'argento, «con l'età ha preferito restare a lavorare nell'amministrazione. Credo l'abbiano costretta, veramente, non era una che mollava». Le mostrò la foto di lei bambina che abbracciava sua nonna, robusta, con i riccioli dei capelli bianchi e indomabili che le scendevano sulla schiena. «Era un pezzo grosso, sai… La stimavano tutti». Poteva sentire la sua voce che la chiamava se riusciva a sforzarsi, ad afferrare un ricordo: era una bimba dai codini crespi che amava giocare con la terra e dare dei nomi agli insetti, le dava della marziana e forse non con affetto, ma per la sua stranezza. Ogni volta che le avvicinava le mani sporche di fango, ogni volta che saltellava secondo lei più del normale, ogni volta che urlava, e non stava ferma, ogni volta che parlava con un bruco o con il cielo, per lei era Miss Martian, una piccola aliena giunta sulla Terra per complicare la sua vita. Quando aveva capito che il nome le piaceva, aveva smesso di usarlo per dispetto. Kara le strinse un braccio quando la vide farsi triste e così tirò su con il naso, appoggiando nuovamente la foto e cercando di distrarsi, cambiando il tono della voce. «Tra i Verdi, si intende. Vedi?», indicò con un cenno del capo sua madre che andava da parte all'altra della casa e lei né le altre persone presenti si scambiavano una sola parola, cercando di evitarsi e non toccarsi. «Bello, vero?», ironizzò. «Ecco cosa intendo: mia madre è una Bianca e in circostanze normali non sarebbe la benvenuta, qui. Beh…», a questo punto rise, guardando lei e Kara, «aspetta, ovviamente è nera, ma con Bianca intendo-».
«I Bianchi, quelli-».
«Bianchi per colletto bianco», la vide annuire, «all'inizio li chiamavano così in paese. Bianchi non di pelle. Lo hai capito, dai, era ovvio».
«Quelli dell'altra fazione. La Swordfish-».
«Company, sì», rise ancora, agitando una mano. «è nera ma Bianca. Anche mio padre è nero ma dei Bianchi. E quel tizio lì», le indicò uno che passava per uscire, «è bianco ma Verde. Dei Verdi. E quell'altro».
«Sì. Un bianco. Ma voglio dire, no, dei Verdi. Bianco ma Verde», Kara contrasse le sopracciglia, non trattenendo un sorriso, «Li-Li vedo, voglio dire, quali sono neri e quali bianchi».
«Ma non quali dei Verdi e quali dei Bianchi», scosse la testa, «Quello non puo- Nana!», all'improvviso la sua voce si fece più acuta, abbassandosi per salutare uno yorkshire color miele e strapazzargli il pelo. «Bella che sei, bella che sei. Era da un sacco che-».
Kara si abbassò subito al suo fianco e la cagnolina, felice, le andò addosso agitando la coda.
«Le piaci! Fatti annusare. Bella che sei».
«È un'amore», sollevò il viso quando la piccola tentò di leccarle il naso, salendole in braccio.
«È di mia nonna… Era», si corresse. «Ha provato per anni a insegnarle a ringhiare ai Bianchi e agli estranei, ma… Bianchi dei Bianchi, dico».
«Bianchi», la guardò, annuendo. «Ma Bianchi dei Bianchi per dire che sono dei Bianchi, o Bianchi… come bianchi, ma non veri bianchi dei Bianchi?».
Megan ingigantì gli occhi, ferma un istante a bocca aperta. Nana ne approfittò per saltarle addosso e leccarle il mento e lei decise di spingere Kara per una spalla, facendole perdere l'equilibrio. «Ehi, bella, ti odio proprio quando fai così».
Scoppiarono a ridere e salirono di sopra passando sulle scale di legno cigolanti, con la cagnolina Nana ai piedi. La casa era piccola e di vecchie costruzioni, c'erano travi in legno visibili che sorreggevano la struttura; una parete era di pietra e la nonna di Megan ci aveva inchiodato sopra portafoto grandi e piccoli sulla sua famiglia, o meglio entrambe: non solo i colleghi di lavoro in gruppo o sulle navi con le onde del mare alle spalle, ma per quanto era sembrato che odiasse il figlio che era passato per i rivali nella pesca, molte di quelle foto erano anche sue da piccolo fino a padre, con la piccola Megan in braccio. In una foto tra le più grandi c'erano loro tre vicini, o quasi, la donna non lo sfiorava. Era triste pensare che non fossero più riusciti a trovare un rapporto stretto da un certo punto in poi, anche se era evidente che si volevano bene. Sui mobili lungo lo stretto corridoio c'era una teca con su incollati dei pezzi di corda ognuno con un nodo differente, dei piccoli timoni soprammobili, un vecchio cappello, quelli che sembravano dei premi. Kara si chiese chi avrebbe tenuto tutte quelle cose per lei, ora che non c'era più.
Megan la invitò a entrare in una delle camere: un lettino singolo, una scrivania in legno deteriorata e un piccolo armadio con un'anta pendente, sotto l'unica finestra in alto, stretta. «Questa è stata la mia camera per un po', quando sono venuta a vivere qui».
«Vivevi qui?».
Megan ricordava l'aria triste della sé tredicenne nel vedere quella camera per la prima volta, quando la nonna le aveva detto che sarebbe stata quella dove avrebbe dormito. Aveva sfiorato un attacco di panico, o aveva cercato di farselo venire per farsi portare via dai suoi, impietositi. Non aveva funzionato, ma aveva vinto un pacco di piselli surgelati, nel caso sarebbe caduta e avrebbe sbattuto la testa. Sua nonna era sempre stata una donna pratica.
«Sì… i miei stavano passando un brutto periodo al lavoro e probabilmente nel loro matrimonio, così mi hanno-», si fermò il tempo per spostare la scrivania di qualche centimetro dal muro, abbassandosi e chiamandola per vedere, «costretta a stare qui per… non ricordo, forse due anni».
«Due anni?», si sbalordì, lasciando tra loro lo spazio per la testa di Nana, che scavava annaspando per passare e metterci il muso.
«Che dici? Avranno avuto il tempo per risanare il matrimonio?», ridacchiò, accarezzando la cagnolina. Dietro la scrivania erano attaccate tante figurine su sportivi famosi graffiate e ingiallite dal tempo, di cui Megan, dall'espressione compiaciuta, ne sembrava particolarmente orgogliosa. «Mia nonna e i miei forse non andavano d'accordo, ma hanno sempre avuto in comune questa fobia per la colla delle figurine, e io ho sempre sentito l'impulso della ribellione». Risero e ne approfittò per raccontarle di come nascondesse le merendine sotto il materasso poiché erano bandite, in quella casa. «Almeno, è stando qui che ho capito che avrei fatto sport. Non avevo mai passeggiato da queste parti e c'è un campetto da basket, te ne avevo raccontato? Non è lontano e ci passavo spesso, iniziando a giocare con altri ragazzi. Quelli che non mi prendevano per Bianca, almeno». La fermò con una mano sulla bocca prima che ricominciasse e risero di nuovo, sedendo sul letto insieme alla yorkshire. «Va bene. E adesso che siamo sole, la porta è chiusa e Nana non potrà raccontarlo in giro, puoi dirmi cosa c'è che non va».
«Cosa- Cosa intendi, non-».
«Guardavi il telefono».
Oh, se n'era accorta. Di certo non avrebbe voluto darle l'impressione di essere distratta. «Okay, ma io non-», formò un fresco sorriso, «non voglio ammorbarti anche oggi con la mia vita, è morta tua nonna e c'è il funerale e…».
«Mia nonna diceva sempre che se non sei capace di ascoltare... non ricordo bene. Il riassunto è che lei amava farsi i fatti degli altri e passare per saggia, credimi, sarebbe felice di sentirti e darti consigli inutili mettendoci il suo vissuto. Parla», si spostò con le natiche un po' più vicina, alzando il viso quando Nana provò a baciarla ancora. «E poi sono brava ad ascoltare, no? Sai cosa? Mi ci vedrei bene come barman per arrotondare, ascoltando i problemi dei clienti ubriachi».
Kara rise, riguardando il telefono. «Sai dove posso metterlo in carica?». Megan si portò subito in piedi e lei la fermò a un polso, lontano dall'inquadratura della camera. «Prima controllavo la batteria, mi sono dimenticata di metterlo prima di uscire…», continuò guardando lo schermo e dopo premette per spegnerlo, attenta nel farlo senza destare sospetti. «Oh, ecco, infatti si sta spegne- Eeecco fatto». Lo mise via, mentre l'amica la guardava confusa.
«A cosa si deve la recita?».
«Ci avrà già beccate, ci scommetto», borbottò per sé, riguardando lei e inarcando le spalle. «Indigo ci spia attraverso i cellulari».
«Lei fa cosa? È per questo che hai usato il mio per parlare con Alex e guardi il tuo di continuo?».
Kara strinse i denti. «Sì... A-Aspetto un'email da Pizza Hit perché ho diritto a un buono, veramente, ma... anche da Lena che adesso è con lei, senza contare che, da quando la cosa delle pillole è uscita fuori, la gente non fa che cercarmi per sapere», gonfiò le guance. Le riferì dei suoi sospetti e di quelli di Lena che, nonostante tutto, difendeva Indigo per un motivo o per un altro. «Renditi conto che Lena mi ha letteralmente fatto capire che voleva fare… fa-fare, sai cosa intendo», arrossì violentemente, «in bagno. E mi ha messo le mani sul sedere ma-ma era solo per assicurarsi che non avessi il telefono con me, quindi…».
Megan sorrise con gusto, mettendosi comoda. «Le pieghe che prende la tua vita non le leggo nemmeno sui romanzi. Continua, non fermarti».
«Quindi entriamo in bagno e mi aspettavo che avrebbe voluto… beh, invece no. Lei è cambiata di colpo e voleva parlarmi di Indigo. Penso: Indigo: ancora?! M-Ma era per dirmi che aveva capito che lei-», bussarono alla porta e si ammutolì di colpo.
Appena la testa del padre di Megan sgusciò dalla porta, la cagnolina saltò dal letto per corrergli incontro. «Ragazze! Ciao, Kara. Adesso chiudiamo casa, fatevi trovare di sotto. Okay?». Richiuse subito. La voce era pacata come suo solito, ma aveva le occhiaie ed era spento. Non aveva nemmeno sfiorato Nana, la quale gli era andata appresso.
«Con chi starà?», chiese Kara, «Nana?».
«Non lo so», ansimò, rialzandosi. «I miei non sono tipi da cani. Forse quelli della Very Bold Shrimp. Insomma, non possiamo mica portarcela dietro al campus». Rise e Kara con lei.
«Non accettano cani o altri animali», continuarono a ridere.
«E poi dovrei portarla a fare la pipì».
«E nasconderla al custode».
«Metti che la polizia passa di nuovo per cercare qualcuno che stiamo… casualmente nascondendo».
Kara scosse la testa. «Può succedere! E poi abbaierebbe».
«Sì, è sempre un cane, è imprevedibile».
«E non è proprio che mi vada di abbaiare davanti alla polizia mentre è in corso un sopralluogo».
Megan la indicò, dandole manforte. «O di fingere che il cuscino pieno di peli sia del mio letto», strabuzzò gli occhi, annuendo. Poi si stettero zitte, fissandosi.

