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Autore: RickishMorty    27/04/2020    2 recensioni
Zero chiuse gli occhi, sospirando profondamente. Aveva deciso lui, di sua spontanea volontà, di entrare in analisi. Non poteva lamentarsi con nessun altro se non con sé stesso. Però a volte era così difficile analizzare tutto, guardarsi in faccia e dirsi la verità. Specialmente con quel ragazzino. Quel ragazzino aveva cambiato tutto.
Era più facile stare da soli.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Super Rick Fan Morty, Zero Rick
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Nota: storia su Zero Rick e Super Rick Fan Morty di Pocket Mortys. Se non li conoscete, piccola intro: Zero è un Rick "neutro", che non è né buono né cattivo, ma deprimentemente convinto che nulla abbia senso e nulla sia importante. Super Rick Fan Morty è un Morty che adora qualsiasi Rick proprio come  un fan sfegatato. Che accoppiata eh?



Zero non amava nulla. Ma nemmeno odiava nulla, in realtà. L’unico sentimento che muoveva il suo quasi immobile pendolo di Schopenhauer, era un fastidio che non negava a niente e nessuno e che scaturiva da qualsiasi essere avesse intorno. La vita oscillava fra dolore e noia, ma piacere e gioia non erano intervalli fugaci per lui. Non erano proprio presenti. Zero era totalmente e desolatamente incolore nelle sue emozioni. La fortuna è che non gliene importava nulla.
E allora perché vai dallo psicologo?
Quella domanda, che gli aveva fatto il suo Morty, era la più fastidiosa di tutte. Era come se gli grattasse dietro la nuca, scavando per capire cosa pensasse in realtà e perché effettivamente si fosse rivolto ad uno psicoterapeuta.
Non c’era voluta la terapia però per fargli capire una cosa lampante: quel ragazzino era assolutamente, inequivocabilmente, la cosa più fastidiosa ed insopportabile che avesse mai incontrato.
“Quindi la fa uscire un po’ dalla monotonia del suo pendolo?”
La voce della psicologa arrivò a smuovere la coscienza di Zero, steso sul lettino, annoiato, col ciuffo che gli copriva l’occhio destro. Emo Rick, così lo chiamavano agli inizi. Beh, come dare loro torto? Se l’era cercata, con quell’atteggiamento e quel look. Fortunatamente ora “Zero” era il nome più quotato, anche se chi non lo conosceva continuava a chiamarlo come “Il Rick Depresso”, “Il Rick frustrato sessualmente” e via così.
“No, assolutamente”.
Zero finalmente rispose all’aliena poco distante. Non aveva voluto scegliere un Rick o un Morty come psicologi per ovvi motivi, quindi aveva dovuto trovare un terapeuta che perlomeno fosse a conoscenza della moltitudine interdimensionale. Era quello il nocciolo del problema. Mentre gli altri Rick lo affrontavano con alcool, violenza, sesso e deliri di onnipotenza, lui invece era colto da una desolante e schiacciante depressione.
“Ma ripete sempre che la fa arrabbiare, no?”
“Mi innervosisce terribilmente”.
“Beh, questa è un’emozione, Zero. Che lei lo voglia o no, quel ragazzino la fa uscire dal pendolo”.
Zero rimase in silenzio, rivedendo di fronte a sé il viso sorridente del Morty più entusiasta che esistesse al mondo: Super Rick Fan Morty. Nome lungo e fastidioso allo stesso modo, lo rispecchiava perfettamente. Per questo avevano deciso di comune accordo di chiamarlo Morticay. Ovviamente il ragazzino preferiva il nome lungo, ma era troppo adorante per poter dire di no a un Rick. Specie se quel Rick era Zero.
“Non nel modo in cui intende lei”.
“No? Ok… proviamo a vedere cosa intende, allora. Quali sono le emozioni che le suscita Morticay?”
