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Autore: Keylovy    09/08/2009    3 recensioni
Si trovò in ginocchio, quel ragazzo, prima d’aver compiuto nemmeno i vent’anni, padrone di aspetto forte e sano e - nonostante non potesse dirsi precisamente scaltro e astuto d’intelletto – bello come un pavone a colori spiegati. Si accartocciò sulle gambe supplicando un’immobile brutta bestia.
Genere: Malinconico, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Alternate Universe (AU), OOC, What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Redenzione

 

 

 

Il castello era grande, spaventosamente enorme, e c’erano file e file di stanze meste, sottotetti colmi di squittii e tende, bellissime e pallide tende, formate dai sottili ricami dei ragni. Una esile grata di luce scivolava ogni tanto nei corridoi che avevano occhi all’esterno; seppur piano piano, con l’avvicinarsi delle torri al polo dell’alba, le ombre si rigettavano fuori in tutto, come miriadi di silenziose biglie di lana scura, fuori dalla portata di vetri lontani e oscurati. E in fondo a quegli eserciti muti e decorativi, oltre la cortina di ragnatele oscure, dopo gli sguardi vitrei di file e file di figure dipinte c’era l’ala est – l’ala est -, custodita in quel fondale come una piccola stella perduta negli abissi. L’ala est era immobile in una sorta di limbo fisso e imprecisato, interna al castello; una rampa di scale attutita da un mantello cremisi la indicava con un cupo monito imperscrutabile, e dopo l’ultimo gradino, il marmo veniva lentamente divorato dal buio – da un buio che era gentile eufemismo per quel nulla, il nulla completamente ignorato, che il castello chiamava sottovoce: l’ala est. 

La stanza del ragazzo, la sua prigione, era incastonata sul versante opposto; distava molti e molti corridoi infiniti dal cardine di quella dimora, quasi quanto potrebbe distare la punta di un capello dall’antro del cuore. Il ragazzo era giovane rispetto alla stanza che lo abbracciava, e altrettanto prematura era la sua presenza distesa sulle coltri innevate di polvere. Il castello era la perfetta diramazione dell’ala est, e da pochi giorni il ragazzo era lì come un tassello rovinato di un mosaico che ne smonta l’apice della rappresentazione; e per questa sua particolare imperfezione, per questo suo essere stato sputato dall’esterno dentro quelle mura intatte, attirava la morbosa attenzione di ogni cosa che il castello avesse generato di senziente. Lo tenevano prigioniero,  nella stanza che doveva essere stata molto bella un tempo, sotto quei veli di vecchiaia il letto a baldacchino, il grande armadio dalle ante che sapevano d’incenso, erano eleganti e imponenti come antiche matrone; lo tenevano dietro ad una serratura aperta, ma sigillata dall’angoscia di quel che vi avrebbe potuto trovare oltre. Sapeva poche cose in quello stato: la prima era il ricordare di come vi era arrivato senza eppure capire dove fosse; la seconda era la paura, forte e chiara a causa della terza; la terza erano i suoni del castello, il silenzio, ancora silenzio, e poi dei ruggiti da incubo, e poi ancora silenzio; la quarta erano gli oggetti, cose che danzavano sugli scaffali e parlavano dalle tane, dietro i vetri e le ante; la quinta era che gli oggetti avevano comandato di non avvicinarsi all’ala est; la sesta che lo stavano lasciando morire di fame e gelo. E l’ultima, la settima, sapeva che nel castello c’era il diavolo.

“Qualcuno dovrebbe fare qualcosa”

“La maledizione…”

“Dargli da mangiare, ad esempio”

“Sono passati più di vent’anni. Ormai…”

Gli oggetti, nei corridoi, parlavano. Bussarono sulla porta, un paio di piccoli tocchi verso il basso del legno ampio, e la stanza si squassò. Il ragazzo si coprì il volto con le mani e il suo corpo massiccio – faceva il cacciatore, lui, era un ragazzo di quelli robusti, ben piantati, solidi – si piegò per entrare meglio nell’angolino scuro di letto che aveva scelto. Un ticchettio. Passetti, saltellanti ed intervallati, e uno stridio d’ottone arrugginito sbirciò dalla porta; qualcosa fece una piccola triade di luci esanimi.

“Figliolo?”