«L'ho trovata che girava nel porto da sola». La voce di sua nonna era dura, come se fosse improvvisamente stata reduce da un incontro a fuoco contro pirati sanguinari. «Questa sera andrà dal veterinario». Si era spostata quando una Megan appena quattordicenne, con un'espressione di una granita sciolta al sole, si era avvicinata alla cucciola lasciata sul tavolo con le mani verse e una vocina che non le aveva mai sentito fare. Le aveva lasciato tutto lo spazio che le serviva, osservandola coccolare e infine prendere in braccio la piccola. «Potrebbe avere le pulci».
Le aveva subito chiesto come l'avrebbero chiamata e la donna le aveva fatto una faccia strana, ingigantendo gli occhi, per dirle come l'unico modo per chiamare un cane che non era di loro proprietà sarebbe stato cane. «Nana. Si chiama Nana».
«Cane».
La cagnolina le aveva scodinzolato finché non si era addormentata fra le sue braccia e la nonna, con il broncio, aveva mormorato fino a sera che era pronta a scommettere che erano stati i Bianchi ad abbandonarla al porto. L'aveva portata dal veterinario insieme alla nipote e dopo aveva deciso di adottarla poiché, secondo lei, non aveva voglia di creare annunci per la ricerca di un padrone e così era stato più sbrigativo. La cucciola di appena quattro mesi aveva trovato una casa, buon cibo, tante coccole, e Megan una scusa in più per uscire di casa e fare nuove conoscenze, perché tutti si fermavano di fronte a una cagnolina, dando modo di essere ben vista anche dai Verdi a dispetto dei suoi genitori. O, se non altro, ci aveva provato.
«Tu! Non potete stare così vicino alla mia casa». Burbero, l'uomo le aveva lanciato un'occhiata sinistra, passando la scopa sul cortile davanti al portone.
«Non le fa la pipì sul cancello, le sto insegnando le buone maniere», aveva replicato lei, cercando di tirare indietro Nana con il guinzaglio.
«Non dicevo al cane, ma a te», aveva sbottato e Megan aggrottato la fronte. «Le spie dei Bianchi non sono benvenute qui».
«Non sono una spia».
Megan sapeva che quell'uomo era uno dei pescatori colleghi della nonna, ma ancora non sapeva che era il padre dell'uomo della sua vita. Non lo aveva sentito arrivare, era già dietro di lei quando si era accorta della sua presenza, intento a sgridare il genitore:
«La vuoi lasciar stare? Non vedi che è una ragazzina?».
Megan aveva deglutito, restando a bocca aperta per lo spavento. Al contrario, Nana aveva cercato di farsi dare una carezza, tirando il guinzaglio.
L'uomo dietro il cancello aveva sbuffato, gesticolando. «Ne capirai tu, di queste cose, Johnny. Ascolterei tuo fratello, non te». Era rientrato a casa, lasciando la scopa davanti al portone.
Giubbotto in pelle nero, un bracciale con le borchie e più anelli nelle dita di entrambe le mani: quel ragazzo sembrava appena uscito dai suoi sogni più metal. «Se la prende a cuore, eh?», aveva riso, arrossendo. «Perché tuo fratello? Ha una qualifica sulla faida Verdi-Bianchi?».
Lui aveva sorriso, scuotendo la testa. «Lascialo perdere». Si era inchinato per accarezzare Nana. «Mio fratello è pescatore come lui e questo gli conferisce ogni qualifica mondiale», le aveva fatto l'occhiolino.
Era rimasta davanti al cancello a salutarlo, mentre entrava in casa. Quando era rientrata lei non aveva fatto altro che porre a sua nonna domande su quella famiglia. Ogni volta che usciva con Nana per farle fare le solite passeggiate si assicurava di passare da quelle parti, sperando di rivederlo. Non fosse stato per sua nonna che aveva fatto leva sulla salute della cagnolina, sarebbe uscita perfino con il cielo in tempesta. Le piaceva e non le interessava che fosse più grande. Ma essendo appunto più grande non abitava lì e non sapeva quando sarebbe passato di nuovo a trovare il padre. Passarono giorni e dopo mesi, fino al giorno in cui lo sceriffo di Marsington aveva arrestato un giovane del posto, un pescatore: il fratello di John Jonzz. Era rimasta piazzata davanti al loro cancello, ma quando Nana aveva cominciato a fare i capricci perché voleva muoversi, l'aveva riportata indietro: proprio nel breve tragitto lo aveva intravisto in macchina.
«Tu non dovevi nemmeno presentarti qui», suo padre aveva iniziato a gridargli addosso, furente. «Non dovevi! Se fossi stato più presente in famiglia, invece di andartene, non sarebbe successo! Tuo fratello aveva bisogno di te. Noi avevamo bisogno di te. Ci abbandoni e poi ti presenti come se niente fosse».
John era uscito di casa trattenendo le lacrime agli occhi. Era un agente sotto copertura in un gang a National City, in quel periodo, un lavoro che lo stava consumando e non poteva farne parola con nessuno, non aveva resistito a vedere suo padre così a pezzi che scaricava a lui le colpe di ogni cosa. Era arrivato al limite. Era stato suo fratello a scegliere di spacciare, perché doveva pagare anche lui?!
Il genitore era frustrato e pieno di livore, non si sarebbe calmato nel giro di poco, così ebbe l'idea di farsi una passeggiata e dare modo al suo corpo di ricaricare. Sarebbe entrato all'interno di un bar a bere qualcosa se non avesse visto dalle vetrate all'interno molti amici di suo padre e probabilmente di suo fratello, allora aveva pensato di cambiare strada e appoggiarsi al muretto di cinta di un vecchio campetto da basket. Lì, John l'aveva sentita arrivare, non pensando che si sarebbe fermata e seduta sul muretto, a quasi un metro da lui. La conosceva? Aveva un viso familiare.
«Un po' giù? È tuo fratello quello arrestato, vero?».
L'aveva guardata, per poi piegarsi e cercare qualcosa dalle tasche dei jeans. Aveva il viso ancora pulito e liscio di una bambina, con del mascara e un ombretto vistoso sugli occhi che indicavano la sua transizione verso l'adolescenza. John aveva annuito, prendendo un pacchetto di sigarette e un accendino. «Era stato già trattenuto diversi mesi fa, lo sceriffo lo aveva lasciato andare», aveva scrollato le spalle, «Non poteva più chiudere un occhio. Peggio per lui. Ma mio fratello portava avanti il lavoro di famiglia e mio padre si è appena ricordato che io non lo faccio, dunque…». Aveva lasciato cadere la frase a mezz'aria e gli era parso, con la coda dell'occhio, che la ragazzina avesse annuito e scrollato le spalle anche lei, interessandosi.
«Bello schifo. Mi dispiace. Sarei giù anch'io, amico, te lo dico, ma», gli aveva indicato le mani con un'alzata del mento, «quella roba non ti aiuterà a sistemare la faccenda con tuo padre».
Si era appena acceso la sigaretta e John aveva sorriso. Aveva fatto un tiro e l'aveva guardata, scuotendo la testa. «Sto cercando di smettere».
«Lo vedo. Ti riesce benone», aveva riso intanto che lui faceva un altro tiro, sollevando la sigaretta dalle labbra solo per ridere anche lui. «Che te lo dico a fare, vai alla grande da solo». Si era fermata quando lo aveva visto annaspare per trattenere una risata. «Occhio! Vedi che fa male?», si era sporta verso di lui che, dopo aver tentato di riprendere un tono più serio tossendo un po', aveva deciso di spegnere la sigaretta.
Gliel'aveva mostrata e lei sorriso soddisfatta. «Questa è per lo stress. Rilassa. Tu non iniziare mai».
«Oh, tranquillo», aveva sorriso di nuovo con fierezza, mettendosi dritta con la schiena. «Non c'è pericolo per me perché voglio fare sport».
«Ottimo. Brava», le aveva risposto, finendo per scrutarla ancora. «Tu sei la nipote di Ada Morz, giusto?». L'aveva vista farle cenno di risposta positiva, girandosi all'indietro solo per notare i ragazzi entrati nel campetto per giocare, che l'avevano salutata. Lei si era limitata a un cenno della mano. «Figlia di Bianchi, nipote di Verdi. E tu come ti vedi?».
Lei ci aveva pensato un po', piegando leggermente la testa. «Mmh… vedo me via di qui. Sì, penso vada bene! Mi vedo lontana da Marsington subito, quando potrò farlo».
«Quindi sei come me», aveva esclamato orgoglioso. «Sono John. John Jonzz». Aveva allungato il braccio destro e lei si era sporta per battergli il pugno.
«Megan Morz, John Jonzz».