Zero guardò il soffitto, rivedendo quel viso davanti a sé, che sembrava ancora più tondo a causa di quello stupido cappello da cui non si staccava mai. Chi è che si portava un Rick in testa? O meglio, quale persona sana di mente amava i Rick così tanto? Stronzi, cattivi, aggressivi, opportunisti, egoisti ed egocentrici. Chi? Certo, i Morty avevano una spiccata tendenza all’autocommiserazione e al masochismo, ma che i Rick fossero dei sadici perversi almeno se ne rendevano conto.
Morticay no. Sembrava pendere dalle loro labbra, considerando oro tutto ciò che dicevano e facevano. Se c’era qualcuno che doveva andare in analisi, era lui. Zero storse la bocca, capendo qual era una delle altre emozioni che gli tirava fuori.
“Mi fa pena”.
“Quindi provi una certa empatia nei suoi confronti, in fondo”.
“Non lo so se può chiamarsi empatia. Spesso è disprezzo”.
“Siamo già a tre emozioni”.
“Yuppi”.
“Ciò che voglio dire, è che è la prima volta che un altro essere umano la scuote così tanto da quando… beh, da parecchio, no?”
Zero rimase in silenzio, con le mani giunte fra loro e che erano ferme sul suo ventre. Aggrottò la fronte, guardando il soffitto.
“Continuiamo a scavare”.
Zero chiuse gli occhi, sospirando profondamente. Aveva deciso lui, di sua spontanea volontà, di entrare in analisi. Non poteva lamentarsi con nessun altro se non con sé stesso. Però a volte era così difficile analizzare tutto, guardarsi in faccia e dirsi la verità. Specialmente con quel ragazzino. Quel ragazzino aveva cambiato tutto.
Era più facile stare da soli.
“Emozioni positive? Ci sono?”
“No”.
“Ha risposto troppo velocemente. Ci pensi un po’ su”.
Zero roteò gli occhi, incrociando le braccia e sbuffando sul proprio ciuffo che si sollevò appena dal suo viso.
Cosa c’era di positivo in quel ragazzino?
“Nulla! È un molestatore seriale, uno stalker e un vampiro emotivo, sempre pronto a chiedere, chiedere, chiedere, senza-“
“Senza dare niente?”
Zero rimase in silenzio. Era tante cose, ma non era un bugiardo. Morticay non era assolutamente una persona che prendeva e basta, tutt’altro.
Preparava ogni giorno la colazione, gli chiedeva sempre come stesse pur ricevendo sempre la solita risposta, ogni giorno gli lasciava un disegno o un bigliettino in giro per casa. Ascoltava tutto ciò che aveva da dire, nonostante fosse pochissimo e detto con un tono di voce monotono e inespressivo; a lui brillavano sempre gli occhi, però. Non badava agli insulti e alle frecciatine velenose e acide di Zero, ma anzi, le prendeva come un modo in più per parlare con lui.
Forse in fondo il concetto di “prendere” non era proprio quello.
In fondo, non è che Zero avesse fatto chissà che per lui. Lo aveva accolto in casa, sì. E ogni giorno si chiedeva il motivo reale per cui lo avesse fatto, senza darsi una reale risposta.
Perché ogni Rick aveva un Morty?
Debole come alibi.
“A volte mi rilassa”.
“In che modo?”
“Non lo so. Forse perché si occupa della casa”.
“Le fa piacere ci sia qualcuno che pensa a lei, quindi. Che si occupa di lei”.
Zero rimase in silenzio. Le fa piacere era una frase che lo rappresentava pochissimo. Si morse appena l’interno della guancia, riflettendo.
“A volte mi piace quando fischietta mentre cucina…”
Nel momento stesso in cui disse quella frase, Zero provò rimorso. Lo stomaco gli si torse, mentre serrava i denti. Di nuovo, quel ragazzino gli provocava fastidio.
O forse era lui stesso a darsi fastidio.
Zero si accorse che anche la psicologa era rimasta in silenzio come lui, forse per lasciargli il tempo di metabolizzare quella verità. Era l’ammissione più importante che avesse fatto verso Morticay e lui nemmeno lo sapeva.
“Magari potrebbe lasciarlo occuparsi di lei”.
Zero guardò il soffitto bianco, cominciando a vedere nero, di nuovo, come gli succedeva da tutta la vita.
