Storie originali > Romantico
Segui la storia  |      
Autore: Lili_28    05/05/2020    0 recensioni
Non esistono due persone più diverse da Wen ed Adam sulla faccia della terra.
Wen ha deciso di dedicare la vita a salvare le persone, Adam fa parte del Circolo - ed è meglio non sapere cosa il Circolo ha il potere di fare.
Ma Wen ed Adam si conoscono da quando erano bambini e non sono mai riusciti a lasciarsi andare. Come se qualcosa fosse destinato ad unirli per sempre. E anche se Wen è scappata da Redford, molto tempo prima, si scopre costretta a tornare.
Dieci anni dopo: tutto è cambiato, ma niente cambia davvero.
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
CAPITOLO 1
In the middle of
 
 
 
WEN
 
Quando Wen scende dal treno le fischiano le orecchie, ha le gambe intorpidite per il lungo viaggio e il cuore già in gola. Cerca di non farci caso, allacciando i primi bottoni del cappotto con una mano perché un vento gelido le sferza il viso, scompigliandole i capelli castani che adesso le ricadono confusamente davanti agli occhi. Le piacerebbe riuscire a fare una coda, ma la mano sinistra sta trascinando il trolley – che pesa quasi più di lei- giù per la rampa e poi nel sottopassaggio buio, sporco e puzzolente della stazione. 
Non riesce a credere che solo 24 ore prima si trovava immersa nel sole di Los Angeles. Non riesce a credere che 48 ore prima ha lasciato la sua casa, ha impacchettato tutta la sua roba e l’ha depositata nel garage di Ellis, la sua migliore amica. 
Non riesce a credere che solo 72 ore prima concludeva il suo ultimo intervento al California Pacific Medical Center. Se chiude gli occhi e ci ripensa, Wen riesce ancora a sentire il rumore della sirena del codice rosso, le urla del suo paziente prima dell’effetto dell’anestesia… e poi il silenzio, interrotto solo dal rumore metallico del bisturi e dal pulsare preciso dell’elettrocardiogramma. Sono i suoi rumori preferiti in assoluto, questi due, perché indicano che un caso d’emergenza è appena diventato un caso normale. 
Ed è questo quello su cui si è basata tutta la sua vita negli ultimi dieci anni: riuscire a trasformare le emergenze in normalità. 
Un clacson suona all’impazzata e Wen apre gli occhi. Il cuore le salta di nuovo in gola, come se qualcuno le avesse dato un colpo dritto al petto. Calmati – si ripete, stringendo il manico del trolley, ma anche se fa freddo sente le dita sudate scivolarle via. Calmati, respira, non sei più una bambina. 
Ma l’ultima volta che sono stata qui lo ero. 
Sono passati più di dieci anni, ormai. Wen ricorda a se stessa che non ha più diciotto anni, ne ha ventinove. Ha una laurea in medicina, adesso, un dottorato in pronto soccorso d’intervento e non è neanche più una specializzanda ormai. È un chirurgo.
Ma la stazione è rimasta la stessa di sempre. Perfino il tizio dietro il vetro sporco della biglietteria – il vecchio Mitch, che ora la occhieggia da lontano – sembra indossare gli stessi identici vestiti che aveva quando Wen ha comprato il biglietto di sola andata per scappare via. 
Il clacson suona di nuovo, e questa volta Wen riesce a mettere a fuoco il vecchio pickup color ruggine fermo dall’altro lato della strada. Quando vede Andrew scendere, le sue labbra si piegano immediatamente in un sorriso – il primo vero sorriso che fa da 48 ore. 
«Non posso crederci!» le dice Andy, correndole incontro con le sue lunghe gambe dinoccolate e stringendola in un abbraccio stritolaossa. «Non ti avevo quasi riconosciuta!» 
«E dire che sei il mio gemello» ridacchia Wen, respirando l’odore di corteccia che associa a suo fratello fin da quando sono bambini. Hanno esattamente la stessa altezza: con la faccia sepolta contro la sua camicia a quadri, riesce a sentire le ossa dello sterno sotto la sua guancia – ma per un attimo, un solo attimo, decide di mettere da parte questo pensiero per dopo. 
Quando si separano, Andrew la guarda dalla testa fin proprio alla punta delle dita dei piedi, e questo la fa sentire un po' in soggezione. Quando erano ragazzini, loro madre diceva sempre che, se Andy avesse avuto i capelli lunghi, sarebbero stati irriconoscibili. 
Wen lo guarda – proprio come lui sta guardando lei – ma oltre agli occhi dello stesso verde scuro e oltre agli zigomi sporgenti non riesce proprio a sentirsi come in un riflesso. Lei si è sempre sentita diversa da tutto e tutti lì. Fuoriposto anche nella sua famiglia.
Andrew non sembra pensarla diversamente. «Non posso crederci» ripete, quasi in un bisbiglio portato via dal vento gelido.  «Guardati… hai un’aria così… matura. E i tuoi vestiti… porti i capelli lisci adesso?»
Wen guarda la camicia di seta infilata nel pantalone di velluto, sepolta nel pelo morbido del suo cappotto nuovo, e non sa precisamente cosa rispondere. Affonda il viso nella sciarpa e giocherella con una ciocca di capelli che le cade dritta fra le dita. «Lisci sono più facili da tenere in ordine, sotto la cuffia.» 
«Giusto» Andy passa una pano nella zazzera scompigliata che si ritrova sopra la testa, e annuisce. «Sembri un’altra persona, Wen.» 
Questo commento la spiazza un po'. Lo sono davvero? 72 ore prima avrebbe detto di sì. Da quando ha messo piede a Redfort, nella cittadina dove è cresciuta, non ne è più così sicura. Se solo il suo cuore la smettesse di sobbalzare.