“Tockins…”

“Ma dove ti sei cacciato, ragazzo?

“Tockins. Ha detto di ignorarlo. Si arrabbierà…”

“Eccoti qui, giovanotto” ancora il ticchettio. Qualcosa di legnoso, freddo, lo toccò sul braccio, e il ragazzo ebbe un sussulto tale che se fosse stato svegliato da un orso affamato. C’erano un orologio e una candela.  Meglio, c’era un candelabro di un dorato attempato, macchieggiato di ruggine, e i lumi che custodiva puntavano uno al soffitto – che ombra strana, evanescente –,  altri due verso l’orologio si protendevano come rami insecchiti verso un sole annuvolato. La penombra appannava un quadrante antico, e due occhietti montati su baffi rococò. Gli occhietti ticchettavano.

“Di che hai bisogno, giovane signore?” chiese un’apertura inferiore alle lancette.

“Ma ha detto che” sbuffò la candela – il candelabro.

“Fai silenzio, Lumière, di grazia. Di che avete bisogno, giovane signore?”

Il ragazzo occhieggiò, lanciò uno sguardo come un amo verso quella pallida pozza di luce, ed emise una manciata di mugolii.

“Ho fame”

La candela – il candelabro – sibilò. Le fiammelle scoppiettarono, distorcendo l’illuminazione che spaziava sui movimenti dell’orologio.

“Andate in cucina ora, piano. Non se ne accorgerà”

Veniva dal fondo della camera, era un oggetto grande, ovattato nell’ombra della sua stessa mole: l’armadio. Le ante tarlate scricchiolarono emettendo un aroma di polvere densa. Quei due grandi ventagli di legno si mossero, e parlarono sottovoce tra gli stridii delle giunture, il lamento echeggiò nei corridoi del castello e offuscò i passi degli oggetti, le altre voci degli oggetti, e il ragazzo. Scivolarono lungo gli arricchimenti del marmo e i tappeti di gala anneriti; il castello era illimitato, sproporzionato, svoltava e tornava, saliva e scendeva. Passarono, e un grande, fosco nero li fissò. C’era un torrente silenzioso che scorreva al contrario, verso il suo interno, veniva da lì come un rombo muto, uno squarcio cupo dopo le scalate, gli occhi del castello li osservarono esistere impercettibilmente: l’ala est li fissò dall’alta entrata, seguendoli senza divorarli.

“Cos’è, su quelle scale?”

“L’ala est.” il candelabro, l’orologio, e persino il tappeto, parve, furono lapidari “Proibita.”

 “Cosa c’è nell’ala est?”

Il ragazzo evitò di chiederlo, e tacque mentre gli oggetti rotolavano via più veloci, sinuosi; sapeva cosa c’era nell’ala est: il diavolo.

La cucina era, per descriverla, se si ha presente il termine imbandita – procace, generosa, tavole ricolme di portate e primi, e secondi, e ancora portate, poi dolci e cibo a non finire; se si ha presente il termine imbandita come erano imbandite le tavole degli dei sulle isole della prelibatezza -, se si ha presente quel termine era il più esatto contrario. Un fornello soffiava come uno spiffero, alimentando qualche fiammella che non scaldava i metalli gelati; e per una ripetitiva musica, il ragazzo credette che gli oggetti stessero cantando. Erano una cascata di porcellane che si ammucchiavano sui vetri di una credenza, uno scalpiccio immane, una chioma di tazze e piattini sbattevano sui vetri, scalpitavano come un acquazzone di pulcini in vendita.

“Pane e acqua”

L’orologio e il candelabro furono d’accordo. Una vecchia teiera sbeccata sporse dal lato del tavolo una crosta indurita e ghiacciata, un bicchiere unto ondeggiava e scivolava sul lungo piano di legno, spingendo faticosamente sé stesso e un’acqua ferrosa.

“Ho fame” disse il ragazzo.

“Ho fame, ho fame, ho fame” pigolavano tutte insieme le porcellane, rompendosi contro i vetri.

Sul tavolo c’erano come rimasugli il bicchiere vuoto e palpitante vicino all’orologio; il candelabro affilava le deboli fiammelle sue protette contro i rari sprazzi del fornello.

“Ho fame, davvero. Muoio.” il ragazzo gemeva, singhiozzava “Lasciatemi tornare a casa, vi supplico, manderò qualcun altro, vi prego, ho fame”.

