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Autore: _Lightning_    20/04/2020    0 recensioni
Con il Giorno della Promessa all'orizzonte, Roy Mustang si ritrova a pensare sempre più spesso a Ishval, ai propri errori, e a cosa gli ha lasciato quel luogo se non ricordi dolorosi e sensi di colpa. Si imbarca così in una lunga reminiscenza con l'aiuto di Riza, fidata compagna di vita, nel tentativo di mettere finalmente a tacere i demoni che gli mordono la coscienza.
Dal prologo: «C’è qualche problema, Colonnello?»
È formale, distaccata, anche se siamo soli. Una pantomima sterile e autoimposta, affinata con gli anni.Non possiamo cedere, mai, nemmeno nel buio cieco di un vicolo dimenticato, o finiremmo per tradirci alla luce del sole con mille occhi intenti a scrutarci. L’abbiamo concordato in silenzio, che è ciò che di solito parla tra noi. Per questo adesso mi sento quasi un profano a romperlo, a voler trasmutare in parole ciò che mi passa per la testa. Ombre dense, a cui non dovrebbe mai essere data forma.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Maes Hughes, Nuovo personaggio, Riza Hawkeye, Roy Mustang | Coppie: Roy/Riza
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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.3.



19 Maggio 1908
Quartier Generale dell'Esercito a Ishval
Distretto di Zharfa

16:00


Zharfa, con i suoi alti minareti [1] e campanili ora mozzati, è sparpagliata a macchia di leopardo sulla distesa di collinette brulle affacciate sulla piana di Ishval.

Ci sono tracce di casa, in questo avamposto a mezza via tra due popoli: se tengo lo sguardo puntato sul quartiere amestriano e ignoro le vetrine rotte e le facciate delle costruzioni annerite, col tufo crivellato dai proiettili, mi sembra di essere nella piazza di Bushmills quando soffia lo scirocco da est, che porta con sé sabbia e pioggia rossa a ricordarci che il deserto, di tanto in tanto, allunga le sue falangi aride verso di noi.

Adesso le sue propaggini hanno invaso senza distinzioni le strade sventrate, insinuandosi sia nell'acciottolato di ardesia che nei lastricati di arenaria per rivendicarne un possesso atavico.

Mi districo tra i vicoli tortuosi di uno dei rioni amestriani, affollati di commilitoni e abitanti derelitti, fino a sbucare nella terra di nessuno tra la città e la base militare, che cinge l'intera zona ovest dell'insediamento scrutandolo dal basso dal suo pianoro.

Seguo le orme di altre cappe bianche frustate dal vento, rientrando infine tra le schiere di tende bianco-verdi dell'esercito. Sospiro, avviandomi verso la zona del campo in cui – credo di ricordare – ci hanno stanziati per il momento.

Oskar ha avuto la brillante idea di addentrarsi nella città conquistata, a dispetto delle direttive di rimanere nei ranghi; ho perso di vista lui e gli altri nel caos del suq [2], divenuto ancor più labirintico per via del tetto mezzo crollato che intralcia i corridoio di detriti. Non c'è più molto di esotico, là dentro: dei mercanti amestriani vi hanno stanziato uno spaccio clandestino tollerato dai superiori e sfruttato dalle truppe, e gli unici segni dell'ormai cancellata presenza ishvaliana sono i tessuti intarsiati di ghirigori che pendono stracciati dalle pareti e i cocci di vasi spaccati negli angoli.

Dopo aver raggiunto i nostri quartieramenti e aver cercato i miei compagni per circa mezz'ora, mi rassegno a girovagare per il campo da solo, in cerca di un modo per ammazzare il tempo fino allo smistamento definitivo delle truppe, stasera.

