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Autore: beavlar    05/05/2020    1 recensioni
Fili e Kili sono morti, hanno sacrificato tutto per il loro re, per la loro gente, ora anche Thorin dovrà rinunciare a tutto, ai suoi pregiudizi, alle sue idee, alle sue alleanze, per il suo "tesoro" e il suo popolo.
Dall'altra parte una mezz'elfa divisa tra due razze, dovrà invece fare i conti con il suo oscuro passato, accettando se stessa e accettando accanto a se il re di Erebor.
Due animi carichi di dolore e rimorsi, in cerca del loro posto al di sotto della Montagna e al di sopra delle stelle.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Sotto le stelle








 

 
Le fucine erano semi deserte quel pomeriggio i nani erano riusciti a far funzionare le grandi fornaci, ma i danni causati all’attacco al drago erano stati molti: con i mulini fuori uso e le carrucole di trasporto totalmente distrutte, le officine erano quasi inutilizzabili.
Anche se di seconda importanza rispetto alla ricostruzione delle strutture principali della città, i nani avevano velocemente spostato le incudini, che di solito venivano usati per lavori manuali piu’ pregiati, alle forge, per poter permettere la creazione veloce di oggetti di prima necessità.
E lì accanto a una di quelle, la piu’ lontana dalle altre, un Re dei nani, batteva con forza il suo martello sulla lega sotto di lui.
Il rimbombo del martello sull’incudine rimbombava all’interno della fucina, Thorin assestava colpi ritmati, alzando e abbassando il braccio con forza, piegando il metallo a suo piacimento. I muscoli gli si contraevano a ogni martellata, che aumentavano di forza appena uno dei pensieri che si era ripromesso di cancellare gli tornava alla mente. Chiodi, pinze, martelli, anelli per catene, aveva forgiato di tutto quella mattina, che poi si era protratta fino a diventare pomeriggio.
Lavorare alla forgia  era l’unico modo che conosceva per svuotare la mente, da tutto quello che era successo nelle ultime settimane, ma piu’ le martellate diventavano forti piu’ anche i suoi pensieri aumentavano di intensità.
Neanche dormendo riusciva ad avere pace, gli incubi continuavano, erano sempre formati dalle stesse scene ripetute all’infinito: l’arrivo di Smaug, la morte di suo nonno, la scomparsa di suo padre, sua sorella che piangeva e Fili e Kili che lo guardavano fisso, ma da quel fatidico giorno nella sala del trono, si era aggiunta una nuova scena al teatrino inquietante nella sua testa.
Era disteso sul ghiaccio della cascata, Azog era accanto a lui trucidato, ma quando si affacciava per guardare verso il campo di battaglia, non c’era nessuno, lei non c’era.

Ghìda non c’era.

La martellata che seguì a quel pensiero fu talmente forte da piegare di netto il pezzo di ferro che stava lavorando, mandando in malora il lavoro che aveva compiuto fino a quel momento.
Un sospiro di frustrazione gli uscì dalla bocca osservando il metallo piegato, maledicendosi strinse ancor con piu’ forza il le pinze attorno al pezzo di ferro e snervato le portò alla fornace poggiandola al suo interno per riscaldare la massa informe e ricominciare da capo.

Sospirò pesantemente chiudendo chiudendo gli occhi per qualche istante.

Anche quando non era lì vicino la vedeva, la poteva percepire tanto reale come il calore delle fiamme di fronte a sé e con simil ardore lo faceva bruciare dalla rabbia: lo stava sentendo come un ragazzino sperduto, come un bambino che arrossiva quando una femmina gli rivolgeva uno sguardo di troppo andandosi a nascondere dietro le sottane della madre per la vergogna.
Ma volente nolente, da quello scambio, durato così poco, nella sala del trono, non riusciva piu’ a togliersi dalla testa quello sguardo, così freddo e impassibile e quella bocca che con tanta facilità aveva sputato una frase così ovvia e così scontata, ma anche così inaccettabile alle sue orecchie.

Morire per onore, ma per onore di chi: del suo, di Erebor, dei nani, della famiglia, di Durin, di cosa?

Perché i suoi nipoti erano morti?

Per colpa mia.

Questo si continuava a ripete, ogni notte, sotto le stelle, che erano morti per colpa sua: l’onore, l’onore non c’entrava nulla, tutto perché lui doveva essere con loro, li aveva mandati al macello come due animali.
Lo aveva sentito per giorni dalle persone che gli stavano accanto, erano suoi compagni, cosa gli avrebbero dovuto dire, se non che Fili e Kili erano morti con onore, ma sentirlo dire da una completa sconosciuta, che avrebbe dovuto disprezzarlo piu’ che ammirarlo lo aveva scossò cosi nel profondo che quando arrivò alle fucine raggiungendo Dwalin e Bifur, non aveva neanche rivolto la parola a nessuno dei due, o a nessuno dei presenti.

Si era ritrovato a cercarla con lo sguardo mentre camminava per i saloni, ad appizzare le orecchie a ogni voce femminile; perfino quando era piegato su carte e pergamene la sua mente non faceva altro che viaggiare su’, verso le sue stanze ai piani superiori, chiedendosi perché non uscisse o perché non camminasse piu’ per le incalcolabili scale della montagna strusciando i tessuti dei lunghi vestiti così poco comuni tra le donne nane su ogni gradino.
Piu’ di una volta, quando si svegliava a notte fonda e usciva fuori a osservare le stelle, per schiarire la mente dopo l’ennesimo incubo, aveva osservato la porta che portava alle stanze di lei sperando che si aprissero e che lei ne uscisse. E ogni volta che si ritrovava a fare questi pensieri infantili si malediceva e li ri-sputava dentro sé stesso facendoli però crescere di intensità, che per poco non crollarono su loro stessi durante il loro incontro ravvicinato nell’armeria.
Poteva sentire il suo respiro sul viso, captare ogni singolo movimento del suo corpo attaccato al suo e poteva vedere ogni singolo battito di ciglia. Con un po' piu’ di pressione sul fianco l’avrebbe perfino potuta uccidere; si era sentito terribilmente in potere quella volta, l’aveva fatto così infuriare, così sicura di sé, fredda e orgogliosa, ma allo stesso tempo così fragile sotto le sue dita e sotto il peso del suo corpo.
La voleva distruggere con le proprie dita, era solo un elemento di disturbo nella sua testa, ma allo stesso tempo voleva mantenerla accanto a sé, voleva sentire qual calore, che non si era mai accorto di desiderare ogni momento della sua giornata. E sapendo che sarebbe accaduto in ogni caso, la odiava ancora di piu’ e gli aveva fatto odiare perfino sé stesso e i suoi stessi pensieri.

Lui quello, qualsiasi cosa fosse, non lo capiva, non lo voleva.

Stringendo le pinze ancora con piu’ intensità nell’attesa poggiò l’avambraccio sopra il muro davanti a sé poggiandovi la fonte esausto, l’adrenalina stava scendendo e la fatica del troppo lavoro gli si era presentata stringendogli ogni muscolo delle braccia e delle gambe. Roteò le pinze un paio di volte tra le fiamme e abbassando lo sguardo controllò che il ferro fosse alla temperatura esatta e con cautela, questa volta, ricominciò a lavorare battendo sull’incudine il martello.
Questa volta eclissando ogni tipo di pensiero, puntando solo lo sguardo sotto di sé e sul suo lavoro.

