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Autore: jesusa    29/04/2020    0 recensioni
Questa è la storia di un bambino che dalle tenebre porta una madre vecchia ed un po' di stracci, dei tarocchi consumati. Questa è la storia di come Kim Kibum ha portato la luce, di come due bambini sono diventati ragazzi, e poi adulti, insieme. Di come si sono amati, senza saperlo. Di come si sono protetti. Di come si sono consumati.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jonghyun, Key, Quasi tutti
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Il Mendicante

 

I.

Arrivasti che era notte, e pioveva a dirotto. Eri vestito di stracci, camminavi come un mendicante, i tuoi occhi erano bassi. Dietro di tè stava tua madre, che era malata, vecchia ed esausta. Stava morendo, e da tempo non riusciva più a vedere altro che nebbia nella sua sfera, e le carte erano diventate incomprensibili, non le sussurravano più niente nella lingua dei suoi antenati. Eri troppo giovane, un ragazzino, ma avevi gli occhi di un vecchio, da tempo non sorridevi più. Quando mio padre aprì il pesante portone di legno, pensò di non aver mai visto qualcuno così piccolo ed indifeso. Io pensai che tu fossi bellissimo. Non vi conoscevamo, ma eravate poveri ed avevate bisogno di aiuto; noi non navigavamo di certo nell'oro, ma avevamo un tetto sopra la testa, pesanti mantelli ed un fuoco a scoppiettare nel camino. Vi facemmo entrare e tu quasi piangesti dalla gioia. Con le lacrime agli occhi affidasti tua madre alle cure della mia bellissima sorella, che la guardò con apprensione mentre le avvolgeva attorno delle vecchie pellicce e la faceva sedere vicino al fuoco, attenta ad accompagnarla. Mio padre era alto e massiccio, infinito rispetto a te, che eri minuto e così magro che veniva da chiederti come riuscissi a tenerti ancora in piedi. Ti fece sedere su una sedia del nostro rustico tavolo, con voce grossa mi ordinò di portarti un po' di zuppa e di pane. Con me non fu mai dolce, ma con te usò sempre parole di cristallo. Una volta ne ero geloso, ma poi capii che tu eri troppo fragile, non avresti mai sopportato toni duri dalla persona che ti aveva salvato la vita. Avevi bisogno di mangiare tanto e mangiare caldo, ti portai una scodella attento a non rovesciare il suo contenuto. Tornai dopo qualche secondo con una pagnotta bruciata, ma tu la guardasti con occhi meravigliati e la mangiasti con gli occhi chiusi, perché non volevi farci vedere la tua emozione; da troppo non ti regalavano un pezzo di pane, e tuo padre era scomparso da anni. Quella notte ti sentii piangere sommessamente dal duro pavimento di pietra, e pregare sottovoce un Dio che non conoscevo e in cui non avevo mai creduto. Tua madre era stata affidata a mia sorella, che era la migliore guaritrice del villaggio; la vegliò tutta la notte e cantò per lei una ninna nanna per farle dormire un sonno tranquillo.
 

II.

I tuoi capelli erano neri come la notte di campagna, la tua pelle chiara come la camicia di quel ragazzo ricco che a volte si vedeva nella bottega del signor Kwon mentre comprava dell’ottimo vino ad un prezzo così buono che in città non avrebbe avuto concorrenza. Tu la città non l’avevi mai vista, e guardasti affascinato la sua macchina nera nuova di zecca, così sontuosa che la povera gente del villaggio a fatica aveva il coraggio di occhieggiarla. Io la città l’avevo vista una volta sola, quando la mamma era incinta di Yura e da tempo stava così male che era impossibile non richiedere l’aiuto di un dottore. Ma a te avevo detto che della città sapevo tutto, e te ne avevo parlato con esuberante fantasia, voglioso di rivedere la luce di curiosità che ti scintillava negli occhi esotici quando scoprivi qualcosa che nessuno mai aveva avuto modo di raccontarti. Allora le tue guance non erano piene come lo sono ora, la forma del viso era quella di un bambino dai tratti dolci. Adoravo i tuoi occhi lucidi di intelligenza, scuri quanto i tuoi capelli, pensavo che la forma delle tue orecchie fosse graziosa quanto il tuo collo fine. Ti chiamavi Kim Kibum, e venivi dalla notte, perché era così che ti piaceva pensare.
 