Cerco di non pensarci troppo, ma l'ansia mi stringe la gola: noi di East City saremo trasferiti in gran parte direttamente a Ishval, in città, dove servono forze offensive – il resto delle truppe fresche sarà dislocato sul territorio a seconda del bisogno. L'alto grado che ha accolto il nostro scaglione è stato molto vago su questo aspetto, e molto svogliato nell'esporlo, ma sembra che l'esercito sia in crisi da quasi un anno e che abbiamo perso terreno nelle ultime settimane ai confini.

Noi siamo i rinforzi della speranza, a quanto pare.

Continuo a farmi largo nell'accampamento indaffarato. L'intero Quartier Generale è in tumulto e si agita con i flutti di un torrente in piena: neanche all'Accademia ho mai visto così tanti soldati stipati in così poco spazio.

Ovunque risuonano schiamazzi, passi cadenzati di interi reggimenti che vengono spostati da una divisione all'altra, rombi di furgoni colmi di vettovaglie che procedono a passo d'uomo, nitriti di cavalli imbizzarriti da tutto il frastuono, comandanti che si sgolano per radunare le truppe – e chissà cos'altro, in un concerto umano che ferisce le orecchie.

Di tanto in tanto risuona il tuono di un cannone lontano, ma nessuno sembra farci caso. Il cielo è velato e incombe una cappa afosa che toglie il respiro: mi allento il colletto della divisa, ma non aiuta molto.

Vado dove mi portano i piedi, zigzagando tra i militari e cercando senza troppa convinzione qualche volto conosciuto. Qualcuno mi lancia occhiate incuriosite per via della catena d'argento che sporge dalla mia tasca, e sostengo gli sguardi con allenata indifferenza, senza far nulla per nasconderla.

Mi ritrovo infine ai margini occidentali del campo, dove solo qualche sentinella ciondola avanti e indietro sul terrapieno con un fucile in spalla. Il perimetro è segnato da una rozza staccionata sormontata a tratti da filo spinato. Oltre, il fumo sembra più denso. Poco più in là intravedo delle file di teli bianchi allineati con cura.

Distolgo lo sguardo, sentendomele impresse nelle retine, e torno sui miei passi dirigendomi verso una collinetta poco distante su cui lo stendardo verde di Amestris garrisce nel vento teso. Nuvole di sabbia spazzano la guarnigione, insinuandosi nelle tende e sotto ai vestiti; sento già che la odierò [3].

Mi schermo gli occhi con una mano e cammino controvento, mentre le falde del cappotto si contorcono dietro di me. Mi inerpico sull'altura, con la terra friabile che frana sotto i miei stivali. In cima si erge un albero secco, forse un tempo florido e carico di frutti: adesso è piegato dal vento, col tronco sbiancato dal sole, e protende i rami scarni verso il cielo lattiginoso.

Da qui si domina gran parte dell'area circostante, e mi si impiglia il respiro in gola nel venire investito da una raffica di vento violenta, quasi uno schiaffo in viso che porta con sé un monito.

Il deserto ha un odore che gratta la gola e secca la lingua. È indecifrabile, quasi neutro se non per un sentore di polvere che rimane appiccicato al palato: sa di sabbia e dune, di vento caldo che scrocchia sotto ai denti e di sole che brucia la nuca con la sua mano arroventata. 

Non profuma decisamente di curcuma e spezie esotiche, né del "sale di antichi oceani" come descritto nei libri d'avventura che divoravo da ragazzo. Quelli narravano di traversate antiche, carovane perdute e città favolose distrutte in una notte, presentandolo come un luogo mitico che chiama a gran voce chiunque vi si avvicini. Tutto il contrario.

Il deserto è ostile  – o forse lo è solo questo deserto calpestato per anni da scarponi chiodati, zoccoli e mortai. Ci ricorda ad ogni passo che non ci appartiene, come noi non apparteniamo ad esso: ha deciso di tollerare e accogliere ai suoi margini unicamente gli Ishvaliani e le loro usanze altrettanto aride, temprate dall'arsura.