Wen infila le mani in tasca, stringendosi nelle spalle. Prova il desiderio assurdo e implacabile di tornare a casa, qualunque cosa questo significhi: in teoria, a casa c’è appena arrivata. 
«Sono passati molti anni… troppi. E non sei mai venuto a trovarmi! Neanche una volta!» rinfaccia ad Andrew, con un tono molto più scherzoso di quanto non pensi veramente. 
Andrew si gratta di nuovo la testa, un po' in colpa adesso. «Lo sai, non potevo lasciare da solo papà. E poi il lavoro…» e l’attimo dopo – con un modo magistrale di chiudere il discorso – apre il cofano del furgone e ci infila dentro la valigia. «Andiamo, salta su! Non vorrai restare qui tutto il tempo!»
Wen lancia un’occhiata furtiva tutto intorno. Non se lo fa ripetere due volte e sale sul pickup: l’abitacolo è caldo, quello di sempre, e lei distende le gambe poggiando le ginocchia contro il cruscotto e finalmente il suo cuore rallenta un po' i battiti. 
Andrew si arrampica dal lato opposto e mette in moto, canticchiando. Il motore tossisce un po', ma alla fine riescono a partire. Gli occhi di Wen vengono calamitati dal finestrino, dalla strada che scorre, dalle persone che camminano sul marciapiede. Le sembrano tutti volti conosciuti, familiari, e allora affonda ancora di più il viso nella sciarpa. 
Redford. Nel maledetto Michigan. Non riesce a credere di esserci ritornata dopo tutto quel tempo. Una cittadina minuscola, insignificante. Dove non succede mai niente. Da cui nessuno se ne va. 
Quando si accorge che Andrew la sta guardando di sottecchi, Wen si schiarisce la voce e si concentra su di lui. «Allora, come stai? Come vanno le cose a casa?» 
«Sempre più o meno il solito» risponde tranquillamente Andrew. I capelli, castani e riccissimi, gli ricadono fin quasi davanti gli occhi e adesso porta una leggera barba poco curata che prima non aveva. «Ralph ha aumentato i miei turni in segheria. Credo che voglia darmi una promozione, o qualcosa del genere…» 
«E tu sei felice?»
Le lancia un’occhiata divertita. «Non abbiamo studiato tutti ad Harvard».
«Non essere stupido» replica Wen, dandogli un colpetto con un gomito. «Non volevo dire questo! Stavo solo…» 
«Sei diventata permalosa?» Andrew ride, scuotendo la testa. «Il lavoro è duro. Ma la paga è buona, e beh, lo sai. Poteva andare peggio. Quindi sì, sono felice.» 
«Ed io sono felice se tu lo sei! Ecco tutto!»
Un po' sta mentendo, in fondo ne è consapevole: vorrebbe che suo fratello non dovesse spaccarsi la schiena dieci ore al giorno in un posto con -ne è praticamente certa – inesistenti condizioni di sicurezza. Ma su una cosa Andrew ha ragione: lì a Redford, potrebbe andare peggio. Perciò non insiste e cambia discorso all’istante. « E ti sei trovato una fidanzata?» 
«Non è ancora arrivato il momento in cui tu ed io parliamo di ragazze! E non sono certo che arriverà mai!»
Wen sorride divertita. Sta per prenderlo in giro – non sei affatto cresciuto! – quando Andrew prende Chester Road e Wen sente un buco nero spalancarsi proprio al centro del sedile. Le aiuole sempre malcresciute al lato della strada, il tombino colorato di rosso con la bomboletta spray e quella staccionata, in lontananza, che sembra un muro di cinta… Wen smette di respirare, colpita dalla familiarità di quel posto e allo stesso tempo da un panico che la rende cieca, che la assorda. 
 «Fai il giro!» strilla quasi, sentendosi una stupida l’attimo dopo ma senza poterne fare a meno. «Non passare davanti al Circolo! Gira qui!» 
Andrew sterza bruscamente, cambiando strada troppo all’improvviso e guadagnandosi un paio di insulti dal conducente dietro di loro. Wen affonda di nuovo sul sedile, passandosi una mano sul viso e imponendo al suo cuore di rallentare di nuovo i battiti. Stai calma. Calmati, respira. Respira. Il fatto che suo fratello la stia palesemente fissando non migliora di molto la situazione. «Scusa» mormora, sentendosi una completa imbecille. «Mi dispiace. Non so perché l’ho fatto. È solo che…» 
«Non è in città» taglia corto Andrew. Non gli serve specificare un nome: Wen sa esattamente di chi sta parlando.  «È via da più di tre settimane. Affari del Circolo immagino. Incombenze da vice.» 
Da vice, registra la voce nella sua testa, con un sussulto. Ma il sollievo è rapido e istantaneo come una medicina. Wen libera il viso dalle mani e si concede un lungo respiro. Non è in città. Non è in città. Questa è una buona notizia. Ma.. da viceVice. Da quando? Perché? 
«Ascolta Wen… ci ho pensato molto, quella sera, se telefonarti o meno. Io non volevo farti ritornare qui, e non ti avrei chiamato, lo sai, ma… papà non sta bene. O meglio, sta peggio del solito. Molto peggio del solito. Ed io… insomma, quella intelligente della famiglia sei tu, no?» 
«Non dirlo neanche per scherzo» replica immediatamente lei. «Non ti avrei mai perdonato se fosse successo qualcosa a papà senza che tu mi avvertissi. Hai fatto bene. È stata la scelta giusta. È nostro padre, Andy. E ce ne occuperemo insieme.» 