La camicia scura che portava era talmente intrinseca di sudore e attaccata alla sua pelle che non riusciva piu’ a capire se effettivamente stesse sudando o no. I suoi occhi non si staccavano per un istante dal suo compito, salvo quando sentiva entrare qualcuno nell’immensa fucina, infatti diversi nani ora accompagnavano con i loro chiacchiericci e il loro battito di martello, il suo lavoro, aiutandolo ancora di piu’ distraendolo con storie o antiche canzoni intonate per mantenere il tempo.
Solo una figura imponente con una lunga barba rossa riuscì a interrompere il ritmo dei suoi colpi; Dàin, infatti, avanzava all’interno della sala che ribolliva di calore, lanciando sguardi su ogni angolo, come se stesse cercando qualcuno e infatti era così; non si stupì infatti che quando lo notò avanzò verso di lui sorridente facendo suonare i piccoli pendagli dorati attaccati alla casacca rossa che indossava.

“Per la mia barba, guarda chi abbiamo qui, non ti trovo nella sala del trono ma ti scovo qui a sgobbare come un mulo!” Annunciò con voce alta sinceramente sorpreso di vederlo a lavoro in un momento come quello e con un ghigno divertito avanzò verso di lui.

Thorin alzò leggermente la testa per guardarlo e la scosse tornando a guardare giu’ a lavorare.

Avvicinandosi a lui con un ghigno poggiò la schiena sul muro accanto all’incudine su cui stava lavorando da ore.

“Un re non dovrebbe fare altro cugino, tipo, non lo so regnare?” Chiese mentre il braccio di Thorin continuava a sbattere il martello sull’incudine indirizzandogli un’occhiata veloce mentre assestava l’ennesimo colpo sul ferro sotto di sé.

“Potrei farti la stessa domanda.” Replicò lasciando un sorriso appena abbozzato modificargli le labbra.

Dain scrollò le spalle e si poggiò meglio sul muro osservandolo lavorare.  “Beh, io non sono il Re Sotto la Montagna, sono più quello sopra.” Puntò un dito verso l’alto non riuscendo a trattenere una grassa risatina finale.
“Ad ogni modo, io ero venuto a cercare te, ma sai sparire peggio di uno spettro, la sala del trono è vuota sai? Potresti anche andarci e posare il tuo culo su quel pezzo di pietra.” Gli disse in  maniera goliardica  sorridendo con il lato della bocca.

Ma l’affermazione di Dàin, per quanto spensierata, gli fece uscire solo un sospiro pesante in contemporanea con una martellata facendo uscire piccole scintille.

“Non riesco a stare su un trono, non adesso, c’è troppo da fare.”

“In ogni caso tra poco ti ci dovrai risedertici sopra, almeno è comodo? A me sembra di sì.” Ribadì osservando il pessimo lavoro che aveva compiuto Thorin con quel pezzo di ferro sull’incudine.

Era informe, Dàin non riuscì neanche a capire cosa volesse forgiare il cugino. Era strano, molto strano, sapeva cosa fosse in  grado di fare con in mano un martello e delle tenaglie, con tutti i metalli esistenti nelle viscere di Arda, qualcosa gli stava facendo volare la testa altrove e Dàin non piaceva, perché prima o poi quello che affliggeva il Re Sotto la Montagna, avrebbe afflitto tutti i nani.

“Tra poco?” Alzò un sopracciglio guardando il cugino, smettendo di muovere il braccio e fermando il tintinnare sull’ incudine.

“Solo oggi dalle Montagne azzurre sono arrivati altri duecento nani, e per di piu’ la metà non ha ancora un posto in cui stare.” Guardò di nuovo verso il basso verso l’ammasso informe a cui stava ancora cercando di dare un senso, ma no niente, ormai era andata, se avrebbe continuato a lavorarlo avrebbe solo fatto peggio.  

“Le famiglie si sono allargate e i soldati diminuiti e l’inverno sta arrivando” Scosse la testa e con un gesto secco getto sia la pinza che il pezzo di metallo in un secchio pieno di acqua ai suoi piedi interrompendo il lavoro, facendo uscire uno sbuffo di resa.

Dain strinse le sopracciglia squadrandolo mentre gettava via il suo operato e face qualche passo indietro dall’incudine, segno che aveva totalmente ceduto all’idea di fare qualcosa. Poteva vedere il viso di Thorin crucciarsi alla resa e il petto alzarsi e abbassarsi per la fatica sprecata, mentre lunghi capelli scuri gli cadevano via dal gruzzolo di capelli che si era acconciato per lavorare meglio e gli si appiccicavano sul volto contorto.

Thorin si girò su sé stesso scuotendo la testa come per cancellare un pensiero e dandogli la schiena si tolse la camicia impregnata di sudore e la poso sul tavolaccio di legno di fronte a sé. Vedendo le spalle del cugino alzarsi e abbassarsi in un sospiro Dain si crucciò ancora di piu’ e spostò la schiena leggermente da muro mettendosi dritto per osservarlo meglio.

“Se non ti conoscessi direi che sei preoccupato.”

“Piantala.” Gli rispose secco non volendo rivelargli tutte le circostanze che lo stavano appesantendo continuando a dargli la schiena e allungò il braccio verso un pezzo di stoffa logoro posato sul tavolaccio. Il calore lo stava facendo impazzire, o forse un misto di tutto quello che gli stava accadendo intorno lo stava facendo impazzire.

Senza neanche pensarci si passo dietro al collo per asciugare almeno il sudore che colava sulla schiena e poi con un respiro pesante si si girò verso Dàin che ancora lo fissava sospettoso mentre quest’ultimo si passava il pezzo di tela anche intorno al collo.

“Bel taglio.” Gli disse posando lo sguardo sulla lunga cicatrice ancora rossastra che gli attraversava il petto. “Dwalin mi ha raccontato, davvero ti sei fatto affettare come un prosciutto cugino?” Chiese socchiudendo gli occhi osservando meglio il segno.

“Almeno io non ne cavalco uno.” Gli rispose trattenendo a stento un ghigno beffardo.

“Sei un bastardo lo sai?” Ridacchiò Dain avvicinandosi a lui e dandogli un pugno amichevole sulla spalla. Gli sorrise malinconico al gesto, era da tanto che non si trovava a parlare così con Dàin, non che fosse un suo confidente, anzi, ma gli diede per un attimo indietro i suoi anni di gioventù, era adulto e pieno di rimpianti. Stare in quelle sale, gli facevano venire molti ricordi, forse anche troppi, smentiva con sé il giovane nano di cinquant’anni non se ne fosse mai andato e lo avesse aspettato lì.

La gioventù che tu gli hai portato via.

“Ci vorrebbe un bel boccale di birra scura, io te e Dwalin che guardiamo l’orizzonte oltre la montagna, che cantiamo delle gesta di Durin , dopo una lunga giornata di lavoro, come quando eravamo ragazzi, eh cugino?” Gli ammiccò.