III.

Non conoscevi la tua età e non eri mai andato a scuola, ma eri sveglio ed avevi un cuore grande. Quando morì tua madre, passasti tutto il giorno inginocchiato al suo giaciglio, con la sua mano raccolta tra le tue; lei morì con gli occhi pieni di tristezza e affetto per quel figlio che aveva avuto troppo tardi e che non era riuscita a crescere. Sussurrò una preghiera a mio padre, e lui strinse la tua spalla commosso, rivedendo in lei la defunta moglie tanto amata. Tua madre chiuse gli occhi e fu come se scivolasse in un sonno profondo; piangesti al suo capezzale per una notte intera, poi esausto la lasciasti andare. Ti chinasti sopra il suo volto pieno di rughe di fatica e baciasti con dolcezza le sue palpebre; le accarezzasti i capelli grigi ed una tua lacrima le bagnò la guancia. La accompagnasti trascinando le tue gambe deboli fino al cimitero, dietro al prete, sorretto da mia sorella. Io ti guardai da lontano dirle addio, incapace di affrontare il tuo dolore troppo grande, troppo infantile per poterlo capire. Io avevo 10 anni, e tu di poco più grande, ma in quel momento sembravi infinitamente più vecchio.
 

IV.

La perdita di mia madre per me non era stata così difficile da superare, magari perché ero ancora troppo piccolo per capire che non l’avrei mai più vista se non nei miei sogni e che la sorellina che papà aspettava con tanta trepidazione non sarebbe mai arrivata a scaldargli un po’ il cuore, o forse perché semplicemente non ho vissuto il dolore e le fatiche che avevi sopportato tu con le tue gracili spalle. Ma in realtà reagisti piuttosto bene. Di lei ti restavano le sue carte rovinate ed una carezza invisibile sul volto, labbra dimenticate contro la fronte. Eri abituato alla sofferenza e alle perdite, forse noi eravamo la prima porta che non ti era stata sbattuta in faccia. Magari tu lo sentisti come un dovere quello di reagire, di andare avanti, forse lo dovevi a tua madre, forse semplicemente sognavi una vita migliore. Mio padre andò subito in comune, diede per scontato che tu saresti rimasto con noi; non avevi dove andare, eri orfano e povero. Ed eri ancora troppo magro e debole, nonostante il po’ di peso che avevi guadagnato in quelle poche settimane e le tue guance fossero più colorite e piene; eri scarno, e quasi ti si vedevano le ossa del bacino. Ti ci vollero anni, comunque, per trovare il peso perfetto, per tornare in salute. Mio padre ti diede il suo cognome e prese la tua responsabilità su di sé; penso spesso che lo abbia fatto oltre che per salvare te, per salvare sé stesso. In quel periodo stava diventando sempre più nervoso, la tua presenza lo aiutò a trovare nuovamente l’equilibrio. Aveva qualcuno di cui prendersi cura, qualcuno che dipendeva da lui completamente. Mia sorella era ormai adulta, ed io sapevo cavarmela da solo, ero robusto e a parte qualche sporadica influenza ero sempre stato sano e resistente: col tempo sarei diventato massiccio e le mie spalle sarebbero diventate larghe e forti. Ma tu sei sempre rimasto magro come un chiodo, nonostante col tempo cominciassi a mangiare tanto e con gusto.
 

V.

