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Autore: The Custodian ofthe Doors    26/04/2020    3 recensioni
[Storia interattiva| Deathfic!| Ready? Start!| Iscrizioni chiuse]
In un epoca sorprendentemente di pace, quando nulla turba l'equilibrio del mondo e dell'umanità, il pericolo più grande non è altro che la noia di coloro che hanno e possono tutto.
*
“ Problemi in Paradiso?”.
*
Il foglio volteggiò lento nell'aria densa delle Praterie degli Asfodeli, lì dove sorgeva il muro che li divideva dai Campi di Pena.
L'anima guardò altri fogli colorati svolazzare oltre quelle alte mura scure, caduti dal cielo, forse da quello vero e non dalla volta rocciosa che faceva loro da soffitto.
*
E se è la vita dei loro figli quella che gli dei vogliono veder in gioco, non vi sarà nessuno che potrà impedirlo.
*
“Riuscirai a “sopravvivere”? Sarai in grado di ingannare Thanatos?
Questa è la sfida della morte.
Questa è la Death Race.”
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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!Attenzione! Capitolo particolarmente lungo e denso. Pochi dialoghi, tranta narrazione!







X- Stolen.
 
 
 
 
Nel buio più assoluto si spandeva una sottile nebbia luminescente.
Era il brillio di centinaia di migliaia di corpi celesti, o forse sarebbe stato più preciso dire che ne era l’ombra, il riflesso, l’eco lontano e mutevole.
Come inchiostro nell’acqua, nuvole variopinte di cupi toni si allargavano e si restringevano, creavano volute e riccioli, ghirigori intricati e semplici, fili di lana srotolati nel nulla.
C’era il mondo lì, tutto quello che non c’era fuori e tutto quello che non ci sarebbe mai stato.
Scie brillanti come il riflesso della luce sul raso, morbide e avvolgenti, andavano disnodandosi tra quelle nubi, infilandosi in scintillanti agglomerati d’energia che fungevano da portali in luoghi che più non esistevano ed in altri che dovevano ancora esistere.
Vi era un soffice silenzio, ma se si tendeva bene l’orecchio si poteva sentire lo sciabolio dell’acqua contro il legno di una nave, tra le pietre di una riva, sulla battigia sabbiosa. Un leggero stormir di foglie, il soffio lento del vento tra le rocce, i fili d’erba, contro i tronchi torti e sulle cime innevate. Soffiava fiocchi ghiacciati, nessuno uguale all’altro, e li depositava con delicatezza su spessi manti bianchi, coprendo con letizia tutto ciò che incontrava, nell’abbraccio morbido e silente della neve, che tanto affascina da non lasciar mai scampo.
Le cicale frinivano sul ramo di una betulla, sul bordo di una finestra, il parapetto di un balcone ed una panchina di legno, sul gradino di pietra di una vecchia casa e sull’asfalto crepato di una grande città.
Nei cieli più alti stormi neri punteggiavano l’azzurro che lentamente sfumava in rosa, diveniva arancio, giallo e rosso infiammato lì vicino ad una stella che si era arrogata il diritto d’esser un sole. Di fianco a loro, nella parte più scura di quella distesa infinita, balene dalle lunghe code nuotavano con guizzi pigri delle pinne, portando con sé le nuvole ed i pesci più piccoli che gli si affaccendavano attorno.
Se si tendeva bene l’orecchio si poteva sentire il rumore cristallino di ciondoli di metallo che cozzavano gli uni contro gli altri, lunghe canne scintillanti legate da fili trasparenti, ornati di conchiglie, di pietre, di sfere colorate. Era un suono molto simile a quello delle canne di bambù riempite d’acqua, ma completamente diverso. Lo stesso delle canne di palude vuote tra cui soffiavano venti e flutti del fiume. I grilli conoscevano bene quei suoni, che facevano loro da orchestra assieme ai gracidii baritonali delle ranocchie, alla danza dei fiori che si schiudevano sul pelo dell’acqua, degli uccelli dalle lunghe zampe che camminavano con calma e dei predatori squamati che sembravano congelati per sempre nella loro apparente immobilità.
La luce si rifletteva sulle squame lucide, sui becchi appuntiti e le pelli bagnate, sulle foglie rigogliose e le canne di palude, di bambù, di metallo. Scintillava contro le pance bianche delle balene, filtrava tra gli stormi come fra i ricami di un pizzo. Creava lunghe ombre di piccole cicale, mari mossi nel verde delle fronde e in quello dei prati. Era accecante contro la neve, brillava sull’acqua e sulla sabbia come un mosaico, inseguiva le scie di quelle nubi impalpabili e le rincorreva come se fosse stata attratta da loro.
C’era il mondo lì dentro e non c’era nulla di paragonabile a quello stesso spettacolo.
La Dimensione Onirica era ciò che di più bello potesse esistere. E di più pericoloso.
Ipno non si illudeva certo: quel luogo-non-luogo poteva esser acqua su una ferita quanto benzina sul fuoco. Era esattamente ciò che lui si negava di fare. La Dimensione Onirica era un’illusione dorata e la più cruda delle realtà.
C’era stato un periodo della sua vita, secoli addietro, in cui viaggiare tra quelle lande gli era costato fatica, sudore, dolore atroce. Notti in cui tornava da suo fratello in lacrime, distrutto dal futuro che aveva visto, dalle possibilità che avevano scampato per poco e dalle conseguenze che le loro azioni avrebbero portato.  In quei giorni erano urla ed esplosioni quelle che riempivano la Dimensione Onirica, o meglio, la parte che lui riusciva a scorgere. Il rumore sordo ed assordante della terra che tremava, la devastante potenza del terremoto, della Madre Terra che reclamava ciò che era suo. Il sibilo del vento che diveniva grido indomabile, la forza imbattibile dell’occhio del ciclone. Il crepitio dei tuoni che s’abbattevano sul suolo incendiando le foreste e le case, uccidendo, distruggendo. Il mare che si ritirava e poi s’alzava, s’ingrossava, divorava tutto ciò che capitava sulla sua strada.
Sentiva i lamenti degli animali, i tormenti delle anime, il dolore, la morte.
Gli ci erano voluti anni per comprendere come muoversi in quel nulla, come andare dove voleva lui e non lasciarsi travolgere. Perché la Dimensione Onirica era viva tanto quanto lo era ogni cosa in quel Cosmo e se non si era abbastanza forti faceva di te ciò che voleva.
Non sarebbe dovuto essere lì, glielo aveva sconsigliato suo fratello, l’aveva fatto Ade, l’aveva fatto Efesto con i suoi soliti modi spicci e infastiditi. Era andato persino a chiedere consiglio a sua madre e anche lei l’aveva guardato dall’alto della sua magnificenza e gli aveva ricorda quanto fosse pericoloso addentrarsi in quel luogo.
 
«Attento a quel che fai, figlio mio, la Dimensione Onirica non è regno di nessun Dio, di nessuno di noi, di nessuno di quelli che gli umani venerano. È una galassia a parte, infinita, inesplorata. Ciò che siamo riusciti a scorgere di lei, sino ad ora, sarebbe poco più di un granello di sabbia paragonato al Cosmo che possiamo ammirare. Non è il nostro dominio, non lo è di nessuno di noi, di nessun essere così come li conosciamo. La Dimensione Onirica è viva, ospita tutto il Caos che non siamo in grado di immaginare ed il Cosmo che non siamo in grado di vedere.»
 
Lo sapeva, lo sapeva fin troppo bene. Ipno ne era perfettamente consapevole, ma quei luoghi così magici, impalpabili e incredibilmente concreti lo chiamavano a sé come il canto di una sirena, come la luce per una falena, come i fiori per le api, come il sangue per i predatori.
Non era colpa sua se era nato figlio della Notte, non era colpa sua se nel suo animo dimorava il sogno, l’immaginazione suprema.
Sognare era la più alta forma di potere e gli umani neanche se ne rendevano conto. Oh, se solo avessero saputo cos’era in grado di fare davvero la loro mente, se solo si fossero accorti dei milioni di porte che il loro inconscio custodiva, di tutte quelle che avrebbero potuto aprire se solo fossero stati consapevoli di sé. Persino gli Dei non capivano fin in fondo quanto potere avesse un sogno, quanto il pensiero poteva spingersi in là, i mondi che poteva visitare, le storie, gli eventi, le possibilità. Passato, presente, futuro. Un passato mai esistito ed uno prossimo, un presente già passato, che ancora doveva avvenire, che mai si sarebbe realizzato ed un futuro ormai andato, perso per sempre, visto centinaia di volte, ripetuto per mille e mille vite.
Era confuso e chiaro, era una contraddizione vivente.
Ed era fonte infinita di informazioni, di risposte.
Ipno amava quelle lande di nessuno anche per questo motivo. Nel momento in cui era finalmente riuscito a venirne a capo, a capire approssimativamente come muoversi lì in mezzo, come scegliere che scia seguire, si era visto aprire mondi prima d’allora sconosciuti. Erano secoli che viaggiava per la Dimensione Onirica e nonostante ciò non ne aveva visitato che un angolo infinitesimale, ma aveva imparato, questo sì, aveva imparato dai suoi stessi errori, dai demoni che l’avevano perseguitato per mille vite, ed era finalmente riuscito a cogliere il filo giusto, quello che lo portava proprio dove voleva. O nelle sue prossimità.
Ipno scrutava le ere da che ne aveva memoria. Ricordava certo anche i tempi passati, quando tutto era confusione, immagini violente che si sovrapponevano a suoni ancor più crudi, ma riusciva a lasciare quei ricordi in una parta oscura della sua memoria. Aveva imparato che l’unico modo per sopravvivere tutti quei secoli era nascondere il male e guardar solo al bene. Solo gli umani, con la loro piccola vita mortale, che attendevano suo fratello sin dalla nascita, potevano permettersi il lusso di ricordare anche ciò che di più brutto era successo nei tempi andati.
Ricordare il male affinché non venga rifatto. Era una regola d’oro, era forse la cosa più intelligente che gli esseri umani avessero mai detto, eppure non aveva funzionato gran che. Gli uomini ricordavano con dolore ed orrore solo ciò che era successo in un tempo relativamente vicino a loro, ma quando le generazioni cambiavano, quando per troppo tempo non avevano conosciuto il dolore, questo diveniva qualcosa estraneo a loro, un male che sì, era esistito, ma tanto tempo prima, tanto tempo fa, a qualcuno, non a loro. Sarebbe risuccesso? Era una possibilità, certo, ma di nuovo, non a loro, non dove si trovavano, sempre in qualche paese più povero, più arretrato.
Quanto erano sciocchi ed affascinanti al contempo gli umani, in grado di illudersi da soli di cose assolutamente senza fondamento. E sì, la guerra era lontana ma il mondo era così piccolo, come potevano non capire che in un qualunque momento una disgrazia avrebbe potuto cogliere anche un grande paese fertile e avanzato? Che fascino che aveva quella loro certezza. Oh, ma c’era anche quel ridicolo distacco verso le nefandezze che avvenivano lontano da casa loro: le guerre nei “paesi poveri” che facevano tante vittime, riportate con freddezza da numeri neri sparati con inchiostro su carta di scarsa qualità, numeri enormi che non toccavano nessuno, ma non appena si sapeva di quell’incidente fatale su quella super strada, dell’edificio esploso per colpa del riscaldamento… non appena il pericolo si abbatteva su qualcosa che anche loro avevano nella loro cittadina, nella loro piccola ed insignificante comunità, ecco! ecco che ricordavano d’esser mortali, ecco che ricordavano quando fosse oscuro e doloroso il manto nero di Thanatos.
Ipno ne aveva viste così tante di quelle verità. Aveva visto così tanti uomini sicuri, in paesi sicuri, in città sicure, inneggiare una guerra in paesi lontani con ferocia e coraggio per poi tremare di fronte alla realtà che nessun luogo è sicuro, che il terrore può piovere dai cieli anche sulle torri più alte e splendenti del reame più potente.
Ma se c’era un uomo, uno solo, di cui Ipno era sicuro, che sapeva per certo non aver mai dimenticato che il male, o il fato, potessero giungere in ogni luogo, quello era Giordano Delle Vie, quello era l’ormai non più piccolo Gio.
Ipno stava seguendo il suo filo da molto tempo ormai. La luce accecante che s’irradiava dagli occhi di quell’essere si spandeva nel nulla della Dimensione Onirica proprio come faceva ogni grande era, diveniva una nube densa ed impalpabile che nascondeva in sé troppi vicoli, troppe vie.
 
«Le vie del Signore sono infinite, è per questo che mi chiamo così.»
«Ma di quale Signore? Del Dio dei Cristiani?»
«Ti sembra così strano?»
«No. No, non mi sembra per nulla strano. Infinite vie quindi?»
«Tutte quelle che non riuscirai mai neanche a scorgere.»

 
Oh, Giordano aveva avuto ragione da vendere all’ora, ma Ipno dubitava fortemente che l’uomo si rendesse conto di quanto ci fosse di vero nelle sue parole.
Nella grande nebulosa lucente che era la storia, l’epoca, l’era infinita di Giordano Delle Vie, vi erano, proprio per rimanere in tema, milioni di miliardi di vie da percorrere.
Ogni strada si srotolava tra le curve morbide di quella nube, diramandosi come le radici minuscole e fitte di una pianta infestante. Portavano ovunque, era questo quello che aveva sconcertato Ipno più di tutti: Giordano aveva a mala pena l’età giusta per esser chiamato “vecchio” ma il suo passaggio su quel mondo toccava corde più antiche della terra su cui aveva camminato. Non tutte erano legate ad eventi davvero accaduti, ciò aveva dell’ironico, perché a render così intricata la sua nebulosa erano le possibilità che mai si erano realizzate, quelle che erano state sfiorate, quelle che nessuno ricordava o che tutti avevano ben impresse nella mente. C’erano quei se che aleggiavano come fumo in una camera chiusa, tutte le volte in cui Giordano aveva mosso un passo in una direzione per poi esser brutalmente ritirato indietro, o quando puntava a destra ed era stato spinto violentemente a sinistra. Tutte le volte che aveva camminato con infinita pazienza su di una via prescelta per poi tornar sui suoi stessi passi e ricominciare il suo vagare nella direzione opposta.
Giordano non si era mai negato la possibilità di tornare indietro, non aveva mai negato la possibilità che le sue azioni, le sue decisioni e le sue idee fossero sbagliate. Una cosa che suo padre gli aveva trasmesso era stata proprio la capacità di ammettere i suoi errori con sconcertante semplicità e correggere il tiro.
Perché il piccolo Gio poteva sbagliare una volta, ma mai due di seguito.
Così ora, davanti ad Ipno, sospeso nel nulla della Galassia di Giordano, si aprivano troppe possibilità di cammino, di scelta, di informazione.
Cosa stava cercando davvero? Quel era la sua destinazione? Per quanto sapesse come farsi sospingere dalle correnti, quale vento cosmico cavalcare e da quale leggera nebbia diffidare, Ipno non riusciva a venire a capo del suo vagabondare.
Voleva l’inizio, voleva il punto di partenza, l’anno zero del calendario di Giordano Delle Vie.
A livello teorico sapeva quali fossero le coordinate, ovvero la borgata romana di quel dì dell’anno del Signore 1913, un piovoso Settembre che andava declinandosi, una pancia gonfia e rotonda, abbronzata dal sole che aveva splenduto in quell’estate passata, una delle ultime prima che la Grande Guerra scoppiasse in tutto il mondo.
Con un movimento morbido, fluido come l’acqua, Ipno piegò il suo intero corpo verso una scia senza colore, composta solo da centinaia di piccoli e lucenti puntini, come un’aria polverulenta trapassata da una lama di luce.
C’era una grande strada, che partiva dalla città e si snodava per le vigne e i campi, correndo verso i Castelli Romani, sulle montagne, oltre le cittadine arroccate sui pendii boscosi. A vederla in quel ricordo, in quella linea temporale, Ipno non vi riconobbe nulla della strada sempre trafficata che era nell’epoca odierna, non vi erano auto, semafori, non vi erano lampioni e strisce bianche dipinte sull’asfalto consunto e crepato; nessun guardrail ammaccato sotto cui crescevano coraggiose e coriacee erbe selvatiche, nessun adesivo sul metallo, nessuna lattina, cartaccia o cicca tra gli steli.
C’era una casa però, una vecchia costruzione di due piani, con le mura bianche scrostate ed una grande terrazza su cui vasche sbiadite dal sole e fili tesi tra pali fornivano il lusso di poter lavare i propri panni e stenderli senza problemi.
La salita che portava alla casa era coperta con mattonelle diverse, recuperate un po’ ovunque perché non c’erano i soldi necessari per comprarne un intera partita nuova. Eppure, quel miscuglio di colori, tutti tenui e macchiati, davano un senso d’allegria al percorso che s’arrampicava fino alla casetta dai muri scrostati. Ipno sapeva per certo che quello non era un dettaglio importante, che, di nuovo, i proprietari non avevano i proventi per uno sfizio puramente decorativo come una nuova mano di vernice sul muro esterno, che tutto quello che avevano serviva loro per vivere e per accogliere la nuova creatura che sarebbe nata di lì a poco.
Due scalini sostenevano un portone di legno, le maniglie rotonde avevano perso la loro patina lucida e sembravano quasi porose. Ai proprietari piaceva così, quelle erano le maniglie della casa in cui aveva abitato lui da bambino, era tutto ciò che gli rimaneva di quel luogo.
C’era una tettoia sopra, coperta da semplici tegole di legno. Sotto di essa una vecchia lampada ad olio, palesemente rubata dalla vicina ma lontana Francia. Ipno ricordava anche quella di bravata, ne ricordava il significato ammesso e quello non detto .
Il dio del sonno aprì il portone con uno scatto rumoroso, oh, se lo ricordava, così come ricordava il tonfo secco che bisognava far fare all’anta per chiuderla per bene, così come ricordava l’interno del portone colorato di bianco, la rampa di ventuno gradini di marmo di scarto ed il corrimano di legno chiaro, il soffitto che s’abbassava in un gradone lì dove era stata allargata la metratura della casa per inserire un bagno funzionale in tutto e per tutto.
Sul pianerottolo gettò a mala pena un’occhiata alla rampa di scale che curvava alla sua sinistra e conduceva al terrazzo, la sua attenzione era tutta per la porta di casa aperta, per lo scorcio di salone che vi vide dentro.
Improvvisamente la scena divenne sfocata, filtrata da una pesante patina, la pioggia iniziò a scrosciare fuori dalle finestre e Ipno vide una giovane donna, poco più di una ragazza, avvicinarsi alla porta-finestra che dava sul balcone dalla ringhiera verde e chiuderla.
Indossava una semplice veste beige, la pancia prominente la teneva allargata come una campana e la mano forte e ruvida della donna vi si poggiò sopra accentuando ancor di più la forma tondeggiante del suo ventre.
Era scalza, i suoi piedi caldi lasciavano leggere e momentanee impronte sul pavimento di cotto, le ginocchia lasciate scoperte dalla tensione del vestito erano segnate di cicatrici, così come lo erano i polpacci, così come le braccia, le mani. Sul suo stesso volto si potevano vedere delle fini line argentate, segni più chiari della pelle abbronzata, ricordo di ferite e fatiche passate di quei miseri vent’anni di vita.
Quanto erano stati lunghi ed intensi per lei.
Il volto ancora un poco tondeggiante nascondeva la piega seria e dura che solo l’esperienza aveva potuto donarle, gli occhi dalla sfumatura calda e cupa erano puntati sulle vigne che poteva osservare da casa sua.
Sperava che suo marito e gli altri ragazzi fossero riusciti a finire la vendemmia prima che quella pioggia fitta ed improvvisa l’avesse colpiti.
Era strano per lei star lì ad aspettare, dopo tutto quello che aveva fatto fino ad ora, dopo aver passato tutta la vita ad agire, a fare, a lavorare, eppure sapeva perfettamente d’esser giunta alla fine della gravidanza e che non poteva permettersi errori o sforzi. Non poteva permettersi che qualcuno s’accorgesse di lei.
Non che le sarebbe importato davvero, dovevano solo provare a toccare il suo bambino e avrebbero rimpianto anche solo d’averlo pensato, ma c’era una parte di lei che ugualmente le diceva di non forzare la mano.
S’allontanò dalla finestra e si diresse verso il corridoio che portava alle due camere da letto, in una delle quali riposava una bambina dai capelli neri e il visino rotondo. La guardò con dolcezza e sorrise carezzandosi la pancia. Ancora un po’, ancora un po’ e ci sarebbe stato un altro bambino a scorrazzare per l’appartamento.
La stanza girò improvvisamente su sé stessa e Ipno si ritrovò in una vigna, con le viti battute dalla pioggia ed i piedi immersi nel terreno fangoso. Delle grandi botti erano ripiene di grappoli scuri, dei giovani uomini correvano malamente da una parte all’altra per sollevarle e metterle a riparo dentro ad un casale, maledicendo il tempismo del temporale e lamentandosi di quanto fosse tipicamente estivo per scoppiare in quel modo improvviso: erano nel pieno della vendemmia e pioveva come fosse stato Luglio, non era decisamente corretto.
Con i vestiti zuppi e il morale sotto i piedi Ipno poteva percepire il miscuglio di sentimenti e di pensieri che si agitavano tra quei sei giovani come se lo stessero gridando ad alta voce.
C’era chi non vedeva l’ora di bere qualcosa di caldo, o di mettersi davanti alla stufa. Chi non vedeva l’ora di riabbracciare la moglie, i figli, o anche solo il gatto che gli si sarebbe acciambellato in braccio donandogli un poco del suo calore e tutte le sue fusa.
Ma tra quel miscuglio di pensieri e di desideri fu solo un nome quello che risaltò tra tutti.
 
Clara.
 
Ipno osservò i sei giovani ed annuì. Sì, Clara era a neanche un chilometro di distanza da chi la pensava e probabilmente, esattamente come lui, ignorava il suo destino e la portata degli eventi in cui sarebbe stata coinvolta pochi anni dopo.






 
 
*





 
 
Quella che la gente, volgarmente, chiamava “La casa di Ade” era un palazzo che nel corso della sua longeva esistenza aveva mutato il suo aspetto tante di quelle volte da poter far concorrenza alla terra che sosteneva. Sebbene lo stile fosse sempre stato piuttosto cupo, vagamente lugubre e di certo minaccioso, si era andato ad ingrandire, ad evolvere, in modo pressappoco concentrico.
Ade vedeva così la sua umile dimora, che di umile aveva solo il modo di dire ovviamente.
All’inizio di tutto non era altro che un templio, la sua gigantesca e silente Sala del Trono, quell’immenso spazio nero contornato di colonne e corridoio che non portavano da nessuna parte. C’era il suo trono, sulla parete di fondo, che infiltrava le sue radici nelle profondità più remote della terra, avvolgendosi e sigillando le famigerate quanto pericolose Porte della Morte.
 
Quelle vere.
 
Nel corso del tempo molti erano stati gli eroi, le anime, gli dei e gli sciocchi che si erano arrischiati a discendere tutto l’Ade per giungere nel Tartaro e dì lì risalire in superficie a nuova vita passando per quel lungo tunnel verticale che tutti credevano esser l’unica via d’uscita da quel buco nero di morte, terrore e oscurità che era il giaciglio di tutti i più terribili esseri mai esistiti su quel pianeta.
In parte era anche vero, ciò che oggi appariva come un enorme ascensore era la via più diretta che si potesse trovare per uscire dal Tartaro, la stessa che quella spina nel fianco di Percy Jackson aveva utilizzato durante la guerra contro Gea, che i mostri avevano preso come loro personale uscita d’emergenza una volta uccisi e ricompostisi nella discarica divina. Ma come aveva più volte cercato di spiegare ai suoi figli, ai suoi nipoti, fratelli, cugini e qualunque altro grado di parentela esistente a questo mondo, quella non era che la via più conosciuta e più diretta. Le Porte della Morte non erano l’unico varco per uscire dal Tartaro, era solo una piccola scappatoia che loro dei avevano costruito nel caso in cui un Zeus più arrabbiato del solito avesse voluto scagliare qualcuno giù dall’Olimpo e poi si fosse presentata la necessità di tirarlo fuori.
Le Vere Porte della Morte, quelle del Tartaro, del luogo in cui dimorava il male assoluto, erano ben altre e si trovavano nell’anello più solido del nucleo più profondo di quel piccolo pianeta. Il suo trono vi era stato posto sopra, un lucchetto dal potere in continua crescita, che con il passare del tempo diveniva sempre più difficile da aprire.
Il pericolo che si era corso quando la Madre Terra aveva cercato di svegliarsi non era neanche lontanamente paragonabile a quello che avrebbe comportato la distruzione del suo trono, e mai nessun eroe del futuro avrebbe potuto correre lo stesso pericolo che avevano rischiato d’affrontare Ercole ed i suoi.
In proporzione le catastrofi del passato non sarebbero mai potute riproporsi, ed era un gran sollievo per tutti, specie per lui che da questi nefasti eventi ne ricavava sempre cattiva fama e qualche migliaio di anime in più del dovuto a formare una fila supplementare da smaltire.
Con il passare dei secoli così come si allungavano e rinforzavano le radici del suo trono si erano eretti muri attorno al templio, si erano creati corridoio dopo ogni arco, tra ogni colonna. Le epoche avevano lasciato il loro segno negli strati del terreno tanto cari agli archeologi e nelle stanze che erano andate sommandosi a quell’antica e primordiale sala.
Per ogni nuovo evento vi era una camera commemorativa, un quadro, un muro, un dipinto, una statua, un oggetto. Ogni vittoria, ogni errore, ogni scoperta, ogni sconfitta, così come gli stili la storia dell’umanità e quella dello stesso Ade si snodavano per il grande palazzo che ormai aveva le dimensioni di una cittadella. Neanche l’Olimpo intero era grande quanto lo era il Palazzo di Ade e questo perché lì ciò che non era più apprezzato veniva cancellato in favore del nuovo vizio e del nuovo capriccio. Ade, nella sua dimora, non si permetteva di dimenticare nulla, non lo permetteva a sé stesso e neanche a tutti gli altri: lui era rinchiuso per l’eternità nel luogo dell’eterno riposo e sofferenza delle anime di ogni razza, non gli sarebbe mai riuscito di cancellare dalla sua longeva memoria tutti i tormenti che aveva visto e subito e così avrebbe fatto in modo di ricordarli anche a chi viveva nel mondo dorato. Gli avidi e potenti dei che gioivano disinteressati a tutto sui loro giacigli di sete e oro sarebbero sempre stati tormentati da ciò che più volevano dimenticare, l’avrebbe fatto lui stesso se necessario.
Ade era consapevole che il suo ragionamento suonasse molto come il capriccio di un bambino, ma la triste quanto semplice verità era che nessuno poteva davvero comprendere cosa significasse vivere come aveva fatto lui per tutta la sua esistenza. Non aveva fatto altro che passare da una prigione all’altra: prima il ventre di suo padre e poi quello della Terra. Neanche la sua cara Persefone poteva capirlo fino in fondo, lei che non doveva far altro che attendere sei miseri mesi mortali per poter tornare a vedere il sole, le stelle, il cielo, per carezzare l’erba che mai sarebbe appassita sotto il suo tocco o respirare l’aria pura. Persino lei aveva una casa sull’Olimpo, Ade no, a lui non era stato concesso.
Poi la gente si domandava perché periodicamente cercava di tirare giù quella dannata montagna e tutti coloro che vi dimoravano sopra.
Il risentimento era un sentimento che probabilmente aveva inventato lui stesso anni e anni addietro.
Il ventesimo secolo però l’aveva privato di ogni energia, di ogni voglia di fare, forse perché si era affacciato ad una fittizia parvenza di normalità per poi vedersela togliere nel modo più brutale e spietato di tutti.
Una famiglia, qualcuno che lo amasse senza sapere chi fosse davvero, trattandolo con rispetto ma senza comprendere fino in fondo le nefandezze di cui si era macchiato. Una famiglia, un amico, che lo conoscesse davvero, che comprendesse davvero tutto il male che aveva fatto, tutto quello che si portava dietro, ma che lo amasse ugualmente.
Il 1900 gli era parso un secolo così luminoso nonostante le guerre e le morti, ed era estremamente ipocrita da parte sua ma sarebbe tornato così volentieri agli anni ’20, agli anni ’30, persino ai ’40. Sarebbe tornato volentieri a preoccuparsi di qualche suo terribile e dannato figlio pur di riavere quell’illusione di famiglia che nessuno gli aveva mai dato.