“Solo che non lo siamo piu’.” Lo corresse sorridendo tristemente per un attimo  e vedendo il suo viso scurirsi ancora Dàin gli passo gli passò il braccio intorno alle spalle. “Quegli anni sono passati da un pezzo.”

“E con ciò? Lasciati tentare sta sera con un boccale di birra.”

“Ci penserò su.” A quelle parole Dàin gli batté una mano dietro la schiena entusiasta.

“Bene cugino, sono contento, quel musone non si addice a un Re dei Nani.” Alla pacca Thorin fece un sorriso fugace mischiato però a un cruccio di dolore, la spalla stava bene, ma il tatto di Dàin non era mai stato delicato.

 Dàin sospirò malinconico pois spostando lo sguardo  verso l’enorme sala danti a loro semi deserta e coperta ancora di grandi macerie, intrinseca di luce rossa e gialla, con alte fiammate sotto i bracieri e lingotti che scintillavano. “Questo posto è pieno di ricordi.”

“Lo so.” Rispose torvo Thorin e alzandosi staccandosi dalla stretta si avvicinò verso una delle sedie di legno accanto all’incudine e sollevò da questa una blusa blu che per fortuna si era ricordato di portarsi dietro prima di mettersi al lavoro tra le fiamme. Si passò la camicia lungo il corpo coprendosi nuovamente, anche se degli aloni di sudore macchiarono il tessuto pulito sottolineando i muscoli ancora tesi della schiena e del petto.

“Mi ricordo ancora quella volta quando venni qui a prestare giuramento, la festa di quella sera, la birra a fiumi; l’erba pipa piu’ buona che abbia mai fumato Thorin.”

Thorin smosse la mascella sopprimendo un sorriso malinconico. “Mi stupisce che tu ti ricordi qualcosa, ti ho dovuto portare a dormire in braccio.”

Dain annuì sorridendo, come se avesse ricordato il momento piu’ bello della sua vita. “Certo che mi hai riportato tu, eri un musone anche da ragazzo, in questo non sei cambiato cugino.”

L’affermazione gli fece scuotere la testa sospirando e con un gesto netto si sciolse i capelli raccolti facendoli di nuovo ricadere sulla schiena. Ma non poteva contraddire le parole del cugino, era sempre stato piu’ un osservatore durante i grandi banchetti che uno che ne prendeva parte.
Dàin però si ricordo di una figura in particolare che girava per quei banchetti, Dìs. Era totalmente l’opposto di Thorin, insieme a suo fratello Frerin, ne combinavano di tutti i colori, e fu forse quella che soffrì piu’ di tutti dopo la presa di Erebor. Non sarebbe mai diventata regina, ma amava quella montagna piu’ di qualsiasi cosa, ma non quanto i suoi fratelli, o… i suoi figli.

“Tua sorella è tornata?”

Il tono di Dain era decisamente cambiato, piu’ serio, quasi preoccupato, aveva sicuramente capito che non glia andava di trattare determinati argomenti, rivangare il passato era uno tra quelli, ma anche parlando di Dìs non aveva fatto una gran scelta.
Thorin sospirò .

“No, lei no.”

“Verrà?”

L’animo gli si incupì ancora di piu’ a quella domanda, una parte di lui la voleva accanto, la voleva consolare e vederla sorridere di nuovo, ma un'altra parte di lui temeva terribilmente il suo ritorno, L’avrebbe mai perdonato? Lui non riusciva neanche a perdonare sé stesso, come poteva una madre che aveva perso i suoi figli?

“Non lo so.”

Dàin si scostò dal tavolo dandosi una spinta con il bacino tenendo le braccia strette al petto

“Dìs è una nana forte, vedrai che lo supererà, ha sopportato di peggio.”

Un sospiro gli attraversò le labbra, no non aveva sopportato di peggio, cosa c’era di peggio. Quando morì Vìni non ci fu modo di parlarle per mesi, Kili era nato da così poco ma lei non riusciva neanche a tenerlo in braccio senza scoppiare a piangere. Piu’ che loro zio infatti si sentiva un po' come un padre, ci aveva provato, ma guarda dove li aveva condotti.

Sono morti a causa tua.

Strinse gli occhi scuotendo la testa cercando di far uscire quelle parole velenose dalla testa, doveva andarsene di lì. Fece un breve cenno con la testa al cugino e guardando basso cominciò a camminare via veloce.

“E poi tra poco  le dovrai presentare una bella fatina dei Monti Gialli.”

Il passo gli si bloccò a sentir quelle parole e strinse il pugno cercando di mantenere un minimo di lucidità, anche se gli sembrò un’impresa invalicabile.

Ecco perché era venuto a cercarlo.

Si voltò leggermente di nuovo verso Dàin che adesso aveva cambiato totalmente atteggiamento. Il corpo era dritto e lo fissava intensamente giudicatore da infondo alla sala dove era prima. Aveva alzato abbastanza il tono della voce per farsi sentire chiaramente, oltre il rumore di martelli e catene che rimbombava nella fucina, ormai di nuovo affollata di nani.

“E’ politica, nient’altro.” Sostenne sperando, anche se inutilmente di chiudere li quella conversazione che non avrebbe fatto altro che buttare olio sul fuoco di pensieri che lo stava consumando da giorni.

Dain scosse la testa e si avvicinò a lui guardandolo seriamente. I tatuaggi sulla fronte gli si arricciavano insieme al suo sguardo, sempre piu’ austero a ogni passo che faceva.
“Thorin, ti rendi minimamente conto di cosa è?” Chi chiese fissandolo negli occhi ora solo a un passo da lui.

Di tutta risposta serrò la mascella osservandolo a sua volta ora a pochi centimetri l’uno dal altro.
“Pensi che sia ceco?” Si girò guardando Dàin in faccia. “Certo che so cosa è.” Esclamò, i primi sentori della rabbia che gli montava in petto.

Dàin gli si avvicinò ancora di più stringendo gli occhi.

“I nani della montagna parlano Thorin, tutti ne stanno parlando. Stai per mettere sul trono accanto a te un elfo, anzi se fosse un elfo femmina probabilmente sarebbe anche meglio.”

“Quello che dicono non è un mio problema.” Un basso ruggito gli uscì dalla gola mentre stingeva forte i pugni per mantenere il controllo.

“Dovrebbe esserlo invece, cosa diranno i restanti quattro clan? Pensi che l’accetteranno solo perché sarà tua moglie? Ti rideranno in faccia.”