Allora, il diavolo disse:

“Dategli da mangiare.”

Vi fu silenzio, perché il diavolo – c’era da giurarlo – faceva paura.

La coscienza del ragazzo, il suo sguardo e la sua paura accolsero la patrocina essenza del castello, presentata emanazione inesorabile e mestifera del gorgo ala est. La bestia si ergeva seduta sui chiaroscuri tremolanti della cucina, rigettando la sua grandezza dal ferino corpo nero come un terrore liquido. Era mostruosamente sinuosa e armoniosa, equilibrata dalle mascelle irte al pelo color carbone, rado e folto a balzi; l’immobilità delle zampe ripiegate sotto il corpo, il petto avanzato e latrante ne davano un immediato, unico primo impatto.

Era brutta, la bestia.

Questo pensò il ragazzo, perché i vecchi dicono che il diavolo è bello, bellissimo, ne dicono tante i vecchi. Invero, il diavolo pareva un brutto gatto, con la coda raccolta a scaldarsi le dita, e il muso insopportabilmente superbo.

“Il tuo nome”

E persino non aveva una voce, non un suono che personificasse quell’entità che pure pareva senziente, solo stridenti ringhi di gola che a fatica davano un’impressione di parola. Ordinare e ruggire furono la medesima cosa, e il ragazzo si spaventò al riverbero di quel disumano carattere.

“Gaston” squittì, in cosiddetta risposta a cosiddetta domanda, se dialogo potesse considerarlo.

“Gaston”

“La prego… la imploro, mi lasci andare… c’è il villaggio, può… può divorare chiunque…”

La bestia gorgogliò irritamento. I canini a spillo riflettevano stranamente le luci del candelabro, quando si fecero vicine.

“Io non divoro persone” sbuffò annusandolo con un immenso e dispiegato fiato caldo. I colori della stanza sobbalzarono e cambiarono illuminazione quando la bestia si mosse su sé stessa, dispiegando una ruvida zampa, protendendola brutalmente come quelle educate ragazzine di buona famiglia al tendere il polso verso un bacio ammiccante. Il ragazzo non pensò a questo, comunque, quando il movimento scarno di grazia attraversò come un fendente l’aria davanti a lui, seppur lentamente. Cadde letteralmente a terra dalla paura – se il diavolo almeno fosse stato bello, non ne avrebbe avuta così tanta, o ne avrebbe avuta senza esser satura di repulsione.

“Cosa fa, cosa vuole, allora?”

Si trovò in ginocchio, quel ragazzo, prima d’aver compiuto nemmeno i vent’anni, padrone di aspetto forte e sano e - nonostante non potesse dirsi precisamente scaltro e astuto d’intelletto – bello come un pavone a colori spiegati. Si accartocciò sulle gambe supplicando un’immobile brutta bestia.

“Cosa fai tu, Gaston?” fu un ringhio.

“Ero… a caccia con mio padre… la prego, abbiamo preso il sentiero sbagliato, la prego”

“Eri a caccia”.

Il silenzio ingoiò ancora la cucina, ogni suono convogliò nel frusciare della scura coda addosso alla polvere dei mattoni.

“Ti diverte la caccia?”

Il ragazzo ricordò la parete della locanda, immenso quadro delle gesta della sua vita, ricambiò lo sguardo morto di decine di teste pelose, musi morbidi e corna arrotolate. Deglutì creando in quella tela di legno alta metri uno spazio vuoto e unico per un trofeo orrendo, grande e nero come la bestia, nello sguardo vitreo di quella figura mentale vide il torbido nero dell’ala est.

“Sì, sì” languì strusciandosi come un vecchio prete “Sono il migliore del villaggio… rimandatemi là, vi… vi porterò…”

“L’ho già. Ho una caccia all’uomo”

E quel Gaston era, evidentemente, un uomo – probabile fosse persino quell’uomo. Prima d’aver compiuto nemmeno vent’anni, il ragazzo Gaston pianse come un neonato all’ombra sfumata della bestia, che se l’era appena ripresa l’inferno, credette, in un guizzo appena; e le porte sbatterono dissolvendola.