Che gli era stata rubata.
 
Il dio dei morti si alzò dal suo trono, le pulsazioni ritmiche e confortanti di un cuore che batte con costanza gli risuonavano sin dentro le ossa come succedeva ogni volta che sostasse per troppo tempo sullo scarno, e si diresse con lentezza verso il colonnato di sinistra, la lunga veste che sfiorava il pavimento lucido, le mani bianche dalle lunghe dita che toccavano con delicatezza il marmo delle colonne. Passò attraverso uno degli archi e continuò a camminare con placida calma lungo quel corridoio buio e mormorante, così simile a tanti altri eppure unico a suo modo come ogni singola cosa nel suo palazzo.
I suoi pensieri erano per lui quanto di più veritiero e giusto ci fosse, in quel momento. Gli era sempre stata negata la libertà, era stato confinato in prigioni diverse, costretto ad occuparsi di qualcosa che non voleva, deriso, insultato, maledetto, punito per un male che aveva fatto solo in conseguenza ad uno ancora più grande che era stato fatto a lui. Gli era stato negato l’Olimpo, il suo posto dorato tra i suoi fratelli, veniva chiamato uno dei “Tre Grandi Fratelli” ma non ne aveva tutti gli onori che venivano porti a quegli altri due. Gli era stata data l’illusione dell’amore, ma la sua Persefone non era mai solo sua. Gli era stata data l’illusione di una famiglia, era stato rimproverato per averne cercata una e poi, nonostante tutto o proprio in virtù di questo, gli era stata rubata.
Rubare. Trovava ironico che quello fosse proprio il punto centrale della nuova prova. Qualcosa di rubato, alle anime.
Si lasciò sfuggire un verso di scherno: le anime, specie i dannati, non possedevano più nulla che valesse la pena rubare e anche gli elisi non erano messi troppo meglio, quei pochi oggetti mortali che avevano ancora con sé non erano che l’ombra di quello che erano stati, non erano altro che un pallido monito di ciò che avevano perduto assieme alla vita.
Cosa puoi togliere a chi non possiede più nulla?
Beh, qualcuno era riuscito a trovare una risposta a questa domanda ed aveva anche deciso di usarla contro quelle anime prave.
Il lugubre corridoio si schiarì poco a poco, un varco s’aprì dove prima non vi era che un muro ed Ade fuoriuscì dal suo tunnel d’ombre, viaggiando come ognuno dei suoi figli aveva imparato a fare anche a proprie spese.
Si trovava in un’ampia stanza dai muri color crema, dei divanetti in tessuto azzurro cupo, un basso tavolinetto di vetro, tende chiare alle finestre a muro. Sembrava un salottino d’attesa, uno di quei posti di classe in cui si fanno aspettare i visitatori o i clienti più facoltosi ed il Dio sapeva perfettamente che proprio a quello era adibita la sala.
Con un sospiro attraversò il locale per l’intera lunghezza, mentre le sue vesti si accorciavano, aderivano al suo corpo e si modificavano sino a diventare un semplice completo nero, compreso di camicia e cravatta del medesimo colore. I suoi capelli rimasero però lunghi, la corona che cingeva la sua fronte non accennò a mutare la sua natura, a divenire un monile più moderno ed appropriato a quell’ambiente: che tutti vedessero che il Re degli Inferi era giunto per questioni ufficiali e non per quisquiglie.
La porta davanti a lui si aprì senza neanche esser sfiorata, l’aura del Dio era già sgusciata sotto l’uscio e si era diffusa nell’ufficio a cui questo conduceva. Ade quindi non fu affatto sorpreso quando ad attenderlo trovò due vispi occhi azzurri ed uno sorriso scaltro che non prometteva nulla di buono.
L’uomo, il Dio, seduto alla sua scrivania si alzò allargando le braccia, un segno cerimonioso e beffardo allo stesso tempo che incarnava alla perfezione l’essenza stessa di chi l’aveva fatto.
I corti capelli neri e ricci gli davano un’aria quasi sbarazzina, il fisico atletico stretto in un semplice paio di pantaloni grigi ed un golf blu attillato lo facevano somigliare quasi ad un giovane professore in erba, pieno di voglia di fare e potenzialmente capace di fare danni irreparabili.
Gli Dei ed il mondo intero sapevano quanto ciò fosse vero.
Con un movimento veloce premette l’auricolare che portava all’orecchio sinistro, senza distogliere lo sguardo da quello dell’altro dio, continuò a sorridere e fece un leggero cenno con il capo.
 
«Perfetto, occupatene tu e le prossime chiamate passale a Martha, ho un ospite importante in ufficio, non voglio distrazioni.»

La sua voce era decisa ed armoniosa, gentile e sicura, la classica intonazione di qualcuno che sapeva cosa fare, come farsi rispettare e che i suoi sottoposti avrebbero eseguito tutti i suoi ordini alla perfezione. Era la voce ammaliatrice di un serpente.
O forse di due.
 
«Posso presuppore il motivo che ti ha condotto da me, zio. Come posso esserti utile?» gli domandò con quel suo tono allegro che tanto lo caratterizzava, che per fortuna aveva ricominciato a farlo dopo quegli interminabili anni in cui si era comportato come la brutta copia dello stesso Ade, sempre triste, malinconico, o come diceva Ares “musone come un moccioso che ha combinato un danno, lo ha ignorato e poi è stato malamente preso a pizze in faccia da qualcuno che non avrebbe mai immaginato gli avrebbe rinfacciato le sue cazzate”. Molto lunga come descrizione e poco lusinghiera, ma estremamente calzante.
Ade si avvicinò alla scrivania, sedendosi comodamente sulla poltrona imbottita posta lì davanti.

«Sono qui per parlare della tua prova, nipote.» si limitò a ricordargli con voce piatta.
L’altro Dio annuì con veemenza. «Giusto, la quarta è la mia. Ero sicuro di aver fatto recapitare al tuo ufficio tutto ciò di cui avevano bisogno, ogni direttiva e richiesta. Persefone mi aveva addirittura mandato un messaggio per dirmi d’aver fatto la sua parte, sono sicuro di averlo da qualche parte e di non aver frainteso le sue parole…»
«Ed è così. L’ufficio direttivo ha ricevuto la tua lista di richieste e Persefone ha messo in moto le sue piante, ma non cambia il fatto che questa prova sia tua e che come tale dovrai presenziare. Come minimo alla “cerimonia d’apertura”.» grugnì alla fine.
Il nipote gli sorrise. «Non sei molto felice di aver questo scherzetto in giro per casa, vero?»
«Tu saresti felice d’aver tutti i morti del dannato mondo che ti scorrazzano per il giardino facendo danni, sporcando le strade e pestandoti le aiuole?» domandò alzando un sopracciglio, sfidandolo a contraddirlo.
Quello scosse il capo. «Concesso. Cosa vuoi che faccia con precisione? Presentarmi lì, spiegare come dovranno fare per superare la prova…?»
«Vuoi dirmi che ti sei offerto per ideare una sfida ma non ti sei sprecato a seguire nessuna delle precedenti? Non sai come funziona?»
L’altro rise. «In pratica! Ho pensato che potesse essere molto interessante e anche divertente, dopotutto, per una volta nessuno dei nostri figli sarà veramente in pericolo, non ci saranno sacrifici inutili…» un’ombra scura passò sul suo volto e Ade pensò che se fosse tornato alla sua versione depressa si sarebbe alzato e l’avrebbe preso a sberle: era il fottuto Dio dei morti, era già abbastanza depresso lui di suo, gli ci mancavano pure i sensi di colpa degli altri. Il dio sospirò ed il suo ospite gli sorrise. «Ma esattamente come te, carissimo zio, ho un lavoro full-time. Sette giorni su sette, ventiquattrore su ventiquattro, dodici mesi l’anno. Ho tempo di divertirmi solo se riesco ad inserirlo in agenda.»
«Eppure mi sembra che la tua Cabina, al Campo, sia una delle più piene.» gli fece notare con voce atona.
Un’ennesima risatina. «Questo perché non esistono ancora tutte le cabine che dovrebbero esistere ed è mio dovere offrire riparo ai viandanti.»
«Non sono viandanti, sono semidei che si stabiliscono in pianta stabile o quasi entro il confine protetto del Campo Mezzosangue. Una specie di recinto, di oasi sicura per loro… vivono come bestie per scappare da altre bestie.»
«E ogni tanto li mandiamo fuori a scorrazzare liberi.»
«E a morire.» concluse Ade fissandolo. Respirò profondamente. «Devi presentarti sul palco per spiegare le dinamiche e le regole della tua prova, poi potrai tornare al tuo lavoro mentre io tornerò al mio e ad un’aggiunta extra. Giusto perché non ho nulla da fare.» ringhiò a bassa voce.
L’altro annuì. «Ci sono delle regole generali? Qualcosa che tutti dobbiamo rispettare?» domandò vago sfogliando alcune delle sue carte.
Ade scosse la testa. «Persefone non voleva che si ferissero le sue piante, Artemide i mastini, tu puoi scegliere. Sai in cosa consisterà la tua prova, sai cosa dovrebbero fare per vincere e se vuoi che non sia così facile per loro, fare una qualche scrematura per dire, e decidere che la vittoria si può ottenere soltanto rispettando certi standard, beh, fai pure.»
«Tante parole per dire che posso decidere come si vince e come no, okay, okay, ho capito. Bene zio, allora per che ora mi aspetti? Per il tè delle cinque? O per il prossimo tg?» ammiccò divertito.
Il Dio dei Morti lo guardò male, «Lascia Eolo fuori da questa storia, il mio reparto comunicazione e stampa sarebbe bello che estinto se non fossero già tutti morti, quel folle fa chiamare ogni cinque minuti per chiedere o comunicare aggiornamenti. Finita questa farsa, alla prossima riunione, dovremmo discutere con Zeus dei poteri e dei ruoli suoi e di tutti gli altri venti.»
«Borea non mi pare dia tutti questi problemi.» gli fece notare.
«Solo perché è oltre il confine degli States e Zeus è diventato un po’ troppo americano, per i miei gusti.»
«Dici così solo perché hai ancora casa nel vecchio mondo. Dovresti viverlo un po’ di più questo sogno americano.»
«Credimi, è l’ultima cosa di cui ho bisogno.» si alzò e si lisciò il completo scuro. «Se hai tutto sotto controllo e non ti manca nulla, ti aspetto tra un paio d’ore a palazzo, le ultime anime stanno uscendo dall’Area Cani, ormai è ora di far partire la prossima prova.»
L’altro dio annuì, poi tentennò. «C’è… c’è qualcuno dei miei figli in gara?» domandò in fine.
Ade si fermò ad osservare con attenzione il nipote, poi, lentamente, annuì. «Ovviamente.»
«E sono vere le voci che girano? Alcune anime sono scomparse e riapparse, salvate da fine certa, condannate malgrado fossero baciate da Nike…»
«È tutto vero. Non posso dirti chi è che sta operando in questo modo, nessuno lo sa per certo.»
«Giordano?» chiese a voce bassa, appena un sussurro.
Il primo dei grandi fratelli fissò il giovane di fronte a lui e vi vide, improvvisamente, tutti i millenni vissuti riflessi nei suoi occhi.
Paura. Timore. Dubbio. Incertezza.


È davvero Giordano? Dopo tutti questi anni passati ad aiutarci ha finalmente deciso di farci pagare l’amaro conto?
 
Ade poteva sentire queste domande nella sua testa, anche se il dio non le stava pronunciando, anche se non leggeva la sua mente. Erano tutti dubbi inconsci e lui poteva ben capirli, ma non poteva dargli certezze.
 
«Non lo so.» ammise. «So che ha combinato qualcosa, so che sta facendo qualcosa. Ipno ne è sicuro, sta indagando a modo suo, Thanatos sente che qualcosa non va ed Eros-»
«Eros? C’è anche lui in mezzo?» chiese sbigottito, ma subito dopo si riprese. «Che sciocco. Certo che sì, lui e il piccolo Gio hanno dei bei trascorsi dopotutto.» ragionò scrollando le spalle.
Ade storse la bocca. «Se stai per fare anche tu una battuta su quanto profondamente si conoscano a vicenda ti apro una voragine sotto i piedi e ti spedisco nel Tartaro.» lo avvertì serio.
L’altro scoppiò a ridere. «Andiamo, sarebbe lecita! Ricordi quanti problemi creò a suo tempo? Quanti anni aveva Gio quando Eros è riuscito a mettergli le mani addosso?» domandò lasciandosi cadere sulla sua poltrona.
Ade grugnì. «Quattordici, all’incirca.» borbottò.
Il volto del dio si distese in un’espressione quasi dolce. «Beh, c’è modo migliore per imparare a conoscere l’amore se non dall’amore stesso?»
«Dici così perché non ci sei stato tu, seduto al tavolo con un ragazzino di quattordici anni traumatizzato dai mutamenti di una divinità. Era così piccolo…» ricordò con sorpresa. C’era stato un periodo in cui Giordano non era stato l’uomo alto e piazzato che era ora, c’era stato un momento in cui era stato un ragazzino magro, ossuto, con la faccia da delinquente e la vocina acuta. Un tempo in cui l’aveva trovato seduto sulla finestra, avvolto in una coperta spessa e ruvida stretta addosso come se potesse difenderlo da ogni male, che fissava il vuoto chiedendogli se loro, gli Dei Olimpici, fossero davvero ciò che apparivano o se potessero invece mutare a loro piacimento.
 

«Come faccio a fidarmi di qualcosa che cambia sotto il mio sguardo? Che in un attimo diventa l’opposto di ciò che è? Come faccio a sapere che ciò che ho sempre visto è la vera versione e non una finta?»
 
Oh, non potevi saperlo, non potevi fidarti.
 
«Non farlo mai, Giordano. Se hai la possibilità di non fidarti non farlo mai. Neanche con gli Dei. Soprattutto con gli Dei.»
«E allora io e te che facciamo?»
«In che senso?»
«Se non possiamo fidarci neanche degli Dei, di chi ci possiamo fidare?»
 
Aveva dato per scontato che in quel “gli Dei” lui non rientrasse, che di Ade potesse fidarsi ciecamente.
 
 
«Siamo amici, no?»
 
 
Sì, sì, lo erano, lo erano allora e lo erano anche in quel momento.
 
 
«Non so dirti che piani abbia, ma stiamo cercando di scoprirlo.» si riprese e fissò gli occhi scuri in quelli limpidi del nipote.
Lui annuì. «E chi siete?»
«Io, Thanatos, Ipno ed Eros, per il momento. So che anche Artemide e Atena si sono poste molte domande.»
«Persefone?»
Ade si lasciò sfuggire un suono divertito. «Ovviamente sarà dalla sua parte. Ad onor del vero anche Eros è già schierato.»
A quelle parole il dio di fronte a lui si tirò su con la schiena, scostandosi dalla spalliera comoda ed imbottita. «Che vuol dire “schierato”? Di cosa stiamo parlando? Ci stiamo schierando? Una parte è Giordano, certo, ma l’altra?»
Ade scosse la testa. «Non so dirtelo. So solo che Eros si è offerto di aiutare Gio e che lui ha accettato. Pare che sia anche riuscito a capire a cosa stia mirando e ciò non mi lascia indifferente.»
«E ti ha detto che dovremmo decidere da che parte stare.» concluse.
Il dio annuì per l’ennesima volta. «Temo che l’unico modo per capire di più la situazione è far procedere questa gara.» con quelle parole si volse e si avviò verso la porta. Sull’uscio si fermò e voltò di poco la testa, scrutando l’altro dio sa sopra la spalla.
«Non so quando saremo chiamati a fare la scelta definitiva, ma sai bene quanto me cosa è in grado di fare Giordano, conosci il suo passato, e sebbene Eros mi abbia assicurato che tutto questo non ha nulla a che vedere con quello, personalmente non sarò contro di lui.»
«Debiti da saldare…è arrivato il conto in fine.» mormorò l’uomo sulla poltrona.
«No, è solo giunto il momento di dimostrare ad un amico quanto valga il nostro legame.»
«Ed il vostro quanto vale, zio?» chiese piano.
Ade aprì la porta ed entrò nella sala d’attesa, in fondo ad essa l’altra porta si era spalancata rivelando un tunnel nero e vorticoso.
«Più di tutto l’oro del mondo.»
 



 
*






Quando si erano finalmente lasciati alle spalle i grandi cancelli e la rete metallica – così l’aveva chiamata il soldato – davanti a loro non si era prospettata una visuale molto diversa rispetto a quella che avevano osservato fino a quel momento.
Era sempre difficile quantificare quanto tempo passasse tra una gara e l’altra, quanto fossero distanti i luoghi, quado essi stessi mutavano per divenire un nuovo ambiente, un nuovo pericolo. Era difficile tutto lì, in quel mondo sotto il suolo dove il sole non splendeva ed i suoi abitanti non rammentavano più come quale fosse la sensazione del calore dei suoi raggi sulla pelle ormai morta.
Jane aveva passato tantissimo tempo – quanto? – in giro per l’Ade, vagando tra le Praterie, ma nonostante ciò continuava a non capire, a non riuscire a comprendere come scorressero le ore, i minuti o anche solo i secondi in quelle lande dimenticate da tutti gli dei e ricordate da uno ed uno soltanto.
Alle volte Jane si domandava come riuscisse Ade a rimanere lì sotto, come potesse un essere tanto potente da “gestire la morte” star nel sottosuolo. Non era troppo stretto? Certo, l’Inferno aveva le dimensioni dell’intero mondo e, se dava ascolto alle vecchie voci fantasma del suo passato, sapeva che Dio era ovunque, nelle piccole cose ed in quelle immense. Ma un dio greco era uguale al padre dei Cristiani? Anche loro poteva racchiudere la loro immensa essenza in un luogo circoscritto?
La verità era che tutte quelle domande, in ogni caso, non avevano senso, non le servivano a nulla.
Jane non aveva dimenticato la sua missione, rincorrere cani e scappare dalle piante non le avevano cancellato dalla memoria i visi di quei maledetti che le avevano rovinato la vita.
Era tutta colpa loro, tutta colpa di Samuel e Betty, Elizabeth.
Lanciò uno sguardo alla donna dai capelli scuri che camminava davanti a lei: era curioso quanto uno stesso nome potesse appartenere a due persone così diverse.
Un’ Elizabeth le aveva distrutto l’esistenza e l’altra gliel’aveva salvata quando ormai d’esistenza non si poteva più parlare.
Oh, ma non importava, non aveva nessuna importanza. Qualunque fosse stato il suo nome ora, che avesse mantenuto quello della sua prima vita o ne avesse assunto uno nuovo Jane l’avrebbe trovata, lei ed il suo degno padre, e l’avrebbe uccisa, proprio com’era morta lei.
 
La morte delle streghe.
 
Alzando la testa Jane spiò il mondo da dietro le ciocche scure che le cadevano sulla fronte, facendole da copertura perenne.
Un tempo erano stati di un bel marrone vivo e intenso, di un colore caldo simile a quello del legno levigato, ma erano passati così tanti anni dall’ultima volta che si era trovata davanti ad una pozza d’acqua per potersi anche solo specchiare, da non ricordare neanche più come si facesse a prendersi cura di sé stessi.
Spostò senza grazia le ciocche più fastidiose e puntò gli occhi spenti contro la schiena grande e ampia che gli si parava di fronte.
 
Úranus.
 
Quel ragazzo, quell’uomo, la incuriosiva terribilmente.
Così com’era successo con il ragazzino, Jane si era scoperta in grado di capire molte delle emozioni, delle sensazioni, dei sussulti che quelle due anime emanavano: l’impotenza, la consapevolezza di non esser arrivati in tempo, di aver abbandonato alla propria sorte le persone che amava senza riuscire ad aiutarle; il ricordo di una città, una patria, che diventa improvvisamente nemica e traditrice e ti pugnala alle spalle senza pietà, troppo intenta a combattere una guerra che non avrebbe avuto motivo d’esistere.
Di certo Jonas non aveva affrontato il terrore che avevano vissuto lei ed Úranus, da quel che aveva capito il ragazzino era morto decisamente troppo dopo di loro, ma il gigante rosso… lui no, lui era proprio del periodo giusto, anzi, era lei ad essere in ritardo in un qualche modo.
 
Ma la caccia alle streghe è partita dalla Chiesa, dalla Cristianità. È un lungo viaggio quello attraverso il grande oceano, è un lungo viaggio risalir tutto il vecchio mondo e navigare fino a quello nuovo.
 
Non aveva la più pallida idea di quando quella folle crociata fosse nata, ma aveva la certezza che Úranus Mjöllson, il gigante rosso delle terre del nord, le fosse più affino di quanto non lo fossero tutti gli altri presenti.
Tanto nella storia quanto nella tragedia, tanto nella morte quanto nella nascita.
 
E sono certa, beato, che il potere di mia madre non si discosti troppo dal potere di tuo padre.
 
C’era stato un tempo, prima che Nemesi si impossessasse del suo cuore, in cui aveva amato la sua famiglia, il suo villaggio, un tempo in cui era caduta nel dolore e da lì, dalla terra umida, aveva potuto scoprire cose sconvolgenti sul suo passato, sulla sua venuta in quel mondo. La magia era un tassello importantissimo, una chiave di volta che anche il gigante doveva condividere.
La domanda che più le martellava nella testa, tratte le sue conclusioni, era quindi la seguente: lei non era riuscita a salvarsi e ad ottenere la sua vendetta perché il potere di sua madre era troppo grande per lei, inesperta e accecata dall’odio; ma l’uomo aveva avuto tempo di vedere i segni, di riconoscerli, di prepararsi per scappare e salvare sua madre, perché non si era preparato per combattere allora? Perché, se era stato suo padre stesso ad insegnargli come utilizzare il suo potere, Úranus era caduto sotto la pazzia e la stupidità di piccoli, miserabili ed ignobili uomini?
Oh, se solo quella fortuna fosse stata sua. Se fosse stata Ecate a discendere sulla Terra per insegnarle come utilizzare al meglio la sua eredità… avrebbe piegato il mondo al suo volere, questo era poco ma sicuro.
 
E invece sono rimasta lì, sana e salva, ma impotente. Ferma a guardare mentre il mio mondo crollava pezzo dopo pezzo per poi andar io stessa in fiamme, arsa dalla mia debolezza, da un potere che non era ancora mio.
 
Aveva provato a fare qualcosa, gli Dei le erano testimoni, aveva provato con tutte le sue forze, ma non era bastato, non era stata abbastanza. Anzi, aveva fatto solo più danni, era riuscita persino a peggiorare la situazione.
Ma lui… lui no. Lui sapeva come fare e si era lasciato uccidere barbaramente.
Lei aveva dato più potere proprio a chi avrebbe dovuto soccombere brutalmente, ma l’aveva fatto provando, tentando ogni via.
Lui era morto senza combattere, senza provare, senza tentare.
Perché?
Non si accorse neanche di esserglisi avvicinata, continuò a fissarlo senza batter ciglio e poi domandò, completamente estemporanea.
 
«Come sei morto?»
 
Preso totalmente alla sprovvista Úranus si volse di scatto verso di lei, i suoi capelli sembravano quasi una nuvola, un buffo paragone che le fece alzare un angolo delle labbra.
«Io e te siamo i più vecchi, no? Quindi è probabile che i motivi della nostra morte siano simili. Come sei morto tu?» insistesse ma con tono incredibilmente disinteressato.
L’altro continuò a fissarla allucinato, rallentando un po’ il passo inconsciamente per permetterle di non corrergli dietro.
«È…è stata una morte piuttosto comune per i miei tempi.» disse piano rimanendo sul vago. Jane lo guardò con lo stesso sguardo vacuo e disinteressato con cui l’aveva fissato fino a quel momento, con cui fissava tutti.
«Anche da te c’era la caccia alle streghe, no?»
Úranus trattenne il fiato, che cosa stupida, erano morti, poi annuì. «Presumo allora che la mia dipartita sia stata la stessa che ha colpito te.» mormorò piano.
Jane inclinò la testa. «Tu ti sei dato fuoco da solo?»
Quella domanda così fredda, così piatta, lo fece sussultare. «Cosa?» domandò senza voce.
La figlia di Ecate lo guardò sorridendo sinistra. «Nessuno mi prese, ma le fiamme dell’inferno mi hanno comunque consumato. Ironico, non trovi? Ero l’unica vera strega del mio villaggio e anche se sono morta purificata dal fuoco non sono stati quei sedicenti sant’ uomini a farlo. È stato un mero errore di calcolo.» il ghignò si allargò sul suo viso sporco di terra. «Ma non farò lo stesso sbaglio due volte.»
Úranus non sapeva cosa risponderle, non sapeva se farlo o meno. Deglutì, a disaggio come lo era da vivo nel parlare con l’altra gente del villaggio, la mente vuota da ogni pensiero che non fosse quella domanda.
 
Tu ti sei dato fuoco da solo?
 
Brividi di freddo e di caldo gli passarono velocemente sulla schiena, il ricordo lontano delle lingue di fuoco che lambivano il suo corpo, i piedi che diventavano insensibili, solo lunghe stilettate di puro dolore che incendiavano tutto il suo essere. Il rosso e la luce che macchiavano ogni superficie, ogni cosa, ogni persona che incitava il fuoco a mangiare tanto il suo corpo mortale quanto la sua anima maledetta.
Poi un soffio d’aria, in mezzo a quella bolla in cui mancava l’ossigeno ed il calore che gli penetrava nei polmoni glieli scioglieva più delle fiamme stesse.
Úranus ricordava di aver scorto una nera figura camminare tra la folla. Aveva creduto fermamente che fosse il boia o il prete pronto ad esorcizzarlo, ma quando quell’essere si era spinto nel suo incendio, camminando sulle braci come se non vi fossero, Úranus aveva seriamente creduto d’esser impazzito, o almeno finché l’uomo non si era calato il cappuccio e gli aveva permesso di scorgere il volto più bello che avesse mai avuto anche solo l’ardire di sognare.
Thanatos l’aveva guardato con occhi d’ossidiana, con il riflesso dei cieli notturni a brillargli nelle iridi splendenti, nelle pupille che risucchiavano tutta la luce del mondo, e con delicatezza gli aveva posato una mano sulla guancia scarnificata, baciandogli le labbra secche e spaccate, un gesto carico di tanta dolcezza da fermargli il cuore e liberarlo da ogni pena.
Come poteva, Jane, parlare della sua morte con così tanta tranquillità, quando a lui, la sua, ancora lo perseguitava?
 
«Io-»
«Credo che i nostri genitori siano in qualche modo legati. Anche tu puoi fare magie?» gli domandò stroncandolo sul nascere, proprio come se la sua risposta non le interessasse minimamente.
Che personaggio strano che era quella figlia di Ecate.
Úranus scosse comunque la testa, cercando di riprendere il controllo di sé e di non farsi sopraffare da ricordi e sensazioni negative.
 
Non posso permettermelo, non ora.
 