Qualche tempo dopo, con voce timida, mi chiedesti di insegnarti a scrivere; sapevi leggere, ma non avevi mai preso in mano una penna. A scuola le mie materie preferite erano coreano ed educazione motoria, e la matematica proprio non mi andava giù. Tu mi guardavi in silenzio fare i compiti, ma mai prima di allora avevi espresso la volontà di imparare. Accolsi la tua richiesta con gioia, volevo che tu mi guardassi ancora con occhi stupiti, e volevo sentirmi utile, volevo che tu mi sorridessi come ti avevo visto fare a mia sorella, quella volta che ti stava mostrando come impastare il pane e ti eri sporcato con la farina fin sui capelli scuri. Tu non sorridevi mai, se eri di buon umore sollevavi leggermente gli angoli della bocca in su, poi niente più. Quando scrivevi, però, sorridevi un po’ di più. Ti divertiva vedere l’inchiostro uscire dalla punta della penna, ed uscire storto e male, prendevi in giro la tua grafia sghemba e a volte sfioravi in punta di dita le parole che avevo scritto io, invece, sussurrando che fossero al cosa più bella del mondo. Ma la cosa più bella del mondo era per me i tuoi denti che finalmente si arrischiavano a farsi vedere, la tue bellissime labbra tirarsi, la tue guance magre sollevarsi. Vederti sorridere mi faceva battere forte il cuore, e spontaneamente sorridevo anch’io. Eri speciale, perché venendo dalla notte avevi portato un po’ di luce nei nostri cuori.
 

VI.

Non ho mai pensato a te come a mio fratello, e tu nemmeno. All’inizio eri fin troppo timido, poi sei diventato troppo esuberante, ed io mi sono sempre mangiato le mie paure ed insicurezze, ho sempre amato troppo, ho sempre agito troppo d’istinto, sempre per il tuo bene. Ho sempre amato anche te, ma mai come un fratello. Tu sei la mia anima, sei parte di me, e lo sai bene, perché anch’io sono parte di te.
 

VII.

Quando per la prima volta venisti a scuola, tra di noi ero io quello più emozionato, anche se non te l’ho mai detto. Era passato un anno da quando eri arrivato quella notte buia in tempesta. Non avevi più le guance scavate e mi concedevi più spesso i tuoi rari sorrisi. L’ombra di tua madre era benevola e ti benediva in ogni cosa, tu la ricompensavi andando a trovare la sua lapide ogni mercoledì, perché era quello il giorno in cui ci lasciò. Il villaggio ti aveva accettato seppur con un po’ di diffidenza, ma mio padre era un uomo onesto e rispettato, e non aveva faticato molto a convincere i nostri compaesani della tua bontà d’animo. I vicini ti adoravano, e ti piaceva molto stare seduto in strada, con i cani che ti gironzolavano liberi e sporchi intorno. Non ti preoccupavi di sporcarti le mani ed i piedi, ma trattavi con cura qualsiasi cosa mio padre ti regalasse. La tua prima penna era custodita nel tuo astuccio, la usavi molto durante le nostre esercitazioni. Guardasti intimorito i bambini che entravano nell’edificio scolastico, non eri abituato a così tanti schiamazzi e risate, tu allora eri ancora un tipo solitario e tranquillo che rideva solo nella sua testa, forse per portare rispetto al tanta amata madre defunta. Mi tesi al sentire la tua giacca sfiorare la mia mano rossa dal freddo, perché a te non piaceva il contatto fisico ed anche quando giocavamo insieme eri sempre distante; sapere che inconsciamente ti fossi fatto più vicino per tranquillizzarti mi rese fiero. Ti stavi affidando a me, e ne ero contento. Ti sfiorai la mano e tu la ritrassi, silenzioso, ma mi rimasi vicino e mi guardasti negli occhi. Salimmo le scale fianco a fianco, ti accompagni nell’aula che avremmo condiviso per quell’anno. L’insegnante, una donna di mezza età vestita con saccente eleganza, ti tenne con un gran sorriso al suo fianco finché non furono entrati tutti, poi ti presentò alla classe. I bambini ti guardarono un po’ meravigliati e un po’ diffidenti, tu tenevi la testa china ed avevi le guance accese di pura vergogna. Mentre ti dirigevi verso il posto che avevo lasciato vuoto di fianco a me pensai che non avresti dovuto vergognarti di mostrarti, perché la tua forza stava nelle tue spalle gracili e nelle tue gambe sottili, che ti avevano portato dal sud fino al mio paesino gelato d’inverno.
 