Gli oggetti rivoltarono la cucina, e presente il termine imbandita vollero seguirne l’esempio e renderla quasi tale; lo nutrirono fino ad ampia sazietà, gli riempirono la ciotola che lui scrutava con occhi acquosi da vitello. Lo riportarono nell’antica stanza dell’armadio e lo obbligarono al letto, dove rimase a tremarsi addosso per almeno due o tre tramonti. Gli oggetti, poi, tacquero. Fu una notte mite che abbracciò il castello su un seno di taciturna oscurità; nella stanza che era più distante dall’ala est il ragazzo inquieto potè sognare. Scorse nel sonno un’intervallare sinuoso accanto a lui, disteso sulla piana dell’antico talamo, un calmo alzarsi e distendersi ritmico di fianchi delicati. La donna era bella e impalpabile come una nube alla luce della luna; impose il silenzio nel castello come un terribile rintocco, tese al ragazzo dormiente una mano diafana e si ricoperse le spalle di un morbido velo di scuri capelli. Lui con le labbra sfiorò le dita, e le si inchinò trovandosi in piedi. Non aveva volto né fissi lineamenti, la sua figura si delimitava al confine della cornice che aveva alle spalle: la scalata dell’ala est, man mano nel salire si adombrava e risaltava nel contrasto i confini del chiarore femminile. Nel ragazzo, allo svegliarsi, si stagliò l’immagine nivea che contrariamente al riverberare luminosità, appariva tanto candida da essere sullo stesso tono cupo del buio passaggio.

Attese mentre gli oggetti riformulavano il tramestio gorgogliante, e attese ad ascoltare l’odore delle ante dell’armadio, il battibecco delle porcellane e il fruscio dei tappeti e il lamento delle armature. Infine la bestia tornò: si sorprese a vederla arrivare senza un balzo, un ruggito, ma procedendo goffa ed equilibrata sulle zampe posteriori; ricurva in avanti senza che potesse vedere il pavimento nascosto dal pelo irto sul petto, ogni unghiata al terreno sembrava volesse strappare il candelabro e l’orologio che zampettavano come sorcetti. Gli scaraventò addosso un ringhio affilato che mancò poco di fargli crollare sopra il baldacchino. Il ragazzo preferì sgattaiolare giù dal materasso.

“Siete gradito a danzare nel mio salone, stasera”

Quando la bestia divelse la porta uscendo, lui pensò ai vecchi – quel che dicevano – e al sogno; si ritrovò a ballare col diavolo, con un diavolo estremamente incantevole come un angelo, e ascoltò quel tanto che i vecchi dicevano. Stava facendosi il segno della croce accasciato al letto, quando ticchettando, l’orologio gli rotolò al fianco.

“Andrete, vero figliolo?” si rassicurò sporgendo le lancette, ferme sulla stessa ora dell’ultima volta che si erano mostrate.

Andava, rispose il ragazzo, andava all’inferno ballando, piuttosto che venir sbranato in una stanza remota. L’orologio si esibì in qualcosa di simile ad un pesante saltello, volle sapere di cosa blaterava il giovanotto, cos’erano le danze infernali di cui andava delirando. Si dice che c’è il diavolo nel castello, e l’ho visto, l’ha visto pure lei il diavolo: era qui, mio signor piccolo orologio - giustificava il ragazzo -, qui sotto da qualche parte ci sarà quella tal famosa porta, lasciate ogni speranza, e mi dica, signor Orologio, com’è che si fa ad aver speranza parlando con uno come lei nella regia del demonio?

Si chiamava Tockins, l’Orologio, volle sottolineare. E il diavolo, nel castello, c’era passato anni fa – più o meno al tempo di quando il ragazzo era venuto al mondo e i vecchi non aveva tanto da dire – era venuto sotto belle spoglie e a causa di uno sfortunato ed inopportuno innamoramento, aveva ben pensato di far del castello, da bella e ricca dimora, a cupa chioma dell’ala est. Poi, comunque, se n’era andato.

“E la bestia?”

E la bestia, e l’Orologio col nome, e il candelabro, e le tazze coi piattini, si diceva fossero quei vecchi abitanti del castello, prima che il diavolo buttasse la bestia innamorata nella profonda gora dell’ala est.

“Non ricordo come, sono persona e oggetto” l’Orologio strizzava nel racconto il bottone al centro del quadrante, arricciando le lance “Le anime nostre sono trasmigrate per maledizione, e danno vita a quel che siamo”.