«Non proprio. Non sono in grado di far ciò che una figlia della Magia può fare, ma hai ragione nel dire che i nostri divini genitori siano in un qualche modo affini. La provenienza del loro potere è la medesima, è alla Notte che devono la loro vita.» rispose lentamente, concentrandosi nello scandire con chiarezza ogni parola. Dar attenzione alle piccole cose per cancellare i grandi problemi, uno dei grandi insegnamenti di suo padre.
Jane lo guardò scettica. «Chi è tuo padre?» chiese ancora, senza il minimo tatto, senza il minimo pudore.
Úranus riuscì persino a regalarle un piccolo sorriso di scuse.
«Non credo sia questo il giusto momento. Non vorrei spaventar nessuno. Non ne necessiti tu così come gli altri.»
Per quanto lo riguardava, la discussione era chiusa.


 
 
Elizabeth si guardò intorno con attenzione, la terribile sensazione d’essersi dimenticata qualcosa incollata addosso. Ed era un qualcosa di davvero importante, non ne aveva dubbi.
Sondò la zona circostante ed un dubbio le saltò alla mente: erano piante rade ed erba scura quella su cui camminava, come un’immensa prateria, come le Praterie, che fosse quell’ambiente ad averle nuovamente tolto la lucidità, annebbiandole i ricordi?
Vicino a lei, a capo di quella strana spedizione, Nathan marciava a testa alta, come sempre, borbottando quanto tutto quel camminare fosse inutile: perché non mettevano le dannatissime prove una dietro l’altra?
 
«Magari perché sperano che qualcuno si perda nel mezzo?» disse quasi con ironia Lea, sbuffando esasperata dal rumore di sottofondo continuo che veniva fuori dalle labbra serrate del biondo. «Sai, nel mio paese si direbbe che sei una pentola di fagioli.» rincarò la dose alzando un sopracciglio.
Nathan la fulminò con lo sguardo. «E il cazzo che me ne fraga non ce lo metti?»
«Attento a quello che dici biondastro, potrei anche prendere seriamente la tua proposta ed evirarti, così potrei mettercelo eccome!» gli rispose a tono.
Sorpresa da una battuta così volgare per una signorina come lei, una ragazza cresciuta in un convento, poi allevata da un medico, che era diventata infermiera anche, Eliza la guardò con tanto d’occhi, non riuscendo però ad impedirsi di sogghignare: aveva passato una vita tra i militari, aveva sentito ben di peggio nel corso del suo servizio sotto la bandiera delle Colonie Libere.
«Prima dovresti prendermi.» l’apostrofò il figlio di Ares.
Lea arricciò il naso sempre più infastidita. «Mi basterebbe scatenarti contro Nerone.» gli ricordò.
«Quel cane di merda.»
«Nathan.» lo ammonì Eliza.
Il giovane la guardò indignato. «Che c’è ora!? Lei può minacciarmi ti tagliarmi il cazzo e io non posso dire che il maledetto Nerone è un mastino di merda?» domandò allargando le braccia indignato.
«Ho detto che ti eviro, non sono stata volgare come te.»
«Sì che lo sei stata, hai detto che me lo metti eccome!»
«Ma non sono stava volgare come te!»
«Ma scusa, a te non pare volgare una ragazzetta del pre-guerra, tutta morigerata, che ti minaccia di tagliarti l’uccello e mettertelo- cazzo! Detta così pare pure da frocio!» si lamentò con una smorfia.
Lea lo guardò con il fuoco negli occhi chiari. «Non azzardarti mai più ad usare quella parola davanti a me!»
«Non è la pima volta che mi senti dire cazzo. Cazzo.» gongolò felice d’aver trovato qualcosa che la infastidisse così tanto.
«Non quello!»
«Uccello?»
«No! Quella terribile parola infamante!» gli urlò quasi contro, attirando l’attenzione di Jane e Úranus, dietro di loro, ma non quella di Jonas e Cade che chiudevano la fila e sembravano così intenti a chiacchierare per affari loro da non prestare attenzione a null’altro.
Nathan aggrottò le sopracciglia confuso. «Cosa allora, frocio?» domandò senza capire. Ma lo fece ben presto quando vide il volto della ragazza diventare paonazzo.
Come fosse possibile che la rabbia le avesse donato uno sbalzo di pressione tale da farla arrossire per lui era un mistero, ma questo dettaglio passò in secondo piano quando la bionda gli si avvicinò minacciosa, un leggero pulviscolo luminoso ad espandersi dalle sue mani.
«Azzardati ad usare di nuovo quella schifosa parola davanti a me e ti giuro sullo Stige, Wright, che anche a costo di bruciarmi l’unica possibilità di vincere questa gara ti porterò all’Inferno con me.»
Nathan la fissò improvvisamente serio, un giuramento sullo Stige non era cosa da poco e Lea, oltre ad Úranus, era probabilmente l’unica persona che ne capiva il valore.
Non osò ripeterlo, sia perché non aveva nessuna voglia di mettersi a fare a botte con una figlia di Apollo palesemente incazzata, sia perché aveva perfettamente capito che per lei, quello che lui utilizzava come nulla di meno che un termine come un altro, doveva essere un insulto terribile, doveva ricordarle qualcosa di brutto, forse, essendo nell’800, un amico omosessuale che era stato accusato e magari anche ucciso per colpa di uno stupido gusto sessuale.
Nathan veniva dall’America del post guerra, dai figli dei fiori, dal “fate l’amore non fate la guerra” urlati a gran voce proprio quando lui imbracciava le armi per andare a fare il suo dovere in Vietnam. Non aveva vissuto abbastanza per vedere se un giorno essere omosessuali sarebbe diventato legale, ma era pur sempre figlio di una divinità Greca e l’idea della pansessualità era ben radicata in lui. Certo, Nathan non se la sarebbe mai fatta con un uomo, o con un satiro, ad essere onesti neanche con un aura, ma con una driade o con una nereide di certo sì. Questo non toglieva che al Campo avesse conosciuto semidei figli di Dei maschi e di uomini mortali, o di Dee e donne. Gli era stato raccontato di divinità che se la facevano con animali, o che diventavano animali per farsi gente, sapere che due uomini scopavano non lo impressionava più di quanto non lo facesse l’idea di un Zeus toro bianco che rapisce Europa, quello sì che era da brividi.
Ma in sostanza, la parola “frocio”, per lui non era un insulto “crudele” come lo era per tutti gli altri suoi coetanei, ma una cosa che sua madre gli aveva ben insegnato era che se un termine, una parola, un aggettivo, feriva così tanto una persona, nel profondo, nell’animo, nel cuore, allora non andava usato.
Guardò Lea negli occhi, per trasmetterle anche in quel modo la serietà della situazione, quanto avesse capito che per lei, per qualche motivo, quella parola fosse di troppo.
La bionda non distolse lo sguardo ma rilassò impercettibilmente le spalle.
 
«Non voleva essere un insulto, ma non ho alcun motivo di ripeterlo.» si limitò a dire, senza scusarsi o dirle che gli dispiaceva. A lei parve comunque bastare perché annuì.

«Quindi possiamo rimetterci in marcia?» domandò laconica Jane passando in mezzo ai due come se non fosse successo nulla.
I due biondi si voltarono per seguirla con lo sguardo, uno innervosito e l’altra irritata dal suo comportamento.
Eliza sospirò, almeno quegli altri avevano smesso di litigare e l’avevano fatto con un’inaspettata maturità. «Sì, possiamo continuare.» disse con voce sicura. «Sono l’unica a cui pare d’aver dimenticato qualcosa?» chiese poi voltandosi verso gli altri tre.
Úranus aggrottò le sopracciglia. «Cosa pensi d’aver dimenticato? Avremmo dovuto far altro prima di uscire dal recinto dei Mastini Infernali?»
«Non t’azzardare a dirmi che dobbiamo tornare indietro perché sarebbe uno sbattimento e non c’ho proprio voglia.» ringhiò Nathan.
Lea lo riprese acidamente sul suo solito modo di fare ed i due cominciarono di nuovo a discutere sul nulla.
Eliza li guardò per un attimo schifata, aveva passato anni nell’esercito ma non aveva mai sentito nessuno litigare di continuo in questo modo. Forse perché non c’erano donne?
«C’è qualcosa di particolare?» la riportò alla realtà il rosso, «Qualcosa che dovremmo fare? Credete-»
«Úranus, per favore, dammi del tu. Siamo coetanei dopotutto.» gli sorrise gentile.
Il gigante buono probabilmente in vita sarebbe arrossito, in quel momento si limitò ad annuire.
«Mi spiace, è più forte di me. Mi è stato insegnato a dar del voi ad ogni fanciulla e necessito di qualche attimo per riuscire ad esser meno…»
«Formale?» l’aiutò.
Lui sorrise. «Esattamente.»
«Hai tutto il tempo che vuoi, ma te la stavi cavando bene, ricadi nelle vecchie abitudini solo poche volete. L’importante è che tieni a mente che siamo tutti sullo stesso piano, aiuta molto.»
«Lo farò, grazie.» poi chiese di nuovo. «Ma c’è forse qualcosa che avremmo dovuto fare? Per ciò che ricordo abbiamo seguito tutte le regole imposteci dalla Divina Artemide.»
Eliza sospirò ancora. «Non è questo, non riguarda la prova per lo meno. Ho solo l’impressione d’essermi scordata qualcosa di davvero importante.» assottigliò lo sguardo, sforzandosi invano di ricorda. «Di mio.»
A quelle parole Úranus assunse un’espressione pensierosa. «Come se vi fosse un passaggio, un momento, importante della t- tua vita che non ricordi più? Le Praterie fanno questo effetto.» disse subito guardingo, alzando la testa e drizzando collo e schiena, scrutando tutto ciò che li circondava.
L’erba nera era distintiva, questo era certo, e anche se Úranus era sicuro che fossero effettivamente tutti nelle Praterie degli Asfodeli non sentiva la stessa pressione che aveva avvertito la prima volta che vi era entrato, subito all’uscita dagli Elisi.
«Non è la stessa sensazione.» rispose infatti Eliza. «Ma sì, come se mancasse un pezzo di un evento importante, qualcosa che dovrei ricordare alla perfezione anche nella morte ma che invece mi sfugge.»
La figlia di Nike voltò il capo per osservare gli ultimi due della loro fila: Jonas e Cade continuavano a parlare a bassa voce, le teste vicine, i gesti del biondo concitati, le dita pallide che andavano di continuo a giocare con un bracciale che gli pendeva dal polso ossuto.
Loro due, più di tutti gli altri, avrebbero dovuto subire l’influenza delle Praterie. Jonas come anima dannata – Eliza continuava a non capire cosa potesse aver fatto il ragazzino, dal suo comportamento tenuto fin ora sembrava solo un perfetto adolescente – e Cade perché, proprio per sua ammissione, non aveva avuto una vita così pulita. Eppure, scrutandoli con attenzione, Eliza non vide nessun cambiamento, niente di quello spaesamento che aveva letto nel volto di Cade durante la prima vera prova.

Non sono le praterie.
 
«No, temo che sia-»

«EHI! Muovete il culo! Siamo arrivati!»
L’urlo di Nathan fece saltare sul posto i due semidei dietro di loro e voltare di scatto Úranus ed Eliza.
Il soldato se ne stava fermo davanti al nulla e alla donna non ci volle molto per ipotizzare che dovevano trovarsi sulla cima di una collinetta e che, subito sotto di loro, vi fosse una qualche conca naturale, un avvallamento delle Praterie che formavano una lunga pianura dove, con tutta probabilità, si sarebbe svolta la quarta prova.

«Qualunque cosa sia.» mormorò piano Úranus. «Temo lo scopriremo presto.»



 
Jonas camminava vicino a Cade, molto più vicino di quanto non avessero fatto in precedenza.
Forse tutti quei momenti delicati che avevano affrontato assieme, quella strana intimità che si era andata a creare tra loro, la sensazione di essere al sicuro, in salvo, bene, con l’altro o il semplice fatto che Jonas l’avesse finalmente riconosciuto e accettato come amico, aveva aiutato a creare quella vicinanza che raramente aveva condiviso con qualcuno in vita.
Si potevano contare sulla punta delle dita le persone con cui si era ritrovato a chiacchierare in modo concitato, con le teste vicine, infastidito dai capelli dell’altro che di tanto in tanto gli toccavano l’orecchio o dalla mano dell’amico poggiata tra le sue scapole. Ad essere onesti non gli sarebbero servite neanche tutte le dita di una mano, ma a questo Jonas preferiva non pensare.
Quando erano usciti dal grande recinto dell’Area Cani, con le loro belle medagliette lucide strette in mano, il ragazzo non aveva potuto far a meno di porsi una serie di domande a cui purtroppo non aveva trovato risposta. Avrebbe voluto chiedere a Nathan di parlargli di quello che era successo dopo la sua morte, di come si erano evolute le cose, di chi aveva vinto – anche se in un qualche modo lo sapeva già, la sfilata di quell’anima maledetta in discesa verso le terrazze più basse degli inferi non se la sarebbe mai dimenticata – ma la verità era che ne aveva paura, una paura folle. Non era certo di voler davvero sapere tutto il male che si era andato sviluppando nel mondo, ciò che aveva portato ad una Seconda Guerra Mondiale. No, non lo voleva decisamente sapere. E forse era da codardi, da vigliacchi, ma di cosa si stupiva? Non era forse quello il nome dell’Ottava Terrazza? Il girone dei codardi?
Jonas sospirò, avrebbe trovato il modo di metter da parte abbastanza coraggio per porre quelle domande, ma ora non ce la faceva, non ci riusciva proprio.
Un’altra cosa che gli premeva sapere era se era stato lui a mandar giù il soldato come un burattino senza fili o se era stato Úranus. O se erano stati entrambi.
Ad occhio e croce i loro poteri influivano entrambi sulle persone, sulle anime, in modo terribile. Jonas sapeva quanto la sua eredità divina potesse far male, il semplice fatto che la sua condanna fosse quel collare lucido che rifletteva i volti dei dannati, ciò che la loro codardia gli aveva tolto, ne era una prova schiacciante. Ma il vichingo?
Jonas aveva guardato a lungo la schiena dell’uomo, giocando distrattamente con il suo collare spinato, e poi, quasi per caso, senza rendersene conto, si era ritrovato ad affrettare il passo ed avvicinarsi a Cade.
Gli dava sicurezza, era inutile negarlo e non aveva neanche bisogno di farlo, finché non lo avesse detto a voce alta l’orgoglio dell’Irlandese non si sarebbe potuto gonfiare più del dovuto e tanto bastava.
Ma proprio il suo amico gli dava da pensare più di tutti gli altri, in un qualche modo. Cade lo aveva difeso e protetto sin dal loro primo incontro, l’aveva salvato da morte certa, gli aveva dato i suoi guanti per difendersi, aveva praticamente obbligato i suoi compagni di viaggio a portarlo con loro e l’aveva sostenuto sia a livello emotivo che fisicamente per ben due volte.
Cade saltava più in alto di chiunque altro, era più veloce, quando correvi vicino a lui avevi quasi l’impressione che il vento ti stesse spingendo via, ma la dimostrazione di potere più grande, di potere divino, l’aveva data quando si erano trovati di mezzo all’Area Cani, accerchiati da qualcosa che non riuscivano a comprendere.
Cos’era? E come aveva fatto Cade a liberarsene?
 
«Ehi? Non ti ho detto che il fuoco mi innervosisce? Guarda che se vedrò fumo uscirti dalle orecchie ti mollerò qui e scapperò via urlando.»
Il tono allegro e canzonatorio del giovane lo fece voltare verso di lui.
Cade gli sorrise, inclinando il capo verso il suo ma mantenendo lo sguardo fisso davanti a sé.
«Che problema c’è, gamberetto?» chiese con tranquillità.
Jonas alzò un sopracciglio. «Questa ora da dove ti è uscita?»
L’altro si strinse nelle spalle. «Se vuoi torno a gattino ed uccellino? Preferisci questi, fratellino?» il ghigno beffardo sul suo volto fece arricciare il naso a Jonas, che borbottò qualche insulto in tedesco, sorprendendosi poi di riuscire a farlo senza esser effettivamente capito dal compagno.
Ghignò anche lui. «Quindi posso insultarti in tedesco e tu non mi capisci!» trillò su felice.
Cade però gli restituì lo stesso ghigno. «Già, quindi pensa cosa posso dirti io in irlandese senza che tu capisca, binneas
«Che mi hai detto?» lo guardò assottigliando lo sguardo.
«Tu che mi hai detto?» ritorse quello.
Jonas sbuffò. «Ti ho mandato a ‘fanculo.» buttò fuori. «Tu?»
«Di certo non ti ho insultato, dolcezza.» continuò con quel suo sorrisino irritante.
Il più piccolo lo fulminò ma si morse la lingua invece di replicare: se avessero cominciato a discutere di quello sarebbero arrivati alla prossima prova senza che fosse riuscito a chiedergli nulla.
«Rinnovo il mio insulto.» si limitò a dire per troncare la discussione. «Ho un paio di domande da farti, però.»
Cade gli passò un braccio attorno alle spalle e drizzò la schiena, ispirando a pieni polmoni morti.
«Spara.» aggrottò la fronte. «Spero non in senso letterale.»
Jonas alzò gli occhi al cielo e non provò neanche a levarsi quel braccio di dosso, Cade era decisamente più forte di lui e avrebbe rischiato, di nuovo, di allontanarsi dal punto focale.
«Quando eravamo dentro e tu ed Úranus avete avvertito quella cosa strana, prima che lo facessimo noi, cosa pensi che fosse?»
Cade rimase inizialmente in silenzio, lo sguardo perso davanti a sé, non più concentrato sulla strada da percorrere, sui loro compagni, sulle altre anime, ma dentro a ricordi appena vissuti, recenti.
Con uno strano senso di sicurezza l’irlandese sentì di aver dimenticato qualcosa d’importante, qualcosa che solo in quel momento riuscì a percepire.
 
Il vuoto, perché sento questo vuoto? Non è una cosa essenziale ma non è neanche qualcosa di cui mi sarei mai dimenticato.
 
Scrollò la testa, si volse verso Jonas.
«Non so dirtelo con certezza, sappilo.» iniziò mettendo le mani avanti, «Probabilmente Úranus è quello che saprebbe dirci di più, seguito a ruota dal biondastro e da Lea, ma posso ipotizzare, posso dirti cosa ho sentito io.»
Jonas alzò un sopracciglio, la dita della mano destra che senza volerlo scivolavano oltre il bordo del suo bracciale.
«In che senso?» domandò spaesato.
L’altro si strinse nelle spalla. «Nel senso che non sono mai stato al fantomatico Campo, non ho mai avuto nessuno che mi insegnasse nulla sugli Dei e sul nostro mondo e tutto quello che so l’ho imparato sul campo, per sbaglio e spesso rischiando l’osso del collo. Non posso darti certezze, magari per i semidei di ora è una cosa anche scontata, capisci?»
Annuì. «Mi va bene quello che hai sentito allora.»
«E sia!» trillò stringendolo di più a sé. Il braccio attorno alle sue spalle scivolò via e Jonas si ritrovò la mano dell’Irlandese premuta tra le scapole. In un attimo gli parve quasi che si fosse alzato un rumore di fondo che lo distanziava dagli altri.
Guardò Cade negli occhi, senza esitazione. «Ne saprai anche di meno di loro, ma sei comunque quello che usa di più i suoi poteri divini.» gli disse serio.
«Questo perché probabilmente sono quello che li può usare di più senza temere le loro conseguenze, come invece accade per te e per il gigante.» rispose con nonchalance.
Jonas si morse l’interno della guancia: non voleva parlare di lui, non voleva parlare della sua condizione o dei suoi poteri, non voleva affrontare quel discorso in quel momento esattamente come non voleva sapere davvero cosa fosse successo dopo la sua morte. Non voleva sapere.
«Io-»
«Lascia stare, ne riparleremo con più calma poi.» tagliò corto Cade. «Quello che è successo durante la prova… non penso facesse parte dei giochi.» disse con tono vago.
Jonas prese un respiro profondo, poi annuì, incoraggiandolo ad andare avanti, inclinò la testa verso la sua per riuscire a sentirlo meglio anche sopra quel rumore di fondo che, in verità, non lo infastidiva per niente, anzi, l’aiutava a tenere lontani i suoni circostanti.
«Da quando è iniziata la gara ho spesso la sensazione che sia tutto guidato. Abbiamo già ipotizzato più di una volta che molte di queste prove non possono esser state ideate anche per i mortali, che nessuno uomo o donna saprebbe come trattare con un Mastino Infernale. È quindi ovvio che vogliono solo noi semidei e sinceramente mi domando perché.»
«Credi che quel vento servisse per disperdere le anime degli esseri umani normali?» domandò cauto.
Cade scosse la testa, si strinse nelle spalle. «Non possiamo dirlo con sicurezza ma non credo. E poi non era vento. Era strano. Da una parte mi sembrava quasi di stare in acqua, risucchiato dalla corrente, dall’altro mi sembrava di star davanti a delle enormi pale che mi spingevano via.»
Jonas lo osservò con attenzione. «E l’odore? Che odore hai sentito?»
Allo sguardo sorpreso di Cade l’altro abbozzò un sorriso. «Hai preso un respiro profondo, hai inspirato l’odore delle Praterie e poi ti sei bloccato. Era un odore, giusto?» ripeté ancora.
A quel punto l’amico annuì, seppur con lentezza. «Non credo di poterlo spiegare…» mormorò, «Ti sembrerà assurdo ma- per un momento, uno solo, mi è parso di sentire l’odore di casa mia.
C’era quello del legno bagnato dei tetti, e la pioggia, Dio! Pioveva sempre a Dublino. C’era l’odore del fuoco nel camino, quello, quello de- hai mai sentito l’odore del metallo caldo? Di una pentola che per ore sta sul fuoco? Quello, esattamente quello.»
Ma Jonas non capiva, quelli non gli sembravano odori in grado di far salare sull’attenti qualcuno a quel modo. Non c’era sorpresa negli occhi di Cade, non c’era stupore; c’era attenzione, c’era dubbio e preoccupazione. Era il volto di chi capta un pericolo e non quello di chi si ritrova nel bel mezzo di un ricordo caro.
Lo osservò in attesa che continuasse e capì che Cade stava solo cercando le parole giuste.
«Poi è cambiato. C’era sempre la pioggia, il legno bagnato, le braci… c’era puzza di vestiti fradici e- di polvere da sparo. C’era il tanfo del sangue e altri odori che non sapevo identificare. Ma era pericoloso, lo era. Come- come se d’improvviso qualcuno avesse aperto un pozzo pieno di cose brutte e tutta la puzza che si era accumulata lì dentro fosse uscita fuori.»
 
“Un po’ come se di punto in bianco ti fossi sporto oltre il baratro del Tartaro?”
 
Cade si bloccò. La mano sulla schiena di Jonas si chiuse e lo trascinò di peso davanti a sé, verso gli altri, in avanti, quasi dovesse schermarlo da qualcosa che proveniva dalle loro spalle.
 
«Oh! Che hai?»
«Cosa…»


“Un po’ come se avessi avuto un assaggio di come sarebbe stata la tua vita se avessi fatto un passo falso in più? Se dietro di te non ci fosse stato quel giovane?”
 
«Cade? Che cazzo hai!» saltò su Jonas liberandosi dalla sua presa e accostandoglisi. Il rumore di fondo divenne più inteso, quasi come l’interferenza di un canale radio.
Cade fissava il vuoto alle loro spalle, senza guardare le anime che li superavano, che andavano verso una nuova meta.
 
“Sssh, lo sai mantenere un segreto?”

«La senti?» mormorò flebilmente.
«Il rumore dici? Sì che lo sento! Sei tu? Sei tu che lo fai? Perché se è così ti sta sfuggendo di mano!»
 
“Via ragazzo, stai spaventando il bambino. Sarà difficile così proteggerlo, portarlo via di qui.”
 
«Cade? Okay, senti, cominci a spaventarmi.»
 
“Ma non ti preoccupare, tra poco arriverà qualcuno ad aiutarti”.
 
«Chi?» chiese quello al nulla.
«Cosa “chi?”?»
 
“La prossima prova…supera quella. Ma attento, non ti piacerà neanche questo di Dio.”
 
Il rumore divenne ancora più forte, Jonas non poté far a meno di tapparsi le orecchie, gli sembrava di esser finito in una galleria del vento. Avrebbe giurato che persino i suoi vestiti si fossero gonfiati per quell’inesistente flusso d’aria ma poi tutto cessò.
Cade si voltò a guardarlo, il viso pallido come il morto che era, gli occhi sbiaditi come quando aveva mandato via quel “problema” invisibile.
Un brivido di paura scosse Jonas da capo a piedi: se fosse stato Cade a sentirsi male non sarebbe riuscito ad aiutarlo, non sapeva come fare, come comportarsi.
Il rosso deglutì a vuoto, gli riportò un braccio sulle spalle e Jonas sentì perfettamente che si stava poggiando a lui. Lo sostenne.
 
«Che succede? Che cosa sentivi?»
L’altro scosse la testa piano. «Sono le Praterie, mi uccidono.» mormorò ancora. Poi lo guardò ed accennò un sorriso. «È beffardo: io che ero nei Campi Elisi lo soffro così tanto e tu che eri in quelli di Pena neanche lo senti.» una risata amara lasciò le labbra violacee.
«Di cosa stai parlando? Cos’è che soffri?»
«L’assorbimento dei pensieri, la cancellazione delle memorie… le Praterie degli Asfodeli aiutano le anime mediocri a non ricordare nulla di loro. Così ad ogni passo la foschia ruba loro quel poco di lucidità che avevano riacquisito con il tempo. Più la tua anima è sporca, meglio funziona.» gli sorrise di nuovo. «A quanto pare i miei peccati sono più oscuri dei tuoi.»
Stringendo la presa attorno al suo fianco e quella sulla sua mano Jonas si ritrovò a premere la testa contro la spalla di Cade.
«E cos’hai fatto?» chiese in un soffio.
Era una domanda pericolosa, perché di certo Cade avrebbe potuto rigirargliela contro, ma per quella volta si sentì di rischiare.
 
Al diavolo tutto! Se è così che dovrà scoprirlo così sia! Fanculo! Fanculo il mondo! Fanculo tutto!
 
«Mi sono sporcato le mani tante volte. Non ho- non ho vissuto una vita rose e fiori, ma poteva andarmi peggio. Alla fine so di aver fatto solo il necessario per sopravvivere. Ma questo non rende più nobili le mie azioni, non cancellerà mai il sangue che macchia le mie mani.»
Quella confessione fece serrare gli occhi a Jonas, che pregò, pregò, che Cade non fosse come le bestie che avevano distrutto il suo mondo.
 
Non potrei accettarlo, temo che potrei morire una seconda volta.
 
«M-ma, lo hai fatto per sopravvivere.» gli disse.
Cade annuì. «Ma non posso far a meno di pensare che forse avrei potuto fare anche altro. Che ci fosse un’altra possibilità.» sospirò. «Ormai è andata, è inutile piangere sul latte versato. Quando sarà, se sarà, mi redimerò là su.»
Il biondo non sapeva cosa dirgli, come consolarlo.  È vero, erano amici ora e tra tutti quanti Cade era quello di cui sapeva di più, di cui si fidava di più, però… come poteva tirarlo su di morale?
La prima cosa che gli veniva in mente era prenderlo in giro, fare qualche battuta che lo portasse a bisticciare con lui come sempre, ma quella volta gli pareva inutile. Cade non si era intristito semplicemente, non stava soffrendo come soffrivano tutte le anime, lui- o forse sì, forse tutti provavano la stessa identica sofferenza e lui vedeva tutto quanto sotto un’altra prospettiva perché teneva a Cade e non voleva perdere un’altra persona che poteva essere importante per lui.
E quegli occhi… quei dannati occhi verdi improvvisamente così tristi.
 