John guardò l'ora sull'orologio al polso e passò il resto dei suoi documenti nelle cartelline ad Alex al suo fianco. «È chiaro come la famiglia Luthor è la chiave, dobbiamo capirne di più. Non credo che Lena Luthor ne sappia qualcosa, è troppo giovane, ma puoi tentare».
Lei gonfiò le guance appena, per poi sospirare. «No, non credo che… Se sapesse qualcosa, lo avrebbe detto. Almeno dovrebbe. Se non a me… Scusi, signore: divagavo».
«Di' pure, Alex. Esporre i propri dubbi ad alta voce può aiutare a sciogliere i pensieri».
«È che…», lei abbozzò una mesta risata, «sembra tutto uno scherzo del destino. Mia madre sposa Lillian Luthor, diventiamo una famiglia, e veniamo a scoprire che i Luthor non solo facevano parte dell'organizzazione che ha ucciso la famiglia della mia sorella adottiva, ma che il nonno paterno dei nostri fratellastri era uno dei fondatori. Che loro ne hanno sempre fatto parte, che hanno le loro radici ovunque in questa città. Io indagavo su di loro senza saperlo ed è… è ironico, John», lo chiamò per nome, riuscendo a sorridere di nuovo, senza reale divertimento. «Ancora più ironico è per Kara se penso che-», si bloccò e spalancò gli occhi, intanto che lui si faceva curioso. «Che… Che… Beh, che ha stretto un buon rapporto con… con Lena Luthor», si grattò la nuca.
L'uomo si portò due dita in mezzo agli occhi, abbassando la testa. «Adesso è chiaro», farfugliò, per poi mettersi a ridere. Alex lo guardò senza fiato, non comprendendo il motivo che lo portasse a riderci su in quel modo. «Stanno insieme. Avrei dovuto cogliere i segnali, accidenti».
«John…».
«Non preoccuparti», ridacchiò di nuovo, rialzando la testa. «Credo di saper mantenere un segreto. Ho più esperienza in merito», continuò a riderci. «Vorranno che la cosa resti tra loro, immagino. Anzi scusa se… se rido un po'. È che è ironico, hai ragione. È ironico davvero», la guardò, «il destino. A volte è facile domandarsi se certe cose capitino per caso o perché ci muoviamo seguendo i fili di qualcosa di più grande di noi. È tutto collegato, Alex», fissò l'acqua cristallina. «Si gira il mondo e si ritorna al punto di partenza», soffiò, perdendosi in alcune immagini nella sua testa: Megan Morz che lo aveva inquadrato assottigliando gli occhi, entrando sul campo da lacrosse. Aveva accettato l'incarico come coach alla Sunrise, doveva vegliare su Kara Danvers, si era preparato. Lo aveva fatto per interagire con le ragazze della squadra, alle strategie e aveva studiato il profilo della ragazza che doveva tenere d'occhio senza, a suo modo, dare nell'occhio, ma non si era preparato a rivedere quella ragazzina. Era cresciuta, era diversa. Non la rivedeva da anni e lei lo aveva scrutato come stesse cercando di forzare la mente a collegare il suo viso a un nome. La nipote di Ada Morz che lui aveva preso da parte preoccupato che sapesse chissà cosa del suo passato che avrebbe potuto divulgare, finendo per stringere con lei un rapporto che andava al di là di quello tra un professore e un'allieva.
«Signore», Alex si portò al suo fianco, camminando tra aiuole e fontanelle. «Va già via?».
«Ho un funerale, questa sera. Non vorrei arrivare tardi», si sistemò i polsini della giacchetta estiva che indossava. «Leggi i dossier che ti ho dato; mi raccomando la discrezione. Puoi accompagnarmi fino alla macchina». Aveva come l'impressione che lo avrebbe comunque fatto. «Come sta andando con Carina Carvex? Mi è sempre sembrata un po' strana, ma non mi ha mai dato motivi per dubitare della sua fiducia. Non un'ombra, sicura di sé, dotata, e sagace».
«Quella ragazza mi-», si fermò quando per poco non investì un bambino che correva, rimettendosi al suo fianco, «confonde le idee. Non capisco se menta così bene o- Ma mi ha invitato da lei, di recente; ho ancora un'opportunità. Ma devo parlarle di una cosa urgente, prima che vada. Volevo parlarle di Maggie. Maggie Sawyer, la mia-».
«Sta facendo un buon lavoro: Charlie Kweskill si fida, sta instaurando un rapporto con Zod ed è l'unica, in questo momento, che può davvero arrivare così vicino all'organizzazione». La vide alzare gli occhi al cielo, ma la cosa non gli avrebbe fatto effetto. «È la nostra miglior opzione. So cosa vuoi chiedermi e la risposta è no», esclamò deciso. Scesero le scale verso la strada. «L'unica che potrebbe chiedermelo è la diretta interessata e comunque proverei a farla desistere per il bene dell'indagine».
Dietro di lui, Alex strinse i pugni, prendendo aria a pieni polmoni. «Lei sta cercando di tagliarmi fuori, signore», rispose esasperata, «Ho paura che-».
John scosse la testa e decise di bloccare i suoi passi rapidi, passandole una mano su una spalla. «Capisco. Umanamente posso comprenderlo, Alex, ma siamo agenti. È il nostro lavoro e Maggie Sawyer sapeva a cosa andava incontro prima di iniziare», la guardò negli occhi e la ragazza si lasciò andare a un sospiro breve, amareggiata. «Non lavora per il D.A.O. ma ha avuto anche lei un'istruzione simile alla nostra, sa quello che fa. Non credi che abbia diritto a un po' di fiducia? A onor del vero, voi due siete le uniche di cui io mi possa veramente fidare, ora come ora». Riprese svelto a camminare verso le strisce pedonali, con Alex dietro di lui. «Se cerca di tagliarti fuori come dici, penserà che sia la cosa migliore, al momento. E da come ti agiti, probabilmente ha ragione lei». Infilò la chiave nell'auto e la vide pensarci ancora e fremere.
«Quindi-».
«Sì: la lascerò fare».
«Neanche se-».
«No».
Si guardarono e Alex brontolò piano, per non farsi sgridare. «Mi fido di lei-».
«Restiamo a posto così, allora», la interruppe prima che seguisse un ma. Aprì lo sportello e sedette sul sedile del guidatore, accorgendosi qualche secondo più tardi che Alex Danvers si era messa a fissare pensierosa i sedili posteriori. Si voltò e, non mancando di schiarirsi la gola roca, afferrò un piccolo peluche a forma di elefante, mettendolo via all'interno del cruscotto. Accidenti. Solitamente non era così distratto. Le bambine dovevano averlo dimenticato e adesso Alex Danvers… Ma non disse niente. Si guardarono e la ragazza non emise una parola, mentre lui cominciò a sentirsi a disagio, come se le avesse appena fatto un torto. Si conoscevano da anni, si fidava di lei che era una brava agente e una brava persona, ma se lui di Alex sapeva tutto, Alex non avrebbe potuto dire lo stesso. Anni a stare sotto copertura da una parte all'altra senza rendersi conto di essersi isolato, di non avere nessun complice accanto. Di aver passato sempre tutto da solo, anche quando non ce ne sarebbe stato bisogno. Alex Danvers era una sua sottoposta, ma era anche un'amica? Mise in moto e si salutarono, lasciandola indietro ai suoi pensieri e alle sue supposizioni. Si accorse di aver commesso uno sbaglio e che, con ogni grande probabilità, era lo stesso che aveva commesso con la sua ex moglie. E con Megan Morz.