Continuavano a ricordare per l’ala est, la fortezza nel castello. C’era una piccola essenza laggiù, l’unica ad essere rimasta viva e bella; una camelia di fioritura rossa, che di anno in anno perdeva qualche petalo, e con esso si staccavano e cadevano parti enormi della vita loro. Un solo petalo sconsolato languiva ancora attaccato. Il termine della cupa fiaba venne a mancare quando l’Orologio salticchiò verso l’uscio, appena illuminato da uno scorcio discreto del riconoscibile candelabro. Si concluse così:

“Scendete al calar del sole, fateci la grazia. Non c’è nessun diavolo” come se il sole, da quei vetri lacrimosi potesse vedersi.

Il ragazzo, per assurdo, attese un improbabile calar del sole, poi s’alzò e uscì tra gli strepiti delle armature logore. Faceva il cacciatore di mestiere, e in lui vi era una sorta di vincente miscuglio di coraggio e stupidità, nel momento di correre dietro ad una preda con il fucile o a mani nude, alternato ad una scorta d’astuzia e senso di conservazione che si scatenavano in rare fasi. La media di queste uniche peculiarità lo rendeva un giovane baldo abbastanza da essere creativo quanto necessitava per sé all’occorrenza. Tremando come una lepre, scivolò tra i corridoi, si perse. Girò a vuoto sbattendo qua e là come un pesce ammattito in una boccia, e continuò a smarrirsi finchè non trovò l’unico punto che poteva riconoscere in tutto il castello; la folle scalata dell’ala est. Capì finendoci dentro come potesse apparire talmente orribile, come da quel buio venisse fuori quell’attrazione inquieta per l’annullamento. Non c’era un muro, un tappeto, un corrimano; e nell’immenso buio non un oggetto parlava, il castello andava pian piano spegnendosi alle spalle.

Vagò, e vagò, scordando le poche cose che dentro di sé sapeva, le mani avanti e le gambe che seguivano una linea nel nulla, avanzando o indietreggiando – che lui ne sapesse, non procedeva né tornava indietro – finchè non fu pieno del cosciente terrore che la bestia sorgesse all’improvviso alle sue spalle, o davanti al suo volto.

Trovò una porta. Era piccola, tanto che ci sbatté addosso il gomito mentre barcollava oltre il suo confine. Dentro c’era la fragile luce di petali, come l’aveva spiegata l’Orologio. Rischiarava una sfera di stanza ampia, creando uno sfondo rosato intarsiato dal continuo levitare della polvere nell’aria, e quadri, vecchi oggetti senza vita. La camelia, come l’aveva intesa il ragazzo, emerse dinanzi a lui effettivamente come un reale albero di camelia. Al centro della stanza, dal pavimento, metteva radici il vasto arbusto. E al posto dell’antico suolo decorato, c’era un velo impalpabile di fiori e fiori rossi – vite di oggetti che andavano sfocandosi -, immobili dove erano caduti; tra i rami folti e vigorosi, rimaneva ad una altezza spropositata a dondolare l’ultimo petalo. Era troppo in alto per essere staccato, troppo ben aggrappato per un insignificante triangolino da staccarsi. Il ragazzo non poteva far altro che sottostare all’albero, e osservare il suo corso attendendo la bestia; poiché indietro alla luce rosseggiante di quella vita, il buio del tracciato era oltremodo denso per riattraversarlo. L’ala est non era una rocca di spine, né un passaggio infernale: non emanava terrore, ma lo richiamava dalla profondità delle anime grazie alla sua essenza semplice. Erano quattro finestre murate su una stanza che non avrebbe mai visto l’alba, chiusa intorno ai resti d’un morente; l’ala est era solo una tomba. Sul fondo era appeso il ritratto del diavolo, in un lungo abito blu sulla pelle nivea; la ragazza sognata che apparentemente aspettava da tempo, non era che la maestria d’un buon pittore su un bel soggetto, rovinata dal tempo.

La bestia arrivò disegnando un movimento ondeggiante sulle quattro zampe, graffiando il pavimento duro celato nel rosso. Fece a lunghe galoppate il giro della penombra, e frusciò dietro il tronco, apparendo con discrezione oltre l’incandescenza del legno. Quasi tranquillamente pudica.