«Non mi pento di nulla però.» sussurrò d’improvviso Cade. «Malgrado sia convinto, sia sicuro, che avrei potuto far diversamente…non mi pento di nulla. Non ho rimorsi, non ho rimpianti se non quello di aver lasciato la mia famiglia. Alla fine, la mia moneta fortunata mi ha portato davvero fortuna.» sorrise piano, le labbra si tesero con lentezza incredibile ma Jonas se ne sentì sollevato.
«Sei comunque finito nei Campi Elisi genio, quindi vuol dire che qualcosa di buono l’hai fatto.» gli fece notare dando un’altra stretta alla sua mano. Cade girò la sua e gli restituì il gesto, un segno di conforto e d’apprezzamento che Jonas non avrebbe mai potuto contemplare un tempo.
E dire che Cade veniva da anni ben più lontani dei suoi.
«Ho solo cercato di difendere il mio paese, la mia terra. Dicevano che eravamo parte del loro regno, che eravamo loro sudditi anche noi, ma la verità è che l’Irlanda è libera. È sconfinata, forte, viva. Libera e senza padrone. Come il vento, come gli stormi che volano nei nostri cieli azzurri, che sfiorano i prati verdi…» la sua voce si spense man mano che parlava.
Jonas lo ammirò silenziosamente: quindi era questo? Cade era morto per difendere casa sua? Praticamente l’esatto contrario di quello che aveva fatto lui, scappando come un codardo da tutti i suoi problemi.
Come potevano essere così diversi ed andare tanto d’accordo? O meglio, come poteva uno come Cade, coraggioso, testardo, libero, battagliero, aver trovato anche il minimo interesse in uno come lui.
Jonas abbassò la testa. Era questa la differenza tra un Beato ed un Dannato? Era la differenza che tra chi restava anche a costo di morire e chi fuggiva-
 
«Ma se non fosse stato per quel giovane alle mie spalle… se non fosse stato per lui io e te ci saremmo incontrati dentro le Mura Nere.»


Quella singola frase ebbe il potere di strapparlo dai suoi pensieri e proiettarlo con forza e violenza dritto nella loro realtà ultraterrena.
Gli occhi azzurrissimi di Jonas si fissarono scioccati in quelli verdi di Cade.
 
Verdi come le colline, come i prati, come l’Irlanda.
 
Probabilmente il suo sgomento gli si leggeva in faccia perché il più grande abbozzò un sorriso.
«Tutti abbiamo i nostri peccati, i miei son ben diversi da quelli degli altri “beati”. – sbuffò una mezza risata – Soprattutto se pensi che io combattevo contro gente in divisa, contro quelli che idealmente dovevano mantenere “la pace”. Mh, cazzate ovviamente. Non hanno fatto altro che distruggere la mia terra. Ma alla fine…alla fine anche se sono morto so che ne è valsa la pena. Voglio continuare a sperare che i miei amici siano sopravvissuti a quelle giornate infernali e che abbiano vissuto le loro vite fino alla fine. Felici e liberi
«Liberty?» mormorò Jonas titubante.
Il sorriso di Cade avrebbe potuto illuminare l’Ade e forse un po’ lo fece. Batté la mano destra sul risvolto della sua vecchia giacca, sul disegno ormai rovinato, crepato, scheggiato come vetro.
«I miei Liberty Birds.»
A sentirlo parlare in quel modo, con quella nostalgia, con quello sguardo, Jonas si ripeté che non poteva in nessun modo essere un mostro e lui lo sapeva bene, lui i mostri li aveva guardati negli occhi, c’aveva vissuto in mezzo, nei banchi di scuola, per le strade, si era seduto a tavola con loro. Il suo istinto gli gridava a gran voce di fidarsi, di non farsi prendere dal panico, di non pensare il peggio perché qualcuno che teneva così in considerazione la libertà non poteva esser cattivo.
 
Non come lo intendo io.
 
«Ti mancano molto, li nomini in continuazione.»
Cade rise. «Perché volevo loro molto bene, tutto qui. Per me pensare a loro è tanto uno stimolo quanto una condanna. Mi mancano, a te non manca la tua famiglia?»
Ed eccolo lì, il momento in cui toccava a lui parlare, raccontarsi.
Jonas prese un respiro profondo. Cade era suo amico, si fidava, si fidava ciecamente. Okay, non proprio ciecamente ma solo perché quel dannato rosso alle volte era fin troppo bislacco ed aveva palesemente la faccia di uno di quei ragazzini che appena gli volti le spalle fanno danni. Però si fidava lo stesso, quindi poteva dirgli qualcosa, sì.
 
«La mia famiglia era molto diversa dalla tua.» iniziò con tranquillità.
Cade alzò un sopracciglio. «Presumo che tu non vivessi in una vecchia casa nei bassifondi di Dublino insieme ad una decina di ragazzi con cui condividevi la giornata, quindi penso di poterti credere.» ci scherzò su.
Per buona risposta Jonas gli rifilò una gomitata sulle costole. Vicini ed abbracciati com’erano il rosso non poté sottrarsi in alcun modo. Jonas ghignò soddisfatto.
«Eravamo una famiglia importante, sia per nobiltà che per ruolo. Mio nonno lavorava per- beh, era un membro di spicco della politica. In ogni caso ha cercato di farmi diventare un uomo, ho sempre avuto lui come esempio.» si risolse a dire.
Cade annuì. «Figura seria e rigida? Di quelli che non ti abbracciano neanche se gli spari? Beh, per fortuna ha fatto un pessimo lavoro allora!» gli sorrise l’altro.
Jonas alzò un sopracciglio. «Scusa?»
«Si un piccolo concentrato di irritazione, controsensi e rabbia adolescenziale ma gli abbracci li sai dare almeno.» e detto ciò si sbilanciò verso di lui stringendolo anche con l’altro braccio.
Jonas imprecò pesantemente e cercò di toglierselo di dosso, dandosi del cretino per aver anche solo pensato che Cade potesse starsene zitto e sostenere un discorso serio come quello.
«Togliti cazzo!»
«Uh! Andiamo, ci pensa fratello Cade a insegnarti come si fa per bene. E per prima cosa non ti devi dimenare.»
«Ti ho detto di toglierti! Dio ma quanto sei fastidioso? Ma come facevano a reggerti i tuoi amici?»
«Semplice.» disse fermandosi e fissandolo dritto negli occhi. «Ero il capo e anche quello più bravo a fare i nodi.»
Jonas batté le palpebre. «Legavi- legavi i tuoi amici per abbracciarli?» domandò incerto.
Cade scoppiò a ridere. «No cavolo! Siamo solo stati sempre molto uniti.» sospirò e gli passò con gentilezza una mano tra i capelli per rimetterglieli a posto.
Jonas non poté far a meno di paragonare la scioltezza e la naturalezza dei suoi genti con quelli incerti e impacciati di Nathan.
«Io ero uno di quelli fortunati, avevo una madre che mi amava, che ha cercato di proteggermi finché ha potuto. Mi sono persino goduto un po’ mia sorella. Molti altri non avevano più nessuno.» sorrise. «Non vergognarti di ciò che eri o di ciò che era la tua famiglia.»
Il ragazzino annuì. «Mia madre anche mi voleva molto bene, era una donna molto forte, sapeva cosa voleva per noi e lo otteneva. Ad oggi credo che lei sapesse che mio padre non era davvero suo marito ma qualcun altro.»
Un’altra carezza gli sfiorò la testa. «Lui non lo hai mai conosciuto?» domandò gentilmente.
Jonas annuì. «Già, è morto prima che io nascessi. Non so come sono andate le cose tra di loro, credo mia madre lo amasse, quindi non saprei neanche se lo abbia tradito o meno.»
«Gli Dei possono prendere qualunque aspetto, magari tuo padre si trasformò in lui e quindi tua madre non se n’è mai accorta.»
«Forse sì. Comunque, anche se non condividevo alcune idee con la mia famiglia, gli volevo bene.» disse in fine pur mantenendosi sul vago.
Vide Cade fargli cenno con la testa d’aver capito, poggiando poi la guancia sui suoi capelli. «Certo che gliene volevi, gamberetto.»
Con uno sbuffo infastidito Jonas lo spintonò di nuovo, ma senza troppa forza o troppa convinzione.
«Hai rotto le palle, io te lo dico.»
«Preferisci uccellino quindi! Lo sapevo che era il tuo preferito!» sorrise raggiante.
«No. Il mio preferito è Jonas, ficcatelo bene in testa.» grugni di rimando.
Poi un’idea gli balenò in mente. Si fece di nuovo vicino al compagno, il volo girato alla ricerca di quello dell’altro.
«Ti ho raccontato la storia di mia madre, ti ho detto che non ho mai conosciuto suo marito, quello che credevo essere mio padre. Perché non mi chiedi chi è il mio genitore divino?» gli chiese curioso. Uno strano senso di tranquillità, di serenità, gli si era allargato nel petto, come se qualcuno gli avesse tolto un peso da sopra, come quando finalmente si riesce a dimenticare qualcosa di doloroso, in grado di oscurare anche i pensieri più belli.
In quel momento, per qualche strana ragione, nessuna risposta di Cade avrebbe potuto turbarlo.
 
«Perché così tu non mi chiederai il mio.» rispose con semplicità. «E io non sarò costretto a mentirti o anche solo a nominarlo.»
 
Quell’ultima frase non lo infastidì, non gli lasciò nessun senso d’inquietudine addosso anche se si ritrovò a chiedersi perché avrebbe dovuto mentirgli.
Gli andò bene così.
«Mi sembra un buon compromesso. Forse però gli altri potranno capirlo dai tuoi poteri.»
Cade sbuffò. «Il biondastro non se n’è ancora accorto, non lo faranno neanche gli alti. Non somiglio per niente a mio padre io.» poi lo guardò ghignando. «E credo proprio che anche tu non somigli al tuo.»
Jonas scosse la testa. «Non credo, no. L’unica cosa certa è che un po’ della sua maledizione l’ha passata anche a me.»
Lo sguardo smeraldino del più grande lo scandagliò come un radar.
«Allora speriamo che questa maledizione non debba più ripetersi.»
 
Cade non lo sapeva, non poteva saperlo, ma Jonas ebbe la certezza che l’altro avesse capito la portata di ciò che si celava dietro quelle parole non dette.
Con un sorriso incredibilmente spontaneo e nessuna voglia di fingersi più forte e maturo di quanto non fosse, il ragazzo annuì ancora.
«Ci proverò con tutto me stesso, ma non posso assicurarti nulla.»
«Beh, è proprio questo il bello dell’aver degli amici no?»
Lo guardò senza capire.
Il sorriso di Cade s’allargò. «Arrivare in tuo soccorso quando tutto sembra crollarti contro. Gli amici si aiutano sempre nel momento del bisogno, è la regola base dell’amicizia.
Quindi quando pensi di star per crollare non tenerti tutto dentro, ti distrugge solo, ti rende solo più stanco e più triste.»
«Dovrei dirlo a tutti?»
«Oh, no! Assolutamente no. Devi dirlo a me. Gli amici si aiutano a vicenda, gli amici ci sono sempre, restano sempre.» lo guardò dritto negli occhi e poi gli strinse una spalla. «Lascia che ti aiuti.»
Jonas rimase per un attimo in silenzio. Poi sorrise.
«Sarebbe a tuo rischio e pericolo, ma credo proprio che questo non faccia altro che emozionarti di più, vero?» domandò scuotendo la testa divertito.
Cade gli sorrise di nuovo in quel modo accecante, forse Jonas poteva abituarcisi.
«Che gusto c’è a volare se non si sfidano le correnti?»

Forse l’aveva già fatto.
 



 
*





La strada sino a lì era stata sicura, libera e veloce. Non aveva voluto sforzare troppo il motore, sapeva che sarebbe stato in grado di sopportare anche di peggio, l’aveva messo a punto proprio per questo, ma aveva comunque evitato.
Sulla via principale che conduceva fuori dalla città, ancora più fuori di quella periferia che nessun turista reputava davvero ancora Roma ma che tutti invece sentivano come tale, Giordano fermò la sua vecchia corriera modificata – modificata anche a suon di magia divina, ma son dettagli – e si prese un attimo per osservare la sua bella, bellissima ed immortale città.
Non volgeva però il volto verso il centro storico, dove in lontananza, tra tutti gli edifici, spiccava la Cupola enorme del Vaticano, a quei luoghi aveva detto addio tanto tempo prima, quando era entrato nello studio di Suor Patrizia e sorridendo mesto le aveva detto che se ne sarebbe andato.
La vecchia suora l’aveva guardato come se avesse potuto capire e forse… forse se per tutti quegli anni i mostri non si erano mai affacciati nell’orfanotrofio non era stata un favore divino, non era stata una grazia di Dio ma solo l’efficiente lavoro di tutte quelle donne di fede che assieme alle preghiere mormorate con il rosario stretto tra le dita erano in grado di tirar fuori un rigore ed una forza che non molti pensavano avessero.
Giordano sorrise massaggiandosi i dorsi delle mani come un riflesso involontario: solo lui sapeva quante bacchettate sulle mani si era preso, quante volte il lungo righello di legno l’aveva colpito con durezza per rimproverarlo delle sue azioni.
Il dolore fisico è associato all’espiazione dei peccati, è una lezione dura da imparare ma Giordano già la conosceva.
 
“Corri, non ti fermare mai finché non sei al sicuro e non voltarti mai indietro. Anche se dovessi sentire delle grida, anche se dovessi vederci cadere tutti uno alla volta, tu non ti fermare, continua a correre. Anche se ti fanno male le gambe, anche se ti hanno ferito, anche se non hai più fiato e senti che il petto possa esploderti da un momento all’altro. Corri anche quando credi di star ad un passo dalla morte, il dolore ti ricorda solo che sei vivo, che puoi combattere ancora, che puoi vedere un nuovo giorno.”
 
Il dolore significava che eri ancora vivo, significava che avresti potuto riprovare ancora una volta, che avresti avuto la possibilità di non sbagliare di nuovo.
Il ragazzino si passò una mano tra i capelli, afferrando il ciuffo sulla frangia e tirandolo giù sino alle sopracciglia: diamine, erano cresciuti parecchio, forse avrebbe dovuto farseli tagliare prima di partire, dubitava di poter trovare un barbiere nel suo viaggio.
Davanti a lui si aprivano le campagne romane, poteva vedere tutti quei piccoli agglomerati di case sparsi su per la montagna, su per il Tuscolo, e avrebbe potuto nominarli tutti, uno per uno. Lì sotto, alle pendici, nascosta da qualche parte tra le vigne verdi ed i campi da pascolo, c’era anche casa sua. Un edificio arroccato su una collinetta, perché Roma l’hanno fatta su sette colli ma pure interno non scherzano mica, piano terra, primo piano e terrazzo. Una salita fatta di mattonelle di riuso, un vecchio portone di legno, una tettoia vecchia ed una lampada francese. Un pomello opaco, una scala che s’arrampicava fino al pianerottolo ed un’altra che girava per andare verso l’ultimo piano. Oltre la porta c’era casa sua, quelle quattro stanze in cui aveva visto la luce, dove aveva vissuto come un bambino normale – come una famiglia normale – per troppo poco.
Giordano chiuse gli occhi, prese un respiro profondo a pieni polmoni e si volse senza schiudere le palpebre. Le serrò ancora di più, storcendo la bocca in una smorfia che aveva l’unico scopo di non farlo scoppiare a piangere. Dannazione, sentiva già le lacrime bagnargli gli occhi. No, no, no non doveva piangere, non poteva farlo, cazzo!
Alzò la testa e tirò su col naso. Adesso sarebbe rientrato nella sua corriera, a cui doveva trovare un nome, e se ne sarebbe andato, sarebbe andato a nord a cercare mamma e papà. Ecco, sì, doveva concentrarsi su questo, sui suoi genitori e sul nome da dare alla corriera. Forse “vecchia carretta”? Era troppo scontato?
Si passò la mano in faccia, sfregando bene gli occhi per scacciare via quelle poche lacrime scappate.
Rimase fermo per un attimo prima di alzare di nuovo il volto al cielo ed imprecare contro quell’altro attacco di pianto insensato.
Non era niente, non era successo niente, aveva visto di peggio, era solo la sua stupida mente che pensava agli scenari più catastrofici, non sarebbe successo nulla.
 
«Perché piangi?»
 
Giordano sollevò lentamente le palpebre, trovandosi davanti agli occhi umidi una delle ragazze più belle che avesse mai visto.
Doveva aver massimo diciott’anni, era di media altezza, fisico snello ma morbido…sembrava quasi una diva del cinema, con le gambe lunghe e la gonna ampia che le lasciava scoperte le caviglie fini, le scarpette rosse.
La pelle rosea pareva esser quella classica mediterranea, che con un poco di sole s’abbronzava immediatamente, ed i capelli di un marrone caldo sembravano quasi rossicci sotto i riflessi della luce. Ma erano le sue labbra rosso ciliegia ed i grandi occhi da cerva che gli tolsero tutta l’aria dai polmoni.
Quella ragazza era bellissima, come i primi alberi in fiore dopo un lungo inverno rigido. Era bella come la primavera, come i venti frizzanti ed i raggi tiepidi, come il canto degli uccelli e quello delle fronde.
 
Era la rinascita della vita dopo la morte dell’inverno.
 
Giordano non aveva mai fatto paragone più azzeccato nella sua mente.
Non gli servì molto per capire che quella giovane non poteva essere mortale, non del tutto per lo meno, e ciò gli diede una sferzata di malinconia che avrebbe potuto fargli tornare su le lacrime che tanto faticosamente aveva cacciato indietro.
Si strinse nelle spalle e scosse la testa, dando qualche colpo di tosse per schiarirsi la voce.
 
«Non lo so davvero. Sto andando via, non tornerò tanto presto, forse non lo farò mai.» mormorò.
Era strano parlare con un’estranea ma sapere che forse era stata mandata lì da Ade per controllare che tutto andasse bene gli dava una strana sensazione di sicurezza.
«Quindi piangi per questo. Senti già la nostalgia. Perché credi che non tornerai? Non vuoi?» domandò ancora lei.
Giordano scosse di nuovo la testa. «No, questo no. Si vuole sempre tornare a casa.» sospirò. «Non ne sono sicuro, ma sento che la mia bella Roma la rivedrò solo tra molto tempo e quando succederà non sarà comunque più la mia Roma ma sarà diventata qualcos’altro.»
La ragazza inclinò la testa, curiosa ma impassibile come un animale notturno. «La città sarà cambiata?»
Con un ultimo sospiro Giordano si impose di non voltarsi, di non guardare indietro: terrà per sempre nel cuore quell’ultima visione, quell’ultimo sguardo, quell’ultimo ricordo.
 
Bloccata per sempre nel tempo. Sarai sempre così per me, Roma.
Casa.

 
«Ho paura che la prossima volta sarò io ad esser completamente diverso.»
 




Era il 1926. Giordano non sarebbe tornato a Roma sino al 1945.
Roma non sarebbe più stata quella città che lui conosceva.
Giordano non sarebbe mai più stato quello che Roma aveva visto nascere.
Quando nel suo viaggio per tornare sull’Olimpo, da sua madre, Persefone si era fermata nella città eterna, attratta dall’aura di quel ragazzino, assieme al risveglio della natura aveva assistito anche alla fine di una vita.






 
*





La conca naturale che si era formata sotto l’alta collina nera avrebbe potuto ospitare un lago. Quando un fiume di anime si era riunito nella vallata, accalcandosi attorno ad un rialzo rotondo, come una gigantesca roccia cilindrica spuntata fuori dal terreno, l’erba nera era scomparsa per lasciare posto al pallore della morte.
Eliza si guardò attorno circospetta: l’ultima volta che erano stati tutti ammassati in quel modo si erano ritrovati chiusi dentro ad un recinto con migliaia di mastini neri e fiammeggianti in carica verso di loro. Se fosse successo qualcosa di simile lì li avrebbero sbaragliati tutti, nessuno avrebbe avuto la possibilità di fuggire, di arrampicarsi abbastanza velocemente lungo il pendio e disperdersi per le Praterie.
Erano in trappola molto più di quanto non lo fossero stati nell’Area Cani.
 
Sarebbe di certo più tremendo, sarebbe come il Labirinto.
 
In più era la prima volta che una prova si svolgeva nelle Praterie “libere”. Non c’erano recinsioni, mura d’edera, non c’era nulla che potesse impedir loro di spaziare in lungo e largo tra i prati neri. Non c’era nulla che impedisse agli Asfodeli di far il loro lavoro.
 
Stiamo dimenticando qualcosa…
 
Pensò Eliza voltandosi verso i suoi compagni.
Si erano tutti riavvicinati per quella discesa verso il palco, compattati come una squadra.
Lea e Nathan non avevano smesso un attimo di litigare, senza posa. Úranus sembrava a disagio, forse Jane gli aveva detto qualcosa che lo aveva toccato un po’ troppo. La ragazza invece era forse la più calma di tutti.
In quel momento se ne stava a braccia incrociate a guardar male Cade che faceva battute stupide sui due biondi litiganti, accennando di quanto in quanto qualche ghigno seguito da commenti poco lusinghieri, o almeno Eliza lo presupponeva dalle risa sguaiate che si lasciava sfuggire il rosso, la ressa delle anime tutte lì riunite alzava un discreto vociare che le rendeva difficile sentire i discorsi degli altri.
Spostò lo sguardo sull’ultimo membro della loro squadra bislacca: Jonas se ne stava qualche passo indietro Cade e lo colpiva a suon di pugni ogni volta che, presumibilmente, il ragazzo se ne uscisse con qualcosa di più stupido del solito. O Jane con qualcosa di più cattivo a giudicare dalle occhiate che lanciava anche a lei. Ma non era ancora entrato così in confidenza con la figlia di Ecate da permettersi di riprenderla, un po’ come con tutti gli altri. Forse, alla fine, solo Cade e un poco Nathan venivano trattati con naturalità.
Si era domandata più di una volta cosa fosse successo tra loro due, se quel “stavi litigando con il ragazzino” detto da Lea fosse la realtà, un’esagerazione o solo un modo come un altro per dire che stavano discutendo. Di cosa però? Jonas non gli sembrava un tipo animoso, poteva credere che, una volta a propri o agio, fosse molto più emotivo, passionale, come dopotutto lo erano un po’ tutti gli adolescenti, ma non ce lo vedeva ad iniziare liti furiose, specie con uno come Nathan.
Come tutti i ragazzini doveva esser stato istruito al rispetto verso le persone più grandi, non c’era da stupirsi che fosse rigido con tutti loro, che misurasse le parole e le pesasse dieci volte prima di dirle, che si mordesse la lingua per non farlo… e sapere che Nathan poteva avergli detto qualcosa che l’aveva alterato sino a portarlo ad ignorare gli insegnamenti della sua famiglia – per una come lei, cresciuta con un uomo d’esercito – era alquanto preoccupante. Perché Eliza contava su Nathan, contava sulla sua serietà e sulla sua capacità di guidare un gruppo in modo giusto, logico, strategico. Non potevano permettersi di far saltare i nervi ad un membro della squadra, neanche se questo si fosse scoperto esser l’anello debole.
Un anello debole che perdeva ogni suo freno semplicemente parlando con quella testa rossa di Cade.
L’irlandese continuava a ridere e scherzare ma Elizabeth poteva veder perfettamente quanto fosse teso. Non era un buon segno quello.
Era inutile negarlo, aveva paura che potesse risuccedergli quello che gli era successo durante il viaggio per raggiungere la Casa di Ade, temeva che le Praterie degli Asfodeli lo indebolissero, lo mettessero al tappeto. E per quanto quella fosse una competizione che solo uno di loro avrebbe potuto vincere Eliza non voleva che uno dei suoi compagni cadesse durante le prime battute.
 
Ne ho già persi tantissimi, non voglio perderne un altro. Non ne perderò un altro.
 
Quelli che avrebbero potuto aver più problemi con quella situazione erano quindi Cade, che già pareva aver qualcosa per la testa – o non aver più qualcosa, come ricordi scomparsi –, Jane, che era riuscita a ricordare la sua vita malgrado fosse stata nelle Praterie dalla sua morte, e Jonas che-
 
Stava benissimo?
 
Com’era possibile? Il ragazzino usciva direttamente dai Cancelli Neri e non aveva neanche il minimo segno d’affaticamento, di smarrimento?
Quegli occhi verde cupo, così scuro e profondo dà sembra nero in quel momento, scrutarono con attenzione Jonas: forse tra i Mastini Infernali era lui l’anello debole, ma in quella gara chi minacciava di crollare sotto il peso dell’amnesia era solo e soltanto Cade.
 
«Jonas?» chiamò a voce alta per farsi sentire.
Il ragazzo si volse a guardarla con aria interrogativa, quando gli fece cenno d’avvicinarsi lo vide tentennare un attimo, lanciare uno sguardo di sottecchi a Cade e poi fare quei pochi passi che l’avrebbero portato a fronteggiarla.
«Sì?» domandò guardingo.
«Ho un favore da chiederti, un compito d’affidarti a dirla tutta.» disse lei seria. Aveva preso la sua decisione ed era convinta che fosse la migliore. Forse dopo ne avrebbe parlato anche con Lea.
«Se posso.» mormorò inizialmente, poi parve riscuotersi da quell’improvvisa timidezza che l’aveva preso non appena aveva abbandonato il fianco dell’amico. «Certo. Dimmi cosa posso fare.» ripeté più risoluto, la voce più alta e limpida.
Eliza sorrise. Voleva dimostrarle che fosse forte abbastanza per far tutto? Bene, preferiva di gran lunga questo Jonas a quello remissivo e silenzioso.
«Hai notato che Cade è teso?» gli domandò comunque prima.
Lui annuì. «Sì, mentre stavamo venendo qui ha mi ha fatto prendere un colpo. Si è fermato, mi ha spostato davanti a sé e poi si è girato a guardare la strada da cui venivamo. Diceva di sentire delle voci, che le Praterie-»
«Hanno un effetto più forte su di lui, sì.» annuì lei.
Jonas la guardò con attenzione. «Era già successo vero? Dice che è colpa di quello che ha fatto in vita, pensi che sia davvero così?» le chiese crucciato.
Eliza scosse la testa. «Non posso dirtelo con certezza purtroppo, però sì. Pare che le Praterie siano estremamente dannose per lui e con tutta probabilità è colpa delle sue azioni passate.»
«Ma era nei Campi Elisi.»  insistette.
Lo disse come se lo stesse ripetendo per l’ennesima volta ed Eliza si rese conto che Cade doveva avergli detto qualcosa in più e che quel qualcosa l’aveva portato ad aver bisogno di ricordarsi, di ripetersi, che Cade era uno dei buoni.
Non sapeva se voleva sapere o meno cosa fosse.
«Lo è, ma ricordati che anche i santi sbagliano. In ogni caso bisogna tenerlo d’occhio. Voi due state spesso assieme, vicini intendo, il che è meraviglioso perché così lo tieni distante da Nathan.»
Jonas abbozzò un sorriso. «Ti hanno dato tanti problemi?» provò.
Eliza grugnì. «Non abbiamo abbastanza tempo per parlarne.» minimizzò facendo un cenno secco della mano. «Ma rimanigli vicino. Stai attendo a come si comporta e se la sua espressione ti sembra vacua…»
«Cercherò di aiutarlo come posso finché non arriverete voi. Possiamo presumere che Lea sarebbe in grado di curarlo?» domandò incerto.
Lei annuì. «Penso proprio di sì.»
Annuì anche Jonas. «Va bene, conta pure su di me. Anzi, non preoccuparti per lui, me ne occupo io.» il suo tono deciso fece sorridere l’americana che si allungò per dargli una pacca sulla spalla.
«Mi fido.»
 