Noi, con la nostra freschezza di terra fertile, gli stendardi verde smeraldo e la divisa blu brillante, siamo nella migliore delle ipotesi degli estranei, se non degli intrusi. Invasori, di fatto.

Non è una terra ospitale. I volti bruniti dal sole e le orecchie e le dita mancanti dei veterani che ho scorto in giro parlano di estati torride e inverni rigidi.

Ishval non è altro che una distesa sterminata di dune, rocce e steppe aride, solcate qua e là da un torrente in secca. A nord ci sono delle pianure fertili che prima appartenevano all'Est – ma sette anni di guerra sono lunghi, e i confini solo fragili linee. A sud incombono le montagne di Ktirja, ancora chiazzate di neve nonostante l'estate sia alle porte. A est, in lontananza, si scorge la capitale di Ishval, incorniciata da una coltre di fumo.

Non deve essere molto diversa da Zharfa, o a quel che ne rimane.

I nostri attacchi sono stati impietosi e hanno inferto ferite insanabili: la maggior parte degli edifici è ridotta a un cumulo di macerie. Pennacchi di fumo si innalzano ovunque nell'aria, inclinati dal vento. Si distinguono i segni dei cannoni e dei mortai nei crateri che butterano la città annidata tra le colline e arroccata su di esse, in un saliscendi sinuoso.

È ormai quasi del tutto abbandonata, così come gran parte dei distretti di Ishval sotto il controllo dell'esercito: solo Lissahr, Kamyan e Nahasti. Gli altri nove, Ishval compresa, sono ancora dilaniati dagli scontri, senza alcuna vittoria significativa.

Nonostante ciò, il Comandante Supremo è ottimista e sprona le truppe, rinvigorite dall'arrivo di noi Alchimisti di Stato. Presto, ha detto, il Dragone sventolerà sul pinnacolo del Tempio Bianco, e Ishval cadrà. Poi sarà il turno delle campagne e dei villaggi, fino a che degli Ishvaliani non rimarrà che il ricordo insanguinato.

Saranno un monito per chi oserà mettersi di nuovo contro Amestris.

Il mio sguardo si abbassa sul guanto alchemico ben calzato: sono nemici, sono guerrieri addestrati che fanno scempio dei nostri soldati anche nella morte. È guerra, e non esiste una terra di mezzo su cui camminare. Sono parole aguzze che riempiono propositi vuoti, ormai lontani – è così, che si aiuta la gente?

Scrollo capo e pensieri e rialzo lo sguardo: i miei occhi incontrano una distesa di ocra e giallo stinto punteggiata da rovine. Solo il vento attraversa questa distesa piatta, questa insulsa scatola di sabbia.

Cosa ci sarà mai di così importante, qua dentro, da spingere tutti a versarvi il proprio sangue?

Il vento risponde con un ululato tra le alture bombardate. Volto le spalle alla devastazione e scendo a passi svelti dall’altura.

Forse, sarà una guerra breve.


 


19 Maggio 1908
Quartier Generale dell'Esercito, Ishval,
22:00
 
«Dài, fallo di nuovo!» mi incita Oskar, gli occhi rivolti al cielo cupo.

Cerco di sottrarmi alla sua stretta per svicolare via, accampando qualche scusa sconclusionata riguardo al riposarsi e al non attirare l'attenzione, ma lui mi trattiene fermamente e mi ritrovo gli occhi della mia nuova truppa puntati addosso.

Sembrano bambini che aspettano trepidanti un nuovo trucco di magia e improvvisamente il mio desiderio di defilarmi viene soppiantato da quello di non deluderli. Di brillare, esattamente come quando da ragazzino cercavo di farlo in tutti i modi più sbagliati e incappavo nelle strigliate di zia Chris.

Mi lascio scappare un sorrisetto compiaciuto prima di schioccare le dita con fare teatrale e liberare un'altra fiammata sopra di noi, stavolta facendola esplodere a mezz'aria come un fuoco d’artificio. Il mio piccolo uditorio lancia un'ovazione in un misto di esclamazioni di meraviglia e improperi per il calore intenso che ci sfiora la testa.