Avevano vinto! Era la prima partita con lui come coach della squadra e non si era più sentito nella pelle, applaudendo fino a fargli male le mani. Era orgoglioso del suo lavoro al D.A.O., ma fare il coach gli aveva permesso di essere fiero di una squadra di giovani e talentuose ragazze che lui aveva portato a quella vittoria. Era una sensazione indescrivibile ed era sicuro che fosse lì, in quel momento, che tutto era iniziato. Solo ora poteva capire che era iniziato molto prima.
«Posso chiederti una foto? Ooops, errore mio», Megan aveva tirato indietro la testa, mordendosi un labbro. «Posso chiederle una foto, professore?». L'aveva abbracciato e si erano fatti quella foto, con lui palesemente in imbarazzo. Megan l'aveva pubblicata su Instagram la sera stessa, lasciandogli una dedica speciale per la vittoria: John l'aveva letta, era carina, peccato che nominasse la partita una sola volta in otto righe.
Era sempre stato consapevole di averle dato troppa confidenza, di averle lasciato più di un'opportunità di fare lo stesso e che non avrebbe dovuto perché per lei era una figura autoritaria ora, ma avevano Marsington in comune, un passato e una storia che li legava, una faida che li segnava e da cui erano scappati. Era bello stare a parlare con lei del paese da dove provenivano, dopo le partite, quando le altre giocatrici se n'erano già andate. A sparlare degli altri professori della Sunrise prima di iniziare un allenamento. A darle dei suggerimenti per studiare. Lei ricambiava stando ad ascoltare quando lui non riusciva più a tenersi dentro i problemi che comportava la vita dentro e fuori dal carcere di suo fratello, e delle lamentele di suo padre. Megan li conosceva ed erano l'unico aspetto della sua vita che riusciva a condividere tranquillamente con lei. Tra loro c'era qualcosa, non poteva negarlo. Tornava a casa con il petto gonfio e la testa leggera, neanche si sentisse un ragazzino. Aveva ricominciato a provare qualcosa che aveva perso nel tempo, quando si era innamorato e aveva iniziato a costruire un'idea di famiglia ancor prima di avere il suo . Ma non poteva farlo a Megan Morz. Non poteva avere una relazione con lei e non poteva perdersi a sognare di averla, facendo del male a se stesso. Non potevano e lo sapevano, per quello ci erano cascati dentro con tutte le sconvenienze del caso.
«John!».
L'aveva sentita chiamarlo prima ancora che arrivasse vicino alla porta del suo ufficio. Stava compilando dei documenti e aveva alzato la testa allarmato, poiché la voce gli era parsa sofferente. Si era alzato e aveva aperto la porta, vedendola entrare trascinandosi la gamba destra. «Cos'è successo?».
Si era seduta su una panca, mostrando i denti in una smorfia di dolore. «Mi fa male, stavo correndo… Sarà uno strappo muscolare?». Lo aveva fissato e John abbassato gli occhi sulla gamba, tastandola in più punti.
«Sei sicura? Come ha iniziato a farti male? Lo senti in che punto, di preciso?».
«Mah, un po' dappertutto, non riuscivo più a muoverla».
«Dappertutto?», lui aveva tastato ancora, ma aveva capito presto che era un trattamento inutile. Sollevando il mento e trovando i suoi grandi occhi scuri a fissarlo, non era riuscito a frenare un sorriso impacciato; dopotutto, come avrebbe potuto fare diversamente quando il suo cuore aveva iniziato a non capire più niente e il suo stomaco a contrarsi agitato? «Non hai fatto nulla alla tua gamba».
«Beh, che ne so… sarà passato». Aveva abbozzato un sorriso e si era sporta verso di lui veloce come un fulmine, approfittando di come fosse inginocchiato alla sua altezza, e gli aveva portato via un bacio.
Aveva trentadue anni, una ex moglie, svariate ex ragazze che erano state con lui durante i suoi periodi sotto copertura prima che si sposasse ma, in quel momento, si era sentito come un goffo tredicenne al suo primo bacio in una capanna in un campo scout, lontano dagli sguardi di chi avrebbe potuto punirli. La punizione, nel suo caso, sarebbe stato il licenziamento non da uno ma da ben due lavori. Aveva sempre desiderato entrare negli scout.
Si era allontanata guardandogli le labbra senza vergogna, deglutendo, e infine cercando i suoi occhi come nel tentativo di trovare lì il consenso per riprovarci. «Aspettavo da tanto per farlo…».
«Ah, sì?», si era sorpreso lui stesso di avere ancora una voce. «Anch'io». Quella risposta l'aveva fatta sorridere e, mentre lei gli aveva circondato il collo con le braccia, era stato lui a spingersi in avanti per baciarla ancora. Più lentamente, si erano dati il tempo di scoprirsi, di sentirsi, e capirsi.
Da allora smettere non solo era diventato impossibile, ma non era stato neppure un pensiero che aleggiava sulle loro testoline infatuate, continuando a vedersi di nascosto per dare un senso a ciò che sentivano. E avrebbe dovuto, certamente, perché stavano facendo qualcosa di proibito e nessuno doveva scoprirli.
«Kara lo sa», gli aveva detto una mattina, entrando di filata nel suo ufficio.
John aveva alzato il volto funereo, spalancando gli occhi. «… cosa?». Erano appena passati tre mesi, com'era potuto succedere e perché proprio con la ragazza a cui doveva fare da guardia?
Megan aveva sollevato le spalle, appoggiandosi alla sua scrivania. «Lo ha scoperto; è molto in gamba».
Ricordava di stare sfogliando l'album di foto sul cellulare e ne aveva zoomata una in particolare dove dava un bacio su una guancia di John, scattata in palestra quando erano soli. Sapeva di non poterne tenere molte con lui o correvano il rischio di farsi scoprire, così ne stava scegliendo qualcuna da cancellare, muovendo la testa a suon della musica nelle orecchie. L'aveva mossa all'indietro e poi più indietro, accorgendosi di aver toccato qualcosa: si era girata lentamente e il faccione di Kara Danvers era a un palmo dal suo, facendola schizzare da un lato dallo spavento, iniziando a urlare. Anche Kara si era messa a urlare e avevano continuato a urlare insieme per un po', con ognuna una mano sul petto.
Per fortuna Kara Danvers si era rivelata brava nel mantenere il segreto, nonostante non desse esattamente l'idea di poterci riuscire, imbarazzandosi con loro, all'inizio, quando i due erano nello stesso posto insieme. C'erano gli allenamenti, la capitana stava lasciando l'istituto e tutte cercavano di dare il massimo per prendere il suo posto, le partite si stavano facendo più difficili man mano che la stagione avanzava, non aveva il tempo e la voglia per pensare alla relazione segreta di qualcun altro. D'altro canto, i diretti interessati stavano accendendo la passione, cominciando ad accorgersi che cose come baciarsi e toccarsi senza esplorare oltre i propri corpi stessero diventando limitanti. Fu proprio in quel periodo che John, venendo a patti con la propria coscienza, aveva deciso di chiudere tutto prima che- beh, magari poteva aspettare ancora po', aveva pensato con la lingua avvinghiata sulla sua, non c'era tutta questa fre- no, dove gli aveva appena messo le mani? Va bene, si era messo fretta proprio in quell'istante, staccandosi da lei e riprendendo fiato. Megan lo aveva guardato con occhi languidi, prendendo fiato anche lei.
«Non ti è piaciuto? Non ti è piaciuto, non è vero? Puoi dirmelo, Jonzz: sono aperta a critiche». Si era slanciata per catturargli le labbra di nuovo e lui l'aveva spinta leggermente, con le mani sulle spalle.
«No, vedi… è proprio questo il punto: dobbiamo parlare».
«Oh-oh, suona male. Sei nervoso?», non aveva trattenuto un sorriso, abbassando gli occhi. «Perché anch'io lo sono… e tanto. Poi avrai più esperienza di me, ma questo-».
«No», lui aveva stretto gli occhi e indietreggiato, confabulando vari la la la per scacciarsi il pensiero dalla testa. «No, ascoltami, non parleremo di sesso», aveva iniziato a gesticolare, mettendo una mano in avanti con tono lapidale. «È stato un errore, non possiamo continuare. Sono il tuo coach, per la miseria! Qui mi sto giocando la carriera, e sono più grande, non possiamo farlo! Io non posso farlo: devo essere responsabile per te».
«Sì, okay…», si era seduta al banco dietro di lei, mantenendo un'aria più sicura e ferma di quanto lui si aspettasse. E aveva preso un bel respiro, prima di proseguire: «Non è che siccome sei più grande di me, io qui sia un'ameba incapace di provvedere a me stessa, bello. Sono adulta e consenziente, direi», gli aveva sorriso. «Non sei responsabile per me: nessuno lo è a parte me medesima, questo almeno è chiaro?!». Aveva sollevato le sopracciglia quando si era accorta che lui non le avrebbe dato una risposta a breve. «Sì, sei il mio coach. Eri il mio coach anche quando abbiamo iniziato ed è andata bene fino ad ora, perché adesso dovrebbe essere diverso?».
A volte riusciva ancora a sorprendersi nel sentirla parlare in quel modo così sicuro: aveva sempre la risposta pronta. «Ho smesso di fumare».
Lei aveva riso, arrossendo. «Ci credo, Jonzz, o non saresti durato due giorni, con noi».
John si era avvicinato e le aveva circondato il volto con le sue mani grandi, abbassandosi il giusto per catturarle un bacio. Gli aveva dato la sua risposta pronta, ma non era sicuro di voler davvero provarci: andare al di là di quei baci significava portare la relazione a un livello più alto, più serio, e lui era non solo il suo coach, ma un agente federale che non poteva rivelarle la verità. Come avrebbe potuto rifiutarla, allora? Con quale coraggio, cercando di ignorare i suoi e i propri battiti del cuore? «Non possiamo… Megan».
Si era staccato e allontanato, e Megan, in quel momento, aveva sentito il vuoto circondarla. «Davvero?», gli aveva chiesto, scendendo dal banco. «Esci da quella porta, allora. E mi starà bene così», aveva deglutito. «Non che mi stia bene sul serio, mettiamolo in chiaro, ma lo so, sei tu quello a rischiare il lavoro e… Lo so che non mi vedi come vedi le altre, come… una ragazzina che voleva la relazione proibita con l'insegnante, quindi non lo penserò, non me la prenderò. Incasserò il colpo e la sto facendo un po' lunga, quindi», aveva annuito, aggrottando la fronte, «vai se devi andare! Non aggiungerò una parola». Non avrebbe funzionato comunque, aveva pensato la ragazza: un Verde e una figlia di Bianchi, lontani da Marsington ma sempre suoi per nascita, cosa era passato per la testa di entrambi?
John aveva sentito il suo cuore spezzarsi, ma non poteva restare. Senza guardarla, mantenendo lo sguardo basso era uscito da quell'aula. Doveva finire in quel modo, non avrebbe dovuto incrociarla la sera intento a recuperare una cartella lasciata alla Sunrise il pomeriggio. Non avrebbe dovuto offrirle di andare a mangiare qualcosa. E forse lei non avrebbe dovuto accettare. Non avrebbe dovuto accettare di andare nel suo appartamento dopo aver mangiato. Non avrebbe dovuto accettare di farsi sfilare i vestiti. Ma aveva ragione Megan: erano due adulti responsabili di loro stessi, consenzienti e, se n'erano accorti, innamorati.
Era uscita dalla doccia e, involta in un asciugamano, si era allontana dal bagno. Era mattina da qualche ora e per fortuna non aveva lezione presto. Aveva visto John seduto sul divano, piegato in avanti e ancora in boxer; le era sembrato pensieroso e aveva sperato davvero che non si stesse pentendo di essere stati a letto insieme. Si era avvicinata cauta, passandogli una mano su una spalla. «Qualcosa non va?».
Lui ci aveva messo un po' a trovare il fiato per permettergli di dire quelle parole, con ancora lo sguardo puntato al suo cellulare: «Questa notte…», aveva deglutito, voltandosi, «Questa notte è nata mia figlia».
«La tua chi?».