«Dite che ce la fate a star zitti due secondi?» chiese candidamente Jane sporgendosi tra Lea e Nathan.
Il soldato si tirò indietro di scatto, sorpreso, Lea si lasciò sfuggire un gridolino completamente colta di sorpresa.
«Per l’amor di Dio! Non spuntare così dal nulla, mi farai prendere un infarto!» si lamentò la figlia di Apollo.
Jane la guardò impassibile. «E allora? Tanto sei già morta.» le fece notare.
Nathan la guardò parlando a denti stretti. «È davvero amabile il modo in cui ce lo ricordi in continuazione.» soffiò ironico.
La ragazza si strinse nelle spalle. «Sembrate dimenticarvelo di continuo.»
A vedere il biondo pronto a replicare e dar, con tutta probabilità, il via ad un’altra accesa discussione, Úranus fece anche lui un passo avanti ed allungò il collo verso il palco, cercando d’attirare l’attenzione degli altri.


«Mi pare di scorgere del movimento, sopra la grande roccia.» disse alzando appena la mano per indicarla.
Cade gli si affiancò poggiandogli un braccio sulla spalla, non senza qualche difficoltà. Poi s’arrese, guardò Jane per controllare se potesse poggiarlo addosso a lei – evitò – scartò Lea che era più lontana, Nathan a priori, e sorrise soddisfatto quando Jonas ed Eliza si avvicinarono a loro e poté piazzare il gomito sulla testa del ragazzino.
«Lo credi d’avvero o l’hai detto solo per distrarre i bambini dalla loro lite?» chiese con tranquillità.
«Ehi! Toglimi questo dannato braccio dalla testa!» protestò lui dimenandosi.
«Sta zitto gamberetto, fatti sfruttare come appoggio o ti abbraccio.»
«Se fossi in te glielo spezzerei il braccio.» lo informò Nathan monocorde. «Vuoi che ti faccia vedere come si fa?» chiese poi con un ghigno sadico a tirargli le labbra.
«Nessuno spezzerà braccia a nessuno. Nathan non dare strane idee a Jonas, tu non lo ascoltare e Cade, togli il braccio da lì, gli dà fastidio.» ordinò severa Eliza.
Il rosso alzò gli occhi al cielo. «Scusa mamma.»
«Che cazzo sei, mia madre?» grugnì Nathan.
«Non mi faccio influenzare così dagli altri!» si voltò indignato Jonas.
Lea, davanti alla soldatessa, la guardò alzando un sopracciglio.
«E nessuno di loro ha tracce di percosse addosso… come fai a trattenerti?» domandò sinceramene colpita.
«Riempie di scappellotti i due più grandi e ammonisce il ragazzino con lo sguardo da mamma.» disse spiccia Jane.
Úranus espirò sconfortato: com’era possibile che ogni cosa che dicesse quella ragazza diventava possibile capo fertile per altre dispute?
Tutti i presenti erano già pronti a replicare animosi, quando il suono secco di una materializzazione si propagò dalla roccia scivolando in tutta la valle.
Chiudendo gli occhi il giovane semidio rivolse una preghiera al padre. Era sicurissimo che fosse stato lui a spingere l’altro dio ad apparire proprio in quel momento.
«Lasciate stare, è arrivato.» tagliò corto Lea.
Nessuno ebbe nulla da replicare.
 
Sulla superficie grigia ed irregolare esplose un suono deciso, come un ramo rotto di netto. La leggera nebbiolina che seguiva l’apparizione di ogni divinità era azzurrognola, a contatto con la roccia pareva diventar quasi verde.
Tra le ombre pallide di quella foschia divina prese forma la figura di un uomo di circa trent’anni, dal fisico slanciato, atletico, come quello di un corridore.
I capelli neri contornavano il volto dal sorriso scaltro e gli occhi attenti, vividi e fissi come quelli dei rettili. La sua espressione pacata e rilassata non prometteva nulla di buono.


 
 
Giordano si lasciò cadere con tranquillità sulla sedia di pelle, poggiando i gomiti sul tavolino e il mento sulle mani intrecciate. Davanti a lui una sfera d’acqua volteggiava in aria, enormi gocce cercavano di raggiungere il piano ligneo, riprese dalla forza sovrannaturale che brillava accecante sulla superficie lucida. In quel fascio luminoso s’apriva un arcobaleno di riflessi, che contorcendosi su sé stessi si mescolavano per formare le immagini davanti a lui.
Osservò con interesse Ermes avanzare verso il bordo della roccia ed un sorriso sinistro si aprì sul suo volto: ricordava come quel pezzo di pietra era arrivato nelle Praterie, ricordava il maglio da cui era stato staccato – da cui lui l’aveva staccato – e si domandò se Ade non l’avesse fatto apposta, se quella non fosse la sua dichiarazione di fedeltà.
 
La quarta prova, quella del dio dei viandanti, dei ladri e dei truffatori, del messaggero divino, si svolgerà nel luogo in cui lasciasti cadere ciò che rimaneva dell’arma di uno dei tuoi avversari.
Ermes. Il maglio del gigante.

 
Le labbra si tirarono mostrando i denti dritti ed affilati.
Oh, vecchio mio, sei sempre stato così bravo a mandare i tuoi messaggi.
Si accomodò meglio e fissò gli occhi dritti nella sfera. Non vedeva l’ora di godersi lo spettacolo.



 
 
Il Messaggero Divino, così l’avevano sempre chiamato, così i mortali lo immaginavano. Vestito di un semplice gonnellino bianco, con i suoi bei calzari alati ed un copricapo con due candide ali. Impugnando il suo caduceo volava da un lato all’altro dell’Olimpo e della Terra per portare la parola del suo Re in ogni dove.
Ermes sorrise al suo stesso pensiero, probabilmente non potevano immaginarlo in modo più sbagliato, ma dopotutto ai mortali piacevano queste immagini antiche e mistiche, chi era lui per distruggere i loro sogni?
Fermandosi sul bordo della roccia Ermes attese con pazienza che la voce di Eolo si estinguesse dopo aver ricordato per l’ennesima volta delle votazioni e del post-show in cui gli Dei avrebbero potuto discutere con tranquillità dei vincitori e dei caduti. Tutte quelle cose non gli interessavano minimamente. Per la verità Ermes si era proposto come ideatore della quarta prova senza neanche aver realmente capito in cosa sarebbe consistito il grande piano di Giordano Delle Vie. Gli dispiaceva ammetterlo, ma quando il piccolo Gio – il vecchio Gio ormai – era entrato nella Sala dei Troni con quella sua faccia da schiaffi e la camminata rilassata, con le mani sprofondate nei pantaloni e le labbra che ancora fumavano, lui era intento a controllare il suo palmare, cercando di ignorare i suoi amabili fratellini che già litigavano sul nulla.
Aveva capito a grandi linee che il problema era che gli altri si stavano annoiando e avrebbe tanto voluto dir loro che potevano andare a lavorare per lui, o magari provare a rendersi utili nell’Ade, ma aveva desistito per il semplice fatto che poi, i guai, li avrebbero creati lui e Ade stesso prendendo a calci in culo tutti.
Ermes sospirò. L’aveva fregato quella storia del “non morirà nessuno dei nostri figli, non morirà nessun innocente”, quello, solo quello. Ma forse staccare un po’ la spina gli avrebbe fatto bene.
Quando la voce di Eolo scomparve annunciandolo come una star del cinema Ermes mise su il suo miglior sorriso ed allargò le braccia verso la sua morta platea.
Per il Tartaro, quanti erano? Erano davvero morte tutte quelle persone sulla Terra? C’era davvero stata così tanta vita ed ora così tanta morte?
Era terribile non percepire il passare del tempo, non capire l’importanza di un minuto, di un attimo. Lui era immortale, non provava queste cose, non temeva lo scorrere della sabbia nella clessidra, ma gli umani… scrutò con attenzione la folla e con cinica precisione individuò tutte quelle anime troppo deboli per superare la sua prova, tutte coloro che non ce l’avrebbero fatta, tutte quella a cui la vittoria sarebbe stata strappata da mostri avidi e crudeli o da poveri e sbadati innocenti.
C’era questo spiacevole risvolto della medaglia, il caso in cui i “cattivi” non lo fossero davvero ma fossero invece persone normali che avevano semplicemente fatto la scelta sbagliata senza rendersene conto. Quante di quelle anime lì presenti avrebbero infranto le sue preziose sfere nel vano tentativo di prenderle? Quanti di loro sarebbero stati fautori del loro stesso male? Quanti invece si sarebbero accaniti su tutto ciò che li circondava per il solo gusto di distruggere?
Ermes continuò a guardare quelle anime, mentre le figure si spegnevano ad una ad una per lasciare davanti ai suoi occhi solo i corpi inesistenti dei semidei.
Erano così pochi in confronto a tutti gli umani, ma al contempo erano così tanti.
 
Tutti i nostri figli morti dall’alba dei tempi ad ora.
 
E non erano neanche tutti, bastava pensare a tutti quelli che erano rimasti nelle Isole dei Beati o a quelli che non erano usciti dai Campi Elisi.
 
Quelli che si sono persi nelle Praterie fino a dimenticare chi fossero, fino a morirci dentro.
 
Le figure iniziarono a brillare, ognuna di un colore diverso, come quando non erano altro che puntini luminosi nel labirinto, prendendo il colore dello stendardo dei loro genitori divini.
Aggrottò le sopracciglia, quando si rese conto che tutti, tutti quanti, erano riuniti in piccoli gruppi, più o meno numerosi, ma tutti assieme.
Ermes batté le palpebre: com’era possibile una cosa del genere?
 
Che diamine sta succedendo qui?
 
Si schiarì la voce, improvvisamente turbato da quella realizzazione.
Era il solo ad essersene accorto? Gli altri avevano già notato quelle strane formazioni? Ade sapeva qualcosa?
 
«Benvenuti alla mia prova.» esordì mantenendo con più difficoltà la sua espressione rilassata. «Per chi non mi conoscesse, anche se Eolo mi ha già annunciato, io sono Ermes, dio dei viaggi, dei, viaggiatori, patrono dei viandanti, dei ladri e messaggero divino.» unì le mani in uno schiocco secco e anche se non le vide apparire poté percepire le sue sfere disporsi sul terreno, tra gli steli neri.
«Le prove che avete affrontato fin ora vi vedevano confinati all’interno di un’arena di gioco, dal Labirinto di Persefone all’Area Cani di Artemide. Le nostre dee amano aver tutto sotto controllò,» scherzò su facendo l’occhiolino alla folla, «io invece voglio darvi la possibilità d’esser liberi.» disse poi più seriamente.
«Durante la prova del labirinto siete stati privati di qualcosa di davvero importante per voi.»
 
«Le armi? Porca puttana, ditemi che sono le cazzo di armi.» mormorò Nathan alzandosi sulle punte per individuare, in lontananza, possibili scintilli e oggetti spersi.
Úranus scosse la testa. «Mi duole dirvelo, ma temo che non vi sarà alcuna possibilità di recuperare le nostre armi. Erano sparse per il Labirinto d’edera, era quella la nostra unica via.»
Lea abbassò lo sguardo triste, Eliza, di fianco a lei, imprecò a labbra serrate.
«Spero vivamente di no.»



«Ma con tutta probabilità in pochi se ne sono accorti.»

 

«Decisamente non le armi, cazzo.»

 
 
Ermes indicò gli sconfinati campi neri alle sue spalle.
«Quando siete entrati nel Labirinto di Persefone le sue piante d’edera vi hanno sottratto un ricordo, un ricordo molto importante o forse del tutto futile, qualcosa di piccolo o enorme. Qualcosa che, ora che ne siete a conoscenza, percepite mancare dentro di voi.
Il ricordo è strettamente legato alla vostra morte: potrebbe essere la sua motivazione, ciò che vi ha spinto a fare quel passo di troppo che vi ha portati qui, o un segno che vi avrebbe potuti salvare. Di qualunque cosa si tratti, ora si trova nelle Praterie degli Asfodeli ed aspetta solo voi.» guardò le anime davanti a lui, una massa grigia in cui spiccavano solo le figure luminescenti dei semidei.
I loro ricordi erano i più resistenti, ma sapeva perfettamente che anche quelli erano facili da infrangere.
 
Come i sogni.
 
«Li troverete sotto forma di sfere. Entro ogni globo troverete un suono, una voce, un profumo, un’immagine che vi ricorderà ciò che avete perduto. Trovate il vostro ricordo e avrete passato la mia prova. Perdetelo, o perdetevi voi stessi nelle Praterie, e non lo riavrete mai più, condannati ad essere incompleti fino alla fine dei tempi. La libertà ha un prezzo dopotutto.» sorrise. «Ci sono infinite vie da percorrere, strade, sentieri visibili o meno. Ci sono correnti che vi trascineranno a fondo e altre che vi spingeranno via e forse vi interesserà sapere che sono rinomato per esser bravo a rubare e nascondere le cose.» il sorriso divenne un ghigno. «Mio fratello Apollo potrebbe confermarvelo.»
 

 
«Perché dice così?» domandò Eliza cercando lo sguardo di Nathan.
Il soldato imprecò. «Porca di quella puttana.»
«“Perché dice così?”, è davvero questo che ti interessa di più? Non il fatto che ci abbia appena detto di averci rubato dei ricordi?» ringhiò Jane, il volto contratto in una smorfia arcigna.
Aveva passato tutto quel tempo a lottare contro le Praterie e ora arrivava quell’altro e le diceva che uno dei preziosi ricordi per cui aveva speso ogni grammo d’energia per custodirlo in sé le era stato brutalmente rubato dall’edera.
Il ricordo di quei rami che le si stringevano addosso, che se si insinuavano sotto i vestiti, stretti attorno al collo, a tapparle la bocca, a serrarle gli occhi, la fece rabbrividire, portandola a stringersi le braccia al petto. Non voleva riviverlo, quello di ricordo se lo potevano anche tenere.
«Se non sbaglio Ermes rubò la mandria di Apollo, o qualcosa del genere.» mormorò Jonas.
Úranus annuì. «Badar a quelle bestie era la punizione del divino Apollo.»
«Zeus l’aveva mandato sulla terra a scontar la sua pena ed Ermes rubò alcuni capi di bestiame ed utilizzò le loro interiora per creare una cedra. La regalò a mio padre per mitigarne la furia.» continuò Lea.
«Magnifico, ma questa storia non ha minimamente mitigato la mia.» rispose Cade.
Nathan storse il naso. «Per una volta sono d’accordo con te, roscio malpelo.»
 

 
«Prima di cominciare, permettetemi di darvi alcuni piccoli consigli.
Per prima cosa, a differenza della prova precedente, un’anima può prendere più di un ricordo, anche se ha già preso il suo.»
 


«Porco cazzo di nuovo.»
«Non prenderla solo come una cosa negativa, questo significa che se uno di noi trova i ricordi degli altri può prenderli e portarglieli.» disse Eliza.



«Questo vuol dire che un’anima può anche trovare il proprio ricordo, rubare un po’ di quelli degli altri e dirigersi alla prossima prova.»
Un mormorio scioccato si alzò subito dalla folla ed Ermes non riuscì a non ghignare di nuovo.
Oh, sì, quella situazione era terribile, l’idea che qualcuno avrebbe potuto portarti via la possibilità di vincere era devastante, ma quello era pur sempre uno scontro per tonare in vita, non si giocava, non si vinceva solo una coppa, una corona d’alloro e i complimenti più sentiti dal padre degli Dei, le anime dovevano iniziare a giocare d’astuzia. L’avrebbero fatto con lui.
«Allo stesso modo, scoprirete che le sfere che racchiudono i vostri ricordi non sono poi così resistenti, anche perché se no come fareste a riappropriarvi di ciò che contengono?» scosse la testa e si strinse nelle spalle. «Fate attenzione quindi, rischiate di romperle prima del dovuto.»

 
«Che figlio di puttana.» masticò a mezza bocca Cade.
Nathan grugnì. «Stai zitto, o sarò costretto a darti ragione di nuovo.»
«Sapete questo cosa significa?» domandò Lea seria.
«Che qualcuno potrebbe distruggere per errore la nostra sfera e privarci per sempre della possibilità di tornare in vita.» disse Jonas.
«O che qualcuno potrebbe farlo di proposito.» gli fece eco cupa Jane.
 

«Trovate le sfere, siate veloci, mettete le ali ai piedi e preparatevi a combattere contro le Praterie. Quando avrete la vostra, quando riavrete il vostro ricordo, ve ne verrà dato anche uno extra che vi condurrà al via per la prossima prova.
Un solo monito, mi sento di darvi: i veri ladri sanno come rubare ciò che vogliono senza farsi sopraffare dal contesto in cui si trovano. Cercate anche voi di non farvi sopraffare da ciò che vi circonda, o da ciò che sarete costretti a ricordare.» il suo volto serio fece venire i brividi a più di un’anima ed Ermes osservò quello strano fenomeno con interesse.
 
Rabbrividiscono.
 
Il suo sguardo divino individuò, tra le figure colorate, alcune ferite più o meno gravi.
 
Si feriscono, soffrono, provano dolore.
 
Sanguinano anche se è per questo.
 
Il dio alzò a mala pena lo sguardo, superando la folla.
Sulla cima della collina, chiuso nel suo pesante giaccone nero, l’alta figura di un uomo lo fissava impassibile. Di fianco a lui, in piedi, poggiati gli uni agli altri, accovacciati a terra a scrutare le anime ammassate attorno alla pietra circolare, decine e decine di persone provenienti da tutto il mondo, anche da luoghi ormai inesistenti. Da ogni tempo, da ogni epoca, da ogni era.
 
Ma tutti, tutti semidei.
 
Sul volto dell’uomo si aprì un sorriso sinistro ed Ermes non poté far a meno di deglutire.
 
È la tua armata? Perché loro? Chi sono quei ragazzi?
 
Non gli servì molto per rendersi conto di non riuscir a distinguere i loro volti, a captare l’eco del loro sangue divino.
Li stava proteggendo lui, facendo in modo che il dio non riuscisse a capire di chi fossero figli. Probabilmente ce ne erano anche di suoi.
 
La partita è aperta.
 
Cosa vuoi?
 
 
L’uomo gli fece cenno con il capo, poi si voltò. Le anime riunite vicino a lui scomparvero come uno stormo in picchiata, veloci ed individuabili.
Ermes deglutì di nuovo.
In che guaio si erano andati ad infilare?
 
«Che Nike sia con voi, trovate i vostri ricordi e sarete un passo più vicini alla vita, perdeteli e rimarrete per sempre qui, vittime delle Praterie e della loro Foschia.»
 
Non disse null’altro, fece un passo nel vuoto e scomparve prima di toccar la folla attonita.


 
Ade non batté ciglio quando se lo trovò davanti.
Un’altra persona pronta a fargli domande a cui non sapeva – o non voleva – dar risposta.
 



 
*
 



Le anime erano rimaste immobili per un lungo momento. Ermes era scomparso ma nessuno aveva dato loro il via, come nelle precedenti gare.
Una strana agitazione percorreva le fila scomposte di quella fiumana inquieta, che ripensava alle parole del dio con ansia e preoccupazione: Ermes era stato fin troppo chiaro, bisognava riappropriarsi del proprio ricordo per poter passare alla fase successiva ma chiunque poteva prendere qualunque sfera.
 
Il dio dei ladri che incita a rubare ciò che c’è di più prezioso per un’anima: i suoi ricordi.
 
Quando il suono assordante di una sirena antiaerea si propagò per la vallata prese tutti di sorpresa.
Le anime iniziarono a muoversi, a spintonarsi le une con le altre, terrorizzare alla prospettiva d’arrivar troppo tardi, di vedere le loro memorie in frantumi, di non trovarle per niente.
La terra dell’Ade tremò una seconda volta ma, invece della carica dei Mastini Infernali, furono i passi affrettati di tutti i morti del mondo, meno qualche milione, che già si disperavano per un fato inevitabile.
Ancora una volta, non rimaneva che correre.
 
 


 
*
 




Davanti a loro si aprivano campi e campi di erba nera, fitta e compatta, una distesa oscura che rifletteva sugli steli fini la luce pallida e debole di miliardi di globi luminescenti.
Era uno spettacolo incredibile.
Nell’Ade la luce non era una cosa così scontata. Per tutti i luoghi dell’Inferno si spandeva un’aria quasi surrealista, dove il cielo era buio di una notte eterna ma attorno a sé si poteva osservare un paesaggio nitido di crepuscolo.
Le Praterie degli Asfodeli, infinite colline di nera vegetazione, si muovevano ad onde come le alghe nel mare più profondo. C’era un vento perenne, fantasma, inesistente e pesante che carezzava ogni angolo di quell’oscuro regno, il respiro di una bestia quieta che dormiva nelle viscere della Terra. L’erba che muoveva sembrava un cielo stellato puntinato di piccoli lumi. Se solo tutti quei globi luminosi non fossero stati ricordi di morte avrebbe potuto definire la scena quasi poetica.
Lasciò che i suoi occhi vagassero su quel mare nero: non aveva alcuna importanza cosa racchiudessero le sfere, quell’immagine era poetica e basta.
Il giovane ragazzo strinse i pugni e li rilassò, sotto di lui poteva vedere le anime affannarsi alla ricerca di qualcosa di familiare, o ferme, spaesate, impotenti. Ma soprattutto poteva già sentire i primi inquietanti suoni di vetri in frantumi.
La gara era partita da pochi minuti e quel quadro contraddittorio stava già per esser devastato dalla furia di esseri ormai passati, a dopotutto non lo stupiva che anche nella morte gli umani fossero in grado di portare così tanta distruzione.
Osservò una sfera posta qualche metro più avanti, storcendo il naso quando un uomo, spinto da altri, era caduto proprio su quella. La sfera era andata in mille pezzi come un vetro troppo riscaldato, anche dalla sua posizione aveva sentito perfettamente il rumore dei cocci distrutti e con esso il terrore scivolargli sulla pelle ed attanagliargli le viscere quando il leggero vociare di parsone si era disperso assieme alla luce.
Dei… e se qualcuno avesse calpestato la sua?
 
«Hai paura?» domandò una voce morbida e bassa, alle sue spalle.
Il ragazzo si girò, strofinando le mani sui jeans strappati, e cercò di sorridere al giovane che si ritrovò davanti.
«Temo di non trovare ciò che mi è stato ordinato.» disse inizialmente, poi ci ripensò. «E mi preoccupa anche discretamente che qualcuno possa distruggere la mia sfera.» ammise senza timore.
L’altro annuì, si scostò una ciocca di cappelli chiari dalla fronte ed il bracciale argentato che gli cingeva il polso sembrò quasi catturare i flebili bagliori delle sfere-ricordo.
«È uno spettacolo bellissimo, mi ha riportato alla mente la vista del mare alla notte, quando il cielo si rispecchiava sulle acque trasparenti.» mormorò piano, il suo bel volto che improvvisamente si piegava in una smorfia di disgusto nel vedere tutte quelle anime ammassarsi come bestie.
«Sono sicuro che il tuo ricordo, così come quello di ognuno di noi, è già al sicuro. Il nostro Signore è capace e consapevole delle sue azioni. Non credi?» gli sorrise ammaliante.
Il ragazzo deglutì a quella vista, perdendosi ad ammirare quella figura così affascinante, così elegante e in qualche modo persino luminosa. Poi scosse la testa: dimenticava come i suoi fratelli, specialmente quelli provenienti dalle epoche più antiche, fossero in grado di sprigionare il potere di loro padre senza troppi sforzi.
«Hai ragione, scusami, mi sono fatto prendere dal dubbio.» gli sorrise di rimano, si sgranchì le mani e fece un cenno verso la marea nera. «Vado a buttarmi nella mischia, vuoi che trovi anche le tue? Non mi pari uno a cui piace stare in mezzo alla gente.»
Il giovane biondo gli restituì un ghigno che, se fossero stati nemici, l’avrebbe fatto tremare.
«Sono felice che tu mi abbia subito compreso, fratello. Ti sarei grato se potessi occuparti anche dei globi che mi sono stati assegnati. Sembra che tu abbia molta smania di metterti all’opera.» notò alzando un sopracciglio.
L’altro annuì. «Sono stato fermo senza poter far nulla per anni, la mia iperattività però non è morta con me.»
«Non ho la più pallida idea di cosa tu stia parlando, ma sarò lieto di lasciarti anche il mio lavoro. Non sono mai stato propenso a far queste cose da me, avevo stuoli di spasimanti pronti a realizzare ogni mio più minimo desiderio.» gli spiegò affabile.
«Lo so, conosco la tua storia, l’ho studiata.» si piegò sulle ginocchia e raccolse la lunga lancia che aveva depositato a terra. La fece roteare un paio di volte, come a riconoscerla, e sorrise. «Sappi che è un onore poter parlare e lavorare con una leggenda come te. Hai dato il nome ad una costellazione.» gli disse ammirato.
Il giovane annuì, un poco più rigidamente. «Lieto che il mio nome sia ancora conosciuto.»
«Sei sui libri di storia. E poi, soprattutto per quelli come noi, è impossibile non conoscere il nome di Cicno il Crudele. L’hai fatta vedere nera a papà, l’hai maledetto per bene.»
Non vi era rancore nelle sue parole, non vi era biasimo o accusa, era solo una semplice costatazione dei fatti e Cicno si ritrovò a ghignare.
 
Oh, padre, ma allora fate ancora lo stesso errore. Continuante ancora a metter al mondo figli e a disinteressarvi di loro fino al momento del bisogno. Quale meschino vizio.
 
«Giurerei che non sia comunque quanto gli avevo augurato.» sentenziò alzando il mento.
«Probabile. Allora io vado, ti ritrovo qui quando ho finito?» gli chiese voltandosi appena per guardarlo.
Cicno annuì. «Certamente…» lasciò la frase in sospeso e lo fissò.
L’altro sorrise. «Michael.»
«Michael… certamente Michael. Nel frattempo, riporterò in vita una delle mie più antiche ed amate tradizioni: osserverò la plebe che si uccide con le proprie mani, uno spettacolo sempre avvincente. Non potrei perdermelo per nulla al mondo.» e così dicendo s’accomodò sull’erba nera, puntando gli occhi freddi sulle anime in tumulto.
Michael ghignò. «La parte oscura del Sole, eh?»
Stretta in mano la sua lancia saltò giù dalla collina: ora veniva il bello.
 



 
*







 
Cade aveva perfettamente sentito Eliza quando gli aveva detto di non allontanarsi da solo ed in effetti non l’aveva fatto. Dietro di lui, che lo seguiva agitato, Jonas pareva camminare sui cocci rotti di una vetrata d’arte. In effetti quell’immagine non era troppo diversa dalla verità.
Come avevano ipotizzato in molti, la prima carica delle anime aveva distrutto molte sfere ma Cade doveva ammettere che erano molte meno di quelle che si aspettava.
Alzando la testa verso l’alto cercò di scrutare le infinite praterie in cui erano dispersi i vari globi e sospirò pesantemente allungano una mano per afferrare la manica della camicia di Jonas.
 