«Bene. Perchè io non ho la minima idea di cosa fare» le confessa suo fratello. In un attimo di dolcezza che, Wen ne è sicura, non si ripeterà, Andy stacca una mano dal volante per poggiarla sul suo ginocchio. «Lo so quanto ti è costato. Grazie per essere qui» dice piano. 
Wen ingoia il groppo in gola e annuisce. «Sono felice di esserci.» 
Ma è di nuovo una bugia. 
 
 
 
La casa non è cambiata molto, è solo più vecchia. Wen percorre il vialetto solo con lo zaino in mano -davanti a lei, Andrew sta trascinando il trolley. Il prato è rimasto incurato, secco e spoglio. La casa ha la stessa vernice giallo che aveva quando lei era solo un’adolescente, anche se in alcuni punti ormai si sta scrostando in macchie bianchicce che sembrano una malattia. Gli infissi sono esattamente del verde scuro che lei ricordava. Sei a casa adesso, si dice. Dopo più di dieci anni, sei a casa. Ma non si sente felice, e neanche tranquilla. Non sa più come dovrebbe chiamarlo, quel posto tanto familiare eppure così estraneo.
Andrew apre la porta -che ovviamente non era chiusa a chiave, non ce n’era bisogno – e saluta suo padre. «Guarda chi abbiamo qui!!!» la annuncia, mollando la valigia in cucina e affacciandosi sul salone. 
Si affaccia anche Wen, e rimane senza parole. Quando vede suo padre ha la sensazione che siano passati vent’anni, o forse trenta, un periodo di tempo infinito e lunghissimo. «Papà!» saluta, attraversando la stanza di slancio. 
«Non ci posso credere, la mia bambina» tossisce lui, con voce roca. Tenta di alzarsi senza riuscirci, con una gamba fuori e una intrappolata dalle coperte. Wen capisce che il divano deve essere diventato il suo nuovo letto, e spera che non sia perché non riesce più a salire le scale. 
Suo padre è sempre stato un omone forte e robusto, con delle mani grandi e le spalle larghe. Incuteva sempre un certo timore quando loro erano bambini. Ma adesso, quando lui la abbraccia e le stringe le dita, per guardarla meglio, lei si sente davanti ad un fantasma. Non c’è più forza in quelle mani. I suoi occhi sono opachi, come ricoperti da una patina. 
«Ti trovo bene. In salute!» borbotta lui. «Sei diventata ancora più bella!» 
«Anche io ti trovo bene, papà» dice piano lei. È la terza bugia che dice da quando è arrivata, e questa volta è così palese che perfino suo padre ne ride.
«Bene? Ma se sono un vecchio catorcio ormai» e, come a voler confermare le sue parole, un colpo di tosse lo scuote per una manciata di secondi. «Sono diventato vecchio.» 
Wen gli raddrizza il colletto del pigiama con dita tremanti, poi sistema le coperte intorno alle sue spalle. È stata via troppo tempo. Troppo, troppo tempo. «Non hai neanche sessant’anni, papà. Non dire sciocchezze.» 
«Sono vecchio dentro. Vecchio marcio» le dice suo padre, indicando un punto del suo petto con un dito. Wen capisce che sta indicando i polmoni, o per meglio dire, il cancro che li sta divorando. 
«Non badarci, sorellina. Fa così solo per farti un po' pena. Vuole farsi coccolare perché sei appena tornata» si mette in mezzo anche Andy, avvicinandosi a loro come se la sua presenza potesse in qualche modo alleggerire l’atmosfera. 
Arthur fa l’occhiolino a sua figlia. «Questo ragazzo mi conosce proprio bene.»
«Oh, ma io sono tornata proprio per prendermi cura di te, papà! Quindi approfittane!» 
«E come farai con il lavoro?»
Wen si irrigidisce. «Non voglio che te ne preoccupi adesso. La tua salute è la cosa più importante.» 
 Suo padre si agita, lottando per mettersi correttamente seduto. Tossisce tre volte, fra le proteste generali di Wen, prima di rinunciarci. «Tutti i sacrifici… che hai fatto» ansima, senza fiato. «Io sono destinato… come vostra madre… ma tu…» 
«Smettila, papà!» taglia corto Wen, che in realtà vorrebbe solo chiudere gli occhi e piangere dalla pena, e per la desolazione che ha trovato. Non sarebbe mai voluta tornare… ma adesso non capisce perché ha aspettato così tanto. Come ha potuto farlo? «Non sei destinato a un bel niente! Non esiste il destino in questo. Esiste solo la scienza, e la medicina. Tutti i sacrifici che ho fatto serviranno a farti star bene!» 
Suo padre apre la bocca per dire qualcosa, ma poi sembra ripensarci. Rimane in silenzio, a fissarla. Wen si allunga su di lui, stampandogli un bacio sulla fronte. «Non ti arrendere papà, ti prego. Starai meglio. Fidati di me, va bene?»
Arthur annuisce. Dal modo in cui Andy la sta fissando, Wen capisce che è la prima volta che loro padre accetta di fare qualcosa senza protestare. Adesso è lei che stringe le mani di Arthur fra le dita, e li guarda entrambi – i due uomini della sua famiglia – desiderando più di ogni altra cosa di riuscire a salvarli. «Adesso vado su a sistemare le mie cose. Ci metterò solo un attimo. Poi preparerò una cena… una cena buona! Non come quello che mangiate di solito, a base di wurstel e patatine immagino.»
«Beccato» ammette candidamente Andy. 
«E mi racconterete delle novità… e discuteremo della tua terapia, papà. Va bene?» 