Mentre la psicologa chiudeva la seduta, ricordandogli orario e giorno del prossimo incontro, Zero pensava di nuovo al concetto del dare e avere con Morticay. Qualcosa di intimo, che ancora non riusciva a portare in sessione.
 
Continuò a pensarci anche nel ritorno a casa, con le mani in tasca e i capelli che gli coprivano per metà il volto. L’espressione era la solita, annoiata e depressa, se non fosse per una lieve contrizione della fronte, simbolo del fatto che stava pensando.
Dare e avere.
Zero rivide di nuovo il volto di Morticay davanti a sé, ma non era sorridente, né triste. Il ragazzino aveva le guance rosse, la fronte sudata e ansimava sopra di lui, mentre si muoveva sul corpo di Zero, sul suo bacino. Godeva, ma metteva anche impegno in ogni movimento, diviso fra il piacere del momento e uno sguardo nervoso rivolto a Zero. Conosceva quello sguardo: era l’espressione di soggezione e disagio di chi provava in ogni modo a soddisfarlo, sentendosi giudicato e non ottenendo nessun successo, riconoscimento o gratificazione. Di chi falliva.
Morticay veniva sempre, ogni volta che facevano sesso, ma non c’era una volta che riuscisse a goderselo completamente. Zero riusciva a leggere nei suoi occhi enormi un senso di colpa atavico e la delusione di chi sa di avere fallito di nuovo. Il motivo era semplice: Zero non veniva mai. Non riusciva, non gli interessava, non aveva lo stimolo di farlo. Era emotivamente e fisicamente stitico. Ma chi ne pagava veramente le conseguenze era quel ragazzino.
Zero digrignò i denti mentre apriva la porta di casa. E che cazzo c’entrava lui con questo? Morticay se l’era cercata, aveva fatto tutto da solo. Non era colpa sua se quel ragazzino stalker si era lanciato nell’impresa di fissarsi con lui.
Non era colpa sua.
“Zero!”
Eccolo lì. Sorridente, sempre con quello stupido cappello in testa. Ma lo lavava ogni tanto?
Zero lo guardò, con le palpebre calate a mezz’asta ed un’espressione di sufficienza. Immediatamente Morticay gli saltò addosso, abbracciandolo mentre lui rimaneva immobile e lo guardava un po’ schifato.
“Come stai? Sei stato via un sacco di tempo!”
Zero liberò le braccia bloccate dal ragazzino, allontanandolo.
“Non è mai abbastanza”.
Zero lo superò, andando in salotto mentre quella petulante e pestifera presenza lo seguiva, rimanendogli appiccicata. L’uomo si sedette sul divano, abbassandosi per slacciarsi le scarpe. Immediatamente, le sue dita vennero sostituite da quelle di Morticay.
“Faccio io, Zero!” gli sorrise a trentadue denti, cominciando a slacciargliele, piegato sulle gambe di fronte a lui.
Zero arricciò le labbra, prima di dargli una spintarella e fargli perdere l’equilibrio, facendolo cadere all’indietro.
“Non hai altro da fare?”
Morticay lo guardò con gli occhioni spalancati, pensandoci su per un attimo. Poi scosse la testa, sempre sorridente: “No!”
“Beh, trovatelo”.
Zero rinunciò a togliersi le scarpe, sbattendolo sul tavolino davanti a sé e sbracandosi sul divano con un’espressione contrariata. Non era nemmeno libero di svestirsi senza che quella piattola gli fosse addosso. Accese la tv solo per coprire la sua voce, senza essere realmente interessato a nessuno degli infiniti canali della tv interdimensionale.
Poteva ancora sentire lo sguardo del ragazzino su di sé, impaurito di aver detto qualcosa di male o di aver sbagliato qualcosa. Morticay si sedette vicino a lui, sul divano, stringendo le gambe al petto e trattenendosi dal guardarlo. Zero lo sapeva, lo conosceva come le sue tasche: sapeva che stava resistendo dal fissarlo insistentemente perché ricominciassero a parlare.