A quel punto non ce la fece piu’ sentiva la rabbia montargli dal petto fino alla gola dove prese possesso della sua voce facendolo avvicinare rabbioso al viso dal nano dai capelli rossi di fronte a sé.
“Dove erano i sette clan sono stati a guardare mentre le nostre città venivano saccheggiate e i nostri luoghi sacri distrutti? Dove erano i sette clan mentre Erebor bruciava tra le fiamme? Dove erano i restanti clan quando Khazad-dûm è stata invasa? Dove erano quando vagavamo come bestie nelle Terre Selvagge? Nessuno ha mosso un passo quando Smaug è stato ucciso, dove…”
Si interruppe all’istante, era esploso dopo una rabbia troppo contenuta nel petto. Le parole erano state rapide e urlate e squarciagola sormontando anche il rumore dei martelli che si era interrotto al suono della sua voce furibonda. La discussione dei due signori dei nani aveva attirato l’attenzione di tutti i presenti, che per quanto avessero provato a non ascoltare, erano rimasti basiti dal ruggito del re contro il signore dei Coli Ferrosi.
Nel silenzio si avvicinò al volto del cugino stringendo i denti e guardandolo negli occhi per fargli capire una volta per tutte  i suoi pensieri.
“No Dàin, irak’nadad,” sibilò ”non guarderò la nostra razza spazzata via per delle tradizioni; se l’unico modo che ho è riunire i due clan di nani piu’ antichi è sposandomi con una mezzosangue, allora lo farò.”

“Anche io ti ho aiutato ma non per questo mi porti a letto.” Rimarcò freddo non facendo trasparire alcuna emozione come se le parole di Thorin non gli fossero neanche arrivate alle orecchie.

A questo punto Thorin senza rispondergli lanciandogli solo un’ultima occhiata adirata, si rigirò su sé stesso uscendo a grandi falcate dalla forgia se fosse rimasto non avrebbe saputo cosa potesse succedere .
“Domani me ne torno a casa Thorin!” Gli urlò dietro ma non facendo voltare il re neanche di qualche centimetro o smettere il suo passo. “Tornerò dopo l’inverno, questo posto diventerà una landa ghiacciata e non voglio rimanervi bloccato e vatti a fare un bagno cugino, puzzi di cane morto.”

Le parole di Dàin erano lontane dalle sue orecchie mentre a grandi falcate usciva fuori dalla vampa delle fucine percependo di nuovo l’aria fresca sul viso dei desolati corridoi della montagna.
Il rancore ancora gli bolliva sottopelle, facendolo sudare ancor piu’ rispetto a prima.  Il cuore gli batteva quasi fuori dal petto, strinse con il pugno la camicia sudicia che teneva in mano, aumentando il passo velocemente per i lunghi corridoi, per lasciarsi alle spalle Dàin e le sue parole buttate al vento.

Lo credeva uno stupido, come se non avesse pensato alle conseguenze delle sue azioni come se non avesse pensato a quello che avrebbe voluto dire o significare sposarsi. Lui neanche lo voleva, non ci aveva mai neanche pensato, era un desiderio morto e sepolto e irraggiungibile dopo la presa di Erebor, e tanto meno aveva desiderato avere un erede. Un erede per cosa? Lui non era un re, era un reietto, così come il suo popolo a vivere nelle Terre Selvagge o in una casa che non era realmente sua.
Bombur, Glòin, loro ci erano o riusciti, ma non lui, non voleva, la sua vita era altro, lui non era piu’ niente. Che vita avrebbe potuto dare a una sua famiglia, una vita che avrebbe disprezzato ogni secondo, ogni attimo, perché lo avrebbe portato un passo piu’ lontano dal suo obbiettivo, riavere la Montagna, riavere casa sua.

Le Montagne Azzurre non erano casa sua, non potevano esserlo. Casa sua era quella dove si trovava ora, tra i marmi verdi, le luce gialla che si splendeva dalle fiaccole, il chiacchiericcio della gente che rimbombava flebile per i corridoi, i grandi banchetti con la musica che risuonava per tutta la montagna, l’aria fredda delle miniere e della notte in cima alla montagna.

Dàin lo dava per scontato, come se fosse stato per lui una decisione facile, ma non lo era stata affatto e paradossalmente l’unica persona oltre a Balin che l’aveva capito era la ragione delle sue pene e della sua collera in quel preciso momento.

Mentre camminava a lunghe falcate, per i corridoi, salendo e scendendo per le scale, nessuno gli rivolse la parola, il suo portamento e la sua espressione probabilmente in quel momento non erano delle piu’ affabili, e sperava davvero di non incontrare nessuno nel tragitto fino alle sue stanze, che venisse lasciato in pace con i suoi pensieri.
Cercò infatti di prendere la via meno affollata, e fu costretto a passare dentro la sala del trono. Si fermo per qualche istante di fronte al trono ancora spaccato a metà, ma con l’Arkengemma che lo dominava, brillando pallida, illuminandone flebilmente lo schienale.
Si morse il labbro fissandola per qualche secondo: era vero di tutte le cose dentro quella montagna era sicuramente la gemma piu’ bella che i Valar avessero mai creato.

Il cuore della montagna.

Il cuore del re.

Il suo cuore.

Strinse i denti, come si poteva amare e odiare una cosa allo stesso tempo, desiderarla, ma volerla vedere distrutta contemporaneamente. Tante pene erano state vissute per quell’oggetto così piccolo, ma ora grazie a quella casa sua era libera, i nani erano liberi, e i sette clan, tutti e sette, lo avrebbero rispettato, perché lui era e sempre lo sarà il re sotto la montagna. E aveva il potere di pretendere quella alleanza.
Tutto grazie a quella pietra.  

Gonfiando il petto si allontanò dal trono non prima di avergli gettato un’ultima occhiata, imboccando un corridoio sulla destra e un ultima rampa, solo delle guardie lo interruppero facendo un lungo inchino, ma nessun’altra si aggirava per i corridoi, ma presto anche quello sarebbe cambiato, tutto sarebbe tornato come prima.
Girò su per un lungo corridoio sospeso che era in mezzo a tanti altri balconi e scale, poteva vedere e sentire tutto, per questo quando senti una voce cristallina si fermò di colpo sul lungo corridoio che stava scendendo.

“Centocinquantasette anni? Davvero mia signora?”

“Sembrate piu’ giovane di nostra madre!”

Le voci erano piu’ di una e venivano da sopra la sua testa, alzò lo sguardo puntandolo sulla scala sopra di lui.

“Fàrim io te l’avevo detto che era mia amica, ma tu non mi credi mai!”

“Perché dici sempre le bugie Nìm!”

“Shhhh, abbassate la voce.”

Fu come se il cuore gli si fermasse per un attimo, incontrollabilmente si tirò indietro celandosi nell’omra sopra di lui.
I rumori si fecero piu’ presenti, seguì il tragitto della scala sopra la sua testa che finiva su una piccola balconata a qualche metro da lui. Doveva andarsene di lì e velocemente, o almeno così gli diceva la testa , ma i piedi rimanevano ben saldi a terra impossibilitandogli qualunque movimento.

“Mia signora ma davvero qui c’era un drago?”

“Si, Smaug il Terribile.”

Lentamente si tirò indietro per non essere notato e nascosto tra le ombre come un ladro continuò ad ascoltare la conversazione poggiando la schiena sulla balaustra dorata.

Che sto facendo?

“Lo ha ucciso Re Thorin, sicuro! A-dad ha detto che è il nano piu’ forte tutti! Anche io diventerò come lui!”

