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Autore: D a k o t a    06/05/2020    20 recensioni
Di quattro volte in cui Dean si sacrifica per Sam.
[Dean&Sam - pre-serie/prime tre stagioni - NO incest]
"Tanti anni dopo, Sam si sarebbe ricordato dell’espressione leggera che aveva negli occhi, del suo modo di corrucciare le labbra, di quella scrollata di spalle e di quel modo di dire “Andiamo, piantala” che è sempre rimasto così tipico di Dean, e avrebbe capito che forse era per quello che non aveva capito da adolescente, non fino in fondo almeno; era sempre stato bravo Dean a sorridere e a non tirarsi mai indietro, nemmeno da quegli scontri che erano da evitare perché avrebbero richiesto troppi sacrifici – che fosse una rissa, i crampi per l’inedia o qualsiasi altra cosa - e Sam lo aveva sempre ammirato, ma non era mai stato in grado di fare altrettanto, non senza lui a guidarlo almeno. "
Genere: Angst, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dean Winchester, Sam Winchester
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Terza stagione
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The dead don’t talk, they listen

 

La prima volta in cui Dean si sacrifica per lui, Sam ha appena compiuto sette anni e non se ne accorge nemmeno. Suo fratello maggiore lo guarda dalla cucina: il più piccolo è seduto sul divano e guarda in televisione uno stupido cartone animato sulla storia di un gatto arancione e obeso – che diavolo di nome è Garfield?. E’ un’immagine tranquillizzante, ma il suo sguardo torna ad osservare con preoccupazione la credenza vuota. Il cibo scarseggia, suo padre è a caccia da una settimana e dannazione, a volte Dean dubita che tornerà. Ricaccia indietro quel pensiero come una pillola troppo amara: non è qualcosa che può permettersi di pensare. Si consola con quelle parole che suonano sulle sue labbra come una battuta ripetuta troppe volte e che non è poi mai stata così divertente – Papà torna presto, Sammy. Tu non ti preoccupare e fila a dormire. Qualcosa però lo distoglie da quella riflessione.

“Dean, ho fame” lo chiama il bambino.

E’ un attimo: si trova i suoi occhi verdi - grandi e vivaci - addosso ed è come se quel marmocchietto del suo fratellino avesse già intercettato lo scorrere rapido e veloce ma pesante come un fiume in piena dei suoi pensieri.

“Sammy, hai cenato un’ora fa” lo riprende, con più rabbia di quella che vorrebbe metterci perché maledizione, lui stesso ha solo undici anni, Sam gli ha appena detto di essere affamato e Dean non sa dirgli, non vuole dirgli – perché è stanco, perché ha una paura incredibile e sì, anche perché ha fame – la mancanza che gli riempie lo stomaco. “Hai mangiato un hamburger intero. Come fai ad avere ancora fame?”

Dean evita di menzionare che era l’ultimo hamburger, ma Sam lo osserva comunque dubbioso, mentre è in ginocchio sul divano e si aggrappa alla spalliera per parlare con lui. In quella posizione sembra ancora più minuto.

“Non lo so” risponde poi, con la stessa espressione candida di prima. “Ma ho semplicemente fame, Dean”

Ha un’espressione così ingenua e oh, giovane che Dean si ricorda che è solo un bambino, si lascia sfuggire una risata e lascia ricadere le braccia lungo i fianchi, scuotendole leggermente per eliminare ogni traccia della tensione residua. Apre il congelatore e -

“E’ rimasta una coppetta di gelato, Sammy” afferma alla fine, alzando un sopracciglio in una smorfia di esasperazione, come risposta all’evidente entusiasmo che traspare in quel momento sul volto di suo fratello.

Sa che non può negargliela ormai: ovviamente non gli dice che è l’ultima e soprattutto che spetterebbe a lui. Sbuffa sonoramente, arrendendosi.

“Puoi mangiare quella, se vuoi. Ma dovresti smetterla, fratellino: rischi di diventare come quello stupido gatto” afferma poi, indicando Garfield in televisione.

“Garfield è divertente” ribatte il più piccolo, puntandogli un dito contro, in un improvviso e adorabile moto di indignazione.