«Stammi vicino.» disse quasi in modo distratto, continuando a contare le sfere che riusciva a distinguere tra i fili d’erba. Sembravano gigantesche gocce di rugiada viste così.
Jonas grugnì liberandosi dalla sua presa. «Sono qui, non mi strattonare.»
Ma l’altro neanche lo stava ascoltando. «Faccio un salto per vedere meglio la situazione, vieni con me o rimani a terra?»
A quella domanda il ragazzino si voltò di scatto a guardarlo, le sopracciglia crucciate e lo sguardo allarmato.
«Che vuol dire “rimani a terra”?» chiese sporgendosi verso di lui.
Di nuovo Cade non prestò la minima attenzione alle sue parole, captandole solo come un suono di fondo. S’allungò per stringere un braccio attorno alla vita di Jonas, tirandoselo contro come farebbe un adulto con un bambino. Non ascoltò le sue proteste, convinto che anche se per poco tempo era meglio non lasciarlo lì in basso da solo.
Se lo sistemò meglio addosso, portandosi le sue braccia attorno al collo e dicendogli a mala pena di star zitto e fermo. Ristrinse le braccia attorno ai suoi fianchi, si piegò sulle ginocchia e saltò.
 
«Cade! Che cazzo stai facendo? Ma che vuoi? Togliti di mezzo, non mi stringere così! Cade! Si può sapere che accidenti ti è-WOOO!»
Con un riflesso del tutto incondizionato Jonas serrò la presa attorno al collo di Cade, si strinse a lui e nascose il volto contro il suo collo, serrando gli occhi per contrastare la strana sensazione di vuoto e la paura che l’avevano preso nel momento in cui aveva sentito i propri piedi staccarsi da terra.
«CADE!» urlò, la voce attutita dalla stoffa ruvida e spessa della giacca del rosso.
«Apri gli occhi, uccellino, non è il tuo primo volo questo.» gli disse con semplicità.
Seppur contro voglia Jonas aprì piano gli occhi, senza azzardarsi a muoversi troppo dalla sua posizione. Non si era avvinghiato al compagno come un koala solo perché aveva ancora una po’ di dignità dopotutto, ma non poté far a meno di rimanere stupito alla vista che gli si parò davanti.
Era davvero uno spettacolo incredibile, quel mare nero puntinato di luci e se solo non ci fossero state in mezzo tutte quelle anime agitate sarebbe stato ancora più bello.
«Come pensavo.» mormorò Cade.
Non disse nulla ma annuì piano, probabilmente il compagno stava pensando esattamente quello che pensava lui: lo spettacolo era bellissimo, i globi ben visibili sull’erba nera, ma saltava immediatamente all’occhio che per il numero di anime ancora in gara i globi presenti erano davvero, davvero pochi. Questo poteva significare una sola cosa.
«Il campo di ricerca è sconfinato.» sussurrò con un groppo in gola mentre Cade, lentamente, li faceva tornare a terra.
Sciolse piano la stretta attorno al suo corpo e annuì. «Vuol dire che i nostri ricordi potrebbero trovarsi qui come a miglia e miglia di distanza, porca puttana.» Cade calciò la terra e dai fili d’erba salirono frammenti di quello che sembrava vetro come fossero granelli di sabbia.
Jonas rimase a fissarli immobile, distante. Quelli potevano anche essere i suo di ricordi per quanto ne sapeva. Erano le sfere più vicine alla vallata e se qualcuno avrebbe potuto pensare che era una fortuna aver la propria all’inizio del tracciato, il risvolto della medaglia stava nel fatto che erano anche le sfere più vulnerabili.
«Chi potrebbe mai fare una cosa del genere?» domandò a nessuno.
Cade si voltò a guardarlo e strinse le labbra. «Dannati, Asfodeli, Beati. Chiunque può averlo fatto, volontariamente o meno.» rispose secco.
«Pensavo che i Beati fossero gente per bene.» gli fece notare spostando lo sguardo su di lui.
Cade sogghignò allargando le braccia. «Sono la prova vivente – o morta – che non è necessariamente così. Non devi essere un santo per finire negli Elisi, non devi neanche essere stato un martire, un uomo di fede, una persona buona. Per finire dei Campi bianchi devi solo aver fatto una vita che, alla fine dei conti, risulterà esser meritevole. Puoi anche redimerti in una botta sola.» disse stringendosi nelle spalle.
«Vuoi davvero farmi credere che un’anima reputata “meritevole” della pace eterna farebbe questo?» Si piegò sulle caviglie e raccolse una manciata di frammenti, mostrandoglieli e lasciando che gli scivolassero poi tra le dite.
Cade però non parve minimamente impressionato, mantenne la sua aria scanzonata e si piegò verso di lui per soffiar via un po’ di polvere rimastagli sulle mani.
«Credi che i nostri soldatini non distruggerebbero delle sfere se questo significa avvantaggiarsi nella gara? È semplice logica, strategia. Se ora ci mettessimo a distruggere ogni singolo globo che troveremo sul nostro percorso, per ognuno di loro, avremmo un avversario in meno.» inclinò la testa e gli soffiò in faccia, facendogli chiudere gli occhi e storcere il naso. «Anche i buoni fanno questi pensieri, gattino.»
Jonas sbuffò e gli diede uno spintone per allontanarlo. «Non chiamarmi così. E poi io non farei mai una cosa del genere e neanche te.» sentenziò sicuro. Si raddrizzò i vestiti e lo superò, verso il prato più aperto.
«Muoviamoci!» ordinò perentorio.
Ma Cade non si mosse. Infilò le mani nelle tasche e guardò lontano dal compagno, improvvisamente serio.
«Chi te lo dice?» domandò a voce alta.
Jonas si voltò a guardarlo, l’espressione scettica.
«Puoi continuare a dirmi che hai fatto delle scelte sbagliate in vita tua, ma mi hai appena detto che alle volte basta una singola azione per redimersi. Se sei finito nei Campi Elisi di certo ci sei riuscito meglio di me.» e con questo si allontanò, informandolo d’aver avvistato Úranus e che era meglio raggiungere lui.
L’irlandese rimase però nella stessa identica posizione, senza muovere un muscolo. Lo sguardo ora puntato a terra.
Tra i fili d’erba nera brillava fioca una piccola sfera dai colori vividi. Cade le si avvicinò, fissandola dall’alto senza la minima intenzione di toccarla.
La sfera iniziò a pulsare, dentro di lei i colori ruotarono sino a formare una scena che Cade aveva visto centinaia di altre volte, vissuta da centinaia di persone diverse.
Nell’immagine una ragazza gridava a pieni polmoni, piangendo disperata mentre qualcuno la teneva ferma. Un violento ceffone le fece girare la testa, la visuale della scena fu spinta di colpo di lato e Cade poté vedere la stanza lurida in cui era stata trascinata. Sulla porta sbarrata un ufficiale di qualche regno, la divisa impeccabile ed il volto impassibile. Lo vide muovere le labbra, dire qualcosa agli altri uomini nella stanza. Uno di questi afferrò il volto della giovane, un uomo gretto, nerboruto. Il secondo schiaffo Cade poté quasi sentirlo sulla sua stessa pelle.
I personaggi di quel ricordo non parlavano, le loro bocche erano mute, ma i suoni e le immagini erano vivide come se fossero reali.
Cade poté sentire benissimo il rumore della stoffa che veniva strappata via, i colpi delle gambe della ragazza che sbattevano contro il piano di un tavolo nel vano tentativo di liberarsi. Rumore di ferro, lo scoppiettio del fuoco e poi il suono inconfondibile della pelle che brucia.
Nella visuale annebbiata dalle lacrime Cade riuscì a scorgere il viso quasi divertito del carnefice di quella povera anima che le diceva qualcosa. Con una precisione possibile solo nei sogni il ragazzo seppe per certo che le stava intimando di rivelargli qualcosa o le avrebbe fatto molto più male di quello che provava in quel momento. Ma allo stesso modo sapeva perfettamente che quel “qualcosa” lei non lo sapeva.
Se si fosse visto da fuori Cade si sarebbe reso conto che sul suo volto era apparsa la stessa espressione impassibile che aveva il soldato in quel ricordo. Vuota.
Non disse nulla, non batté le palpebre, si costrinse a non respirare per un lungo momento.
Quelli erano gli avvenimenti che avrebbero portato alla morte della ragazza a cui il ricordo apparteneva, che attualmente non immaginava neanche le atrocità che aveva dovuto subire.
Cade alzò il piede e lo abbatté con forza sulla sfera. Il suono fu quello di una vetrina infranta. Le immagini esplosero, i fumi intrappolati nel globo s’alzarono in rivoli ora pallidi verso il cielo roccioso.
 
Mi spiace deluderti ragazzino.
 


 
*
 




Lea ed Úranus procedevano a passo spedito tra le anime intente a guardare sfere e a litigarsele.
Non avevano la più pallida idea di come fare a trovare le loro, di come riconoscerle tra tutte quante e se Lea avesse dovuto dire la verità, era terrorizzata all’idea che qualcuno distruggesse la sua.
Avevano già visto qualcuno farlo, avevano visto anime gettare con noncuranza sfere evidentemente altrui, altre ancora inciamparci sopra per sbaglio, schiacciarle nella calaca, o senza vederle tra l’erba.
La giovane si era rimboccata le maniche, pronta sul piede di guerra, quando aveva visto un uomo lanciare via un globo luminescente dopo esser rimasto a fissarlo per un lungo tempo. Fortunatamente Úranus aveva avuto la prontezza di impedirglielo.
 
«Quello che fanno è meschino ed ignobile, ma non possiamo permetterci di affrontare ogni anime che distrugge una sfera.» le aveva detto con serietà.
E Lea lo sapeva, sapeva perfettamente che non potevano farlo, ma era una vera ingiustizia e lei lo odiava profondamente.
«Vorrei solo che la gente si facesse gli affari propri. Se il ricordo non è tuo perché distruggerlo?» ringhiò cercando di cambiare strada.
Fino a quel momento erano stati fortunati, non avevano incontrato grandi scontri o problemi, nessuno si era accanito contro altre anime, pareva solo che tutti volessero trovare la propria al più presto, prima che altri la rompessero, e magari nel mentre eliminare qualche concorrente. Ma non c’erano stati spargimenti di sangue, o per lo meno, non da quel lato delle Praterie.
«Spero che gli altri se la stiano cavando bene. Penso che lasciare Cade e Jonas da soli sia stato un grave errore.» mormorò più a sé stessa che all’altro.
Úranus la guardò accigliato. «Perché dici questo? Cade mi è parso un giovane valoroso. Ricorda che è stato lui ad allontanare quelle spire.» le fece notare.
Lea annuì. «Lo so, lo so, non dubito che sia forte, però… non o so, sarò solo ansiosa io.»
Si strinse nelle spalle e si morse la lingua: non poteva certo dire ad Úranus che era preoccupata che Cade potesse infilarsi in qualche pasticcio e portarsi dietro Jonas, che temeva che sarebbero potuti rimaner feriti e morire – di nuovo – in quella stupida gara.
Cade le aveva detto che non voleva che gli altri perdessero la fede, la speranza di poter tornare a vivere, e malgrado non lo conoscesse benissimo si fidava abbastanza da sapere che avrebbe fatto di tutto per supportare i suoi compagni, specialmente il ragazzino. Ciò nonostante, l’ansia del sapere che lui sapeva, l’ansia di essere l’unica altra detentrice di quel gravoso fardello, non la lasciava in pace.
Avrebbero dovuto dividersi in due gruppi, non in tre. E soprattutto quel coglione di Nathan avrebbe dovuto evitare di far squadra con Eliza e andare con i ragazzi. O mandare proprio la soldatessa.
Lea ancora doveva abituarsi a quest’idea ma ormai si era messa il cuore in pace: avrebbe preso Eliza da parte, prima o poi, e si sarebbe fatta raccontare tutto. In ogni caso, quella divisione, non le andava bene. Certo, avevano scelto i gruppi che funzionavano meglio assieme, e la povera figlia di Nike era l’unica che riuscisse a tener testa al soldato da strapazzo e alla ragazza delle Praterie, però-
Dannazione, iniziava a parlare come Cade.
Storse il naso e prese un respiro profondo, cercando di calmarsi.
Agitarsi non serviva a niente, specie se si aveva al proprio fianco una torre parafulmini per la paura, il nervosismo e l’ansia.
Gettò uno sguardo di sottecchi ad Úranus, domandosi se potesse sentire i suoi pensieri, o per lo meno le sue sensazione. Aveva ragionato sulla faccenda e si era detta che se il suo amico era in grado di scatenare forti sentimenti, per lo più negativi, negli animi della gente, forse poteva anche percepirli.
Avrebbe potuto sentire la sua paura, i suoi dubbi e-
 
Quelli di un ricordo inerente ad una morte?
 
Lea si fermò di colpo, dando una manata sul petto all’altro per attirare la sua attenzione.


«I tuoi poteri!» trillò improvvisamente felice.
Úranus la guardò perplessa. «Posso giurarti sul mio onore che qualunque cosa tu stia provando in questo momento non è causata da me.» mise subito le mani avanti il ragazzo, preoccupato all’evenienza che la sua amica potesse accusarlo di una cosa del genere.
Ma la giovane scosse la testa e fece un gesto vago con la mano. «No, non hai capito! Se tu puoi far sì che la gente provi… determinate cose…»
«Come tristezza e disperazione?» domandò incerto. Non gli piaceva dove stava andando a parare quella conversazione.
«Esatto! Se puoi scatenare queste cose nelle persone, puoi anche individuarle?»
L’islandese la guardò perplesso, le sopracciglia aggrottate e gli occhi socchiusi: cosa gli stava chiedendo?
Poi realizzò:
«Vuoi che usi i poteri divini di mio padre per scovare le nostre sfere?»
«Sì! Pensi di poterlo fare?» gli chiese con gli occhi lucidi d’emozione.
Úranus però la guardò rammaricato. «Lea, hai pensato che i sentimenti che mio padre è in grado di generare nell’animo umano possano non esser quelli legati ai nostri ricordi rubati?»
Quella domanda così innocente ed estremamente logica fece quasi cader le braccia all’altra.
«Oh.» disse solo abbassando il capo. «No, non c’avevo pensato per niente.»
Úranus le sorrise incoraggiante. «Posso comunque fare una prova e se la mia discendenza divina non dovesse bastare, potremmo chiedere al giovane Jonas, o a Jane.» provò a consolarla.
Lea però scosse il capo. «Non penso possa funzionare, oltre Nathan tu sei l’unico che è stato davvero addestrato ad usare i suoi poteri divini. Mio fratello non ha insegnato tutto a me e Cade sa ciò che ha imparato vivendo. Eliza potrà al massimo infonderci un po’ della grazia di sua madre e Jane… beh, esattamente come Cade, penso sappia solo ciò che ha imparato da sé.» sospirò.
Il giovane però le mise una mano sulla spalla. «Non abbatterti, proveremo di tutto. Per ora, lascia che sia io il primo ad agire.»
Lea gli regalò uno sguardo pieno di gratitudine e annuendo con vigore si scosse da quella sua improvvisa tristezza.
«Sì, hai ragione. Facciamolo!»
 
Il rituale era sempre lo stesso: concentrarsi per percepire ciò che lo circondava, non lasciarsi prendere dal panico oppure il suo potere si sarebbe imposto anche su di lui e sarebbe stata una vera catastrofe.
Úranus chiuse gli occhi, sicuro che Lea li avrebbe tenuti ben aperti al posto suo.
Ispirò dal naso e poté sentire i peli della sua barba muoversi contro le labbra. Sorrise.
Doveva concentrarsi su pensieri negativi, sulle paure più nefaste che un cuore poteva ospitare e lasciarsi inghiottire dalle ombre, affidarsi a queste e ai fili fumosi che si tendevano da un animo all’altro. Per la prima volta in vita sua però, o nella sua morte, Úranus cercò i fili che si collegavano a qualcosa di famigliare, a qualcosa di conosciuto.
Cercò la sua famiglia, cercò il dolore cocente che l’aveva distrutto quel maledetto giorno, ma non trovò nulla. Si accigliò: non era questo, il suo ricordo rubato non era inerente al suo ultimo giorno di vita. Perché?
Strinse di più gli occhi ed inclinò leggermente la testa, dietro le sue palpebre un’infinita rete di fili si annodava fitta come la tela di un ragno, mischiandosi ed intrecciando storie, pensieri, sentimenti, vite. In mezzo a tutto quel dolore, a quel tormento, a quella desolazione, Úranus si domandò se valeva la pena recuperare un ricordo del genere, se per molti non fosse meglio vedersene privare per sempre.
Si stava incurvando su sé stesso, sentiva il peso di quelle oscure voragini che gli si aprivano nel petto, sentimenti non suoi ma che lui stesso poteva amplificare, poteva riportare a galla.
La paura. La paura di ogni cosa, di ogni essere. Di avere, di perdere. Di perdere tutto.
 
“Non posso abbandonarla! Non posso andarmene come se niente fosse!”
 
Úranus aprì di scatto gli occhi, lui la conosceva quella voce! Era lontana, era passata, era di una vita fa, ma lui la conosceva, la conosceva benissimo!
Fissò lo sguardo dritto in quello verde chiaro di Lea e neanche si accorse di aver preso le sue mani nelle proprie. Le sorrise, ancora un po’ timido ed incerto ma più sciolto, più sincero di quanto non lo fosse mai stato: forse, per la prima volta, i doni di suo padre l’avrebbero aiutato a fare del bene.
«Ho trovato Nathan.»
 
 
Elena si guardò attorno, cercando qualcosa che potesse rassomigliare a ciò che gli aveva descritto Úranus.
 
«Una sensazione di impotenza, la paura di perdere tutto per colpa di una costrizione a cui non si può sottrarre.»
 
Aveva una vaga idea di cosa potesse essere quel ricordo e probabilmente, oltre a Nathan stesso, lei era l’unica che avrebbe potuto individuarlo a colpo sicuro.
Lea e Nathan si erano – sfortunatamente – incontrati nei Campi Elisi. Oltre le grandi mura bianche la figlia di Apollo, in un giorno come migliaia di altri già passati, senza inizio né fine, era uscita per chiedere a Shilon Yu se per caso non avesse visto suo fratello, passando poi ad ammirare i fiori sempre sbocciati nei prati circostanti. Un attimo annusava una grande margherita e l’attimo dopo litigava con un ragazzo biondo, palesemente in divisa militare, che asseriva che quella non fosse una margherita ma una pratolina.
Era dovuto uscire Shilon Yu dal suo botteghino per chieder loro di mantenere la calma e dal modo in cui Nathan si era fatto subito silenzioso Lea non c’aveva messo molto a capire che non era la prima volta che si scontrava con la Guardia Imperiale.
Tempo dopo – quanto? – la madre del giovane le avrebbe confermato che al suo arrivo ai Campi Elisi il figlio aveva avuto la sciocca idea di chiamare l’uomo “brutto muso giallo”.
Lea ricordava alla perfezione il volto di Alexia, l’aveva vista in giro per i Campi con la sua famiglia più di una volta, si era fermata a parlare con lei, aveva preso a schiaffi il figlio quando faceva il cretino e l’aveva autorizzata a picchiarlo anche per lei.
Poi un giorno l’aveva incontrata proprio davanti alle margherite che le avevano fatto conoscere il figlio di Ares e con voce gentile, malinconica ma incredibilmente risoluta, l’aveva salutata, annunciandole che sarebbe tornata a vivere.
 
«Ho intenzione di rinascere, tornare sulla Terra e rifare tutto da capo. Non ha senso rimanere qui ad attendere quando abbiamo un’altra possibilità.»
«Ma così si perdono tutti i ricordi. Rinascere significa bagnarsi nel Lete e-»
«Dimenticare. Sì, lo so.» aveva sorriso. «Ma forse, tornare su e cercare di far di meglio è il vero senso della nostra esistenza.»
 
Non le era stato difficile ricollegare le parole del suo amico alla madre del biondastro ed ora che stava per trovarsi tra le mani un frammento della vita del suo compagno d’avventura più odiato provava quasi un senso di disagio.
Lea conosceva la storia, a grandi linee, sapeva ben o male cos’era successo a tutta la famiglia Wright e le sembrava quasi un’invasione poter anche vedere un ricordo ad essa legato.
Alzò la testa da terra per individuare Úranus a pochi metri da lei. Il ragazzone sembrava del tutto a suo agio invece ma Lea ci scommetteva che questo fosse dovuto solo alla felicità dell’esser riuscito a rendersi utile senza gettare nessuno nel panico questa volta.


«Trovato nulla?» gli chiese ad alta voce, facendo attenzione a spostare con delicatezza un globo da cui proveniva il forte rumore del mare in tempesta.
Quando non ricevette risposta riportò l’attenzione sull’altro e alzò un sopracciglio curiosa.
«Úranus?» chiamò ancora.
I giovane si era chinato a terra, poggiando il ginocchio tra l’erba nera, gli occhi fissi su qualcosa di lucido, di luccicante.
Preso!
 
 
 
La vecchia cucina aveva assistito a tante di quelle cose che, se solo fosse stata in grado di parlare, l’avrebbe fatto per anni interi.
Era stata testimone di semplici pasti, di chiacchierate notturne, di complicate preparazioni e placidi caffè bevuti in santa pace. Era lì che Alexia faceva sedere Nathan da bambino, da adolescente, quando tornava a casa con nuovi lividi, nuovi tagli, nuove ferite. Quando era stato attaccato per la prima volta da un mostro era stato sul tavolo laccato di rosso che la donna aveva depositato il figlio, che gli aveva somministrato l’ambrosia, che l’aveva abbracciato, pregando gli Dei di salvarlo e di non porre fine alla sua vita così presto.
Erano passati anni da quel giorno nefasto eppure Alexia continuava a chiamare il suo bambino – non più così piccolo e non più innocente – in quella stanza per discutere delle cose importanti.
Con sguardo vacuo puntato su di un alone sulla superficie ormai graffiata del piano rosso, la donna era persa nei suoi ragionamenti, dell’esaminare la dura e crudele realtà dei fatti.

Alzò lo sguardo su suo figlio, fissandolo senza timore, senza paura, risoluta com’era sempre stata in tutta la sua vita. Come quando l’aveva messo al mondo, come quando aveva passato ogni sera a perlustrare il perimetro di casa per cercare eventuali mostri, come quando gli aveva insegnato a combattere, a difendersi, come quando gli aveva insegnato a vivere, ad essere una persone forte. Come quando l’aveva lasciato andare.
Era già successo, lo sapevano entrambi, potevano affrontarlo di nuovo, tutti e tre.

La donna aprì la bocca ma nessun suono vi uscì. Le sue labbra si muovevano con calma e lui abbassò lo sguardo sotto il peso di quelle parole, potendo osservare solo i suoi stessi pugni chiusi ed il petto che si alzava ed abbassava velocemente.
Le rispose, le disse quello che pensava e c’era furia nei suoi movimenti, ce ne era nelle sue parole afone e nei sussurri inudibili.
Poi lei le disse qualcosa di assolutamente vero e assolutamente doloroso.
Sì, lo sapeva, lo sapeva benissimo.
Voltò lo sguardo verso la porta della cucina, da lì poteva intravedere il salone, la camera da letto aperta ed un angolo del letto matrimoniale. Poteva scorgere un cuscino alto e delle coperte ma non chi vi dormiva sopra. Eppure sapeva per certo che la sua scelta l’avrebbe devastato.
Muto come un vecchio filmato in bianco e nero, diede le spalle a quella stanza e si voltò di nuovo verso sua madre: Alexia lo fissava immobile, consapevole della sua scelta.

La scelta che avrebbe decretato la sua fine.
Era la prima volta che vedeva sua madre piangere. Sarebbe stata anche l’ultima.

 

 
*




Fece forza contro la spalla del compagno e si diede la spinta per calciare con precisione l’anima davanti a lei.
Eliza si portò velocemente in posizione difensiva e Nathan, dietro di lei, scorse con la coda dell’occhio la figura perfetta di un pugile che attende solo che l’avversario si rialzi.
La figlia di Nike ringhiò a denti stretti, chiedendosi perché lei ed il soldato dovessero sempre ritrovarsi in situazioni del genere, che fosse il loro senso di giustizia?
Era successo proprio quello che temeva: erano incappati in un gruppo di anime che, alla ricerca del proprio ricordo, distruggevano senza pietà quelli degli altri, li calpestavano, li gettavano via.
Se lei in un primo momento era riuscita a trattenersi, cercando di caprie cosa potesse fare in quella situazione, Nathan non si era fermato a riflettere e si era buttato a testa bassa tra di loro, sferrando un destro dritto nello sul fianco di una di quelle anime, urlando loro di togliersi dal cazzo e non rompere le palle. Eliza l’aveva trovata una scelta di parole poco apprezzabili per la volgarità ma di certo precise e… in tema? A quel punto poi, inutile negarlo, anche quell’ultimo brandello di buon senso che le era rimasto si era ritirato e, insomma, tanto Nathan c’era dentro fino al collo no? Che faceva lei? Rimaneva a guardare?
Certo, ritrovarsi circondati da un gruppo formato da una decina di anime non era proprio il suo sogno, ma potevano affrontarle, avevano fatto la guerra entrambi per l’amore del cielo!
Ancora una volta schiena contro schiena con il compagno, Eliza analizzò la situazione e si rese conto che, proprio come nel Labirinto, erano in minoranza e svantaggiati: alcune delle anime davanti a loro erano armate e di certo non avrebbero atteso gentilmente di scontrarsi in un uno contro uno.
Nathan imprecò.
 
«Che pezzi di merda, non vedo l’ora di farli a fette»
«Direi che abbiamo molte più probabilità di finirci noi. A meno che non riusciamo ad impossessarci di una delle loro armi.» disse seria.
Il figlio di Ares annuì. «Puntiamo subito quelli armati, gli sottraiamo l’arma e ce la prendiamo. Poi facciamo una carneficina.»
Eliza annuì, lo sguardo che volava fuori dal cerchio d’anime, cercandone un’altra che si era allontanata da loro giusto in tempo per non rimaner coinvolta in quella specie di rissa.
«Dobbiamo trovare anche Jane.» lo informò infatti.
Nathan imprecò ancora. «Ci mancava pure quella stronza ora.»
«Nathan…» disse solo, l’ammonimento ben presente nella sua voce.
«Non dirmi “Nathan”! È una stronzetta che pensa solo a sé stessa, palesemente opportunista e scommetto anche doppiogiochista. Sua madre è esperta nell’ingannare il prossimo dopotutto.» ringhiò.
Ma ad Eliza proprio non andava di discutere di questo adesso. Le anime attorno a loro si stringevano sempre di più, dovevano agire in quel momento o mai più.
«Sei pronto? Io ho una lama davanti.»
«Scimitarra.» grugnì a bassa voce.
Eliza fu tentata di girarsi e guardarlo storto. «Ti pare il caso di puntualizzare?»
«Sono il figlio del fottuto dio della guerra, non è colpa mia se le armi le percepisco, cazzo.»
«Non me ne frega niente se le percepisci o meno. Cos’ha il tuo rivale?»
«Pistola o coltello a serramanico. Sto quasi rimpiangendo l’aver lasciato andare rosso malpelo da solo a cercare il suo cazzo di coltellino di merda e non essermi fatto portare dal mio mitra.» 
«Beh, ora è troppo tardi. Al tre.» disse mettendosi in posizione.
Nathan annuì. «TRE!»
Si slanciarono entrambi davanti a loro, puntando le armi che avevano visto. Quel minimo di sorpresa generata negli altri consentì a mala pena a Nathan di mettere una mano sulla canna della pistola e spingerla di lato, prima che il tipo premesse il grilletto ed esplodesse un colpo verso uno degli altri lì presenti. Non badò al grido ferito di quell’anima e al modo in cui si accasciò per terra, Nathan si spostò veloce per dare la pistola sul naso del suo possessore, prima di doversi gettare a terra per evitare la carica di altre due anime ed un affondo da parte del coltello.
«Merda!»
 