Una voce piu’ squillante si alzò per la ragnatela di scale, e Thorin sorrise leggermente a quelle parole adagiandosi di piu’ sulla ringhiera, poggiandosi sopra gli avambracci continuando ad ascoltare.

“Sicuro Lòni, diventerai un nano forte e coraggioso come Thorin Scudodiquercia”

Ghìda rispose mentre le voci si facevano sempre piu’ lontane, si stavano allontano da lui e per fortuna ancora non era stato notato, perché continuarono a camminare non interrompendo il passo.

“L’ho visto l’altro giorno sapete? Andavo alle fucine con il mio fratellone, e all’improvviso è uscito, e si sono tutti inchinati, e papà mi ha tenuto la testa giù per fare lo stesso.”

“A me Thorin Scudodiquercia mette paura.”

“Come mai?”

“P-perché sembra sempre arrabbiato.”

“A-mam oggi mi ha detto che voi siete la sua ‘ibinê , cosa vuol dire?”

Una voce piu’ piccola parlo, balbettando leggermente.
Il respiro gli si fermò in gola e guardò giù sotto di lui facendo un silenzioso sospiro abbassando lo sguardo verso il pavimento.

Promessa.

Era la sua promessa.

Il silenzio continuava, per pochi secondi ma a Thorin parvero diverse ore, piu’ il silenzio di Ghìda era continuo, piu’ si sentiva a disagio. Non la poteva vedere, ma poteva facilmente immaginarsi il suo viso che con un’espressione aggrottata osservava la bambina con gli occhi spalancati.

Le mani gli sudarono leggermente e il cuore gli si, cominciò a camminare via non volendo sentire una parola di piu’, se fosse rimasto avrebbe ceduto un'altra volta e non lo poteva permettere.

“V-vuol dire che… che, che ci sposeremo Mar.”

Incerta, nelle parole da usare Ghìda rispose alla piccola nana tra le sue braccia facendo comparire un sorriso triste sul viso del re che si allontanava dalla discussione nelle ombre di Erebor senza essere notato.
 
 I rumori del palazzo si faceva piu’ lontani mentre Thorin saliva l’ultima scalinata che l’avrebbe portato nelle sue stanze, si sarebbe fatto un lungo bagno gelido per poi lavorare sulla pila di carte che quella mattina aveva distrattamente lasciato sparse sul tavolo, non ci sarebbe stato riposo quella sera, come tutte le sere, doveva tenere la mente impegnata.

Oltrepassò a lunghe falcate l’entrata del corridoio ma una grossa figura si stanziava di accanto alla sua porta, con le braccia incrociate al petto e lo sguardo basso verso le grosse mani tatuate. Appena sentì i suoi passi però giro la testa verso di lui, freddo, la bocca sigillata e i muscoli tesi.

Thorin scosse la testa bloccando il passo: una visita di Dwalin avrebbe dovuto aspettarsela, ma non era dell’umore adatto per parlare con lui e da come l’amico rimaneva in silenzio già sospettava che la conversazione non sarebbe stata delle piu’ piacevoli.
Si guardarono per alcuni secondi in silenzio, poi Thorin cominciò a camminare di nuovo verso la sua porta senza dire nulla al nano che rimaneva fermo probabilmente in attesa di una sua parola; ma questa non arrivò, il silenzio era interrotto solo dai suoi passi pesanti in mezzo al corridoio.

“Thorin.”

“Non adesso Dwalin.” Rispose secco appena quest’ultimo cerco di attirare la sua attenzione. Aveva già capito che non era un buon momento, ma al nano accanto a lui non importava granché, infatti lo bloccò a pochi metri con la porta parando il suo braccio di fronte al suo viso.

“Sì adesso.” Dwalin lo scrutò glaciale, con la mascella serrata, Thorin strinse i pugni squadrando trucemente la figura di fronte a sé, che non si sarebbe spostato di là neanche sotto ordine.

Thorin osservo il braccio dell’amico per poi sospirare e lanciare un’occhiata verso la porta.
Dwalin annuì e lo lasciò passare, permettendogli finalmente di entrare nella sua stanza da letto facendo un enorme sospiro e lanciando la camicia sporca su una delle sedie vicino al camino che prepotentemente faceva da padrone nella stanza.

“Chiudi la porta.” Ordinò secco mentre l’altro oltrepassava l’uscio.

Dwalin si chiuse la porta alle spalle, scrutando la stanza da letto del re:sembrava non ci dormisse o vivesse nessuno, tutto sembrava fermo così da giorni, il retto era rifatto, nessun oggetto era spostato, perfino il camino era freddo come il marmo del pavimento. L’unica cosa con cui poteva dire che fossero le stanze di Thorin erano la montagna di libri e pergamene sparse sul lungo tavolo attaccato al muro, accartocciate, strappate, gettate per terra o impilate, che erano solo una conferma di quello che Dwalin sospettava.

“Da quanto è che non dormi?”
Thorin non rispose, non serviva a quanto pare. Si sedette solamente sul bordo del letto in silenzio, fissando il muro di fronte a sé e lanciando un’occhiata nascosta tra i lunghi capelli verso Dwalin che restava fermo vicino alla soglia.

“Stai sulle carte per ore, giorno e notte, ti rintani nella fucina per pomeriggi interi a forgiare Mahal sa solo cosa e poi ti rinchiudi in questa stanza, come un ladro nel suo covo.”

Thorin scoese la testa fulminandolo con lo sguardo. “Quello che faccio Dwalin non sono affari tuoi.”

“Sei più entrato nella sala del tesoro?”

La sola frase lo fece irrigidire di colpo serrandola mascella e senza rendersene conto cominciò a stringere i talmente forte le corte sotto di sé che le nocche gli diventarono bianche.

“Io non ci metto piede là sotto.” Ribatté secco alzandosi dal letto e andando verso il tavolo coperto di fogli dando le spalle al nano che lo osservò vagare come un animale in gabbia. Poteva tentare a capire, ma non avrebbe mai capito fino in fondo l’angoscia che Thorin provava in quel momento, i suoi pensieri ora erano irrimediabilmente di nuovo fissi sull’enorme stracolma di oggetti preziosi, quella sala, quella gemma.

“Quello che è successo a Fili e Kili non è colpa tua.”

 “Si lo è, avrei dovuto proteggerli, avrei dovuto essere con loro.” Mormorò continuando a dare le spalle al nano, osservando verso il basso incapace di darsi delle rispose, di consolarsi, di credere alle parole dell’amico.
Dwalin d’latro canto non poteva accettarlo, non poteva accettare che Thorin vagasse in quelle sale come uno spettro, che onorasse i suoi obblighi ma che la sua testa fosse da un'altra parte, a tormentarsi, ad autoinfliggersi un dolore tale che non si meritava.

“Allora per questo non ti siedi piu’ sul quel trono, per rimorso? Pensi che Fili e Kili vorrebbero che tu ti riduca così?” Gli chiese alzando la voce.

“Quello che vorrebbero loro non ha piu’ importanza”

“Non sei piu’ tu, il principe dei nani che ho seguito non scapperebbe da ciò per cui ha combattuto per tutta una vita!”

“Il nano che ho conosciuto a casa Baggins non si sarebbe mai rimangiato la parola data!”