Arthur sorride piano, cercando di muoversi il meno possibile. Delle rughe nuove – rughe che prima non aveva – gli increspano il viso. «È bello averti a casa, Wen.»  
 
 
 
Wen è sdraiata sul letto nella stessa posizione da quello che le pare un tempo interminabile. Sta fissando il soffitto della sua camera proprio come faceva quando a sedici anni si domandava quale sarebbe stato il suo futuro. È molto facile credere che niente sia cambiato, da allora.
Nella libreria un po' sbilenca accatastata al muro ci sono tutti i suoi romanzi inglesi preferiti, qualche buon autore americano e tutti i libri di poesia di seconda mano che era riuscita a comprare quelle rare volte in cui, a diciassette anni, andava in moto fino a Detroit. 
Ci sono gli anfibi di pelle nera che era solita mettere sempre, vicino al cadavere sbrindellato della vecchia tracolla che usava per andare a scuola. Al muro è ancora appesa una foto dell’annuario in cui lei e il suo migliore amico del tempo sorridono felici per aver vinto il Decathlon di scienze.
Il trolley giace abbandonato in un angolo della stanza, ancora del tutto sigillato. Wen non ha voglia di pensare a lui, a tutte le rimanenze della sua vita che ci ha messo dentro. Le è bastato vedere suo padre perché tutte quelle che lei aveva sempre considerato buone ragioni per non tornare rimpicciolissero all’istante. Non avrebbe mai dovuto farsi condizionare dal passato. E adesso, l’idea di essere arrivata troppo tardi le martella il cervello, perseguitandola. 
Le sembra tutta colpa sua. Come ha potuto permettere che suo padre si riducesse in quello stato? 
Va bene, sapevano che era malato. Lo sapevano da anni, lo sapeva anche lui. E di smettere di fumare o di bere non ne aveva mai voluto sapere. Ma suo padre era un semplice carrozziere. Lei era un maledetto medico! A che cosa le era servito studiare tutti quegli anni -la laurea ad Harvard, il tirocinio e il dottorato – a cosa era servito tutto questo, se nel momento del bisogno non si dimostrava in grado di salvare neanche la sua famiglia? 
Qualcuno bussa alla porta e Wen si mette seduta all’istante. Andy entra senza aspettare che lei gli dia il permesso, muovendosi senza fare rumore, come fa sempre. «Come stai? Ti sei ambientata?» 
Wen continua a sentirsi una zucca in un campo di patate, ma non lo dice.  Decide di saltare i convenevoli. Scuote la testa, e ciocche di capelli castane le ricadono davanti gli occhi. «Mi dispiace. Io non avevo capito… non avevo idea che…» 
«Che stesse così male?» 
Wen vorrebbe piangere, ma resiste. «Già.»
Andy prende uno dei suoi vecchi peluche, stringendolo fra le mani e osservandolo come se fosse la cosa più interessante del mondo, come se custodisse i misteri dell’universo. «Lui non voleva dirtelo. E neanche io, a dire la verità. Volevamo lasciarti fuori…» 
Wen lo guarda, sentendosi improvvisamente ferita. «Fuori dalla mia famiglia?»
«Fuori da questa maledetta città» la corregge Andy, Wen sa perché, lo sa, capisce che lo hanno fatto per proteggerla… ma questo la fa sentire maledettamente in colpa.  «Credi davvero quello che hai detto a papà, prima? Credi che potrebbe riprendersi?»
Wen si prende un minuto di tempo per riflettere. Quanti malati terminali ha visto, fra tirocinio, specializzazione e dottorato? Centinaia? Migliaia forse. Ma quello non è un paziente. È suo padre. «Credo che possiamo lavorarci su. E che se lo faremo, sicuramente starà meglio.» 
«Cosa intendi fare precisamente?» 
«Beh, io non sono un oncologo. Sono un chirurgo. Dobbiamo far vedere la sua cartella clinica a qualcuno di più esperto. Forse si potrebbe anche procedere ad un intervento, se la massa diminuisse. E questo potrebbe succedere, con delle sedute di chemio adatte, e i giusti farmaci…» 
«Wen» la interrompe suo fratello, posandole una mano sulla spalla. «Frena un attimo. Queste terapie… è roba costosa. L’assicurazione sanitaria di papà non copre niente del genere.» 
«Questo lo so. Ma non sarà un problema. Io dovrei avere tutti i soldi necessari...»
«Wen, che stai dicendo? Non puoi…» 
«E invece posso, Andy. La mia vita è diversa, adesso. Non è come con la mamma. Io ho i soldi.»
«Papà non te lo permetterà mai. Orgoglioso com’è, non ti permetterà di usare per lui tutti i tuoi risparmi per…»
«Cosa? Per salvargli la vita? Mentirò, se sarò costretta. E mentirai anche tu.»
«Wen, io non volevo questo...»
«Non mi servirà usare i miei risparmi. Lavorerò qui» butta fuori lei, il più velocemente possibile. «Lavorerò al Ford Hospital. Sono stata richiesta» aggiunge poi, stringendosi nelle spalle. Una vocina nella sua testa le dice che dovrebbe sentirsi fiera, ma lei neanche la sente. «L’ospedale è nella norma, in realtà. Ma il loro reparto di medicina di emergenza, per qualche strano motivo, risulta fra i più attivi della nazione. Bizzarro vero?» sorride sarcasticamente, in una specie di macabra battuta. 
Andy ovviamente capisce, e inarca le sopracciglia. «Già. Chissà come mai» esala, con un tono monocorde che non gli appartiene. Se è contrariato dall’assurdità della cosa, almeno non lo da a vedere. 