Era impossibile rilassarsi o concentrarsi su qualsiasi altra cosa o anche solo deprimersi con quello sguardo addosso. Era denso di aspettativa, di preoccupazione, di…
Zero si alzò di scatto, uscendo dalla stanza per andare in camera sua. Non ne poteva più di tutte quelle… sensazioni. Erano insopportabili, non volute e non richieste. Proprio come lui.
“Z-Zero…”
Morticay scattò dietro di lui, allungando una mano per fermarlo e sfiorandogli la maglietta, per un secondo di troppo. Zero si voltò all’improvviso, scacciandogli la mano.
“Non seguirmi ovunque, cazzo!”
Morticay si paralizzò in corridoio, prima che Zero si voltasse di nuovo, chiudendosi nella stanza e sbattendo con violenza la porta. Si appoggiò ad essa, col cuore che gli batteva veloce.
Era quasi tachicardia per lui. Non era abituato a nessuna di quelle reazioni così diverse dal suo solito immobilismo.
Zero sospirò profondamente, prima di andarsi a sedere sul letto. Era stato rifatto perfettamente, come sempre. Profumava di pulito, di cura. Di lui.
Lui, che sicuramente era seduto nel corridoio, con la schiena appoggiata alla porta ed un’espressione triste ma fiduciosa in viso. Lui, che lo aspettava, sempre.
Zero si portò una mano sul viso, stropicciandosi gli occhi, stanco.
Sì, era molto più facile stare da soli.
Un fischiettio lo raggiunse, portandolo ad aprire gli occhi.
Sì, Morticay era proprio dietro la porta. Il suono veniva da lì, come se il ragazzino stesse pensando fra sé e sé e nel frattempo fischiettasse un motivetto per tranquillizzarsi.
A volte mi piace quando fischietta mentre cucina…
Quella canzoncina accompagnò quei minuti di silenzio, in cui entrambi erano ad un soffio l’uno dall’altro, incapaci di avvicinarsi.
Sei tu che sei incapace, non lui.
Sì, era vero.
“Magari potrebbe lasciarlo occuparsi di lei”.
Lasciare il controllo. Era difficile per qualunque Rick e Zero non faceva eccezione nonostante le forti differenze che aveva con tutti loro.
Ogni tanto, però, era meglio di loro.
L’uomo aprì la porta, trovando Morticay seduto per terra davanti la sua stanza, come previsto. Si schiarì la voce e quando si alzò in piedi, Zero si sentì lo stomaco torcere notando i suoi occhi rossi.
Il ragazzino non osò entrare in camera però, come aspettando un cenno, un permesso o un rifiuto. In fondo, Zero poteva aver aperto la porta anche solo per uscire e andarsene.
Si guardarono per un lungo istante, uno dei loro attimi in cui si studiavano e Zero gli chiedeva scusa e Morticay gli ricordava che lo amava, non importava cosa fosse successo.
Dare e prendere.
Non capiva mai chi è che dava o prendeva di più in quella relazione assurda.
Zero chiuse la porta, mentre Morticay entrava e gli sfiorava la mano.
Zero non la ritrasse. Lo sapeva che aveva bisogno di contatto. Solo un cieco non se ne sarebbe accorto. Quel ragazzino avrebbe dato il sangue per un abbraccio. Per uno sguardo.
Morticay salì sul letto, in silenzio; quando Zero si arrabbiava spesso lui si zittiva, consapevole che la sua voce gli dava fastidio. Glielo aveva ripetuto tantissime volte, era impossibile scordarselo. Lo sapeva che gli dava fastidio qualunque cosa di lui.
Zero lo guardò, notando come lo aspettava, prima di andare verso di lui, in silenzio. Si sedette sul bordo del letto, dando le spalle a Morticay, poggiando i gomiti sulle cosce. Guardò a terra, con la voce della psicologa che gli rimbombava in testa, spietata.
“Che lei lo voglia o no, quel ragazzino la fa uscire dal pendolo”
Sentì il corpo dell’altro dietro di lui, che si sistemava meglio sul materasso, togliendogli il camice dalle spalle. Zero lo lasciò fare, senza altre reazioni.