Come una cascata gli tornò tutto alla mente: gli occhi di Bilbo, la sua furia mentre lo afferra per la giacca sporgendolo verso il parapetto, gli animi scossi dei nani intorno a lui, la sala del trono vuota, il silenzio della montagna e l’oro, montagne di oro e gioielli che gli ottenebravano i pensieri incessantemente. Oro ovunque, scintillio nei suoi occhi, era tutto così nitido di fronte ai suoi occhi, ogni moneta, ogni gioiello, ogni gemma.

No, basta.

L’Arkengemma sopra il trono che lo assillava, era di fronte a lui, poteva prenderla, macchiata di sangue, poteva prenderla, il sangue, il sangue di Kili, No kili, il sangue di Fili.
Basta.

“Un tesoro come questo non può essere valutato in vite perdute.”

Basta.

Una rabbia folle cieca prese possesso del suo corpo, sentì tutto il dolore tramutarsi in odio nelle sue membra facendolo tremare e serrare la mascella ferocemente.

“BASTA!” Un urlo rabbioso gli uscì dalla bocca e con una forza disumana scaraventò con un gesto secco tutte le carte sul tavolo a terra.

Lo scattò d’ira fece irrigidire Dwalin ancora dall’altra parte della stanza: puntò gli occhi sulla schiena del re e sulle sue spalle che si alzavano e si abbassavano freneticamente, mentre Thorin cercava di riprendere il controllo di sé stesso, instabile come non si era mai sentito in vita sua.

Un lungo respiro gli lasciò le labbra arraffando le rughe del viso in una smorfia di dolore ben nascosta dal nano dietro di lui.

“Quando dormo vedo i loro visi Dwalin.” Pausa ”Quando chiudo gli occhi li vedo di fronte a me come se fossero ancora qui.” Mormorò continuando a dare le spalle guardando verso il pavimento con le mani poggiate sul grande tavolo con ancora alcuni fogli sopra; con i palmi ne strinse forte un paio conficcandosi le unghie nella carne incapace di controllare i propri sentimenti. Un bruciore agli occhi glieli fece serrare, immeritamente.

 “Vorrei essere morto io al loro posto.” Sussurrò Thorin ma per l’amico dietro di lui fu come se lo avesse urlato a squarciagola.

Tutto si sarebbe potuto immaginare, ma mai simili parole uscire dalla bocca del suo amico piu’ caro, mai che Thorin Scudodiquercia desiderasse la morte.
Rimase talmente scioccato da non riuscir a dar fiato a delle parole che in tutti modi tentavano di avere un senso nella sua testa, cosa avrebbe potuto dirgli? Che i suoi nipoti erano morti per lui? Che lo avevano fatto perché l’amavano? In ogni caso lui era stata la causa scatenante
.
Si avvicinò a piccoli passi allungando la mano verso la sua spalla.

“Thorin.” tentò di dirgli qualcosa, ma le parole vennero inghiottite da altre con voce piu’ tremante della sua.

“Esci.”

Dwalin si fermo osservando la sua schiena sempre più scossa da tremiti.

“Esci, ora.”
 
 
 
 
 



La notte era silenziosa, calma, neanche un rumore aleggiava nella valle sotto di lui, solo il rumore del vento che si andava a scontrare sul lato della montagna creando dei leggeri fischi.
Le tende nei due enormi accampamenti non emanavano luce, tutti dormivano, ma lui no. Anche quella notte il sonno non lo accoglieva, o se ci riusciva, lo faceva rigettava immediatamente; dopo l’ennesimo incubo, come ogni notte era quindi alla luce della luna sulla balaustra scura, per osservare le stelle come se loro avessero la riposta a tutti i suoi problemi e come ogni notte, la risposta non arrivava, né da loro né da sé stesso.

Le parole di Dwalin ormai erano marchiate a fuoco sotto la sua pelle, la lacrima solitaria che gli aveva solcato la guancia era come se avesse lasciato una lunga cicatrice sul viso, l’ultimo sfogo che si sarebbe concesso, l’ultimo accenno di rabbia che avrebbe lasciato trasparire di fronte a Dwalin e di fronte a chiunque.

Il vento gli muoveva leggermene le due trecce al lato della nuca e la pelliccia sul mantello nero che portava: le notti si facevano piu’ fredde, l’inverno era alle porte ed Erebor ancora non era pronto per sopportarlo, così come lui; notti lanciò un’occhiata alla porta opposta alla sua, per un paio di secondi, ma nulla avvenne, come ogni notte.

Anche quel giorno solo aver sentito la sua voce gli aveva cancellato tutti i pensieri in testa e la pesantezza nel petto, in quegli istanti tutto si era calmato, non era piu’ il re sotto la montagna, il signore delle argentee fonti, l’erede di Durin, era solo, Thorin.
Ma lui non era piu’ solo Thorin da moltissimo tempo, e doveva ricordarselo sempre, lui era il re e un re non può permettersi simili pensieri.
Dovevano andare via dalla sua testa tutto doveva andare via dalla sua testa, compresa lei.

Guardò verso le mani muovendo con un pollice il suo anello con le sue rune sul dito medio abbandonandosi alle riflessioni che gli facevano compagnia tutte le ore insonni, non avendo idea di ciò che sarebbe accaduto da lì a pochi attimi.

Lentamente la porta sul lato della balconata cigolo leggermente e da dietro di essa comparve una chioma scura e un piccolo corpo vestito solo di una bianca vestaglia da notte.

Gli occhi di Ghìda si spalancarono leggermente appena videro il re dei nani anche lui sveglio a guardare giù dal balcone, le mancò il fiato per qualche secondo, rimanendo sull’uscio con una mano che teneva la porta scura di pietra e un'altra a tenerle il vestito chiaro. Thorin la stava guardando, con le mani poggiate sulla balaustra, un guizzò di sorpresa gli attraversò il viso facendogli tirare leggermente su la schiena.

Era proprio la persona che non voleva avere accanto in quel momento, a cui non poteva stare accanto in quel momento.

“Dovreste dormire, è tardi.” Le disse duro Thorin scostando lo sguardo da lei verso il buio di fronte a sé ricoprendosi con una corazza gelida. Ora che lei era lì, lui voleva solo scomparire.

“Anche voi dovreste.” Glie rispose tirando su la schiena e oltrepassando la soglia vigile.

Ghìda si avvicinò lentamente verso il reggipetto dove aveva le mani poggiate sopra, il vento le muoveva leggermente i calli dietro il viso scoprendo le piccole orecchie a punta, da dove spuntano diversi piccoli orecchini dorati. La luna le batteva sul viso leggermente illuminandoglielo, sottolie anche i lineamenti troppo duri per un elfa, ma troppo morbidi per una nana.