«Il mio capo, a LA, lo considera uno splendido modo per far pratica. Ha firmato tutto subito. Ho il permesso di restare qui per un anno» conclude Wen. «Quindi, ecco. I soldi non saranno un problema. Almeno per questo possiamo stare tranquilli.»
«Io non so che cosa dire» borbotta Andy. 
Wen lo guarda. I loro occhi sono dello stesso colore, quasi come stessero facendo lo stesso pensiero. «Smettila di far come se io non appartenessi a questa famiglia» lo supplica piano. «Lo so che è colpa mia. Lo so che sono stata io ad andarmene. Ma adesso sono qui, Andy. Permettimi di aiutarti, ti prego.»
Le labbra di suo fratello tremano un po' quando fa per dire qualcosa. Wen ricorda benissimo che faceva così anche quando aveva nove anni, e loro padre gli diceva di essere uomo ogni volta che gli veniva da piangere. È un pensiero che la rende tristissima, che le fa desiderare una vita diversa per entrambi. Andy non parla, ma si allunga verso di lei e le stringe le spalle con un braccio. «Non è colpa tua, Wen. Hai solo colto una possibilità. Devi essere fiera di te stessa, di quello che sei diventata.»
Wen nasconde il viso nella sua felpa, sentendo ancora le ossa sporgenti premerle contro la fronte. Strige gli occhi. «Non lo sono affatto.»
«Io lo sono molto, di te. Tu ce l’hai fatta.»
«E ce la faremo di nuovo. Insieme, questa volta. Con papà.»
Wen sa quanto le sue parole suonino ingenue, ma sente comunque di doverle dire. Andy annuisce piano contro la sua testa. Entrambi desiderano crederci. Non possono perdere un altro genitore, non così. Fa una promessa a se stessa, in silenzio: stretta dalla persona che conosce letteralmente da quando è venuta al mondo, nella cameretta in cui è cresciuta, nella città in cui è nata, giura su tutto ciò che le è più caro  che le cose saranno diverse. 
Che lei sarà diversa, che il destino sarà diverso.
 E questa volta non permetterà a se stessa di fallire. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
ADAM
 
Adam toglie il casco, appendendolo al manubrio della moto. Sfila anche gli occhiali da sole, infilandoli in tasca. Il sole lo abbaglia anche se è ancora inverno e passa una mano fra i capelli per districarli. Sono diventati troppo lunghi, adesso gli arrivano fin quasi alle spalle. Anche la barba avrebbe bisogno di esser tagliata… se sua madre lo vedesse, gli farebbe una bella ramanzina. Non importa se Adam ha ventinove anni ed è da cinque anni il vice del Circolo, per sua mamma rimane sempre un ragazzino. 
Sospira, al limite fra il divertito e l’esasperato, ed entra nel pub. È un locale sulla 107, in un posto sperduto dell’Ohio. Sono cinque settimane che macina chilometri per visitare tutte le succursali del Circolo e, nonostante andare in moto gli piaccia da impazzire, adesso vorrebbe solo tornarsene a casa. 
Non appena si chiude la porta alle spalle, lo assale l’odore di tabacco – fortissimo, come se ne fossero impregnate le pareti. Ci sono poche persone sedute nell’oscurità e tutte lo guardano mentre entra dentro e si accomoda al bancone. In sottofondo c’è una vecchia canzone un po' country, sparata dal juboxe in un angolo della sala, carcassa di altri tempi. 
È uno di quei posti, quello, in cui nessun sano di mente si sognerebbe di entrare mai. Nelle ultime cinque settimane Adam ne ha visti sette così, posti tutti uguali. Sono gli avamposti del Circolo, i luoghi perfetti per restare indisturbati. Per fortuna lui è nato e cresciuto al Quartier Generale, nel cuore pulsante del traffico e degli affari. 
Dall’altro lato del bancone, una brunetta lo sta osservando. Indossa un grembiule che forse un tempo è stato rosa, e passa fra le mani uno straccio, nervosamente. «Ciao» gli dice, un po' incerta. 
«Ciao a te» le sorride lui, poggiando al bancone entrambi i gomiti e sporgendosi verso la ragazza. Qualcosa nel modo il cui i suoi occhi si piegano verso il basso gli ricorda un’altra persona, una vita fa. 
«Cosa posso portarti, straniero?»
«Un wisky. Liscio» dice Adam, scostandosi i capelli dalla fronte e mettendo da parte, in questo modo, anche i pensieri. «E non sono affatto uno straniero.»
«Ma io non ti ho mai visto qui» la barista tira fuori un bicchiere di vetro da sotto il bancone e lo posa proprio di fronte a lui. Dalla credenza preleva una bottiglia di liquido bianco, e gliene versa un po', senza mai smettere di fissarlo. Adam non ha mai, mai capito perché fa questo effetto alle ragazze come lei. Clod dice sempre che è un maledetto bastardo fortunato. 
«Ecco» sta dicendo la ragazza, nel frattempo. Allunga il bicchiere nella sua direzione. «Sono cinque dollari e…»
«Lui non paga qui, Silvye» la interrompe una voce di rimprovero. 
Adam si volta di scatto e sorride quando Joe il Nero viene giù dalle scale. I mormorii di sottofondo cessano all’istante e nella stanza lercia e buia cala un silenzio teso quando alla fine lo riconoscono. Va a finire sempre così: è colpa sua, perché viaggia da solo e non porta la giacca. 
«È un piacere vederti, ragazzo!» dice calorosamente Joe, stampandogli una pacca paterna sulle spalle che avrebbe potuto atterrarlo facilmente, se solo Adam fosse stato più minuto. 