VIII.

La prima volta che i nostri compagni ti presero di mira io non c’ero. Stavamo crescendo, eravamo quasi adolescenti ormai. Ti ruppero la penna che mio padre ti aveva regalato schiacciandola insieme alla tua mano. Tu mi dissi che eri caduto, e nascondesti la plastica frantumata della penna nell’astuccio per non farmela vedere. Ti vidi un po’ strano ed ingenuamente pensai che forse eri un po’ sovrappensiero, che forse stavi pensando a tua mamma. Invece eri intrappolato in un vortice di paura, e non volevi ci finissi anche io. Non ti fidavi ancora di me, non consideravi ancora la mia forza ed il rispetto che il nome che mio padre si trascinava dietro. Avrei voluto che tu ti confidassi da subito con me, ma eri ancora troppo testardo ed ingenuo, pensavi te la saresti cavata. Che poi mio padre ti comprò un’altra penna lo scoprii poi tardi, quando con meraviglia pensai che dovevo essermi preso un colpo in testa se pensavo che l’inchiostro si fosse davvero consumato così tanto in quei mesi, quando invece l’unico che lo aveva consumato ero io. Le prepotenze i nostri compagni le fecero continuare per quasi un mese, a volte ti prendevano la merenda, altre volte ti davano un pugno in pancia, perché tanto lì ti saresti visto solo tu, che tra le altre cose eri pure pudico, e ti vergognavi a spogliarti davanti a noi. Mi accorsi dei tuoi occhi sfuggenti, e le occhiate che loro ti lanciavano non mi piacevano. A volte quando ti muovevi facevi certe smorfie che non sapevo ancóra interpretare, ma tu inclinavii gli angoli della bocca in su e mi sussurravi che era tutto a posto. Iniziai a temere qualcosa, anche se non sapevo cosa, e cercai di fare più attenzione a cosa ti succedeva. Magari ero paranoico, pensai. Ma magari un problema c’era sul serio. Un angelo fece sì che mi trovassi quasi in classe quando ti circondarono quel giorno. Ricordo il tuo gemito soffocato che mi giunse da dietro la porta, e le loro risate e battute sprezzanti, il cuore che batteva improvvisamente sordo nelle orecchie mentre aprendo la porta ti trovai per terra, in mezzo a loro. Una rabbia cieca prendeva vita dentro di me e loro si bloccarono spaventati quando mi videro. Erano più grossi di te, ma io ero più grosso di loro. In un attimo mi ero fiondato a proteggerti con furia, mi dimenavo e picchiavo così forte perché volevo fargli male, volevo difenderti. Sono uscito completamente di testa, anima mia, a vederti solo ed indifeso circondato da quei bulli che avevano osato prenderti a calci, a te che dalle sofferenze mi ero detto ti avrei tenuto lontano. Chiesero perdono in ginocchio, il moccio al naso; intimai loro di sparire, fuggirono con la coda tra le gambe. Tu eri rannicchiato in un angolo, scosso da potenti singhiozzi, ma non piangevi. Tremavi e basta, ti abbracciavi le ginocchia. Ti guardai e la rabbia si smontò completamente dietro di me. Mi venne voglia di buttarmi a terra e fare i capricci come un vero bambino, ma dovevo essere forte. Con le mani che tremavano e facevano male per le botte che avevo dato, ed il petto che si alzava ed abbassava velocemente, aspettai la campanella suonare. Ci sedemmo al nostro posto in silenzio, tu ancora schiacciato dalla tua pena, io dell’ingiustizia che avevi subito. Pensai con rammarico che non te lo meritavi, che erano solo dei vili. Ma non ci potevo fare niente.
 

IX.