La bracci di Ghìda vennero scosse da un leggero brivido di freddo: era stata una stupida, doveva immaginarlo che un gelo del genere si sarebbe alzato prima a poi, soprattutto così in alto, ma aveva troppo bisogno d’aria, dopo quello che era successo quella sera con suo padre non era riuscita chiudere oggi, le sue parole le rimbombavano nella testa, tanto da non riuscire a farla addormentare, così come il dolore sulla guancia che continuava a sentire, così reale e persistente, come il sapore ferroso in bocca.
Thorin e osservò le braccia dove una leggera pelle d’oca si era formata sotto le rune tatuate, lei non aveva detto nulla a riguardo ed era molto sicuro che non l’avrebbe fatto neanche sotto tortura. Sospirando si tolse dalle spalle il pesante mantello scuro  facendo alzare a Ghìda un sopracciglio confusa. Con un gesto veloce lo scrollo via dalle braccia prima di porglielo con una mano.

“Mettetelo.”

“Non ne ho bisogno.” Rispose osservando verso il tessuto e poi verso di lui.

Ma il suo sguardo freddo non ammetteva repliche e neanche la sua mano che rimaneva tesa verso di lei. Ghìda abbasso lo sguardo da lui verso il mantello e annuì leggermente afferrando la stoffa morbida sotto le sue dita.
“Vi ringrazio.” Sussurrò e sotto gli occhi attenti di Thorin lo indossò con cura spostando i lunghi capelli mossi di lato avvolgendosi nel tessuto nero lentamente mordendosi il barro imbarazzata.

Thorin annuì con la testa per poi tornare a guardare l’orizzonte in silenzio cercando in qualsiasi modo di ignorare la figura accanto a sé che ora le stava accanto a pochi centimetri di distanza poggiata con le mani sulla balaustra.

Ghìda si strinse addosso interrompendo i leggeri tremolii sul braccio che stavano scendendo lesti verso la schiena: le parve come essere stretta tra due forti braccia.
Il vento era talmente leggero da non coprire di nessuno dei due i pesanti pensieri, il mondo sembrava immobile, le stelle brillavano sopra di loro, le piccole nubi di prima si erano schiarite lasciando spazio a una enorme luna calante. Lo sguardo sottecchi di Ghìda indugiò un attimo sulla folta barba che copriva l bocca semischiusa del re, e poi sugli occhi azzurri persi nel blu profondo della notte. Gli occhi di Thorin erano puntati sull’orizzonte, persi, come se qualcosa stesse affliggendo l’anima, e guardare lontano, oltre l’orizzonte, fosse l’unica maniera per fuggirne.

“Oggi un bambino, Lòni, vi ha definito come il guerriero piu’ forte che sia mai esistito e che vorrebbe essere come voi un giorno."
Interruppe il silenzio Ghìda distogliendo lo sguardo dal suo profilo per puntarlo verso il lago in lontananza, che rifletteva gli astri sopra le loro teste.

Thorin abbozzò un sorriso continuando a guardare in avanti, per un attimo fu tentato di dirle che lo sapeva ma si morse l’interno del labbro per rimanere in silenzio.

“Un altro vi ha definito spaventoso.” Aggiunse Ghìda abbozzando un sorriso.

“E voi cosa ne pensate?” Le chiese Thorin spostando lo sguardo verso di lei facendola voltare.

“Penso che Thorin figlio di Thràin, sia entrambi.”

“Mi definireste spaventoso?”

“A volte.” Ammiccò sorridendo con il lato della bocca “Incutete timore ,ma…” Il suo sguardo indugiò negli occhi azzurri del re “non vi definirei spaventoso”

Disse velocemente distogliendo di nuovo lo sguardo dal suo, non ce la faceva, in cuor suo non sapeva se ce l’avrebbe mai fatta a guardarlo negli occhi senza provare quella sensazione di calore nelle vene.
Incontrollabilmente sentì il bisogno di guardare verso l’altro, verso gli astri sopra di lei, le stelle quella sera brillavano fiocamente, come se fossero stanche di brillare, troppo osservate, troppo guardate e desiderate, troppo incolpate di dolori di cui non erano colpevoli. Strinse il mantello ancora di piu’ a sé stessa serrando la mascella, sua madre era una di quelle? La guardava da lassù? Aveva mai saputo che esisteva per lo meno?

Lo sguardo le cadde inevitabilemnte sulle tende scure sul lato della montagna, anche se così lontane, le sembrava ancora di trovarsi lì, in quella tenda, riuscì anche a percepire il colpo sulla guancia e lo sguardo di suo padre sul suo viso, trasmutato in rabbia pura.
Quasi a consolarsi da sola si strinse nell’ampio mantello scuro di Thorin, per un attimo fu come sentire un abbraccio invisibile: caldo e che odorava di fumo e pini salvatici.

 “Mio padre se ne andrà alle prime luci, tornerà per… per l’unione.”

Sussurrò lei, dopo lunghi secondi di silenzio: alzò gli occhi, incontrando i suoi; improvvisamente divenne tentennante e insicura, timorosa anche solo di continuare: ma la voce le uscì comunque “Se non prima.”

Concluse con tono quasi alienato, fissando intensamente l’enorme tenda al centro dell’accampamento. Thorin notò il suo sguardo e si morse leggermente l’interno guancia, il senso di colpa gli attanagliò le viscere. Non aveva pensato alla prospettiva che come per lui fosse un obbligo lo era anche per lei, ma la responsabilità cadeva totalmente su di lui. Era lui che aveva decretato la parola finale, probabilmente era perfino lui il motivo per cui si trovava ancora sveglia nel cuore della notte.

“Vi manca, casa vostra?”

Lo sguardo di Ghìda si rabbuiò alla domanda, le spalle prima rilassate si abbassarono leggermente così come il suo viso, fissando in basso.
“Siete mai stato ad Elcar mio re?”

Thorin scosse la testa “No, ho solo sentito storie.”

“E cosa vi hanno raccontato?” Gli chiese mentre l’aria spostava i suoi capelli di lato facendole venire tanti piccoli brividi sul collo.

“Bianche scogliere, spiagge nere che si estendono per miglia prima di arrivare nella baia di Balbala, miniere di zaffiri scavate sotto il mare e… “ Involontariamente il suo sguardo si sposto su Ghìda che ancora guardava in un punto indefinito sotto di lei.

“Di voi.”

Le voleva rispondere, si le storie c’erano e anche così le voci, ma alle orecchie di Thorin erano sempre rimaste solo quello, storie; non l’aveva vista al raduno dei sette clan prima della partenza di Erebor e nessuno ne aveva mai fatto menzione. Trovarla di fronte a sé in quel momento, tutt’altro che un abominio, gliela fece sembrare come un’apparizione di una creatura leggendaria.
Ancora una volta Thorin si maledì per i suoi pensieri, che sfociavano come un fiume in piena ogni volta che la osservava, non poteva, non doveva. Duramente distolse lo sguardo tirandosi su con la schiena.

“E alle ricchezze delle miniere marine.” Tagliò corto .

“Non so se è mai stato casa mia, sapete.” Confessò Ghìda con voce flebile. La voce le si era spezzata un poco in gola, mentre faceva questa ammissione a Thorin. ”Avete mai sentito la sensazione di… di volervi imporre ad appartenere a un luogo ma sapere che, non sarà mai il vostro posto?”