Il sorriso soddisfatto che, come una porta, si apre sul volto di Sam non può non piegargli verso l’alto gli angoli della bocca. E’ diventata quasi una sua tradizione – sua e di nessun altro – tenere conto dei sorrisi e dei pasti che riesce a dare a suo fratello.

“Va bene, idiota” mormora allora, e c’è tutto un mondo dietro a quel bene e a quella coppetta di gelato alla vaniglia.

Ci sono mesi – anni? - di difficoltà e silenzi, di momenti passati a specchiarsi, a odiarsi per la sua totale incapacità di dare a Sam la famiglia, la vita che voleva.

Quando si avvicina piano piano a lui sul divano, dopo aver finito il gelato, Sam gli bisbiglia che ha freddo e Dean gli getta una coperta sulle spalle. Solo ad un certo punto al più piccolo viene un dubbio.

“Dean, tu hai mangiato?” gli chiede, stringendosi addosso la coperta e alzando la testa da quel cuscino che ormai ha sistemato troppo vicino alle ginocchia di suo fratello.

Dean scuote le spalle in un moto di noncuranza.

“Ho mal di stomaco e non ho fame” afferma e spera che ci creda; spera che non capisca che ha mal di stomaco perché ha fame.

Sospira di sollievo quando gli occhi di suo fratello tornano alla televisione; tutte le paure di una vita gli passano davanti agli occhi, come i ricordi fanno con i protagonisti dei film quando stanno per morire, e nessuno di quei timori è grande quanto quello che gli riempie la cassa toracica all’idea di alzarsi domani mattina e di non avere una risposta quando suo fratello gli chiederà, con il cipiglio curioso e pieno di domande di sempre, “Dean, cosa mangiamo a pranzo?”.

 

 

(Sam non ripensa a quelle giornate per tanti, tanti anni, fino a quando, mentre stanno cercando papà, coglie qualcosa nel modo in cui Dean parla con un testimone e dice con enfasi che lui sa cos’è la fame, qualcosa che gli fa pensare che non avesse previsto di parlare ad alta voce. Una rivelazione arriva come un fulmine su un cielo azzurro e sereno: si faceva venire i crampi allo stomaco dalla fame pur di saperlo sazio. Non dice niente davanti a quello che è un potenziale testimone, non fa domande perché ha una mezza idea riguardo al fatto che Dean scrollerebbe semplicemente le spalle se lo facesse, ma quando quella sera si siedono ad uno squallido tavolino di uno squallido locale dell’Arkansas, Sam ordina la qualità di birra preferita di suo fratello e due doppi cheeseburger per lui – ed è stupido, ed è assurdo perché ormai può farlo da solo, perché lo fa da solo, ma -

“Sei stato posseduto dalla strega di Hansel e Gretel, Sammy?” gli chiede Dean, con il piglio di studiata leggerezza di sempre.

Sam si volta a guardarlo, sorpreso, prima di scuotere la testa e aprirsi in un sorriso timido.

“Stai zitto. E non dirmi che non hai fame” risponde, passandosi una mano nervosa fra i capelli, anche se non c’è più il rischio che suo fratello risponda così da anni.)

 

 

 

***

La seconda volta che Dean si sacrifica per lui, Sam ha tredici anni e se ne accorge, eccome se se ne accorge, ma non è assolutamente necessario e deve smetterla di comportarsi come uno stupido idiota impulsivo e -

Lo invitano ad una festa la sera e quando Dean, con entusiasmo, glielo racconta, Sam lo guarda con un’occhiata fra il disgustato e lo spaventato - “Voglio venire con te” “Non se ne parla proprio” “Se mi lasci in quella sala giochi da solo un’altra volta, giuro che lo dico a papà” -, ma ad un certo punto, un po’ per la minaccia, un po’ perché è pur sempre il suo fratellino, finisce per cedere e lasciarsi convincere a portarlo con sé. La risposta che Dean riceve dal gruppo che l’ha invitato quando annuncia le sue intenzioni non lo soddisfa affatto.

“Non è permesso l’ingresso agli strambi” afferma quello che sembra esserne il leader e di cui Dean non ricorda più nemmeno il nome.