Silvye sussulta impercettibilmente quando nota, per la prima volta, i tatuaggi sulle dita di Adam: i suoi occhi così deliziosamente all’ingiù si soffermano sull’anello che porta all’anulare e arrossisce all’improvviso. «Scusami. Io non…» 
Ma Adam non fa più caso a lei ormai. «Joe! Allora, come stai? Dove sono gli altri?» 
«Su che ti aspettano! Sono giorni che discutiamo della faccenda, ma senza di te… lo sai, non se ne viene a capo!»
«Vi sono già giunte delle voci, eh?» 
«Dalla succursale del Massachuttes» Joe il Nero si stringe nelle spalle, come per scusare le birichinate di un mucchio di marmocchi. «I nostri cugini sono come noi, delle teste calde.» 
Adam si chiede se sono delle teste calde pronte a una guerra, però, perché è questo quello che si scatenerà dopo che avrà finito di parlare con loro. È il suo compito, il motivo per cui è stato mandato dal quartier generale a reclutare tutte le delegazioni. 
Ma non lo dice, non ancora. Le parole sono importanti e lui lo sa bene: è per questo che Jenkins ha scelto lui come vice, è per questo che lo ha mandato da solo in un viaggio senza fine. 
Quindi Adam afferra il suo Wisky liscio, ne ingolla un sorso, e sorride. «Andiamo su. Non vedo l’ora di rivedere Ted, Michael e quegli altri bastardi!»
Joe ride, indicandogli la scala, cedendogli il passo in segno di rispetto. «Questa è casa tua» dice. E anche se Adam ha ventinove anni e Joe… beh, non lo sa di preciso, ma sicuramente più di cinquanta - annuisce e lo precede: è così che funziona, è questa la gerarchia del Circolo. 
Adam si volta in direzione di SIlvye, facendole l’occhiolino, poi si inerpica su per le scale. 
 
 
 
Il wisky brucia mentre ingoia il secondo bicchiere. Ha le labbra screpolate per il vento pungente di quei giorni d’inverno che gli frusta continuamente la faccia, ma l’alcool ha il potere di sciogliere il gelo che sente in fondo allo stomaco, per cui ignora il fastidio e beve un altro sorso. Erano quasi due anni che non vedeva i suoi amici – i suoi fratelli – del clan dell’Ohio ed è felice dell’entusiasmo generale che si è creato. Ben e il piccolo Joe (che in realtà è un incrocio fra un orso e un armadio a muro) sono sulla strada dei ricordi, e stanno raccontando ad un novellino di quella volta, quando erano poco più che adolescenti, in cui hanno sfidato le intemperie e sono andati tutti e tre insieme fino a Los Angeles. 
«… sgonfiato le ruote a quei maledetti sbirri che ci avevano beccato. Se non fosse stato per il nostro Adam, qui…» 
«Ci hai salvato il culo, sì. Come sempre, come sempre amico!»
Alcuni hanno già sentito quella storia mille volte, ma ridono tutti. Adam non vorrebbe interrompere il momento. Sarebbe bello fingere che la sua sia solo una visita di cortesia, ma non è così. Perciò, quando si schiarisce la voce, Ben si zittisce all’improvviso e tutti diventano un po' più seri. 
Adam è seduto a capotavola: dalla parte opposta del tavolo c’è Joe il Nero, il presidente di quella delegazione, l’autorità più alta lì dentro, di solito. Ma Adam è il vice del Circolo, viene da clan principale, ed è a lui che spetta parlare per primo. Si prende un secondo, facendo scorrere il pollice sul bordo del bicchiere. L’anello brilla nel buio soffuso della stanza e Adam pensa che ha già fatto quello stesso discorso già altre sette volte, ormai. 
«Pensiamo che i Trinitarios e i Ghetto King abbiano deciso di unire le forze contro di noi» dice con calma, in modo che tutti possano assimilare bene la notizia. 
Ci vuole una frazione di secondo prima che le imprecazioni risuonino in tutta la stanza e quasi un minuto perché Joe richiami i suoi sottoposti all’ordine. Adam non si scompone, succede sempre così. 
«Quei maledetti neri e quei maledetti messicani del cazzo» borbotta Joe, per tutti. «Perché credete che stiano violando il patto?»
«Uno dei nostri è stato picchiato a morte e gettato in un pozzo, un mese e mezzo fa. Il corpo era nel territorio dei Trinitarios, su confine, ma era andato lì per riscuotere i soldi che ci devono i Ghetto, come da patto. Di cui non c’è traccia, fra l’altro. Jenkins ha dei contatti, lo sai. Hanno trovato un pentito, o lo hanno costretto a pentirsi, non lo so» Adam si stringe nelle spalle. «Ha parlato di un accordo, comunque. Un patto che viola il patto.» 
«Ha detto perché?»
«No. Era troppo occupato a venire fatto a pezzi, immagino.» 
«Ah. Questo non fa altro che peggiorare la situazione.»
«Già. Jenkins l’ha considerata un’ammissione di colpa.» 
«Cristo» si lamenta Joe, strofinandosi la barba con una mano. «A che razza di gioco stanno giocando?» 
«È quello che vogliamo capire. I Trinitarios e i Ghetto sono nemici giurati. Se hanno violato il patto e si sono alleati, è solo per un motivo…»
«Vogliono farci la guerra» grugnisce piccolo Joe. «Spodestarci!»
 «Vogliono provarci, forse» Adam distende le dita nell’aria, con un gesto che intende liquidare la rabbia ma anche la preoccupazione. Ha davanti diciotto uomini, armati fino ai denti e pronti ad incendiare il mondo intero: sa quanto possa essere rischioso consegnare loro un fiammifero e lasciarli liberi di usarlo. Deve tenerli a bada. Deve far in modo che siano pronti, ma solo quando Jenkins lo chiederà. «Bisogna esserne certi, prima di muovere un’accusa tanto grande. Ci stiamo preparando. Jenkins ha convocato un incontro… se verranno saranno puliti.»