“Dunque, termina la caccia. Sei preso”

I latrati si scomponevano fuori dalla loro natura, rimbalzando sui quadri spenti, e si moltiplicavano nell’eco. Il ragazzo dovette scegliere tra il petalo e la supplica.

Supplicò, per l’ennesima volta. Non era che un bravo figlio che lavorava, non che miseri vent’anni.

“Io non sbrano persone“ ruggì la bestia, in un fremere della coperta rossa che, soffiata, s’alzò come nevischio “Ma toglimi la maledizione, o ti lascerò fuori dal castello, coi lupi che urlano di fame”.

Pianse e pianse, quel giovane Gaston, costui si trovava nella disgraziata condizione di non avere idea di come potesse. Si arrotolò alle zampe brutali della bestia, arrivando a tirare il pelo nero come fosse il lembo del vestito di un santo figuro. Gli promise il suo intero villaggio, per quello sventurato come.

La bestia ringhiò, e nella sua gola ruvida e profonda si dipanò la memoria dell’incanto del demonio.

“Venne al castello un giovane stregone, in un’alba di primavera. Potei vederlo dal mio giardino fiorito entrare dai cancelli senza presentare affatto un bell’aspetto – appariva alquanto miserabile e brutto, davvero - ; ma le sue parole di incredibile arguzia e forza d’animo mi mossero ad ospitarlo. Non fu che il brillare del suo intelletto, ad innamorarmi. E capendo che era un demonio, lo pregai e lo adorai perché facesse di me la sua sposa pur nella dannazione.”

“… lo invocai e lo amai, bestemmiai per onorarlo, e vedendo quella mia passione disse che non ero che stoltezza racchiusa in un bozzolo di splendore, troppo sciocca per essere ingegnosa regina degli inferi. Pretendevo da lui in modo tanto scriteriato da offenderlo, a tal punto che andandosene mi maledì, dicendo che avrei avuto aspetto pari al mio intelletto, e la servitù che m’aveva viziata sorte simile alla mia; finchè quest’albero non avesse perduto l’ultimo fiore, e tutte le anime del castello sarebbero andate a lui.”

Il piovere di petali morti si era calmato, nel silenzio.

“… a meno che non fossi stata capace di contentarmi di un compagno modesto, come la mia natura”

Il ragazzo barcollò lasciando con lentezza il pugno di peli che teneva stretti come un rosario.

“Lei è…”

“… lei è una do… una lei?”

Era molto vicino a quel petto profondo, il ringhio che vi gorgogliò come lava lo assordì.

“Sono una ragazza” e lo allontanò con una rude zampata. Sedeva molto diritta, la bestia, nonostante il pelo storcesse l’effetto delle spalle e delle mascelle, e gli arti fossero di lunghezza poco proporzionata. Il ragazzo strisciò oltre la portata dei suoi artigli, tornò in piedi, e mostrò un raro sbalordimento ad una lieve luce estranea che s’irradiava dal buio dietro, scontrando dorata contro la cremisi della camelia. Poté vedere orologio e candelabro passare intorno al cerchio ombroso della stanza, infiltrandosi silenziosi come pioggia da un tetto.

“Mi inviterai a danzare,” tracciò la bestia misurando il velo rosso del pavimento “e darai un banchetto in mio onore. Vorrai sposarmi, e io vorrò davvero, perché ho imparato a moderare il mio orgoglio e ad avere paura dell’inferno”

Il ragazzo non fu scosso di timore, all’udire lontano la sorgente dei primi suoni che lo avevano spaventato: lunghi ululati di lupi fuori dal castello. Sentì come fosse ad appendere la testa di un alce d’argento sopra il camino della locanda. La boria lo rinvigorì come vino dopo il gelo. E il quadro antico non ispirò ancora quel sentore aspro di dannazione a tradimento, scrutò su di esso la bellezza dei colori nella figura.

“Proporrei subito di diventare mia moglie, ad una donna tanto splendida, se mi fa l’onore”.

Volle dire così, poiché davanti alla preda, s’è già detto, aveva quella sua borraccia piena di coraggio e stupidità. La falda di petali non attutì lo sbatacchiare dell’ottone, quando il candelabro si accostò, facendo sobbalzare le fiamme, puntando stentatamente verso la bestia. Quella agitò una lunga coda nera, rizzando i denti pallidi verso il ritratto.