Dietro di lui Eliza aveva sferrato un pugno dritto sullo zigolo dell’anima con la sciabola, facendola barcollare e perdere la presa sull’arma su cui però un uomo mise il piede per impedirle di raccoglierla.
«Se è così facciamo al vecchio modo!»
Afferrò il braccio del tipo e lo torse con forza, illudendosi persino di aver sentito il rumore delle ossa che si rompevano. Lo spinse contro i suoi compagni e si tirò indietro per riavvicinarsi al suo.
Si ritrovarono di nuovo schiena contro schiena.
«‘Sta scimitarra?» le chiese lui con il fiato corto.
Eliza alzò un sopracciglio. «Insieme alla pistola e al coltello, presumo.» rispose acida.
Quello non era di certo il momento migliore per mettersi a litigare, dovevano pensare al più presto ad un piano ma di punto in bianco un suono attirò l’attenzione di tutti.
Un sibilo brecciò nell’aria e ben due anime s’accasciarono al suolo improvvisamente immobili.
Qualcuno urlò, qualcuno si volse per vedere cosa fosse successo, da dove arrivasse il colpo, ma dietro di loro solo la prateria scura e qualche altra anima in lontananza.
Un secondo sibilo e altre tre anime caddero prive di coscienza. Un terzo e tutte quelle rimaste fecero la fine dei loro compagni.
Nathan ed Eliza rimasero in posizione, nessuno era apparso, nessuno se ne era andato, da lontano, nessuno li guardava.
Nessuno.
 
Ma che cazzo…?
 
«Sei stato tu?» chiese Eliza avanzando di un passo verso l’uomo con la scimitarra.
Nathan dietro di lei scosse la testa. «Quindi non sei stata neanche tu.» mormorò, poi si volse a guardarla, «La stronzetta delle Praterie?» domandò alzando un sopracciglio.
L’altra lo guardò male, pronta a riprenderlo per quel suo modo del tutto maleducato, ma prima che potesse farlo il figlio di Ares chiamò Jane a gran voce, lasciando che il suono si propagasse per tutta la zona circostante.
Gli ci vollero altri tre urli ben calibrati per far sì che, lentamente, la figura grigiastra di Jane apparisse davanti a loro, del tutto scocciata e anche vagamente affaticata.
 
«Che ti prende ora? Per chi mi hai preso, per un cane? Spero per te che abbiate trovato una delle nostre sfere o-» iniziò lei con rabbia.
«O cosa? Non puoi farmi niente, sei un grissino cazzo, mi domando come sia possibile che nessuno t’abbia mai spezzata in due.» sbottò di rimando Nathan.
Jane lo guardò male. «Qualcuno ti ha rubato il giocattolo, ragazzino? Che gli prende?» domandò di nuovo, rivolgendosi questa volta ad Eliza.
Lei sospirò ed indicò con la testa le anime a terra.
Jane batté le palpebre impassibile. «Bene, complimenti, bel lavoro. Spero non mi abbiate chiamata per farvi dire quanto siate stati bravi.»
«Senti, piccola stron-»
«Non siamo stati noi.» lo interruppe la mora. «Ne abbiamo atterrati un paio ma non siamo stati noi a ridurli in quel modo. Abbiamo sentito un sibilo, poi sono caduti. Pensavamo che magari potessi esser stata tu con la tua magia.» spiegò semplicemente.
Jane rimase ferma immobile, fissò con attenzione improvvisa gli altri concorrenti e scosse la testa lentamente. «Credete che sia opera di un figlio di mia madre, che sia magia?»
«Mi duole ammetterlo, ma non ho la più pallida idea di cosa sia successo. Ai miei tempi non esistevano armi in grado di atterrare i nemici in questo modo, velocemente e senza lasciar tracce.» disse piano prima di chinarsi a raccogliere la scimitarra. La soppesò e la infilò nella cinta.
«Sapresti riconoscere un incantesimo di un tuo fratello?»
«Non è magia di Ecate, non mi pare proprio. E pure ai tempi miei non c’erano armi che non lasciassero neanche un segno. Magari una puntura, come un narcotico. Oh! Controlla se hanno buchi sul collo, o freccette!» urlò il soldato ad Eliza.
La figlia di Nike alzò un sopracciglio scettica. «Come i dardi avvelenai dei pellerossa?»
Nathan annuì. «Tipo. La teoria è quella, ma da me ne avevano fatti per esser sparati dai fucili e dalle pistole, si usavano per addormentare i grandi animali, per portarli negli zoo o per studiarli.»
Jane si accigliò. «Cos’è uno zoo?» domandò ad Eliza.
La ragazza però la guardò dubbiosa. «Qualcosa con gli animali?»
Il soldato le mandò al diavolo entrambe e controllò i corpi vicino a lui. Era incredibile come sembrassero essere veri, gli parevano persino caldi, proprio come persone vive. Ovviamente non respiravano, ovviamente non avevano battito cardiaco, ma per un attimo Nathan credette davvero che fossero morti una seconda volta.
In ogni caso, non vi era nulla di sospetto.
Grugnendo ed imprecando quanto gli pareva, tanto Eliza era lontana per sentirlo, il biondo avanzò tra l’erba nera, osservando tutti quei frammenti grossolani e finissimi in cui si erano trasformate le sfere. Sentì un vago fruscio alle sue spalle, qualcosa di famigliare ma incredibilmente distante nel tempo, cos’era? Si volse di scatto ma non vi era null’altro che erba nera, pezzi di coccio, anime “morte” e le sue compagne di squadra che controllavano i corpi. Da dove diamine veniva allora quel dannato suono?
Quando si pose quella domanda realizzò che effettivamente era proprio un suono distinto ed era così famigliare perché l’aveva sentito centinaia di volte.
 
Interferenza radio.
 
Nathan s’accucciò a terra, finendo in ginocchio a tastare senza posa i ciuffi erbosi. Se lui lo poteva sentire e distinguere così bene forse era perché quel suono gli apparteneva? Che fosse riuscito a trovare il suo ricordo?
Un moto d’euforia gli si allargò nel petto: cosa aveva dimenticato? Era un frammento dei giorni in Vietnam? Era la mattina in cui si erano preparati? Quella in cui era arrivato al campo? Quella in cui era partito? Cos’era? Perché rubargli proprio quel ricordo? In che modo era inerente alla sua morte? Era stato quello il momento fatale in cui aveva firmato la sua condanna? Voleva vedere, voleva sapere, voleva riprendersi quella parte di sé.
 
Dopotutto non ci rimane che questo, il ricordo di ciò che siamo stati.
 
 Si bloccò quando avvertì la consistenza solida di un oggetto tondeggiante sotto le mani. Si sedette sui talloni e, quasi con timore, afferrò quella sfera giallognola che pareva fatta di zucchero. Al tatto la superficie era liscia e ruvida al contempo, gli ricordava quei vetri satinati, opachi, composti da centinaia di piccoli puntiti che, messi assieme, formavano una lastra lineare. Emanava un vago calore, il vetro – se si trattava di questo – era fresco, ma dal suo interno il ricordo generava un tepore rassicurante. I colori erano sbiaditi come quadri lasciati al sole, si muovevano pigri, vorticavano su sé stessi confondendo oggetti, allungando ombre e raggi. Era ipnotico, era rilassante, era famigliare e vivo, così vivo. Era suo? Era il suo ricordo? Ma come poteva un ricordo di morte essere così piacevole?
Non appena posò anche l’altra mano sulla sfera questa iniziò a pulsare, le scie si mossero più velocemente e finalmente i contorni di un mondo, di una vita passata gli apparvero chiari davanti agli occhi.
Purtroppo per lui, però, quello non era il suo ricordo. Ma non era neanche quello di un estraneo.
 
 
 
Il corridoio era buio, la luce non riusciva ad illuminare il pavimento di cotto e si stagliava solo sul muro, una lama gialla come una fiamma flebile.
Nello studio poco illuminato due figure si fronteggiavano come se stessero discutendo di qualcosa della massima importanza.
Si mosse a disagio per la stanza, l’energia repressa di ogni semidio che si agitava inquieta nel suo corpo. A far da sottofondo a quella scena il rumore che aveva superato la barriera della sfera, non un’interferenza radiofonica ma il sibilo della lampada ad olio, lo scoppiettio del carbone della stufa, il gocciare di un rubinetto mal chiuso.
L’uomo davanti a lei aveva il volto stanco, affaticato dallo sforzo fisico ma anche da quello mentale, era esausto emotivamente ma era anche furioso. Stavano litigando di certo, su questo non c’era dubbio, così com’era indubbio che i due si conoscessero bene, che ci fosse un forte legame tra di loro, quasi parentale, famigliare.
La ragazza batté un piede a terra, frustrata dalle parole che l’altro stava pronunciando e che nessuno poteva sentire. Parole di rabbia, parole di paura.
Ma non importava, non importava più nulla. Qualcuno doveva fare qualcosa, qualcuno doveva alzare la testa anche se nel suo piccolo, anche se non sarebbe servito a nulla.
Salvare qualcuno, una sola miserabile vita, avrebbe portato un po’ di buono in quel mondo, in quel periodo oscuro che stavano vivendo, così vicino alla guerra eppure così lontano da essa.
Non che l’uomo glielo avrebbe permesso, non le avrebbe mai dato la sua benedizione.
Giuseppe scosse con violenza la testa. No, la sua risposta era no, non avrebbe lasciato che uscisse da quella porta per andare a rischiare la sua vita. Non era un soldato, non era una semidea addestrata a difendersi, avrebbe solo rischiato di morire e di portare altri con sé.
E la vita di quelle persone? E la sofferenza? Le ferite che loro avrebbero potuto facilmente curare?
Ancora una volta lui scosse il capo, alzando le mani al cielo, ricordandogli chi era, chi erano, cosa avrebbero rischiato. La vita degli altri era un loro problema solo quando entravano nel loro studio, solo quando venivano chiamati per aiutare e quello non era il caso.
Lo sapevano bene entrambi che, in quel momento, nessuno si sarebbe messo a chiedere ad un dottore e alla sua infermiera di scendere in strada ad aiutare i feriti. I soldati non l’avrebbero permesso, non avrebbero concesso ai cittadini questo lusso.
Continuava a non importarle, continuava ad essere superfluo e stupido e la ragazza batté la mano sul lettino, urlando a pieni polmoni, indicando poi il caduceo simbolo dei medici, la pergamena appesa al muro, tutti gli strumenti, tutti gli oggetti che avrebbero potuto salvare vite. Le vite degli altri, anche a costo della sua.

Lo guardava dritto negli occhi quando Giuseppe disse qualcosa, poche parole che aprirono una voragine al centro del suo petto.
Elena guardò suo fratello, quello che per lei era stato un padre, con sguardo pieno di dolore.
Uscì dallo studio sbattendo la porta, precipitandosi nel corridoio nero.
Non avrebbe mai più messo piede in quello studio se non da morta.

 
 
Nathan batté le palpebre e chinò il capo.
C’era chi lottava imbracciando armi e chi decideva di farlo con garze e bende.
Il sacrificio di una vita per salvarne un'altra era sempre la dipartita più nobile che un eroe, un umano, potesse desiderare.
Ed era meglio che Lea Pozzi lo ricordasse al più presto.
 


 
*




 
Dondolò le gambe oltre il bordo di quella collinetta.
Era una sensazione curiosa quella di star di nuovo sull’orlo di un precipizio, ma guardando verso il basso poteva vedere perfettamente la terra curvare dolcemente sino ad unirsi alla vallata naturale che aveva accolto tutte le anime poco tempo prima.
Il fattore “tempo” gli sfuggiva ancora, non c’era modo per capire davvero dove fossero e in che momento, ma andava bene anche così, credeva.
Avvertiva una vago senso di frescura sui piedi, lì nell’Ade l’aria era sempre ben o male tiepida ed umidiccia, specie nelle parti più basse, ma in quel momento l’altezza doveva aver creato qualche corrente più piacevole.
I sandali di cuoio urtavano a mala pena la parete, le mani sprofondate nell’erba nera ed i capelli mossi da quella brezza leggera. Chiuse gli occhi godendosi il momento, passandosi la lingua sulle labbra asciutte per assaporare il gusto delle correnti, quello terroso del suolo ed uno più dolce, come il miele.
 
Zucchero.
 
Quella parola gli balenò veloce nella mente, ma non ne conosceva proprio il significato. Però… però ne conosceva il sapore, com’era possibile?
Rilassò le spalle e respirò a pieni polmoni, sentendo la cassa toracica espandersi e ritirarsi come la marea. La marea. La risacca. Lo scrosciare delle onde. Vicine e lontane. Sempre più vicine, sempre più lontane. Sotto i suoi piedi, sopra la sua testa. Il canto di un uccello, il fischio del falco che si butta a capofitto per prendere la sua preda. Il sole che scaldava la sua pelle, baciandola con amore, come il suo dio mai aveva fatto.
Riaprì gli occhi. L’azzurro lucido e limpido, il riflesso della luce sulla battigia, il sapore della sabbia e del sale, le braccia che si muovevano forti e fluide nel cielo, l’acqua che scivolava via, i passi infermi sotto il peso del suo corpo, la voce contraffatta che non riusciva a gridare, che non poteva parlare, non poteva dire.
 
Impotente.
 
Il luccichio del mare si trasformò nella distesa d’erba nera puntinata da migliaia di ricordi, erano così tanti che non avrebbe neanche saputo come contarli, ma ciò che sapeva, invece, era che non bastavano per tutte le anime presenti.
Già li vedeva, i primi corpi che iniziavano a sbiadire, a tornare ad essere ciò che erano prima di firmare quel contratto.
Per loro i giochi erano chiusi, per lui erano appena stati aperti.
Tra le sfere brillò d’improvviso un’altra luce, il riflesso che aveva visto prima impresso a fuoco nelle sue retine ora camminava davanti a lui.
C’era un ragazzo di media statura, con i capelli rossi come gli anemoni e la pelle chiara. Camminava saltellando, sfiorava il terreno di tanto in tanto ma pareva quasi volasse certe volte.
Sorrise: volava infatti.
Davanti a lui una ragazza con i capelli neri, corti, l’espressione dura e severa, poteva vederla in volto ma non riuscì a scorgere il colore dei suoi occhi.
A seguirla a pochi passi di distanza una ragazzetta insignificante, dalla lunga gonna logora e sporca, i capelli castani mal tagliati, scuriti dalla sporcizia forse. Ma non era una dannata, no, non lo era di certo, era una perduta, ed era anche figlia di chi poteva creare quella stessa foschia che l’aveva resa ciò che era. I figli di Ecate erano così palesi. Come lo erano quelli di Ares, pensò guardando il giovane biondo che camminava a passo di marcia verso la ragazza mora. Questa gli fece cenno di aspettare, indicando poi altre due anime che stavano arrivando nella loro direzione.
Un gigante anch’esso rosso di capelli e di barba, imponente nella sua statura ma quasi remissivo nel suo portamento. Così come tutti gli altri indossava abiti di un’epoca che non conosceva, ma poco gli importava. Il barbaro allungò un braccio verso il figlio di Ares e gli porse una sfera.
Sorrise di nuovo: il ragazzo doveva avere un minimo di nervi saldi, si sarebbe aspettato che saltasse addosso al ricordo e invece lo prese con lentezza e quasi con timore. Fece un cenno con la testa al barbaro e poi puntò immediatamente lo sguardo sull’altra figura giunta assieme al rosso.
Alta, bionda, fisico morbido, mai allenata probabilmente, ma indubbiamente una semidea, come lo erano tutti gli altri, una figlia di- Oh.
 
Salute a te sorella.
 
Le belle labbra morbide si stesero con grazia, un movimento che aveva affascinato così tanti da esser divenuto famoso in tutte le loro terre. Poi i labbri si schiusero ed il dolce sorriso ammaliatore divenne un ghigno famelico.
Bene, ci sarebbe stato da divertirsi.
Il bastardo di Ares fece un passo rigido verso la sua sorellastra ed estrasse da sotto il suo giaccone una seconda sfera, ponendola con delicatezza tra le sue mani. Poteva sentirlo da lì come quello fosse un momento importante, un tassello che finiva con precisione nell’enorme mosaico che il suo signore stava componendo con perizia. Era un legame di rispetto, uno dei più difficili da rompere.
Si leccò di nuovo le labbra, intrappolando quello inferiore tra i denti, stringendolo sino a farlo arrosare. Si sentiva come l’invitato d’onore ad un banchetto divino, da quanto tempo era che non giocava più? Che non scendeva in campo per orchestrare uno dei suoi piani, per vedersi realizzati tutti i propri desideri, ingordo fino alla fine, fino alla morte e anche oltre questa.
Gli era stato dato un compito, gli era stato detto quale fosse l’obiettivo finale da raggiungere. Quando aveva chiesto in che modo avrebbe dovuto fare si era visto rispondere con un ghignò ferino ed una scarica d’eccitazione l’aveva scosso da capo a pieni, per tutte le membra, sino all’anima dannata che si ritrovava.
Se solo si fossero conosciuti millenni addietro quell’uomo sarebbe potuto essere l’aspirante perfetto, l’amante prediletto.
L’aveva scelto tra tutti i morti del mondo e gli aveva dato una missione in cambio della libertà, gli aveva dato un ruolo e gli aveva detto di poterlo interpretare come preferiva. Quella era la vita che gli era mancata.
Stiracchiandosi osservò l’ultima anima di quel quadretto, sette eroi come nelle migliori profezie. Era un ragazzino fino, dalla pelle pallida di morte e di nascita, con i capelli biondissimi scompigliati e l’aria scocciata, che divenne smarrita non appena volse il capo ad osservare la desolazione delle Praterie.
Oh, lui lo conosceva, lo conosceva bene.
 
Alla fine è sempre da lui che mi rimandi.
 
Puntò lo sguardo sul riflesso che l’aveva attirato come il canto di una sirena, la collana scintillante che luccicava al collo del ragazzino.
 
«Sarà un piacere rivederti, Jonas.»
 
I bracciali d’argento ai suoi polsi magri brillarono di vita propria, incandescenti per un istante troppo breve per esser percepito.
 
I doni dei gemelli della Notte erano oscuri come i loro padroni.




 
*

 



Dividersi una seconda volta era stato necessario. Mischiare le coppie un po’ meno, ma l’avevano fatto ugualmente.
A Cade era andata bene, non poteva certo lamentarsi, Lea e Jonas erano praticamente i suoi preferiti e per fortuna nessuno aveva provato a chiedergli se volesse andare con la ragazza delle Praterie o con il biondastro. Non era proprio dell’umore, sarebbe finita in strage come minimo.


«Come avete trovato quella del rompipalle?» domandò rivolto verso Lea.
La figlia di Apollo ridacchiò divertita, la sua sfera che luccicava quieta tra le mani.
«A dire il vero è stato Úranus. Penso che abbia percepito qualcosa, qualche sentimento particolare che è riuscito a ricollegare a Wirght senza problemi.» spiegò stringendosi nelle spalle, poi gettò un’occhiata al rosso. «Senti, ma non è che potresti portare tu la mia sfera? Non hai cose appuntite in quella sacca, vero?»
Cade si voltò a guardarla, le sopracciglia arcuate. «Non l’hai ancora ripreso il tuo ricordo?»
Lea scosse il capo. «Non so come si fa.» ammise. «Non vorrei far danni.»
«Penso che vada rotta.» s’intromise Jonas avanzando con lo sguardo puntato a terra, terrorizzato all’idea di schiacciare un globo come poteva esserlo a sei anni di schiacciare una lumaca in mezzo all’erba bagnata dalla pioggia. «Salivano degli strani fumi dalle sfere rotte, penso che fossero i ricordi stessi quelli. Probabilmente se a romperle sono i proprietari o magari anche se sono nei paraggi, il ricordo torna, beh, dentro di loro?» disse poi incerto della scelta delle parole usate.
Cade gli sorrise. «E bravo il nostro uccellino, allora sei davvero intelligente come si addice ad ogni buon damerino!»
Il dito medio che ricevette come risposta fece ridacchiare la ragazza che scosse la testa e porse la propria sfera a Cade.
«Allora? Me la porti?» ripeté.
«Proviamo ad aprirla invece!» trillò l’altro. «O, che ne so, prima proviamo a fare altro tipo…avvicinartela al petto?»
Jonas alzò un sopracciglio, scettico. «Al petto? Se proprio devi fare una cosa del genere che sia almeno la testa. È lì che stanno i ricordi, non nel cuore, rosso.» lo prese in giro con un broncio strafottente stampato in faccia.
«Oh, giusto! Peccato non aver più un cervello in cui rimetterlo, ve’?» lo sfotté di rimando.
I due si guardarono per un attimo senza muoversi, Jonas con il naso arricciato e Cade con quel sorriso troppo ampio per essere vero.
Tra loro due Lea alzò gli occhi al cielo ma sorrise: magari non aveva avuto tanti amici in vita sua, ma sapeva riconoscere perfettamente quando due ragazzi litigavano seriamente o lo facevano solo per divertimento, solo per contraddirsi a vicenda.
Era felice che lì in mezzo ci fosse qualcuno ancora in grado di comportarsi come un essere umano.
 
«Va bene bambini, basta discutere. Vicino alla fronte e vicino al cuore?» domandò divertita.
Cade le sorrise raggiante. «Puoi piegarti in avanti e fare entrambe le cose assieme!»
«No! Una alla volta, così vediamo chi ha ragione!» protestò subito Jonas.
Per la seconda volta Lea alzò gli occhi al cielo ma li accontentò.
Avvicinò la sfera alla fronte e ve la premette contro.
Nulla.
Cade ghignò, Jonas si imbronciò.
L’avvicinò al petto e di nuovo nulla.
«Non vorrei sembrare inopportuno e sono pronto a girarmi, anche Jonas – disse afferrando il ragazzino per la manica e tirandoselo vicino – ma penso che dovrebbe essere a contatto con la pelle.» spiegò accennando alla sfera.
Il più piccolo si fece rosso in viso come i capelli del suo amico e si volse di scatto, portando le mani ai lati del volto per schermarsi ulteriormente. A quella reazione Cade ridacchio ma si voltò come lui, le mani però sprofondate nelle tasche ed il volto leggermente rivolto verso il biondino.
«Copriti!» gli ordinò lui.
«Non vedo niente, tranquillo. E poi, sai com’è, non è come se non avessi mai visto una donna nuda in vita mia, ne avevo ventisei di anni, non ero un mocciosetto come te.» sorrise ma poi si bloccò, pensandoci su. «In effetti avevo visto una donna nuda anche alla tua età, ma presumo che per te sia diverso.» concluse stringendosi nelle spalle.
Jonas s’irrigidì, strinse i denti e lanciò uno sguardo freddo all’amico.
«Perché per me dovrebbe essere diverso?» domandò quasi con rabbia.
Se Cade se ne accorse non lo diede a vedere, ma da come il suo sorriso rimase invariato e quasi plastico Jonas giurò che avesse sentito il cambio di tono nella sua voce.
«Magari perché io sono cresciuto nei bassifondi di una città portuale e tu invece in una torre dorata al centro di una grande capitale? Avevi la cuoca che ti preparava piatti per un preciso regime alimentare, non credo che ti fosse concesso intrattenerti da solo con una signorina nella stessa stanza per più di pochi minuti, non credo che tu abbia mai spiato delle ragazze fare il bagno e, senza offesa eh, ma non mi sembri proprio tipo da bordello.» spiegò con semplicità.
Jonas annuì e non ebbe la prontezza di rispondere nulla se non un secco “sì”.


«Mi spiace Cade ma non funziona neanche così!» li informò Lea battendogli una mano sulla spalla.
L’irlandese si voltò con un sorriso enorme in volto. «AH! Così mi ferisci, avresti dovuto mentire almeno all’inizio e farmi godere la faccetta contrariata del nostro passerotto!»
«La smetti una buona volta di chiamarmi con questi modi ridicoli?» lo guardò innervosito lui.
Cade continuò a sorridere come se non fosse successo nulla. «Nah.»
«E se andasse davvero rotto? In fondo Ermes ha detto che bisognava evitare che si rompessero prima del dovuto.» li interruppe Lea osservando con attenzione la sfera.
Il biondo strinse le labbra. «Non hai una seconda possibilità se sbagli.» le fece notare.
«Ma è un ricordo intrappolato dentro questa palla di vetro e lo hai detto tu stesso che salivano delle strane spirali quando venivano rotte.»
«Ha ragione. Sono i ricordi, vanno via come fumo, ma sono loro.» annuì Cade.
Jonas lo guardò aggrottando le sopracciglia, perché ora ne era così sicuro?
Lea anche lo guardò ma con fare più risoluto. «Allora proviamo, o la va o la spacca come si suol dire. Che dio me la mandi buona.»
«Aspetta! Vuoi davvero provare a-»
 
Crak!
 
Jonas sgranò gli occhi, pallido come se dovesse svenire da un momento all’altro e perfettamente consapevole di poterlo fare anche da morto.
Una spirale di colori sbiaditi salì verso l’alto, scappando dalla sfera rotta a metà che Lea teneva saldamente stretta tra le mani.
Dei suoni si diffusero per l’aria, il sibilo del gas, il crepitio del fuoco, i piccoli scoppi del carbone, un piede che veniva battuto a terra, un pungo su di un piano morbido, il gocciare di un rubinetto. C’era un rumoreggiare vago di sottofondo, passi di persone, affrettati, veloci, corsa, ruote che stridevano, una porta che si chiudeva con violenza, ma non una voce, non una parola.
Il fumo s’arricciò su sé stesso, arrotolandosi come le spire di un serpente e Lea sentì un brivido di terrore pervaderla d’improvviso.
Fece un passo indietro, tremante, pronta a farne un altro e scappare dal suo stesso ricordo che pareva fissarla con occhi rettili, predatori, pericolosi, dolorosi.
Se le ricordava quelle parole, ma aveva completamente rimosso la scena in sé, il contorno.
Ma altrettanto prontamente sia Cade che Jonas scattarono in avanti, afferrandola ognuno per un braccio e tirandola di nuovo verso il serpente di fumo che, con un guizzo, si schiantò contro il suo petto, penetrando sotto le vesti, sotto la pelle morta, sin dentro a quell’involucro che era la sua anima solidificata.
Per un lungo momento non si mossero, i due giovani con le mani stretta attorno al polso e all’avambraccio della figlia di Apollo e lei immobile, allucinata, terrorizzata da qualcosa che non c’era più.
 
«Ehi? È finita, è finita.» disse piano Cade, allentando la presa sul suo braccio e passandole delicatamente la mano sulla schiena, disegnando cerchi concentrici. «Sei stata bravissima, ora hai di nuovo il tuo ricordo. Hai appena superato la quarta prova Lea, sei stata davvero, davvero brava. E poi, hai visto? Era il petto, non la testa.» continuò a parlare con voce melodiosa, quella voce da cantastorie che aveva usato così tante volte per distrarre i suoi avversari, le sue prede, per consolare i suoi amici.
Lea parve riscuotersi con lentezza, spostò a mala pena lo sguardo su di lui ed annuì più volte, come se stesse cercando di scuotersi una brutta sensazione di dosso.
Jonas le lasciò il polso, osservando ammirato il modo in cui Cade sembrava sempre trovare le parole giuste per le persone spaventate o ferite. Avrebbe voluto aver anche lui quella dote, riuscire a parlare alla gente calmandola, dandogli fiducia, speranza. Decisamente non era qualcosa che gli sarebbe mai appartenuto.
 
«Continuo a credere che sia arrivato alla testa però.» disse allora, rompendo il ghiaccio che si era creato in quel momento così delicato, cercando di dar man forte al compagno come poteva, offrendogli tutto ciò che aveva: il suo supporto e la sua lingua spesso troppo lunga.
Il sorriso che Cade gli lanciò lo fece sorridere a sua volta, si era dimenticato com’era vedere l’approvazione nel volto di chi lo circondava.
«Non dire cazzate, è finito dritto nel cuore, vero?» chiese a Lea.
Jonas scosse la testa. «Peccato non aver più un cuore in cui rimetterlo, vero?» lo scimmiottò rigirandogli contro la sua stessa battuta.
In modo del tutto maturo e adulto Cade gli fece la linguaccia. «È tornato “simbolicamente” nel cuore, preferisci? Comunque, nel petto e non nella testa.»
 