Mio padre mi urlò contro quando vide le mie nocche sbucciate e le mani graffiate. Ti guardai, che con occhi sfuggenti mi stavi pregando di non dire niente. Subii la sua sfuriata senza dire niente, per non farlo arrabbiare ancora di più e per non metterti in una brutta situazione. A vedermi cosi silenzioso si infuriò ancor di più, pensava fossi io quello nel torto, ma non poteva saperlo. Avevo deciso di difenderti e lo avrei fatto, anche a costo di qualche schiaffo da parte di mio padre. Fu mia sorella a tranquillizzarlo, pallida in volto mi trascinò via dalle sue bestemmie, e te con me. Ci portò al mercato, con un sorriso teso ci regalò dei dolcetti che consumammo sovrappensiero. Quando tornammo mi bloccò un attimo fuori dalla porta, mi disse di continuare a proteggerti, perché ne avevi bisogno. Allora non ci pensai, ma poi, chi avrebbe protetto me?
 

X.

I bulli ti lasciarono stare, ma tu eri comunque spaventato ogni volta che li vedevi passarti di fianco. Ti stringevi nelle spalle ed inconsciamente il piede ti tremava, ti leccavi le labbra perché la bocca ti si inaridiva. Io stavo la tua fianco, vegliavo su di te come avrebbe fatto un fratello maggiore. A scuola stavi attento ed eri diventato il preferito della maestra. Ti piaceva la matematica, ed in coreano andavi così così; a volte sbirciavo i tuoi compiti, per vedere cos’avevi scritto, ma mai notai un errore. Fu così che in qualche modo nacque la nostra competizione, che vedevo solo io. In casa mio padre ti trattava con i guanti, mia sorella ti guardava con dolcezza; non mi trattavano male, ma la differenza tra noi due era ben evidente. Ero io a fare e fare, e tu a giocare, in un angolino in silenzio, a tracciare forme libere col carboncino. Anche se chiedevi di aiutare, loro di dicevano di no, e mi costringevano a lasciare quello che stavo facendo per farlo io. A volte mi guardavi con occhi colpevoli, ti sentivi in debito con me e non sapevi come fare per estinguerlo. Ma io non ce l'avevo con te, ce l'avevo con me stesso, ce l'avevo con mio padre che non mi aveva più baciato da quando mamma era morta, e con mia sorella che mi trattava come l'adulto che non ero.
 

XI.

Quando la bambina più bella della scuola decise che tu saresti stato il suo fidanzatino, tutti cominciarono a guardarti con occhi diversi. Le tue gote si arrossavano quando lei ti rivolgeva un sorriso da lontano, entravi in panico quando arrivava a prenderti per mano ma non protestavi e la seguivi con dolcezza. Era lei a venire da te, a cercarti quando avevamo quell’oretta libera dopo pranzo. Vi sedevate da soli dietro una siepe, nascosti dagli altri, e gli altri bambini gravitano lontani da quella zona automaticamente e senza farsi domande, senza chiedersi come o perché. Vi avevano eletti sovrani assoluti della scuola senza aver bisogno di parlarne pubblicamente. Io non ti chiesi niente e tu non dissi nulla, perché entrambi sapevamo già tutto. Il tuo sorriso spensierato e la tua crescente allegria erano abbastanza, per me, per comprendere quello che pensavi, quello che succedeva adesso che non eri più una mia esclusiva. Ogni volta che vi guardavo, mi chiedevo cosa fosse quel peso nel petto che sembrava non scomparire mai, quella voglia di correre e urlare.
 

XII.