Avevano lasciato Nana a casa della nonna e, a piedi, abbandonato il territorio dei Verdi salendo in pianura verso quello dei Bianchi. I genitori di Megan erano passi avanti, lontani tra loro cercavano comunque di parlarsi, se non quando, di tanto in tanto, si fermavano per scambiare quattro chiacchiere con gli abitanti della zona. Anche lì Kara si sentiva osservata, tenendo il passo vicino all'amica che le sembrava essersi fatta stranamente più torva. Le case erano diverse, di costruzioni più recenti senza dubbi, ma un po' tutte uguali tra loro e senza colori particolari. In cima alla pianura spiccava l'edificio con gli uffici della Swordfish Company dove lavoravano anche i genitori di Megan e lei, a bassa voce, le raccontava di com'era stata spesso lì, da bambina, quando la nonna non poteva farle da babysitter. C'era stata altrettanto spesso anche da ragazza ma non era pronta a confidarglielo, stando ben attenta ai volti delle persone intorno a loro. Non voleva rivederlo. Il suo corpo si stava ribellando e aveva iniziato a farle male lo stomaco dall'ansia; sperava davvero che se ne fosse andato da Marsington fosse anche solo per studiare prima di sposare una poveraccia qualsiasi tra quelle del posto che le andavano dietro e restare ancorati lì per la vita. Appena vide i suoi occhi luminosi spiccare alle spalle di un uomo, capì che le sue speranze erano state vane e che adesso si cominciava a correre: strinse Kara per un braccio e la trascinò per un po', forzandola ad andare più veloce. «Ti prego, non fare domande e cammina».
«Megs! Megs, aspetta».
Troppo tardi. Scambiò con l'amica uno sguardo preoccupato e avanzarono più lente, aspettando il suo arrivo. Lo stomaco iniziò a restringersi più forte e il ragazzo si infilò con prepotenza tra le due, adocchiando Kara con un sorriso.
«Wow, un'amica di Megs? Le sue amiche sono amiche mie».
«Non penso proprio». Megan aveva cercato di raggiungerla allungando una mano verso di lei, ma il ragazzo si era mosso di proposito per colpirla e farla indietreggiare. «Ce l'hai ancora con me?».
«Con te? Mai». Sorrise di nuovo e mostrò la mano destra a Kara per stringergliela. «Armek. Piacere».
Kara era confusa, non le piaceva l'aria che si stava creando tra loro. Gli strinse comunque la mano, forzando un po' la presa. «Kara. Piacere mio».
«Che stretta! Le ragazze di città sono tutte come te, Kara?».
«Oh, non tutte», rispose sarcasticamente, lanciando uno sguardo a Megan.
Armek si tolse un ricciolo arancio di capelli dal naso e rise, infilando le mani nelle tasche dei jeans larghi e al ginocchio che indossava. «Megs ti ha parlato di me, Kara?».
«Veramente no».
«Eppure sono il suo ex fidanzato», la guardò con la coda dell'occhio, camminando dritta in avanti e con occhi bassi. «Dovevamo sposarci». Notò la curiosità della ragazza e proseguì: «C'era il progetto di prendere casa qui, mia zia ne ha una libera. Bella», continuò lui senza abbandonare il suo sorriso. «Eravamo anche andati a vederla. Dovevamo lavorare alla Swordfish», la indicò con il mento e Kara seguì il suo sguardo. «Era tutto perfetto».
«Non era perfetto per niente»: finalmente Megan decise di parlare, ma senza alzare troppo la voce da poco più che un sussurro, sentito grazie a un silenzio momentaneo dal vociare degli abitanti.
«Sì che lo era», ribatté sognante lui. «E lo sai. Menti, continui a mentire a te stessa; cosa vuoi che ti dica, Megs», si fermò, parlando con calma e scuotendo un poco la testa. «Continua a mentirti, se ti sta bene».
Alzò una mano per prenderne una sua e Megan si tirò indietro d'istinto tanto che Kara, che assisté alla scena, non poté fare a meno di notare a come non avesse agito per ribrezzo a un ex fastidioso, ma per paura. Megan si era portata indietro una mano per ripararsi il viso. Poiché il tempo passa, ma la memoria del corpo non dimentica, e Kara strinse le labbra: Armek la picchiava?
«Oh, eddai», rise lui, «Non ti posso nemmeno sfiorare, adesso? È assurdo, questo; lo sai, vero?».
«Forse è meglio che te ne vada». Kara attirò la sua attenzione e il ragazzo si voltò verso di lei, scrollando le spalle. «Oggi è il giorno del funerale di sua nonna, vuole essere lasciata in pace».
La fissò, smettendo di ridere. «E lo sai tu che vuole essere lasciata in pace… Kara?», guardò Megan, insolitamente taciturna e arrendevole, e di nuovo lei. «Non lo sento dire da Megs».
Megan allora chiuse gli occhi, prendendo fiato. «Devi andartene, Armek».
Lui abbozzò una risata, riguardando ancora una volta entrambe con fare incredulo. «Siete d'accordo, eh? Beh, tanto io non ci vado al funerale della vecchia Verde. Quella era pazza, Kara. Non lo sapevi? Megs non te lo ha detto?», alzò le mani al cielo, «Mi aveva puntato addosso un fucile, era tutta suonata. Una vecchia Verde pazza». Si spostò, riguardando un'altra volta la ragazza: «Ci vediamo in giro, Megs».
Kara la guardò e le prese una mano senza chiederle niente, ricominciando a camminare per raggiungere casa dei suoi.
Armek. Il suo punto buio; il baratro che, per un periodo, la stava ingoiando. Marsington l'avrebbe tenuta lì con lui, ne era sicura. Al tempo vedeva Armek come il suo futuro, non come la sua probabile fine.
«Sei brava a basket», pallonava meglio di chiunque, lo ricordava bene. «Vediamo come te la cavi contro di me, piccola». Non era riuscita a prendergli la palla e lui aveva sorriso con gaudio, raddrizzando la schiena. «Niente male», le aveva sorriso e Megan arrossito. «Ti sei allenata coi Verdi? È per quello che non riesci a prendere la palla, sono tutte schiappe; scommetto che li battevi a occhi chiusi. Il campetto c'è anche da noi, okay? È più bello, e nuovo. Non lo sapevi? Ti ci porto io».
Era un bel ragazzo, popolare, dagli occhi chiari e accesi; a quel tempo aveva i riccioli di un verde fosforescente e di un biondo dorato sulle punte. Armek era gentile all'inizio, le faceva conoscere posti e persone nuove; veniva rispettato dai ragazzi dei Bianchi e metteva a tacere quelli che la definivano una spia dei Verdi per via di sua nonna e del tempo che era stata a vivere con lei. Le mostrava che poteva essere una Bianca e vivere a Marsington, se avesse voluto. Il loro primo bacio era avvenuto al concerto di una band rock locale di ragazzi che conoscevano, davanti agli applausi degli amici. Il suo primo schiaffo al suo compleanno, perché non aveva rispettato l'orario stabilito per vedersi e lui aveva dovuto aspettarla. Odiava aspettare, la colpa era stata di Megan ma lui si era comunque scusato, riempendola di baci. Il secondo schiaffo l'aveva fatta sbattere contro un tavolo, perché gli era finita addosso con un bicchiere pieno e lo aveva bagnato sui jeans nuovi, facendogli fare brutta figura davanti agli amici. La colpa era di Megan che avrebbe dovuto stare più attenta, ma lui si era comunque scusato e quella notte erano stati insieme per la prima volta. L'aveva coccolata, aveva pensato a lei. Il terzo schiaffo era stato più forte, l'aveva buttata a terra. Era di malumore e Megan non avrebbe dovuto insistere quando lui le diceva di doversi stare zitta. La sera si era scusato però ed erano usciti insieme a prendere da bere. Aveva offerto lui, era gentile. Poi gli schiaffi erano stati sostituiti da colpi più forti, dai calci a terra dopo le spinte, o dai lanci di oggetti se ne aveva a portata di mano. Era dolce con lei, quando voleva fare l'amore. Le baciava sempre i segni lasciati sul corpo, prendendosene cura fino alla guarigione.
«Ti voglio sposare, Megs», le diceva a fior di labbra. «Sei la ragazza più bella del mondo».
La faceva sentire unica e speciale e Megan era sempre stata convinta, al tempo, che avrebbe imparato a conoscerlo più a fondo e a capire come comportarsi con lui per non farlo arrabbiare. Perché era colpa sua se la colpiva, lei era convinta che lo fosse e si vergognava. D'altronde sapeva di essere fortunata: molte ragazze della sua età sbavavano dietro ad Armek e lui aveva scelto lei, non loro. Sarebbe rimasta a Marsington con lui, era la sua vita.
Kara le stringeva ancora la mano quando arrivarono alla casa piena di persone e il volto di Megan parve farsi assente. La lasciò solo quando si vide costretta poiché loro avevano iniziato a sommergere la ragazza di saluti e abbracci, ma lei la cercava da là in mezzo ogni secondo, affinché non la lasciasse sola con loro. La madre dell'amica le offrì da bere dentro casa, ma dovette rifiutare e aspettarla: non poteva allontanarsi da lei in quel momento, vedeva che era molto più fragile di quando erano arrivate a Marsington, che fosse per la nonna o per aver rivisto quel ragazzo. Si chiedeva se davvero lui la picchiasse: in quel caso, capiva perché non ne avesse mai fatto parola. Ma Megan era una ragazza indipendente, sapeva farsi rispettare e l'aveva sempre difesa perfino da Mike che mai avrebbe osato toccarla: com'era riuscita a diventare un'altra persona, con lui al suo fianco? Marsington aveva conosciuto un'altra Megan.
La casa era più spaziosa di quella della nonna al vecchio territorio dei Verdi, con mobili dai design più moderni e le pareti lisce e rifinite. Ordinata, odorava di prodotti chimici e smalto per legno. C'erano tante foto di Megan bambina e di loro tre insieme, vicino ai soprammobili in legno e a quelli in porcellana. Alcune erano appese accanto ad attestati dei membri della famiglia. Megan le mostrò le stanze in modo sbrigativo e, per le sue, le chiese di seguirla al piano di sopra come alla casa della nonna. Aprì la porta di camera sua, riconoscibile per la targhetta plastificata con il suo nome, e richiuse dietro di loro. C'era molto più rosa che nella camera dell'altra casa, come le tende, il copriletto, il tappeto, una casa delle bambole alta un metro, sul pavimento. Kara gliela indicò poiché non la credeva quel tipo di bambina e Megan arrossì vistosamente, sorridendo e avvicinandosi alla finestra aperta.
«Quelli sono i miei nonni materni», sollevò l'indice destro, puntandole una coppia di anziani vicino ad altre persone: lui si sorreggeva con le stampelle e lei lo aspettava a ogni passo. «Come sono eleganti… Hanno deciso di venire al funerale, a quanto pare. Non facevano che sparlare di lei quando era in vita e ora guarda quanta ipocrisia». Adocchiò l'arrivo di altri parenti e diede loro le spalle, mettendo le braccia a conserte. «Mia nonna non era pazza», sibilò e Kara le sorrise mestamente, standole vicino. «Quello che ha detto Armek… Scusa per lui».