Le piccole mani dell’altro andarono sulle sue spalle, in quello che Zero sapeva voleva essere un abbraccio, ma che si trasformò in un massaggio per rilassarlo. Le dita premevano sulle sue spalle con delicatezza, attenzione, ma anche con timore.
In quell’istante Zero si rese conto di una cosa.
Lui notava Morticay. Lo guardava. Lo osservava. Faceva caso alle sfumature dei suoi atteggiamenti, dei suoi sguardi e dei suoi gesti. Si accorgeva subito se qualcosa era diverso e spesso intuiva il perché, oppure ci ragionava finchè non lo trovava.

Perché?
Perché, se non gli interessava niente nell’universo?
Perché, se non aveva senso nulla e nessuno era importante?
Perché se l’assenza di sentimenti era tutto ciò che aveva ormai?
“Io ti vedo”.
Quella frase gli venne fuori prima che potesse bloccarla.
Poteva sentire Morticay che tratteneva il respiro e si fermava, spiazzato.
Zero si morse le labbra, pentito all’istante di ciò che aveva detto. Aveva abbassato la guardia e Morticay si sarebbe attaccato a quelle tre parole per ore, giorni, chiedendogli in continuazione cosa volesse dire, volendone sempre di più. Come i tossici che avevano una piccola dose e non riuscivano a smettere. Avrebbe insistito fino a farlo arrabbiare di nuovo, fino a che…
Zero spalancò gli occhi nel momento in cui sentì quel corpo leggero e caldo che si appoggiava a lui, portandogli le braccia intorno al collo, in un abbraccio che non era stretto. Voleva esserlo, ma non poteva. Avvolgeva solo Zero, senza pressarlo.
Zero avrebbe voluto fare qualcosa, dirgli altro, ricambiare in qualche modo.
Dare e prendere.
La verità è che Zero non gli dava niente. Non era capace e forse non lo era mai stato. Forse era lui il vampiro emotivo, quello che prendeva e basta senza dare nulla in cambio.
E lui era solo un Morty a cui era capitato il Rick sbagliato.
Sentiva il suo respiro addosso, il suo cuore che batteva emozionato, felice, per averlo così vicino.
Zero si voltò nel suo abbraccio e nel momento in cui lo guardò negli occhi sapeva che aveva bisogno di prendere ancora.
Morticay non aveva bisogno di dirgli niente, né di ricambiare quell’ammissione: era chiaro come la luce del sole che lui vedeva Zero. Era l’unica cosa che vedeva e osservava in ogni istante.
Erano rimasti più in silenzio che a parlare da quando si erano conosciuti. Ma anche i loro silenzi ormai li conoscevano bene e si dicevano più cose così che con mille discorsi.
Morticay muoveva gli occhi nei suoi, con la stessa soggezione che aveva sempre di dire o fare la cosa sbagliata. Zero gli impediva di essere sé stesso, esprimersi e comportarsi come voleva. Era quello il più grande peccato che compiva su quel ragazzino.
Lo stava rovinando.
Zero lo baciò, improvvisamente, come se avesse bisogno di aria, tenendogli il viso con una mano. Morticay fremette, trattenendosi dal ricambiare con tutta la foga che aveva quel bacio. Adattandosi a Zero, di nuovo.
L’uomo modificò l’intensità del bacio, portandolo di nuovo nelle sue acque calme e trattenute. Gli infilò una mano sotto la maglietta, mentre l’altra andava a togliergli quello stupido, adorabile cappello dalla testa. Se non fosse stato per l’espressione adorante che aveva, sarebbe sembrato qualunque altro Morty.
Zero storse la bocca, guardandolo, prima di togliergli la maglietta e salire meglio sul letto insieme a lui. Un’altra cosa su cui Morticay si modulava con lui, era il sesso: la posizione preferita di Zero era quella in cui il ragazzino era sopra di lui, in cui l’uomo poteva ricevere passivamente gli sforzi di qualcun altro, senza applicarsi particolarmente. Di nuovo, era lui a prendere.
Sapeva però che quella preferita di Morticay era un’altra, gliel’aveva detto una volta.
“Mi piace quando sono sotto di te perché posso abbracciarti meglio”.