Ammettere a me stesso di essere geloso di te fu difficile, perché significa dirmi chiaro e tondo che di te mi importava, ed io non l’avevo mai detto espressamente, avevo solo preso come un dato di fatto il doverti proteggere. Lo ammisi che ormai eri con noi da qualche anno, e ti guardavo diventare ogni giorno più forte del tuo aspetto, più sicuro nella tua pelle di straniero, più esuberante nel parlare. Le ragazze ti guardavano ammaliate discorrere, e si innamoravano di te con facilità. In dieci minuti uscivi dalla classe con una ragazza a seguirti docile, la mano stretta nelle tue, lei a sorridere imbarazzata con la testa chinata verso la tua spalla. Spesso mi capitava di seguirti con gli occhi allontanarti, e con rabbia li distoglievo quando tu mi lanciavi un'occhiata interrogativa da sopra la spalla fine di lei. Ti eri, nel tempo, accorto del bisbigliare delle bambine al tuo passaggio, e crescendo ti facesti più acuto, si sviluppò in te una profonda intelligenza, che ti portava ad analizzare analiticamente ogni situazione, pesarne i pro e i contro ed in poco prendere una scelta. Era così che avevi iniziato a muoverti nella sottile arte della seduzione. Capivi da subito con chi avevi a che fare, ti bastava guardarlo negli occhi ed avresti potuto anche parlare, inventando vita e morte dei suoi cari, e paradossalmente azzeccare ogni singola parola. Una volta mi spiegasti che bastava fare attenzione ai gesti ed alle increspature della bocca, ai movimenti delle mani, all’abbassarsi degli occhi. Per te le persone erano come un libro, scritto in codice: una volta compreso, velocemente potevi leggerlo, ed altrettanto velocemente potevi indovinarne la fine. Questo non me lo dicesti mai, ma da subito avevi letto anche noi allo stesso modo, avevi capito di poterti fidare e di essere al sicuro, perché avevi capito ogni cosa. Non mi dicesti mai neppure che tua madre utilizzava questa sottile arte, e così attirava nella vostra tenda ragazze, donne, giovanotti, vecchi, e dava loro una consolazione se ce n'era bisogno, un consiglio se ne necessitavano, nascosta dalla sua sfera, i tarocchi aperti sul tavolo. Tu eri comunque sempre buono, sempre corretto: davi a loro quello che volevano, ma non ti facevi mai trascinare. Parlavi, ascoltavi. Ma non facevi altro.
 

XIII.

Crescendo, le nostre differenze divennero più evidenti. Io ero più istintivo, ed alle ragazze piacevo per questo. Se avevo voglia di baciare qualcuno lo facevo, e loro si abbandonavano totalmente tra le mie braccia. Anch'io ero cresciuto, ed avevo iniziato a mettere su muscoli grazie alle ore di lavoro che passavo nell’officina del fabbro, a battere sul metallo bollente, la schiena dolente ed il collo sudato. Alle ragazze piacevo per questo, perché avevo un aspetto mascolino e sicuro, perché sapevo farle sentire protette, perché non dovevano vivere nell’ansia del primo passo, che era certo avrei fatto io.  A differenza tua non sapevano leggermi dentro, e non vedevano come mi rammollissi ogni qual volta tu mi rivolgevi la parola, come diventavo improvvisamente premuroso se intorno c’eri tu, se avevi bisogno di qualunque cosa. Avevo sviluppato un grande senso di protezione ed ero geloso di qualunque cosa o persona ritenevo mia. Più volte avevo fatto a botte con altri ragazzi perché avevano anche solo osato guardare un po' più a lungo le gambe della mia ragazza, e non ne ero mai uscito perdente. Tu mi scoccavi uno sguardo di rimprovero appena circolava la voce, e mi guardavi con sdegno. “Idiota” mi dicevi, “poi non ti sorprendere se tutti in paese pensano che stia diventando una sorta di animale”. Ma appena ti giungeva voce delle mie risse correvi a cercarmi, e spesso mi tiravi fuori dalla massa, tenendomi a mala pena fermo con le tue gracili braccia. Mi spingevi lontano, mi trattenevi per il braccio quando con un ringhio cercavo di ributtarmi contro il mio avversario, ti guardavo con rabbia e tu con altrettanta rabbia mi urlavi contro. Spesso ti tenni il muso per qualche giorno, sentivo il tuo rimprovero bruciare sulla pelle, la tua aria di superiorità mi dava fastidio, tu che in vita tua non avevi mai fatto a botte, che preferivi usare le parole, od il silenzio. Giudicavi male questo miei atteggiamenti aggressivi, ma perché una cosa, di me, ancora non l'avevi capita: che ero diventato così per te, perché sapevo di non odiarti ma al contempo non mi riusciva non farlo, perché eri troppo perfetto in confronto a me, che ero troppo rude e di gran lunga meno bello, meno fine.
 

XIV.