«Non devi chiedermi scusa né dirmi niente, se non vuoi», scosse piano la testa e Megan ansimò, abbassando lo sguardo. All'improvviso le appariva come fatta di vetro filato in procinto di rompersi; delicata, fragile Megan. Kara non l'aveva mai vista sotto quell'aspetto.
«Lo aveva davvero minacciato col fucile. Mia nonna», sussurrò con un sorriso e si voltò per chiudere la finestra. «Lo hai capito, Kara…», si fermò stringendo la maniglia, sussurrando, «mi metteva le mani addosso».
Lei deglutì e restò in silenzio, aspettando che si girasse.
«Solo John lo sa. Ne ho parlato solo con lui».
«Verrà al funerale?».
«Non lo so», rimise le braccia a conserte, «Forse oggi ha il turno con le figlie».
«Cos…», Kara spalancò gli occhi, creduto di aver sentito male. «… le-figlie? John Jonzz? Ha delle figlie?».
Allora anche Megan spalancò gli occhi e a un certo punto le spuntò un sincero sorriso sul viso. «Sì, tipico di John… Non sono l'ultima a sapere le cose! Quell'uomo non riesce a non avere dei segreti, è evidente», annuì. «Ha due figlie! Kym ha quattro anni e Tanya… due anni».
«Due anni?», arcuò le sopracciglia sempre più sorpresa, e come poteva essere altrimenti: John Jonzz era stato il loro coach per due anni e mezzo e, che ne sapesse, lui e Megan erano stati insieme circa due anni.
«Una figlia…», aveva mormorato alla scoperta, due anni fa. Non riusciva a smettere di tremare. Avevano appena passato la notte insieme, pensava di conoscerlo, si era innamorata di lui e ora…? «Hai una figlia?».
John si era alzato dal divano con fare stanco, rimettendo via il telefono. L'aveva guardata e sospirato, quasi fosse infastidito della situazione. «Veramente è la seconda-».
«Seconda che?».
«Kym va alla materna».
«Non dirmi figlia perché sto per urlare».
«Megan, aspetta». Aveva cercato di andare verso di lei ma la ragazza aveva camminato all'indietro fino a scontrarsi con il muro.
«Cosa? Cosa devo aspettare? Pensavo fossi un uomo diverso, John! Non avevo alcuna intenzione di diventare la tua amante».
«Cosa?», lui aveva aggrottato la fronte, avvicinandosi a lei. «Non lo sei».
«Non sei stato sincero e non toccarmi», lo aveva fulminato con lo sguardo, appiattendosi al muro.
«Lasciami spiegare, ti prego».
«Non-toccarmi».
Megan annuì di nuovo: guardava il cielo farsi più nuvoloso al di là del vetro, sentendo lo sguardo dell'amica su di sé. «Sono scappata da Marsington, quando ho lasciato Armek. E mi sono innamorata di John», sorrise di nuovo, breve, inumidendosi le labbra. «Quando l'ho visto la prima volta in campo, era appena arrivato… ho avuto come un flash e il mio corpo ha fatto una reazione strana: era come se lui dovesse essere la mia persona da sempre. Ma avevo paura, Kara», le lanciò un'occhiata amara, «Lo volevo e avevo paura. Puoi capire la mia reazione quando ho scoperto che aveva famiglia. Beh, erano già divorziati, Tanya non… non era prevista, a quanto pare non sapevano fosse incinta quando hanno divorziato, ma io non volevo ascoltarlo. Armek mi riempiva di bugie, Kara. Mi manipolava e mi picchiava, mi raccontava un sacco di idiozie. E quando John… Ho avuto ancora più paura perché non volevo ritrovarmi in una situazione peggiore», abbassò di nuovo i suoi occhi, fissando un punto vacuo. «Per questo non potevo passarci sopra quando scoprii che era un agente del D.A.O.. Finché non avesse capito come mi ha fatto sentire, allora…», la guardò e forzò un sorriso. «Mi conosci, vado dritta al punto quando voglio qualcosa e anche se avevo paura a imbarcarmi in una nuova relazione non volevo altro, e l'ho fatto, ho baciato John e sono andata avanti, volevo andare avanti… ma ciò che mi ha lasciato Armek è pesante», gli occhi le si fecero lucidi.
I caldi abbracci di John potevano diventare quelli di Armek quando chiudeva gli occhi. Il ragazzo la stringeva tanto forte come per paura potesse sfuggirgli, però: riusciva a trovare la differenza e a sorridergli quando li riapriva. Era un lavoro continuo. Ma una notte in particolare accadde una cosa diversa. Era rimasta nell'appartamento di John e ricordava che lui l'aveva svegliata di soprassalto, preoccupato per lei. Era sudata, le disse di parlare ad alta voce nel sonno, Megan pensava di stare solo sognando e non capiva cosa stesse succedendo. Fu quella notte a presentargli Armek che prese forma dai suoi ricordi. John la strinse con lui fino al mattino.
Armek era ovunque in lei. «Non toccarmi», aveva gridato un pomeriggio. «Devo andare, lasciami in pace». Armek la stava assorbendo.
«Non parlarmi così, cazzo, te l'ho detto mille volte», le aveva afferrato un polso e lo aveva stretto così forte da lasciarle il segno. Megan era riuscita ad andarsene, ma lui l'aveva seguita fino al territorio dei Verdi.
La nonna aveva ragione e se n'era resa conto solo una volta che si era seduta sul bus per scappare da Marsington, guardando attraverso il finestrino il suo paese natio che si allontanava. Con sé solo due borse piene e il petto vuoto che si graffiava perché non era riuscita a parlarle. Perché si vergognava.
«Megs! Megan!», lui aveva urlato il suo nome fuori dal cancelletto della casa di Ada Morz. L'aveva vista uscire e raggiungerlo per dirgli di andarsene, che si sarebbero rivisti quella sera e che voleva stare un po' per conto suo, ma a lui non stava bene. Non poteva stargli bene qualcosa che non aveva potuto decidere lui. «Torni dai Bianchi con me, adesso», le aveva ordinato. «Dobbiamo parlare, non me ne vado senza di te». Le aveva di nuovo stretto il polso e Ada Morz, che era uscita fuori con la cagnolina Nana che abbaiava dietro il cancello, era tornata di fretta in casa solo per uscire imbracciando un fucile, caricandolo davanti a lui.
«Vattene da qui, rifiuto umano». La donna era stata attenta a uscire dal cancelletto senza farsi seguire dall'adirata Nana che grattava attraverso le sbarre per passare.
Lui era rimasto di pietra, ma anche Megan, che di certo non si aspettava quella reazione da parte della nonna. «Vuoi spararmi, vecchia svitata?». Allora si era rivolto alla ragazza, prendendo fiato: «Megs, tua nonna vuole uccidermi! Ti rendi conto?! È fuori di testa».
La nonna la chiamava di raggiungerla, Nana ringhiava e abbaiava, Armek le parlava ad alta voce nelle orecchie che dovevano andarsene prima che partisse un colpo. Li aveva guardati e si era messa tra i due, alzando i palmi delle mani. «Metti giù quel fucile, che stai facendo?! Mettilo via». Non ricordava per quanto tempo era stata là, dando le spalle ad Armek per proteggerlo, a dire a sua nonna di abbassare il fucile. «Ti prego, nonna, mettilo via! Smettila! È il mio fidanzato».
«È una bestia», aveva urlato e i vicini si erano affacciati, assistendo alla scena a occhi aperti.
«Credevo di meritare tutto…», mormorò Megan davanti a Kara. «Credevo di meritare quei lividi; che erano colpa mia perché sbagliavo sempre qualcosa». Non erano colpa sua. Aveva fatto tardi, non meritava uno schiaffo. Gli aveva versato addosso dell'acqua, non meritava uno schiaffo. Lui era di malumore, lei non meritava di essere colpita perché cercava di parlargli. Non erano colpe, ma lui le faceva credere che lo fossero e dopo le faceva credere di perdonarla per quelle colpe che non esistevano. «Non mi sono mai sentita una vittima, Kara, davvero. Credevo di stare bene, con lui. Di amarlo. E quando lo guardo, anche adesso, ritrovo chi ero con lui e mi sembra ancora normale pensare che fosse colpa mia…». Kara strinse le labbra e Megan aggrottò lo sguardo. «Che dovevo starci più attenta e lui non mi avrebbe toccato più». Si prese una pausa, tirando su con il naso. Si accorse di aver iniziato a tremare e prese fiato, nascondendo il viso con un polso. «Perché i suoi occhi mi guardavano con amore, Kara, e io non volevo vedere altro… Era gentile. Era gentile», ripeté.
La nonna aveva mosso il fucile per farla allontanare, ma Megan era rimasta lì, immobile a fianco a lui. «Guardami, Megan», le aveva detto, stringendo i denti. «Quando un ragazzo ti fa del male una volta, allora è capace di farlo sempre».
Su quel bus che la portava a National City per la prima volta, Megan aveva pianto. Non le era rimasta che la vergogna. Dopo la colpa, la vergogna.
«Mi vergogno del mio tempo passato con Armek», gli occhi le si riempirono di lacrime e aprì la mano per coprirsi una parte del viso. «Mi vergogno di come mi sia lasciata trattare e di non essere riuscita a dire», sbatté le palpebre e le prime lacrime le rigarono le guance, «a dire a mia nonna che aveva ragione. A dirle grazie».
Megan aveva avvolto un braccio di Armek e si erano allontanati, con Nana che abbaiava disperata dietro il cancello e sua nonna che la chiamava per dirle di non andare con lui. Solo allora Ada Morz aveva abbassato il fucile, facendo un passo verso di loro:
«Non lo fare! Torna qui, Megan», le aveva urlato. «Torna… Miss Martian».
I passi di Megan si erano fermati e aveva guardato indietro pochi istanti, il tempo per Armek di tirarla via.
Non era più tornata. Da quel momento, la relazione con Armek si era fatta più difficile: sua nonna aveva piantato in lei un seme che era cresciuto in fretta e l'aveva svegliata quel tanto che bastava per capire che doveva andarsene, se voleva una vita libera. Aveva preso quell'autobus e si era vergognata. Non poteva andare da sua nonna e dirglielo, quel sentimento di disgusto glielo aveva impedito. Non sarebbe riuscita a guardarla in faccia. E ora era tardi.
Kara non resistette alla tentazione di abbracciarla e l'accolse contro il suo petto. Megan era ferita e non lo aveva mai mostrato. Spiritosa, e forte, si preoccupava degli altri, aveva tentato con ogni mezzo di seppellire i suoi demoni, quelli che imputava a quel luogo, a Marsington. A Kara si strinse il cuore: le paure della nonna che quasi ogni notte mormorava in sogno, non sembravano altro che un riflesso del suo trauma esternato in altre forme. Le visioni della nonna fuse al terrore della nipote. «Non vergognarti… Non vedo vergogna in niente di ciò che mi hai detto. Tua nonna ti amava, Megs. Shh», mormorò, sentendola piangere e iniziare a singhiozzare, «Shh… Lo sapeva che sei libera. Ti amava così tanto».

