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Autore: Fox2_Fox    28/04/2020    0 recensioni
«Torna qui, Saber, non essere così cattivo con me»
Saber odia quando lei lo chiama così.
«Devo andare Caster, lo sai. La mia Master mi aspetta.»
È quasi riuscito ad annodare anche i lacci dell’altra scarpa prima che lei parli di nuovo, improvvisamente più vicina, tanto che Saber riesce a sentirne il respiro bollente sulla pelle della nuca.
«Non me stupisco, Saber, la tua Master ti aspetta sempre, forse anche un po’ troppo. Non mi piace che sia così appiccicosa, se devo dirla tutta.» Il respiro di lei sulla carotide, le labbra lungo il pomo d’Adamo, la lingua che cattura il sudore che scivola verso la clavicola. «Dovrò prendere provvedimenti, se continua così.»
|Oc Saber x Oc Caster, in una qualunque guerra del Graal. L'identità dei due Servant è rivelata all'interno. Si ringrazia il compito sulla Gerusalemme Liberata di Tasso per l'idea|
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Premetto che non ho idea se pubblicarla sulla sezione di Fate/Stay Night abbia senso dato che sono due OC, ma ne manca una per Grand Order e non sapevo bene cosa fare, dunque mi ritrovo a postarla qui, essendo che si svolge durante una qualunque guerra per il Santo Graal.
Avviso anche che potrebbe essere un po' dub-con, ma in realtà non lo so nemmeno io.
Buona lettura!


«Torna qui, Saber, non essere così cattivo con me»

Saber odia quando lei lo chiama così, e lei lo sa benissimo e probabilmente lo appella con quel nome fittizio solo per irritarlo, forse perché sa che lui farebbe di tutto, per farsi chiamare da lei in altro modo.
Saber non risponde, non la guarda muoversi come una gatta tra le lenzuola, ma avverte il fruscio della stoffa, il suo profumo che si fa incombente e gli dà lentamente di nuovo alla testa. Continua a rivestirsi, ostinato, allacciandosi la cinta di cuoio in vita, a cui lega la spada prima di fare ogni altra cosa. Opera con gesti meccanici, privi d’entusiasmo ma secchi, scandagliati, perché non può fare altro per opporsi e tornare in sé.
«Saber»
Miagola di nuovo lei, più vicina, la stoffa pregiata del lenzuolo che fruscia ancora mentre lui fa scivolare la maglia di lino dalla testa giù sulle spalle, lungo la pelle ancora segnata e sensibile per il tocco di lei. Saber si china, stringendo i lacci dello stivale, annodandoli stretti, sperando forse che riescano a mantenerlo lucido senza fargli tremare la voce.
«Devo andare Caster, lo sai. La mia Master mi aspetta.»

È quasi riuscito ad annodare anche i lacci dell’altra scarpa prima che lei parli di nuovo, improvvisamente più vicina, tanto che Saber riesce a sentirne il respiro bollente sulla pelle della nuca.
«Non me stupisco, Saber, la tua Master ti aspetta sempre, forse anche un po’ troppo.» Le dita di Caster gli sfiorano le braccia partendo dai dorsi delle mani, passando ai polsi nudi e poi agli avambracci coperti dalla stoffa di lino, delicatamente spostata a quello scopo. «Non mi piace che sia così appiccicosa, se devo dirla tutta.» Il respiro di lei sulla carotide, le labbra lungo il pomo d’Adamo, la lingua che cattura il sudore che scivola verso la clavicola. «Dovrò prendere provvedimenti, se continua così.»

Rinaldo, questo il nome del Saber, prode crociato della prima guerra santa, vincitore di Gerusalemme al servizio di Goffredo di Buglione, si volta di scatto, animato d’ira mista al desiderio rinato all’improvviso, senza che lui possa far nulla per controllarlo. Caster è ancora stesa a letto, un poco più vicina a lui, questo sì, ma di ben poco mossa dalla sua posizione iniziale. Rinaldo stringe i denti, l’ira acuita.
«Smettila di usare i tuoi sporchi trucchi su di me, maga. E se provi a minacciare ancora la mia Master io...»
Ma la frase resta sospesa nel vuoto perché Armida ride, i capelli biondi disciolti dalle sue belle trecce sparsi tra le lenzuola, pronti per essere accarezzati con dolcezza e tirati con forza.
«Solo dalle tue mani.»
Mormora lei, strisciando tra stoffa, ora più simile ad un serpente che ad un gatto, trascinando con sé il telo bianco, mollemente drappeggiato addosso, che, però, la copre ancor meno dei suoi soliti veli.
«Ti ho detto di non usare le tue magie su di me! Smettila di provare a leggermi nella mente.»