«O sarà per ucciderlo» si inalbera Scott, uno dei membri più anziani del gruppo. 
«Questo non succederà. Non se ci sarò io.»
Joe sembra pensarla allo stesso modo. «Non si è mai visto qualcuno migliore di te, ragazzo.» 
Adam non lo ringrazia. Vuole solo mettere fine a quella maledetta conversazione, farsi una doccia calda, tornare da quella barista con gli occhi attraenti al piano di sotto, e poi chissà… 
«Noi saremo pronti. Il punto è che… se scoppierà una guerra, dobbiamo essere tutti uniti. Il quartier generale e tutte le succursali, insieme. Loro sono due bande, è vero. Ma noi abbiamo tutti la stessa bandiera, e serviamo tutti la stessa causa.»
Nanny Codasecca alza in suo bicchiere mezzo vuoto. «La signora morte!»
«La signora morte, che possa trovarci il più tardi possibile» conviene Adam. «L’unica arma di quei maledetti traditori era l’effetto sorpresa. Solo questo. Dobbiamo essere pronti. Se è come pensa Jenkins, se davvero ci hanno tradito, bisogna agire subito. Così li schiacceremo. E riporteremo l’ordine.»
«E gestiremo noi tutto il mercato. Meno commissioni, zero pedaggi, più guadagno» riflette Ben, con attenzione, fissando Adam con i suoi occhi penetranti. 
Adam sciocca la lingua, annuisce. Ben ha esattamente la sua stessa età, ed è il più intelligente di tutti loro. Se dipendesse da lui, lo metterebbe subito al comando. Ma non è così che funziona: il loro Circolo è sempre stata una democrazia. 
«Ma quale sarà il prezzo?» ribatte il vecchio Coop, tossendo. Quando parla due denti d’oro spuntano dalle sue gengive raggrinzite. «Alcuni di voi non c’erano e non lo sanno. Altri erano poco più che poppanti. L’ultima volta è stata una carneficina. Sarà così anche questa volta.» 
Ha ragione, chi meglio di lui potrebbe saperlo? L’ultima volta, prima ancora che il patto di non belligeranza esistesse, hanno fatto esplodere suo padre in pezzi così piccoli che i suoi denti sono stati ritrovati in tutto il quartiere, sparsi come maledette stelle in quel cielo del cazzo sopra le loro fottutissime teste. Adam lo sa. Ma Jenkins gli ha affidato il compito di radunare il Circolo, e questo è quanto. 
«Non è facile quello che vi sto chiedendo. È da più di quindici anni che non si assiste ad una guerra fra clan. Potreste dover lasciare tutto. Non so cosa potrebbe succedere. Non so dove tutto questo vi porterà. Ma ve lo chiedo lo stesso. Sarete con noi, se l’inferno in terra arriverà?» 
C’è un minuto di silenzio, rotto solo dai loro respiri rochi. Troppo fumo, troppe sigarette. Troppo di tutto. Adam ne approfitta per scolarsi quello che rimane del suo wisky. Ne gusta il sapore sulla lingua, pungente e aspro, poi lo ingoia piano. Posa il bicchiere vuoto sul tavolo, con un gesto lento. I suoi movimenti sono fermi, come liquidi: sa che non deve mostrare impazienza o nervosismo. Deve solo stare lì, come se la risposta fosse scontata. Come se tutte quelle vite non avessero alcuna importanza. 
«Normalmente lo metterei ai voti, perché è così che funziona» dice alla fine Joe il Nero, «ma credo di parlare per tutto il mio clan, se dico che questa volta non serve. I Tredici sono fratelli. Più che fratelli di sangue. Siamo una cosa sola. Noi non ci tiriamo indietro.» 
Mentre gli uomini concordano -battendo i piedi, o bevendo, o imprecando e basta- Adam sorride. Cinque settimane di viaggio e otto sì. 
Ancora altri quattro e poi finalmente potrà tornare a casa. 
 
 
 
 
 
Adam aspira il fumo dalla sigaretta e chiude gli occhi, lasciando che il sapore del tabacco copra quello dell’alcool. Ha caldo, è sudato, e i capelli castani gli si appiccicano sulla fronte e dietro la nuca. Li sposta con un gesto della mano, e fa un altro tiro. 
Accanto a lui Sylvie, ancora nuda sulle lenzuola, gli accarezza il torace con un dito. Adam sa che lo sta fissando -sente il suo sguardo su di lui, quei suoi maledetti, incantevoli occhi - ma continua comunque a tenere le palpebre serrate: aveva bisogno del sesso, ma non crede di poter reggere una conversazione con lei adesso. E soprattutto, in questo modo è più facile fingere che Silvye sia un’altra e non, semplicemente, se stessa. 
«Non hai intenzione di fermarti, vero?»
«No» sospira Adam. «Riparto domani mattina presto.»
«Lo immaginavo» mormora la ragazza. Adam la sente avvicinarsi, sente il calore della sua bocca che sfiora l’ombelico quando lei si piega a baciarlo. «Non sapevo che aveste tutti questi tatuaggi. Non li avevo mai visti.»
«Non eri mai stata con uno di noi, prima?»
Silvye ride. «Io non sono così, sai. Normalmente non vado a letto con chi trovo a tiro.» 
«E allora perché sei venuta con me?» 
«Potevo forse rifiutarmi?» 
Adam socchiude un occhio, sbirciandola da sotto le ciglia bionde. «Volevi rifiutarti?» 