Thorin a quelle parole non poté rimanere indifferente, gli erano così familiari al suono, così familiari nel petto, che, per non rispondere in modo affermativo, dovette conficcare le unghie nella carne delle mani serrando la mascella. Sapeva fin troppo bene cosa volesse dire.

“Quello è Elcar per me, con le sue miniere che si estendono per miglia sotto la costa, l’odore di sale che riempie i polmoni, le gemme blu che dal fondo dell’acqua; il mare si, mi manca, così come il riflesso delle stelle su di esso.” Le parole le uscivano malinconiche dalla bocca, pensava a quante volte avesse voluto attraversare quel mare o immergersi nelle profonde acque per non risalire, cercando di afferrare quei punti di luci lontana e terna.

“Erebor è casa mia adesso.” Rivolse piu’ a sé stessa questa affermazione che al nano che adesso la guardava incuriosito.

“E cosa ve lo fa pensare?” Chiese secco Thorin voltandosi con tutto il busto verso di lei reggendosi con solo una mano sulla pietra della balconata.

“E’ la casa della nostra stirpe.” Rispose meccanicamente come la nenia che le era stata imposta quel pomeriggio.

“Non è una risposta alla mia domanda.”

Thorin faceva sempre piu’ vicino o lei si faceva sempre piu’ vicino non sape dirlo ma in quel momento si stavano lentamente accostando l’un l’altra. Di nuovo.

Di colpo le tornarono in mente le parole che rivolse alla piccola Nim mentre questa le parlava tremante.
“Una casa è dove appartiene il proprio cuore.”

Il re dei nani ora era a pochi centimetri da lei, il laccio che fino a pochi secondi prima era rimasto solo teso adesso li stava rifacendo ricongiungere l’un l’altro.
“E a cosa appartiene il vostro?” Le chiese con voce dura puntando i due pozzi azzurri nei suoi scuri.

A Ghìda mancò il fiato a quella domanda, cogliendola alla sprovvista di nuovo si trovò a pochi centimetri dal re di Erebor, mentre giudicatore la osservava sovrastandola mentre le  mani di entrambi posate sulla nuda pietra; erano a così poca distanza da potersi quasi sfiorare: Thorin dovette munirsi di tutto l’autocontrollo che aveva per non far muovere la sua ancora di piu’ verso quella di Ghìda sulla fredda pietra.
Le sembrava quasi irreale, di nuovo, i pensieri le si annebbiarono, mentre quelli di Thorin scomparirono del tutto, in attesa non seppe neanche lui dire di quale risposta. Ghìda non poteva saperlo ma in quel momento una singola parola lo avrebbe fatto crollare su sé stesso; la verità si era infatti parata davanti a Thorin solo in quel momento, poteva negarlo quanto voleva, ma guardare lei era come guardarsi allo specchio, leggeva nei suoi occhi la stessa malinconia che si portava dietro lui da tutta una vita, sentiva nelle sue parole una sofferenza così familiare che solo il pensiero di un simile dolore in una figura del genere gli fece stringere le viscere: nessuno doveva soffrire come lui, nessuno doveva anche solo avvicinarsi a quello che provava.

Thorin si tirò indietro, no, non era in sé, non era lucido, voltò il viso rompendo il loro sguardo e la piccola bolla che si era creata tra di loro, interrompendo nuovamente il corso dei suoi pensieri.
Un sospiro usci dalle labbra di Ghìda, troppo frastornata da quella pulsione che di nuovo li aveva fatti avvicinare tanto pericolosamente.

“E’ meglio che vada.” Disse Thorin, facendo ridiventare gli occhi, dapprima fluidi come un fiume freddi come il ghiaccio, facendo annuire Ghìda silenziosamente e facendole distogliere lo sguardo dal viso del re contrito in un’espressione distaccata.

“S-sì anche io.” Con attenzione si cominciò a togliere il lungo mantello che portava sulle spalle, iniziando di nuovo a sentire il freddo sulle spalle, ma un movimento della testa di Thorin la fece bloccare su sé stessa ancora una volta.

“Tenetelo.”

Lei annuì abbassando la testa immediatamente, non riusciva a reggere quegli occhi, eppure li voleva su di lei, ancora prepotentemente, voleva che la guardasse ancora, le respirasse vicino ancora, per un oscuro motivo che le parlasse ancora.
Non disse nulla avviandosi veloce verso la porta ignorando la forza che la voleva costringere a rimanere, per avere un po' di pace, anche solo per qualche minuto in piu’. Nemmeno l'altro si aspettava una sua parola: eppure, anche i silenzi come quelli gravavano come non mai, nell’anima di entrambi.

Thorin la osservò andare via, posando lo sguardo sul lungo mantello che la copriva, prima che questo sparisse nell’ombra insiem a lei. Due spiriti che cercavano in quei silenzi l’uno la presenza dell’altro, un consolarsi a vicenda silenzio, dove anche se per pochi secondi, tutto spariva.
Appena la porta si chiuse si passò una mano stancamente sul volto, era stanco, era vecchio, doveva allontanarsi da quelle stelle, doveva allontanarsi da lei.

Se Mahal aveva scelto di porlo di fronte a questa ennesima prova per puro divertimento non se lo seppe spiegare, seppe solo che per quei piccoli istanti, tutti il mondo intorno era scomparso, tutto il dolore era svanito, lasciandoli soli coperti dallo sguardo severo della montagna di Durin.
 
 












 
Angolo Autrice
TA DAAAAAAN! Ed eccolo qui solo per voi un capitolo solo pov Thorin. Ve lo giuro le lacrime che mi sono scese, entrare nella sua testa è devastante davvero, mi è venuta un’angoscia terribile, soprattutto per il taglio che ho voluto dare ai suoi sentimenti dopo quello che è successo, dopo la battaglia delle cinque armate. T.T
 Diciamocelo chiaramente, Thorin non avrebbe reagito come se nulla fosse alla morte dei nipoti/praticamente figli, per un’impresa che ha voluto lui soprattutto, e in un’impresa in cui solo lui della famiglia è sopravvissuto. Per Ghìda beh ci sono un po' di non detti, perché una parte del capitolo manca, la metterò nel prossimo, se no cambiava troppo il tono e spezzava troppo il ritmo, e non mi stava piacendo.
Vi avverto so che sembra strano, che sto facendo un istant-love, ma sto cercando di far capire che non è proprio così insomma, che è piu’ se loro due involontariamente si capiscano l’un l’altra, il concetto di attrazione è piu’ legato a un bisogno di entrambi. Perché non è che loro si amino adesso, cioè c’è solo qualcosa, che nessuno dei due vuole, ma vuole, non so spiegarmi meglio, comunque spero sia passata l’idea giusta.
Come al solito lasciate una recensione un like e iscrevetev… a no scusate, sbagliato sito XD Se volete vedere come mi immagino Ghìda ditemelo, perché volevo crearla, ma non so se possa interessare.

PS= Tutti i miei pensieri su Fili e Kili sono dovuti a questo video=  https://www.youtube.com/watch?v=4SXTYZxt8S0

PPS= Pure io voglio che si bacino infatti tutto ciò mi distrugge davvero tanto non farlo accadere.
 
 
 

   
 
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