“Non badare, è solo un vecchio quadro. Oramai rimarrò tale a come sono”

“… la maledizione è nell’anima, vedete”

“A spezzarla saranno salve tutte quelle del castello”

“… e la bellezza non innamorò nemmeno il diavolo.”

“Non… non tornerete donna?”

Lei, la bestia, sarebbe rimasta com’erano le bestie. Brutta. Ebbe paura, allora, il ragazzo. Immane paura d’aver sbagliato strada, d’aver pianto nella stanza e aver sognato, d’essere venuto a tentoni fino alle fronde della camelia; tanta paura che dentro di lui scomparve, liquefatta, anche quella parca riserva d’astuzia famosa. Dentro sé bestemmiò il fucile e la caccia, il padre che aveva perso nel sentiero del mondo e il villaggio lontano, ignaro a sparlare del diavolo.

“Lei non può sposarsi così”

“… LEI E’ UN MOSTRO ”

Fu un ultimo grido di inutile supplica, disperso nel vano frusciare delle foglie, nemmeno debole abbastanza da far volteggiare l’ultimo petalo. Lei era la mostruosa bestia, e lei, a meno di un fiore alla fine della sua vita, si ritrovò a perdere il senno pazientemente accumulato, dando con forza ragione al suo aspetto. Il ruggito sovrastò gli ululati degli affamati, ed ella si erse sulle due zampe, mostrando con un orgoglioso disprezzo le linee distorte e ferine, gli occhi scavati nella pelliccia, l’equilibrio malsano dell’innaturale posizione.

“Va’ dai lupi, allora, va’ sotto i loro denti, sceglierai questo” 

“Preferirò i lupi alla bestia, torni all’inferno” il ragazzo degenerava, arretrando nel terrore lungo il buio dell’ala est, fuori dal chiarore sanguigno della camelia. Vide l’Orologio in uno scorcio prostrarsi in ginocchio – se mai ginocchia fossero quei rotoli di legno intagliato sotto il pendolo – e risuonare in un lamento. Il candelabro impazzava, nel suo vortice di luci minute.

“Sa, giovane figliolo?”

“Sai, sciocco ragazzo?”

“Sa, signor cacciatore?”

Il candelabro fu protagonista di una veloce, quanto singolare scena. La bestia latrò le sue parole, e prendendo il manico d’esile metallo con gli artigli, lo scaraventò, pari ad un sasso a balzelli su acqua piatta, contro i rami della camelia.

“Sai, cacciatore Gaston, migliore tra i giovani, bello tra gli uomini, forte tre gli uomini; all’accontentarmi di lei, preferisco esser serva all’inferno”

La bestia e il candelabro diedero alle fiamme quel braccio di petalo, e il ragazzo non lo vide, guardando che l’incendio schiariva il corridoio lungo verso la scalata, oltre l’ala est. Corse, e gli oggetti s’infuocavano, le anime che prendevano le aperture dei demoni alzavano fuochi e scintille sui tappeti; solo i quadri, chiusi nel loro inanimato, eterno silenzio rappresentativo, non lanciavano grida trai carboni. Corse, quel Gaston, oltre l’ala est che diveniva un vortice di luce e un mulinello incandescente, tomba di spiriti dannati. Corse come fosse a caccia, e oltre il bosco di falò trovò l’uscita del castello; la porta esule dall’incendio s’apriva dinanzi al freddo dell’inverno fuori da quelle mura, i dardi infuocati gli corsero dietro alle caviglie, lo lasciarono sprizzando stelle di tizzoni mentre lui, uscendo a mordenti, incontrò il diavolo fuori dal castello.

Fuori, nell’immensa foresta di neve sperduta e sterminata, c’erano a riverberarsi nell’incendio solo gli ululati.

 

 

 

 

 

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Salve a tutti ^_^  Questa storia viene pubblicata dopo tantissimo che non scrivo fanfic, quindi ho come l’impressione di averci perso un po’ la mano, essendo abituata da un paio d’anni a lavorare solo su racconti originali. Mi scuso se la lettura risulta faticosa – e magari ridondante – ma volevo provare a darle un’atmosfera un po’ gotica o_ò  Spero che vi sia piaciuta, comunque.

Alla prossima :*

 

  
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