Quando una sera dei tuoi diciassette anni bussasti alla mia porta, io ero steso sulle coperte rozze del mio letto, che una volta era stato di mia sorella, ormai sposata e lontana. Ti guardai entrare in silenzio, avevo il labbro spaccato dalla rissa del giorno precedente, e non mi avevi ancora rivolto la parola. Ti sedesti a braccia incrociate ai piedi del mio letto con aria scocciata, non mi guardavi. A pensarci adesso, doveva sembrare una scena buffa, io steso a pancia in su con le sopracciglia aggrottate ed il labbro tagliato, i capelli scompigliati, e tu, le gambe magre e lunghe stese davanti a te, a darmi le spalle, incazzato per qualcosa in cui non c'entravi. Mi dicesti: “oggi io e Seolhyun l'abbiamo fatto”. Il mio cuore ebbe un guizzo, la tua voce era stata fredda e decisa, sembravi disinteressato, ma io sapevo che in realtà stavi tremando, che dentro ti vergognavi ma non più di tanto, che la curiosità di vedere la mia espressione ti stava uccidendo, ma l'orgoglio ti tratteneva dal girarti e guardarmi. Tanto meglio, mi dissi poi, non avevi potuto vedere l'espressione di puro terrore che per un momento mi si era dipinta in faccia. Ma io ero bravo a nascondere i miei sentimenti, e tu lo sapevi bene. “Benvenuto nel mondo animale”, ti dissi, ed era la risposta che volevi. Mi girai di fianco, non dissi più una parola. Chiusi gli occhi, ma vedevo dietro le palpebre serrate il tuo mezzo sorriso, e l'espressione di vittoria che sicuramente avevi in quel momento mentre uscivi in silenzio. Appena sentii la porta chiudersi lasciai uscire il mio tremante respiro. Scattai a sedere, la rabbia che pompava improvvisa nelle vene. Con un gesto rabbioso scagliai un libro di scuola contro la parete. Ricadde con un tonfo sordo. “Cazzo!” Urlai. Dalla tua camera non giunse nessun suono. Adesso eri certo della mia risposta. Avevi avuto la tua vendetta. Imparai a mie spese col tempo che deludere te equivaleva a notti insonni, a girarsi nel letto tra l'ira, la paura di perderti, l'orgoglio che bruciava, e qualcos'altro che ancora non riuscivo a distinguere.
 

XV.

Non ci parlammo per giorni. O meglio, non ti parlai per giorni. Appena ti vedevo aprire la bocca per prendere aria mi giravo da un'altra parte, consapevole che se la tua vendetta era già stata consumata, la mia era il silenzio che ti faceva rodere dentro. Non sapevo nemmeno io perché me la fossi presa tanto, alla fine era giusto che anche tu facessi le tue esperienze. E con me di certo non potevi farle. Ero arrabbiato, ma più che altro mi sentivo sconfitto, umiliato. Avevo fatto un sogno, quella notte: tu entravi in camera mia a notte fonda, il buio che rendeva impossibile guardare fuori dalla finestra. Con passo di gatto ti avvicinavi al mio letto, e mi guardavi sospirando. Una carezza sulla mia guancia, i miei occhi che non lasciavano i tuoi, spalancati, innaturali. Sorridevi con le labbra serrate, con un ginocchio ti appoggiavi al letto, che sprofondava sotto il tuo leggero peso. Mi svegliai nel momento in cui le tue labbra sfioravano le mie.






 
Angolo autrice :). Ciao a tutti coloro i quali sono arrivati fino a qui! Sono jesusa, ho vent'anni e questa storia l'ho scritta anni fa, quando ancora il kpop era la mia passione più grande e mi piaceva tanto scrivere. Si tratta perciò della mano di una adolescente, che ho pensato fosse giusto condividere; ho pensato fosse giusto dare alla me ragazzina la possibilità di farsi conoscere un pochino. E, perchè no, fare un tributo al caro Jonghyun, che resterà per sempre nel mio cuore. L'ho pensata anni fa, e forse devo riprendere un po' la mano. Ma lo farò volentieri. Vi auguro una buona giornata!
 
  
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