I riccioli bianchi le scendevano dalle spalle lungo il seno prosperoso. Non sorrideva poiché era difficile riuscire a fotografarla quando accadeva. Molti passarono a toccare la superficie plastificata della foto accanto alla bara, in cimitero, con lo scopo di salutarla. Tanti piangevano. Era pieno di Verdi e molti Bianchi: Megan si guardò attorno sorpresa, ascoltando la voce del predicatore. Non si aspettava quell'affluenza, non si aspettava quella gente, e perché i suoi nonni materni apparivano tristi? Erano ipocriti fino a quel punto? Arrivarono altre persone, e altre ancora. Verdi e Bianchi. Si voltò e rivoltò e Kara la prese di nuovo per mano, lasciandole un sorriso. Erano tutti lì per lei, realizzò a un certo punto. Erano davvero lì per lei. Uno dei pescatori che lavorava con la nonna prese il posto del predicatore quando ebbe finito la funzione e disse a tutti, con fierezza, che Ada Morz era e sarebbe rimasta un pilastro della comunità. Si sentì così orgogliosa nel sentire quelle parole. Inquadrò tra la folla anche il padre di John e sorrise, sorpresa poi nel vedere proprio John accanto a lui. Era venuto. Era lì. Sorrise di nuovo quando lo notò ricambiare il suo sguardo e sorridere a sua volta.
L'ultima volta che si erano sentiti lei lo aveva mandato al diavolo, ma la prese tra le braccia appena poté, senza aspettarsi nient'altro, da parte sua, se non che ricambiasse. Megan appiccicò il viso contro il suo petto, inspirando il suo odore. Le era mancato, accidenti. Erano sulla piazzetta davanti alla fermata dell'autobus, spostandosi, ancora abbracciati, in uno spiazzo senza erba. Il funerale era durato poco e le ragazze dovevano prendere il pullman per tornare a National City entro sera, dunque avevano saltato il rinfresco a casa Morz. In strada a quell'ora non passava molta gente e si sentivano protetti. Il sole stava per tramontare.
«Ti devo delle scuse», mormorò lui. «Ho sbagliato, Megan».
«Lo hai capito solo oggi?», rise e si staccò da lui piano, mantenendo un sorriso.
John le prese la mano destra e gliela accarezzò. «Vorrei aggiustare le cose».
«Va bene».
«Parlo seriamente», increspò la fronte. «Sono talmente abituato a essere qualcuno che non sono per lavoro, che ho finito per perdere di vista la mia connessione con le persone importanti. Non accetterò più ruoli sotto copertura», rassicurò, «Ho chiuso. Sarò io al cento per cento, adesso. Un agente del D.A.O., un ottimo cuoco», la vide sorridere, «padre di due splendide bimbe, innamorato di una ragazza meravigliosa».
Megan arrossì, voltando lo sguardo altrove e lasciandosi scappare un sorriso compiaciuto. «Oh, davvero?».
«Alla luce del sole», confermò. «Voglio fare le cose per bene, questa volta. Lo saprà mio padre, gli piaccia oppure no, e ti farò conoscere Kym e Tanya. Se vorrai».
Megan lo guardò con la coda dell'occhio e infine rise, annuendo. «Mi piacerebbe». Gli strinse la mano e sorrise di nuovo, abbassando gli occhi dall'imbarazzo.
Kara era seduta al bordo del marciapiede, accarezzando Nana accanto a lei. Ogni tanto il suo sguardo incontrava gli occhi grandi della cagnolina che saltava per baciarle il naso e doveva spostarsi per tempo, prima le lavasse gli occhiali. Fu la prima ad accorgersi del ritorno di Megan alle loro spalle, scodinzolando. «Com'è andata?».
Le si sedette vicino, divaricando le gambe per far accovacciare Nana davanti a lei. Le sorrise per tutta risposta e Kara fece una smorfia con la bocca, dandole infine una spallata.
«Ehi, Megs».
Le due si ghiacciarono nel sentire quella voce e schizzarono in piedi di colpo, mentre la cagnolina tirò il guinzaglio fino allo stremo, prendendo a ringhiare.
«Posso avvicinarmi o rischio che mi assalga la belva?», lui ridacchiò, con le mani nelle tasche dei jeans.
«A tuo rischio e pericolo», controbatté svelta Kara, stringendo i pugni. «E anche a Nana non piaci».
Lui spalancò gli occhi stupefatto e dopo si lasciò andare a un verso divertito, capendo l'antifona. «Okay, okay… All'amica di città di Megs non piaccio più. Immagino cosa ti avrà raccontato. Vero, Megs? Le hai detto che ti ho dato uno schiaffo?».
«Vattene, Armek», si limitò, tenendo stretto il guinzaglio di Nana.
«No, no, voglio sapere cosa le hai raccontato! Sarò passato per il cattivo… Si è presa un ceffone e fa la vittima, ma-». Non finì di parlare: Kara avanzò velocemente verso di lui e si fermò a un passo dal colpirlo in pieno viso, mentre la guardava con strafottenza. «Vuoi colpirmi, Kara? Fallo. Vediamo che succede».
La mano destra di Kara, stretta a pugno, tremava. Stava per farlo, lo avrebbe tanto voluto, ma si ricordò la sua passeggiata con Lena, in quel momento, quando dei ragazzi le importunarono, e desisté, aprendo la mano e tornando un passo indietro. Guardò la sua amica Megan che era terrorizzata e capì che non era il caso, che non avrebbe risolto picchiandolo. «Vattene», chiosò con voce dura, ma lui non si mosse.
«Altrimenti?», scrollò le spalle. Era sicuro di sé, insolente, abituato a ottenere tutto ciò che voleva.
«Altrimenti dovrò chiedertelo anch'io», si levò una voce alle loro spalle e John, dopo aver toccato un braccio di Megan per darle sicurezza, lasciò la piazza e andò incontro al ragazzo sulla strada, appoggiando una mano fugace su una spalla di Kara. «Le ragazze te lo hanno chiesto gentilmente, io non assicuro che farò lo stesso». Lo guardò dritto negli occhi e Armek gonfiò il petto, dimostrandogli di non aver paura di lui solo perché era poco più grosso. John si portò le mani sui fianchi e sollevò la giacca, palesando involontariamente la presenza di una pistola sulla fondina.
Armek non poté non vederla e sorrise, tirandosi indietro. «Scusa, amico… Non avevo capito». Tornò indietro per andarsene, guardando Megan un'ultima volta: il modo in cui lei fissava quel tizio non gli piaceva per niente. «Oh… È molto più ciò che non avevo capito», indicò lui con la mano destra e lei con la sinistra, finendo per unire i due indici e simulando uno scoppio. «Rispetto, Verde. Ti rispetto. Chiunque se la scopi ha il mio rispetto».
Se ne andò e Nana iniziò solo allora ad abbaiarlo, facendosi dare della coraggiosa in modo sarcastico da John, che riprese di nuovo Megan tra le braccia.