«No» dice lei, con sincerità. «Ti hanno mai detto che sei davvero bellissimo?» 
Questa volta è il turno di Adam di ridere. «Oh, non fanno altro che ripetermelo» scherza, allungando le braccia sopra la testa per stiracchiare i muscoli. «Sto lasciando una scia di ammiratrici sulla mia strada. Anche qualche ammiratore, se proprio vuoi saperlo.» 
Silvye gli stampa un bacio sulla clavicola. «Non stento a crederlo» respira sul suo collo, le dita lunghe che continuano a gironzolare sulla pelle nuda del suo petto: con l’indice tamburella piano sulle costole. «Cosa significa questo tatuaggio?» 
Ad Adam non serve aprire gli occhi per capire a cosa si sta riferendo. Quei segni che ha sulla pelle sono molto più che simboli… sono sigilli. Rappresentano tutta la sua vita, e sono sacri. «L’ho fatto a diciotto anni. Quando ho superato la prova e sono stato uno dei Tredici a tutti gli effetti.» 
Lei fischia. «Però, eri giovane» commenta ammirata. Gli prende una mano fra le proprie, e gli bacia le nocche, una per volta, facendo scorrere la lingua intorno agli anelli. «Questi tatuaggi indicano il grado. Lo so perfino io.» 
Adam svuota i polmoni, poi li riempie di nuovo. Si accoccola un po' di più sui cuscini: sarebbe davvero molto bello riuscire a dormire. Il fatto è che sono anni che l’insogna lo perseguita, privandolo del sonno per quasi tutta la notte. 
E poi Silvye sembra davvero in vena di chiacchiere. I suoi polpastrelli, dalle dita, si arrampicano su tutto il braccio. «Non so precisamente a cosa si riferiscano, ma queste devono essere delle persone, giusto?» sussurra. 
Sono la corona per suo padre, il nodo di una corda per sua madre. La bussola che lui e Clod si sono fatti insieme, quando sono entrati nel club e hanno capito che per loro sarebbe stato per sempre o fino alla morte. Le persone per cui combatte, sul braccio con cui impugna la pistola. 
«E sull’altro braccio? Una data di nascita?»
«Già» borbotta. E invece non è vero affatto: sono delle coordinate. Quelle di Redford, sul braccio con cui schiaccia l’acceleratore della sua moto, perché ovunque sarà e qualsiasi direzione prenderà, alla fine potrà sempre tornare a casa. 
Le dita di Silvye scorrono ancora, leggere come piume. Adam vede solo il nero delle palpebre, eppure in un certo senso gli sembra di star ricordando tutta la sua vita. La ragazza si avvicina a lui un po', quel tanto che basta perché il suo respiro si infranga sulle sue labbra. «Sulla schiena hai la morte, giusto? E qui sul petto… questo è il simbolo del Circolo» mormora, disegnando il 13 avvolto dalle fiamme come una bambina che colora un disegno. «E invece qui, sul cuore… qui c’è uno spazio vuoto…» 
Adam apre gli occhi di scatto, afferrando il polso di Silvye con un gesto tanto rapido da farle lanciare un urletto di sorpresa. Non vuole farle del male – non ne ha bisogno. Vuole solo che la smetta di toccarlo, e che se ne vada via. 
«Scusa» pigola la ragazza. «Non volevo…»
«Sparisci adesso. Sono stanco.» 
«Posso dormire con te se…»
Lui la fissa e basta, e lei sembra capire. Adam non lo fa di proposito, non lo ha mai fatto, ma Clod dice che ci sono volte in cui guarda le ragazze come se lo disgustassero, come se gli facessero ribrezzo. Immagina che quella sia una di quelle volte, perché Sylvie arrossisce e si allunga per avvolgersi il lenzuolo addosso. 
«Ho detto di andartene» dice con calma, mollandole il polso. «Esci da qui e dimenticati di questa notte. Oppure ricordala, se preferisci. Ma vattene.» 
«Me lo stai ordinando?» 
Adam si stringe nelle spalle, e ritorna a chiudere gli occhi: ma ormai è inutile non guardare. Quella sciocca ragazzina ha rotto l’incantesimo. Non si può fingere più. 
«Fa differenza? Tu non sei un membro del Circolo. Sei una semplice protetta. Sei alla base della piramide e devi tutto a Joe il Nero. Devi tutto ai Tredici. Mentre io sono su… molto su. Quasi in cima. Quindi sì, forse te lo sto ordinando, o forse no. Ma il punto è che tu uscirai da quella porta, adesso.» 
Non gli risponde neanche: Adam sente lenzuolo scoprirlo completamente, lasciandolo nudo e supino sul letto; sente il rumore dei vestiti raccolti, i piedi nudi che calpestano il pavimento freddo e la porta che si chiude con un cigolo. E poi, finalmente, la solitudine. Può aprire gli occhi adesso. La sua mano va automaticamente al punto che le dita di Sylvie hanno appena sfiorato, e solo per un mezzo istante. 
I sigilli sono la vita dei Tredici. Sono tutto. Sono ciò che li rende uomini, sono le persone che proteggono, sono il posto a cui appartengono. Sono il Clan che hanno deciso abbracciare, sono la famiglia che hanno scelto. Adam è pieno di tatuaggi: ce li ha sulle braccia, sul petto, sulla schiena, sulle gambe, ovunque. 
Ma non lì. Quell’angolo di pelle è completamente immacolato. Come una tela vuota, che aspetta solo di essere riempita. E invece rimarrà bianca per sempre. 
 Lì, dove dovrebbe esserci il cuore, non è rimasto più niente. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Lili_28