Uno dei soldati lancia un fischio penetrante, mentre Oskar mi piazza in mano una bottiglia colma di un liquido chiaro, che passo però di soppiatto a Jace senza bere.

Sto giusto credendo che la loro curiosità per la mia alchimia sia scemata, quando un ragazzo alto e mingherlino dalla pelle olivastra – Patrick? Le presentazioni sono state serrate, frettolose, un viso e un nome dopo l'altro – e un po' su di giri per l'alcool mi incita a fare di meglio.

Stavolta mi mostro falsamente riluttante, solo per tenerli sulle spine, ma allo stesso tempo mi guardo intorno attento. Rimango sul chi vive: non credo che i superiori sarebbero entusiasti delle mie bravate, ma dietro un gruppetto di tende appena montate e un po' sbilenche colgo il bagliore azzurrino di una trasmutazione, seguito da un coro di stupore.

A quanto pare non sono l'unico a darsi un po' di arie, e forse Hughes ha ragione e dovrei avere più fiducia in me stesso; così sfrego il guanto con decisione e al centro del grande cerchio che formiamo erutta una fontana di fuoco che sale fino a venti piedi d'altezza.

Si leva un vero e proprio boato e stavolta anche molti passanti voltano la testa sorpresi; qualcuno applaude. Sorrido apertamente, adesos, con un po' di sana arroganza che non mi curo di nascondere. Potrei incenerire anche tutti i dubbi e le paure che mi si agitano in testa – dovrei farlo, sono solo una distrazione pericolosa.

Con un potere del genere tra le mani, sono gli altri, che dovrebbero aver paura. La scorgo in controluce anche nelle pupille lucide d'alcol e di calore dei miei commilitoni: la stilla di timore che suscita un sorriso e fa ringraziare di avermi dalla loro parte, e non contro. 

Decido di stupirlo, e senza ulteriori istigazioni tento un esperimento un po' audace: scaglio un guizzo di fuoco sottile, che si avvita un paio di volte nell'aria prima di ampliarsi e assumere la vaga e distorta forma di un drago ad ali spiegate.

Mi acciglio, preso dalla concentrazione di controllare l'ossigeno e la combustione che si propaga dalle mie dita, ancora a volte traballante, e riesco a far eruttare alla bestia un'informe vampata di fiamme tra un coro di esclamazioni stupefatte prima di lasciarla dissolverei in un ventaglio di scintille.

Oskar mi dà una gran pacca sulla schiena e mi ritrovo nuovamente la bottiglia di acquavite in mano; non penso e stavolta ne prendo una gran sorsata, lasciando che un fiotto di calore mi di riversi nello stomaco scaldandomi da capo a piedi nella notte fredda del deserto.

So che è solo l'alcool, ma mi sento più leggero e quei pensieri fastidiosi si confondono nei ripostigli della mente, lasciando da parte promesse in bilico e occhi fiduciosi che mi chiedono di rispettarle: non ora, non stasera, non in questa ultima notte da uomo al confine prima di varcarlo.

Stasera ho ancora i miei occhi fissi sulla vita.

Nell'euforia del momento brindo a una guerra breve e vittoriosa; loro brindano di rimando all'Alchimista di Fuoco.

Scoppio a ridere, schermendomi senza smettere, ma dentro di me sento crescere un senso di appagamento e orgoglio alto come le fiamme che si avvitano nel cielo buio.



 
 
 
Fine Parte II
 

Note:
[1] Il minareto è la parte più altaa della moschea, ma qui è inteso in senso puramente architettonico e "visivo", non religioso, in quanto è semplicemente una costruzione tipica di zone medio-orientali.
[2] Un mercato coperto comune nei paesi medio-orientali.
[3] Riferimento alla citazione cinematografica più cringe del secolo (un Black Hayate in premio a chi la individua!)
   
 
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