***


Qualcuno sull'autobus le guardò male per aver fatto salire la cagnolina, ma erano stanche e non ci badarono. Appena il veicolo partì, intanto che il cielo si tinteggiava di giallo e arancio, Megan si appoggiò allo schienale tirando un lungo sospiro di sollievo. Marsington si allontanava e lei poteva respirare di nuovo, anche se, questa volta, al funerale di sua nonna le aveva mostrato che un altro paese era possibile.
«John restava?», riuscì a chiederle Kara mentre spostava gli occhiali sulla fronte, non potendo a fare a meno di ridere tra una leccata di Nana e l'altra.
Megan scosse la testa. «Salutava il padre e ripartiva. Ha detto di dover andare a Metropolis», riferì, sorridendo, «Sta seguendo una pista. Gli credo».
Fermo davanti alla sua auto parcheggiata all'ingresso di Marsington sulla strada in collina, il cielo si era già fatto buio e John Jonzz parlava al telefono. «Dica, sceriffo. Rhea Gand? Ho già interrogato la signora Gand e non-», lo aveva interrotto e John si lasciò andare a un ansimo esasperato. «Sì, sì… Lo capisco, signore, ma mi permetta: mi sta davvero chiedendo di dimenticarmi di Adrian Zod per concentrarmi su Gand? Su Gand che è già agli arresti? Non parlerà e credo sappiamo entrambi perché è così, sceriffo», scosse la testa, forzando un sorriso. «Adrian Zod minaccia Gand, non faccia finta di nient-», sospirò di nuovo, ascoltando la voce dell'altra parte. «Certo, sceriffo. Naturalmente questo non avrà a che fare con i suoi rapporti con Zod?! No, non mi permetterei… La ringrazio, sceriffo. Le auguro un buon proseguimento». Staccò la chiamata e si passò una mano sul viso. Zod gli stava mettendo i bastoni tra le ruote: si era sentito pizzicato, era ovvio, e questo non era che un segnale che stava facendo bene il suo lavoro. Alzò una mano per riporre il cellulare sul taschino quando captò di non essere solo, nel buio, portando la mano sulla fondina. Afferrò la pistola e si voltò scattante. Ma non fece in tempo a difendersi che un'ombra premette il grilletto prima che potesse vederlo. John spalancò la bocca, iniziando a sentire pervadergli in corpo la sensazione spiacevole del caldo bagnato. Era stato colpito, non sapeva dove. L'ombra puntava ancora l'arma contro di lui e forse avrebbe sparato di nuovo se John non si fosse inginocchiato e, stremato, accasciato al suolo, facendolo scappare. Il cellulare gli sfuggì dalla mano e strinse gli occhi lucidi, sentendo un freddo innaturale.
Aveva undici anni quando sua madre morì sulla strada, investita da un adolescente sconvolto al volante. Non ricordava niente se non i forti rumori, di quel giorno. Ricordava la storia del ragazzo che l'aveva messa sotto. John spalancò la bocca per uno spasmo, riaprendo gli occhi. Vedeva la strada, adesso. Non conosceva la storia di chi gli aveva sparato. E Marsington non faceva rumore.


































***

Lo ammetto, questo è uno degli stand alone che preferisco. Mi è piaciuto seguire Megan nel suo paese natio e lasciarmi travolgere dal passato suo e di John. Inutile dirlo, alcune cose non le sapevo neppure io finché non mi sono ritrovata a scriverle ed ero lì che “oh, adesso ha senso...”. È piaciuto anche a voi?

Note ~

- Marsington e i pescatori Verdi e Bianchi: quanto mi sono divertita a scervellarmi per trovare un nome che suonasse bene e allo stesso tempo richiamasse il pianeta Marte! È ovvio, Megan Morz (M'gann M'orzz) e John Jonzz (J'onn J'onzz) sono marziani nel canon, il loro paese non poteva che ispirarsi a questo, soprattutto dal momento che dovevo trovare un modo per inserire la questione Verdi e Bianchi, cioè Marziani Verdi e Marziani Bianchi del canon. Ho fatto qualche ricerca, all'inizio pensavo a una fabbrica e a una strada che divideva le due “fazioni”, ma quando ho trovato alcune foto di un paesino del New England che affaccia sul mare mi sono innamorata, la mia Marsington doveva essere simile e doveva quindi essere di pescatori.
- Armek: l'Armek di questa fan fiction è molto diverso da quello della serie tv. Per prima cosa, (quasi) tutti i personaggi di questa fan fiction sono più piccoli di quelli della serie o di altri soliti media, ma Megan, caso strano, nella serie è più grande che nei fumetti, che è poco più che adolescente, se non ricordo male. Nella mia fan fiction ha quindi l'età di Kara, è a una via di mezzo tra quella della serie e quella dei fumetti e avevo pensato per lei a un ragazzo della stessa età, mentre quello scelto dalla serie è un uomo enorme e decisamente adulto. Ma quello della serie ispirava violenza, ricordiamo tutti l'episodio dove è apparso, e quindi una cosa è rimasta… Ma se devo dire la verità, questo è uno degli aspetti che non mi aspettavo finché quasi non mi sono ritrovata a scriverlo: l'Armek di questa fan fiction si è evoluto e scritto quasi da solo, era già così, io dovevo solo raccontarlo.
- Kym e Tanya: ricordavo che nella serie J'onn J'onzz aveva due figlie che erano decedute e volevo dare loro nuova vita in questa fan fiction, ma non ricordavo i nomi, così le avevo battezzate a modo mio e mi piacevano un sacco. Ecco, poi sfogliando la wikia per cercare altre cose mi capitano all'occhio i loro nomi e ci resto malissimo XD Sì, i nomi che avevo scelto io erano più belli, davvero più belli, ma ogni volta che rileggo questi, alla fine, mi suonano sempre meglio, sono quelli giusti. Le figlie di J'onn nel canon della serie si chiamavano K'hym J'onzz e T'ania J'onzz.
- «Guardami, Megan», le aveva detto, stringendo i denti. «Quando un ragazzo ti fa del male una volta, allora è capace di farlo sempre».
Sono le parole che la nonna di Megan, Ada Morz, le grida per cercare di farla allontanare da Armek. Vi ricordano qualcosa?
[…] strinse una mano di Kara. «Non esiste la favoletta dell'uomo che cambia con la donna giusta. Non cambiano mai e se ti fa male una volta, è capace di farlo sempre».
Questa è Megan che parla a Kara dopo la sua ultima lite con Mike, capitolo 43: Anime rotte.

Spero di non aver dimenticato altro da segnalare e ci rileggiamo un po' più tardi, stavolta: a sabato 23 maggio con il capitolo 62 che si intitola: Colpa. Chissà di che cosa si tratterà…?!

Ah, giusto... JOHN? D: 



   
 
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