Stupido ragazzino.
Morticay si sollevò, pronto a mettersi sopra Zero, stupendosi di come l’uomo ribaltava le posizioni per una volta, lasciandolo sdraiato sotto di sé. Lo guardò corrucciato, senza capire, ancora più a disagio del solito.
Zero sospirò, prima di levarsi la maglietta. La sua voglia, già precaria, era messa a dura prova dai sensi di colpa e quello sguardo non aiutava.
“N-non guardarmi così…”
Morticay lasciò andare lo sguardo sul petto e sulle braccia di Zero, adorante. Era come se ogni volta non notasse le cicatrici orrende che ormai erano parte di lui, da una vita. Ne era pieno, su tutto il corpo, in una ragnatela di segni che si era inferto da solo.
Da solo.
Zero deglutì, col senso di colpa che tornava mentre Morticay lo stringeva, passandogli le mani sulla schiena, in una carezza che non riusciva a rilassarlo. Quelle dita tracciavano il percorso di altre cicatrici, le uniche che non erano state fatte da lui.
Zero ricordò quella sera all’improvviso; forse non era mai stato così ubriaco, neanche da giovane. Non riusciva a tagliarsi, non aveva più spazio, non aveva la forza. Mise la lametta nelle mani tremanti di Morticay, che piangeva, obbligandolo a tagliarlo sulla schiena, più e più volte. Ricordò di come il ragazzino sporco di sangue si accasciò a terra, esausto, coprendosi il volto con le mani mentre provava a parlare fra i singhiozzi, soffocato.
“T-ti prego, Zero… Ti p-prego non farmelo più fare”.

Lo stava rovinando.
Zero non ricambiò l’abbraccio nemmeno stavolta, rimanendo immobile, con una voglia improvvisa di vomitare. Morticay sollevò il viso, per spiare la sua espressione, mentre gli allacciava le mani dietro al collo.
Zero serrò i denti, con la voglia divisa di andare e restare. Di dare e prendere.
Per la prima vera volta sperò che  Morticay prendesse il controllo. Che decidesse lui, che facesse tutto lui.
Fa sempre tutto lui.
Zero si sentì baciare sulla guancia, piano, mentre quelle dita gli accarezzavano il collo e la nuca, in una carezza che voleva solo rilassarlo. E piano piano ci riusciva.
“Va tutto bene, Z-Zero…”
Quella voce soffice e morbida gli sussurrava all’orecchio, facendogli chiudere gli occhi, abbassando la guardia. Piccoli baci lo coprivano su tutto il volto, mentre rimaneva immobile, a farsi curare.
Morticay era il suo Xanax. La sua Sertralina, la sua Fluvoxamina, la sua Fluoxetina.
Era l’unico in grado di ispirargli delle emozioni e, contemporaneamente, aiutarlo a fargliele gestire mentre cercava di rigettarle.
Zero continuava a rimanere ad occhi chiusi, con le mani poggiate sul letto ai lati del piccolo corpo che lo stava amando, curandolo dai suoi disturbi, dall’ansia che lo mangiava vivo.
Li riaprì, trovando Morticay che gli sorrideva, sereno, finalmente non a disagio e non in soggezione, che riusciva a fare la cosa che gli riusciva meglio: essere presente, con tutti i suoi pro e i suoi contro.
Il ragazzo lo baciò, un bacio dolce che gli lasciava i suoi tempi, i suoi spazi e che Morticay si stupì nel sentire ricambiato.
Zero lo strinse piano, in un abbraccio che di nuovo sembrare cercare aria.
Si baciarono a lungo, per quelle che sembrarono ore, prendendo e dando l’uno all’altro per tutta la notte, fino alla mattina successiva.
Quella notte però, venne anche Zero, insieme a Morticay.
Il pendolo forse si era fermato per un attimo, ma le emozioni non erano le stesse di sempre.



Nota: spero vi sia piaciuto e, per favore, lasciate sempre un commento, anche agli altri autori :) stiamo pensando di cominciare a postare solo in inglese ahah <3 dai EFPiani, risorgete

 
  
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