Lea li osservò battibeccare ancora un po’ stordita, mentre un senso di completezza le si spandeva nel torace, invadendo ogni parte di sé.
Gettò un’occhiata a Cade, ricevendo in cambio un vago annuire e forse aveva davvero capito cosa passasse per la sua mente in quel momento.
Che quel ricordo rubato li avesse resi ancora un po’ più vivi?
Si ferivano, soffrivano e ora ricordavano cose che non sapevano di aver dimenticato.
Si costrinse a sorridere quando anche Jonas si volse verso di lei, seguendo lo sguardo diretto del compagno.
 
«Quindi ora non ci resta che cercare uno dei vostri o degli altri.» disse con voce più allegra.
Cade annuì. «Sì, solo te e il biondastro avete riavuto i vostri ricordi, ma sinceramente non so quanta possibilità abbiamo di trovarli.»
Lea guardò con insistenza Jonas e poi sorrise incerta. «Magari… magari te e Úranus avete dei poteri simili, magari puoi trovare anche te i nostri ricordi.» provò.
Il ragazzino la fissò rigido, batté le palpebre senza sapere cosa dire e poi abbassò la testa.
Poteva farlo?
La verità era che Jonas non aveva mai usato i suoi poteri, non volontariamente. Aveva sempre saputo di esser diverso dagli altri? Sì, cazzo se non se ne era accorto! Ma non per questo motivo, non per i suoi natali. Probabilmente i poteri del suo divin genitore avevano agito senza la sua volontà almeno un paio di volte nella sua vita, ma era stato nella morte che quei poteri, e la consapevolezza di essere un semidio, avevano dato maggior sfoggio di sé.
 
«E la tua pena sarà quella di infliggerne altra al tuo prossimo. Distruggerai quell’ultimo barlume di forza, di speranza, di vita che alberga in loro e gli ricorderai per sempre, fino alla fine dei tempi, di cosa lì ha privati la loro stessa codardia.»
 
Era la sua pena, era la sua somma punizione: far soffrire per sempre gli altri.
Poteva farcela?
Pensare intenzionalmente a ciò che c’era di più oscuro e tetro nel suo cuore e scatenarlo verso le Praterie stesse, captando il dolore di quei ricordi come se fossero stati segnali radio? Avrebbe agito da torre di ricevimento in un mare pieno di mine e sommergibili nascosti nell’acqua nera della marea erbosa, scovato i rimpianti, le pene dell’inferno e quelle del cuore.


Ma saprò distinguerle? Sarò in grado di sentirle e non farmene sopraffare?
 
Jonas cercò con lo sguardo Cade e trovò subito quelle luccicanti iridi verdi a scrutarlo, a supportarlo.
Ci sarebbe riuscito.
Lo decise così, su due piedi, anche se non l’aveva mai fatto, anche se non sapeva come fare. Aveva i suoi compagni, aveva al proprio fianco semidei che conoscevano i loro poteri, che sapevano come usarli, che potevano insegnargli come fare.
Aveva al suo fianco una guaritrice pronta a riportarlo “alla vita” ed un amico pronto a tirarlo fuori dal baratro.
Annuì.
 
«Ditemi cosa devo fare.»
 
 
 
«Un respiro profondo, un altro.
Svuota completamente i polmoni. Riempili di nuovo.
Sei tu, solo tu e ciò che c’è dentro di te. Lo senti? C’è un fuoco, una corrente, un flusso, una scintilla elettrica che si muove da sempre inquieta nel tuo corpo.
Cova la sua stessa energia, lo fa nel fondo del tuo stomaco, arrotolata sulla parete calda come un serpente a riposo, come un drago che aspetta nel centro del vulcano. È sempre stata dentro di te. Ti ha animato, ti ha protetto in modi che non puoi neanche immaginare. È parte di te, sei tu.
Ascolta solo il suono che produce, segui il flusso, fai ciò che ti suggerisce, lascia che sia lei a guidarti ora e poi, un giorno forse vicino, sarai abbastanza forte da far sì che sia lei a lasciarsi guidare da te. È la nostra natura, è quello che siamo, semidei, essere mortale e divino uniti in un unico corpo, una scintilla di folgore che anima ogni essere umano e che in noi è più forte e vibrante
Senti la vibrazione, ascolta le sue parole, seguila.»
 
Ogni respiro che prendeva sentiva qualcosa depositarsi sul fondo dei suoi polmoni. Scivolava in basso come una cascata, indifferente alla presenza della barriera naturale che era ogni organo o forse libera di fluire proprio per la mancanza di essi. Dopotutto, il suo corpo era morto anni addietro, rimasto sulla terra, nella terra, seppellito sotto una lucida lastra di marmo.
Quella polvere sottile si condensò in un liquido scivoloso, appiccicoso, fluido e viscoso come il miele. Era opprimente, ma così dolce…
Jonas lo sentì arrotolarsi sul fondo del suo stomaco proprio come un serpente, proprio come aveva detto Cade, come un animale dotato di vita propria.
Chiuse gli occhi, si lasciò andare alla sensazione di un qualcosa d’estraneo che si muoveva nel suo corpo, in quel che ne era rimasto, nella sua anima.
Gli tornò in mente una calda estate nella tenuta di famiglia, la temperatura alta, le membra affaticate e stanche per colpa della calura, dell’umidità sulla pelle, la consistenza dura e fregiata del bicchiere stretto tra le dita sudate, contro le labbra secche scottate dal respiro bollente. Era l’acqua fredda che scivolava nella sua gola, nella trachea, dritta nello stomaco.
Era bellissimo.
 
Era magnifico.
 
Poi lo sentì.
L’eco lontano di un ricordo amaro e amato. La sinfonia tetra e lugubre di un pianoforte a coda che suona una marcia funebre. Il fracasso di una vetrina che va in frantumi. L’esplosione di un ordigno. Le grida di persone agognanti, in mille lingue diverse, in mille luoghi diversi.
Sentì una stretta al petto, allo stomaco, lì dove prima c’era acqua fresca ora ve ne era di marcia, di acida e lui odiava i sapori acidi, odiava la sensazione della bile che risale lungo la gola e si spande nella bocca, infestandogli ogni papilla gustativa.
Voleva vomitare, voleva sputare tutti quei sentimenti, tutte quelle emozioni. Gli girava la testa e dio! Che qualcuno lo facesse smettere, che facesse smettere tutto, ora in quel momento.
La forza gli fu tolta con uno strattone violento, mentre un sudore a freddo gli bagnava la fronte e il prato nero puntinato di ricordi vorticava attorno a lui avvolgendolo nell’abbraccio soffocante della notte.
C’erano le urla d’incitamento, di guerra, di paura che rimbombavano forti nelle sue orecchie, nella gran cassa che era il suo petto vuoto, facendogli tremare le membra morte, battendo con forza dietro i bulbi oculari. Era vacuo, era nitido, solido, fumoso, il mondo si prendeva beffa di lui e Jonas non sapeva come reagire mentre una voce sconosciuta ma così famigliare gli mormorava che questo, questo era ciò di cui erano fatti, questo era ciò che si celava in loro.
 
L’amore ha tante facce, alcune come rose, altre come spine, ma non c’è nulla di più sciocco ed umano che chiudere gli occhi davanti alla sua parte peggiore e fingere che non esista.
Illudersi che l’amore non possa essere oscuro è da stolti.
Il lato crudele dell’amore si chiama dolore ed è ciò che ti ha reso ciò che sei, figlio mio.


Jonas si portò le mani alla testa, lasciandosi cadere a terra privo di forza, privo di voglia di agire, di essere, di provare, di lottare.
Aveva già provato queste sensazioni, le aveva provate per una vita intera e fino alla fine sempre di più, sempre di più, sempre di più.
Era esploso, alla fine tutto era cessato nel momento in cui aveva preso la sola decisione possibile, l’unico atto di forza che avesse mai davvero fatto in tutta la sua dannatissima e miserabile vita.
Non era vero quello che aveva pensato durante l’altra prova, non era vero che aveva abbandonato le persone che amava, non era vero. Aveva fatto bene, aveva fatto bene a fuggire, a voltare le spalle a tutto e tutti e ad andarsene perché se fosse rimasto, se avesse deciso di non scappare sarebbe morto di dolore, soffocato da quei sentimenti, da quelle sensazioni. Gli si stava fermando il cuore.
Era sbagliato. Era giusto. Voleva morire di nuovo. Non voleva più sentire nulla. Dov’era la terra? Dov’era il cielo? Cosa gli era successo? Gli avevano sparato? Lo sentiva, sentiva il suono del grilletto, il rumore del cane che scattava, l’esplosione del proiettile che fa solo un quarto di fottutissimo giro nella canna ma penetra la carne così facilmente, così velocemente. Non senti nulla, è solo un attimo. Un colpo alla testa. Perché aveva deciso di arrendersi, perché si era arreso, perché non poteva più fuggire, perché era debole e nulla, nulla sarebbe mai cambiato. Perché non poteva rimanere vicino alla sua famiglia e non ce la faceva, non ne aveva la forza, non ne aveva mai avuto neanche una briciola e così doveva fuggire, più lontano possibile, dove nessuno l’avrebbe mai potuto raggiungere, al sicuro, al sicuro. Sicuro. Lontano. Sicuro.
Ma qualcosa l’aveva raggiunto alla fine, non era stato abbastanza- non era stato abbastanza e basta.
Poteva morire di nuovo? Per favore?
Perché c’erano tutti quei suoni? Perché erano così vicini?
Poteva morire? Poteva chiudere gli occhi e non riaprirli più?
Dov’era Cade? Perché non era vicino a lui? Perché l’aveva lasciato solo? Si era fidato, si era fidato tanto, aveva pensato che fosse suo amico, che fossero uniti in qualche modo, perché non lo tirava fuori da quel mondo? Perché non faceva smettere tutto? Era debole… così debole… lo era sempre stato, non era mai riuscito a difendersi, era sempre scoppiato nei momenti meno opportuni, riusciva ad essere un ragazzo modello per così poco tempo e poi tutto andava in fumo. Lo stress, la paura, l’angoscia, il sorriso sgargiante ed ammaliatore dell’unico raggio di sole che avesse mai penetrato la coltre scura in cui viveva, la voce di suo nonno che gli diceva che aveva fatto un buon lavoro, che stava migliorando, che sarebbe diventato un vero uomo. Con sacrificio, sudore e sangue. E lacrime, tante lacrime, ma questo non poteva dirlo a nessuno, questo non andava mostrato. All’oscuro, chiuso nella sua camera, le tende tirate, una mano gentile che gli carezzava i capelli, uno scintillio verde nel mezzo dell’ombra. Un bacio soffice. Un altro, solo un altro e poi lascerai la sua mano, solo un ultimo bacio. Non vi rivedrete domani. Lo sai, ora lo sai.


Jonas aprì di scatto gli occhi, il respiro pesante, la fronte imperlata di sudore. Stringeva convulsamente le mani di qualcuno e non gli ci volle molto per rendersi conto che erano quelle di Cade.
Lo sorprese invece ritrovarsi in piedi, esattamente nella stessa posizione in cui si trovava quando aveva chiuso gli occhi e cercato d’attingere al suo potere.
Il ragazzo davanti a lui lo fissava serio, senza però dire una parola.
Con un gesto lento Cade liberò una delle sue mani, si tirò il polsino logoro della camicia sul dorso e gli asciugò con delicatezza le guance bagnate, il viso sudato.

«Cos’hai visto?» gli chiese solo.

Visto? Oh, non aveva visto niente, ma aveva sentito, aveva sentito così bene. Lo mormorò appena ma Cade lo sentì perfettamente ed annui.
«Vuol dire che per quanto tu non abbia mai utilizzato i poteri di tuo padre questi sono comunque forti in te.» replicò a bassa voce.
«Era la mia condanna…» gli disse piano lui. Sfiorò con la mano libera il giogo che portava al collo, «Il mio collare- rifletteva le pene dei dannati, dei codardi come me. Il potere di mio padre si spandeva attorno a me, il collare lo rifletteva all’infinito. Era la mia e la loro condanna, non c’erano molti carcerieri. Anche da morto non sono abbastanza per meritarmi un vero carceriere infernale.» rise senza gioia.  
La stretta sulla sua mano si fece rigira ed una schicchera gli batté veloce sulla fronte.
«Ahi!» Jonas si massaggiò la pelle arrossata e guardò male il compagno. «Che diamine-?»
«Non t’azzardare mai più a dire una cosa del genere. Tu sei più che abbastanza per qualunque cosa, chiaro? Mi stanno sul cazzo le persone che credono di essere la feccia del mondo senza un valido motivo.»
Era la prima volta che l’Irlandese gli si rivolgeva con un tono così duro e Jonas rimase a fissarlo imbambolato. Poi, come un’ondata anomala, la rabbia gli salì prepotente alla gola e con tutta la forza che aveva in corpo tirò uno spinatone a Cade per poterselo allontanare di dosso.
«E tu che ne sai? Che ne sai se ero davvero abbastanza o meno? Che ne sai che non ho i miei buoni motivi per crederlo? Li ho, li ho eccome! Tu non sai cos’ero, non sai com’ero! Non sai cosa ho fatto, i miei errori, i miei sbagli, i miei peccati! Ho sbagliato tutto! Tutto Cade! E l’unica cosa buona che avevo l’ho abbandonata per scappare, per smettere di essere ciò che ero, per smettere di guardarmi le spalle ogni giorno, in attesa che qualcuno parlasse troppo e arrivassero le giubbe nere a portarmi via! Sono scappato! Scappato abbandonando l’unica persona che amavo! Sono un codardo ora così come lo sono stato in vita!
Dici di essere tu quello con la coscienza sporca ma sono io quello finito all’Inferno, non tu! Tu eri tra i buoni! Tu sei un buono e non sai un cazzo! Non sai un cazzo di me!» gli urlò con quanto più fiato aveva in gola.
Lo fissò ansante, dolorante, ferito. Da quanto tempo era che non urlava più così? Da quanto tempo non scoppiava a quel modo? Si sentiva sfinito come dopo ogni sua crisi a scuola, come quando arrivavano gli esami e non c’era più nulla che potesse dargli un minimo di pace, di serenità.
Se Cade gli avesse anche rifilato uno schiaffo allora sarebbe stato proprio tutto come ai vecchi tempi.
Ma Cade non si mosse, Cade non lo toccò, quasi non lo guardò. No… non lo vedeva.
Cos’aveva detto per far sì che l’allegro, ironico e rumoroso Cade si spegnesse in quel modo?
 
“Scappato abbandonando l’unica persona che amavo”
 
Le sue stesse parole gli rimbombarono in testa.
Aveva detto proprio così e l’aveva detto a qualcuno che era morto per proteggere il suo paese, la sua terra e-
 

“I miei Liberty Birds…”


Tutte le persone che amava.
 
Ho deluso anche te alla fine?
Si domandò amareggiato Jonas, convinto d’esser riuscito di nuovo a rovinare tutto. Oh, era così bravo lui a rovinare le cose, le persone, i rapporti, a rovinarsi la vita e a quanto pare anche la morte. Aveva appena perso l’unica persona di cui si era fidato? L’unico che l’aveva capito e aiutato senza chiedere nulla in cambio? Perché riusciva sempre a sbagliare in ogni singola cosa che faceva?
 
«C’era un ragazzo dietro di me.» disse d’improvviso Cade. «I Giudici Infernali ci stavano mettendo una vita. Discutevano le mie azioni, il mio passato. Per uno di loro meritavo i Campi di Pena, per un altro quelli erano troppi e sarei dovuto andare nelle Praterie. Poi dalla fila si è affacciato un ragazzo, con il viso macchiato di sangue e un buco enorme sulla nuca.» si fermò, volse lo sguardo lontano, nell’erba nera e mossa. «Disse che ero un eroe. Disse che aveva combattuto per quattro infinite ed infernali giornate al mio fianco, contro gli Inglesi. Ero un eroe, ero uno dei tanti martiri votati dall’Irlanda. Mi ero sacrificato lottando fino all’ultimo respiro. La mia ultima azione, la mia morte, aveva appena cancellato tutte le scelte della mia vita.»
Cade si voltò di nuovo a fissarlo e per la prima volta Jonas vide il volto duro e segnato di un giovane che aveva passato la sua intera esistenza a sopravvivere. Per la prima volta non vide quel buffone gentile e fraterno, sempre con la battuta pronta che punzecchiava e ti saltellava attorno per non essere preso. Vide un ragazzo di ventisei anni che aveva visto troppo, aveva vissuto troppo ma non abbastanza, aveva condiviso la sua vita con altri ragazzi cercando di sopravvivere al meglio, insieme.
Non seppe come replicare.
«Questo non sei tu.» continuò con voce secca. «Sono le Praterie che stanno agendo anche su di te, che ti fanno dubitare, e il tuo potere divino deve averti dato una grossa spinta, ma non-sei-tu, sono stato chiaro? Una decisione può cambiarti la vita, l’epoca in cui nasci può determinare il tuo destino. Probabilmente se fossimo nati una decina d’anni dopo entrambi ora non saremmo qui.
Impara a prenderti le tue responsabilità e le tue soltanto, sono stato chiaro?»
Improvvisamente remissivo Jonas annuì. L’aveva ferito: aveva di nuovo ferito qualcuno a cui stava imparando a voler bene.
 
«E scommetto che non ce l’ha con te.»
Jonas lo guardò confuso. «Chi?»
«La persona che amavi, la tua ragazza. Non ce l’ha con te. Se ti conosceva bene saprà che le tue azioni sono state pensate e anche sofferte.» gli passò di fianco e si fermò dandogli le spalle.
«Ora muovi il culo, ci siamo persi Elena.»
«Lea.» mormorò piano. «Non le piace che la sia chiami Elena.»
«Beh, tanto non è qui per sentirmi.
Sei riuscito a percepire qualcosa che ti abbia ricordato noi?» gli domandò scrutando l’orizzonte nero.
Jonas scosse la testa. «Sentivo bombe, urla, vetrine rotte, parole in mille lingue diverse e- sensazioni, sentimenti, emozioni… ma era tutto così forte, tutto così vero… mi ha ricordato-»
«La tua morte.» finì la frase per lui. Poi, finalmente, lo guardò in faccia. «Complimenti, penso proprio che tu abbia trovato la tua stessa sfera allora.»
Il biondo lo fissò sconvolto: come la sua sfera?
Che fosse…?
 
Più i sentimenti sono intensi, più ci appartengono. Li sentiamo così vivi e veritieri perché li abbiamo provati anche noi. O forse perché eravamo noi a provarli.
 
I suoi occhi parvero diventare improvvisamente vitrei, grigi come fumo.
Un ricordo legato alla sua morte.
Con orrore Jonas si rese conto di non ricordare come avesse scelto di agire quella notte.
Da lontano la voce di Lea li raggiunse come l’eco di una maledizione.
 
«Jonas! Credo di aver trovato la tua!»
 
Dio, no, ti prego, no.
 
 


 
Lea voltò la testa di lato, Jonas teneva gli occhi chiusi facendo respiri profondi e Cade, posto davanti al ragazzino, lo fissava attentamente parlandogli con voce sommessa.
La ragazza scrutò l’orizzonte nero, domandandosi come fosse possibile che tutte le anime si fossero disperse in quel modo, che il mondo era grande, certo, ma tutti i morti della terra erano decisamente troppi. Si chiese se, in un qualche modo, l’Ade non fosse persino più grande del pianeta, se non ci fossero piani differenti, paralleli, nascosti nelle ombre. E soprattutto come fosse possibile che non vi fosse neanche una sfera da quelle parti. O forse…
Il suono che percepì fu velocemente associato allo scatto di un coniglio tra l’erba alta. Lea lo ricordava dalla sua infanzia, quando aveva scorto le lepri nel giardino del convento e si era alzata sulle punte per poter vedere le orecchie grigiastre dell’animale far capolino tra gli steli. Cercò di individuarne la provenienza ma tutto sembrava quieto attorno a loro, i prati mossi solo dalla brezza umida e solforica dell’Inferno.
Gettò una rapida occhiata a Jonas, che pareva decisamente perso nel tentativo di metter un lazzo ai suoi poteri, e conscia che per ogni cosa ci sarebbe stato Cade al suo fianco avanzò verso l’illimitato campo.
Sapeva perfettamente che non poteva esserci un coniglio da quelle parti, eppure le pareva di esser tornata piccola, a girovagare per il giardino alla ricerca delle tane dei piccoli animali e di nidi cinguettanti. Era un’immagine così lontana e pacifica che si scontrava in modo violento con la situazione in cui si trovava.
Lea continuò a seguire il sui istinto però, perché una delle lezioni fondamentali che Giuseppe le aveva dato era che un semidio deve sempre seguire il suo istinto e fidarsi di esso. Girò un poco la testa verso i suoi amici, le dispiaceva lasciarli in un momento del genere ma tanto Jonas doveva concentrarsi no? Non sarebbe successo nulla se si fosse allontanata di pochi passi, giusto di qualche metro… e poi sembravano entrambi troppo occupati per prestarle attenzione.
In quei prati non c’era neanche un luogo in cui nascondersi, a meno che non si fosse gettata tra gli alti ciuffi neri Cade l’avrebbe potuta trovare facilmente, sì, non c’era alcun pericolo.
Si sentiva come incantata, un bambina che segue il suono di un pifferaio magico che l’attira lontano da casa, verso nuove avventure.
Solo che i bambini di quella vecchia fiaba erano andati incontro ad una terribile fine.
Un brivido la scosse e voltandosi indietro Lea non vide più gli altri due. Presa dal panico si mosse freneticamente: com’era possibile che fossero scomparsi? Il terreno era piano, non vi erano avvallamenti, non vi erano alberi, muri, rocce.


Segui il bianconiglio, Alice.
 
Una voce mormorò quieta nella sua testa e Lea si bloccò di colpo.
Si voltò con lentezza, girando su sé stessa sino a tornare alla posizione iniziale.
Sentiva qualcosa di strano, di famigliare. Quella non era una sensazione nuova: da quando era iniziata la gara le era parso così spesso di avvertire un aura di famigliarità che la sfiorava e l’unica risposta che era riuscita a soddisfarla era che, forse, era passata vicino ad un suo fratello, che aveva captato la sua scia e l’aveva riconosciuta come simile alla sua, fraterna. Un legame di discendenza e non di sangue, lo stesso che le permetteva di individuare Giuseppe anche a metri di distanza.
C’era quindi un suo fratello o una sua sorella da quelle parti? Erano loro che aveva sentito? Il retaggio divino di suo padre emanato da un altro essere a lei affino?
 
Alla tua destra.
 
La voce le sussurrò ancora all’orecchio e Lea l’ascoltò come se fosse la cosa più ovvia e naturale del mondo. Si girò verso destra e le parve di scorgere la figura di un giovane al limitare del suo campo visivo. Si rigirò in quella direzione, il rumore della lepre che saltava tra le piante si disperse nell’aria e il suono di una chiave che girava dentro ad una serratura la portò, per l’ennesima volta a voltarsi.
Cos’era stato?
 
Guarda giù, Alice.
 
Lea abbassò lo sguardo, lasciando che le sue labbra che aprissero in una piccola ‘o’ di stupore non appena si rese conto di ciò che le si era palesato davanti.
Poggiato tra l’erba nera e filiforme se ne stava un globo un poco più grande del suo ma con colori decisamene più cupi. Era rossiccio e bruno, come una stanza scura illuminata solo dalla luce di un camino. Un camino che poteva sentir crepitare, il suo riflesso che vedeva ballare contro la superficie curva della sfera.
Non le pareva un ricordo doloroso, crudele o cruento. Sfiorandolo delicatamente con le dita tutto ciò che il globo le trasmise fu stanchezza, demoralizzazione, speranze infrante e sogni distrutti. Era malinconico, era una vita fanciullesca arresasi alla realtà del mondo. Era tiepida come un tea lasciato per troppo tempo sul tavolo, non più bollente e rilassante e non ancora freddo e rinfrescante. Era così… desolante. E lo era anche il volto sgranato del giovane che si scrutava con occhi vacui allo specchio di quella che doveva essere la sua camera.
Lea alzò le sopracciglia, sorpresa dal fatto che tutta quella malinconia avesse appena mostrato il suo viso e che l’avesse fatto sotto le sembianze di qualcuno che lei conosceva.
 
Portagliela allora. Fai la cosa giusta. Alla fine, l’hai sempre fatta, no?
 
La figlia di Apollo strinse con delicatezza le mani attorno alla sfera, alzandosi in piedi e voltandosi, sicura, verso la direzione da cui era venuta. Lo sapeva per certo, per istinto.
Iniziò a camminare sempre più veloce, senza rendersi conto che le immagini nel globo stavano cambiando, che la prospettiva s’era allontanata dallo specchio e ora inquadrava la porta.
Come un miraggio, da lontano, le parve di scorgere due figure vicine, una di fianco all’altra, non si guardavano in faccia, una era anche di spalle ma Lea sapeva che erano i suoi compagni.
 
«Jonas! Credo di aver trovato la tua!» urlò con quanto fiato aveva in gola.
 
Non poté vedere lo sguardo di puro terrore che si aprì sul viso del ragazzo, così come non si rese conto che il ricordo era terminato, sfumando in un vortice grigio e blu come la luce che illuminava la stanza in cui quel frammento di vita si fermava.
Vide però chiaramente Jonas voltarsi verso di lei e cominciare a correrle incontro, urlandole qualcosa in una lingua che non capiva, il cui suono duro le ricordava quello dei soldati austroungarici e che associò facilmente al Tedesco.
Cosa voleva Jonas? Perché era così preoccupato? Sembrava quasi avesse paura di qualcosa.
Lea gettò a mala pena uno sguardo alle sue spalle, sicura che non potesse esserci nessun pericolo perché Cade era rimasto fermo immobile al suo posto, non le era corso incontro come Jonas, non sembrava allarmato. Più si avvicinava però, più Lea si rendeva conto che l’espressione del rosso era fredda, dura, impassibile. Esattamente l’opposto del ragazzino, il cui terrore gli si poteva legger in faccia.
 
«Lass sie in ruhe! Fass sie nicht an!»
 
«Cosa dici? Non ti capisco?» gli urlò di rimando.


Erano ormai a pochi passi l’uno dall’altra e se fosse stato possibile Lea avrebbe giurato che gli occhi del suo compagno si fossero sgranati ancora di più di quanto già non lo fossero.
Jonas fissava allucinato la sua sfera, la paura così chiara nelle iridi grigio-azzurre, nella piega rigida della bocca, da spingere Lea ad abbassar anche lei lo sguardo sul globo contenente il ricordo.
L’ultima cosa che vide fu la figura di una persona che lentamente prendeva forma nel vetro, una massa di morbidi ricci biondo fragola, due scintillanti occhi verdi piedi di vita, di gioia, la visuale che prima s’assottigliava, come se il Jonas del ricordo avesse socchiuso gli occhi, e poi andava incontro a delle labbra arrossate di baci per potervene scoccare un altro, un altro ancora, e poi, di nuovo, allontanarsi per poter godere al meglio di quella visione davanti lui.
Quando Jonas mise le mani sulla sfera, sopra quelle della ragazza, era già troppo tardi.
Con una scossa elettrica che li percorse entrambi con violenza, Lea e Jonas si trovarono improvvisamente spettatori del frammento di vita perduto del giovane e dell’ultima volta che aveva tenuto tra le braccia il suo primo ed unico amore.



 













   
 
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