Rinaldo la odia. Odia il modo in cui la sua pelle quasi si confonde con il bianco lattiginoso della stoffa ma poi risplende d’un tono olivastro, quando il sole la bacia con dolcezza. Odia il modo in cui lei gli sorride con le sue labbra rosso ciliegia, che così bene baciano le sue, il suo corpo, suggono la sua pelle, voluttuose. Odia il modo in cui lei si muove, avvicinandosi a lui, prendendogli una mano tra le proprie e baciandola con delicatezza, prima il dorso e poi il palmo, facendo passare la lingua tra le dita, sui polpastrelli, mentre lo guarda con libidine, una libidine che, a Rinaldo, fa scordare qualunque torto e qualunque offesa, qualunque magia possa aver usato. Odia il modo in cui lei gli fa chiudere gli occhi al suono della propria voce, le mani che ora gli scorrono sul corpo per davvero e non per un’illusione voluta dal demonio.

«Lascia la tua spada, mio cavaliere, la tua durlindana non fuggirà se indugi ancora un poco con me. Dimentica il tuo scudo e lascialo riposare, non lo tradirai e lui non sentirà la tua mancanza, per qualche ora non trascorsa sulla tua schiena. Mentre io... io non potrei dire lo stesso, per le ore passate lontano da te.»
«Armida...» la chiama lui, ricevendo in cambio solo i polpastrelli di velluto di lei sulle labbra, che gli intimano di far silenzio. Le dita di lei gli slacciano la cinta di cuoio e la spada nel suo fodero cade a terra, tintinnando senza far rumore, forse per opera della stessa Caster, forse perché è Saber stesso a non volerla udire.
«Fai dono della tua presenza a questa maga pagana, io te ne prego, Rinaldo, mio cavaliere, mio amato, mio sposo. Rinaldo. Non abbandonami per questa notte, resta con me, amami come ti amo, desiderami come faccio io. Rinaldo.» lei gli mormora nell’orecchio come il demonio, sillabando il suo nome un’infinità di volte, mangiandolo con quelle labbra rosse, venerandolo con quel tono figlio del peccato.

Rinaldo sente il capo vorticare, lo sguardo appannarsi e la carne riprendere vita, indipendente dalla sua volontà. Volontà? Quale volontà? La carne è debole, dice il Vangelo, e Rinaldo ci pensa mentre scivola oltre i piedi del letto, di nuovo sul materasso di morbide piume, le mani di Armida sul petto nudo, spogliato delle vesti di lino. La carne è debole come debole è la sua volontà, quando si tratta di lei. E Rinaldo la odia, la odia con un’intensità spaventosa anche quando lei lo accoglie dentro di sé con un gemito, seduta sul suo bacino, calda, avvolgente, fatta da Dio per adattarsi a lui, i seni nudi che implorano di essere toccati, strizzati, baciati e morsi, che gli urlano di segnare quella pelle bianca con le proprie dita e le proprie unghie. La odia, anche se sa che non potrà passare tutta la vita a dare a lei la colpa dei suoi peccati. Forse, però, può farlo ancora per quella notte, prima che giunga la mattina, il sole sorga e loro siano di nuovo nemici. Un nemico a cui è incapace di puntare contro un’arma, un nemico incapace di ferire in battaglia, ma pur sempre un nemico. Dubita che per lei sia lo stesso, dubita che lei esiterebbe anche solo un istante a scagliare una freccia dritta al petto vulnerabile di quel Saber straziato d’amore, se questo le potesse assicurare la vittoria.

 Forse può darle ancora le colpe per quella notte, fintanto che vi sono solo le stelle e la luna a guardarli da oltre quella finestra. Forse può ancora aggredirla, spingerla sotto di sé e farla urlare, preda d’un orgasmo, tirandole quei bei capelli biondi mentre lei gli affonda le unghie nelle spalle, pensando che sia il grido di dolore che mai sarà capace di strapparle sul campo di battaglia.
Forse può ancora suggere le sue labbra un’altra volta, credendo che quello sia il loro ultimo bacio.
   
 
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