Il maggiore non fa in tempo a voltarsi per vedere l’espressione ferita sul volto di Sam; Sam non fa neanche in tempo ad esclamare “Dean!” prima che il pugno di suo fratello prenda in pieno la faccia del ragazzo. Dannazione. “L’unico strambo che vedo qui sei tu” lo sente dire, subito dopo averlo colpito.

Per tutta la strada che conduce al motel, Dean ha solo un leggero taglio sotto il mento e l’espressione compiaciuta di chi ha vinto una rissa che, secondo Sam, non aveva nessuna ragione – ma proprio nessuna – di esistere. Si trattiene solo per un po’, il tempo di essere lontano da occhi indiscreti.

“Che ne è stato di “Sammy, papà ha detto che non dobbiamo dare nell’occhio”? Ma dico, sei scemo?” ruggisce il più piccolo, quando arrivano nella stanza del motel e Dean gli permette finalmente di esaminare il taglio sotto il suo mento.

Non ha un aspetto così terribile e un Sam tredicenne deve constatare che non è nulla in confronto alle ferite che ha visto addosso a Dean o a suo padre in certe sere, dopo alcune cacce.

“Oh, sta’ zitto” lo rimprovera, quando il più piccolo si avvicina con il disinfettante, pronto a medicare la ferita che il maggiore ha sotto il mento. “Ti ha chiamato strambo. A proposito, fratellino, hai intenzione di diventare ancora più strambo?”

Sam appoggia con delicatezza il batuffolo di ovatta bagnato di disinfettante sull’area ferita del mento di suo fratello. E’ stata una cosa così infame: Billy, Johnny o come diavolo si chiamava se l’era prese di santa ragione da suo fratello per poi spingerlo di brutto quando Dean si era voltato, impattando contro l'asfalto. Poi se l’era data a gambe. Il minore scuote le spalle in un moto che è un po’ di stizza a quel ricordo, ma anche un po’ di rinnovato fastidio a quelle nuove parole di suo fratello. Decide comunque di rimanere in silenzio e non dargli corda.

“Non credo ti darà più problemi, fratellino” continua Dean allora, senza smettere di compiacersi della sua malefatta. “Però seriamente, Sammy: questa storia deve finire. Sta diventando estenuante prendere a pugni ogni persona che dice che sei strano”

Il batuffolo che Sam ha fra le mani per un attimo rimane sospeso a mezz’aria. Guarda negli occhi suo fratello, prima di inarcare entrambe le sopracciglia. Improvvisamente ha la sensazione di capire perché, da quando sono in North Carolina, Dean deve sempre restare a scuola il pomeriggio per punizione.

“Tu mi chiami sempre strano, ma poi prendi a pugni tutti quelli che mi chiamano strano?” gli chiede, con rinnovato interesse e ritrovata curiosità.

Dean osserva suo fratello, i suoi tredici anni, e il disinfettante che ha fra le mani, mentre continua a fissarlo con quell’espressione piena di domande. Pensa che stia per bombardarlo di nuovo di chiacchiere o peggio per fargli la morale perché ha dato un pugno in faccia ad un idiota, ma non lo fa. Appoggia disinfettante e batuffolo sul tavolo invece, e poi Dean sente il suo mento appuntito premergli sotto la clavicola e le sue braccia, ancora piccole e magre, stringersi intorno alla vita.

“Ehi, smettila di fare la ragazzina emotiva” gli dice, senza sciogliere l’abbraccio. “E comunque sia, io posso chiamarti strano, gli altri no, idiota”

 

 

(Tanti anni dopo, Sam si sarebbe ricordato dell’espressione leggera che aveva negli occhi, del suo modo di corrucciare le labbra, di quella scrollata di spalle e di quel modo di dire “Andiamo, piantala” che è sempre rimasto così tipico di Dean, e avrebbe capito che forse era per quello che non aveva capito da adolescente, non fino in fondo almeno; era sempre stato bravo Dean a sorridere e a non tirarsi mai indietro, nemmeno da quegli scontri che erano da evitare perché avrebbero richiesto troppi sacrifici – che fosse una rissa, i crampi per l’inedia o qualsiasi altra cosa - e Sam lo aveva sempre ammirato, ma non era mai stato in grado di fare altrettanto, non senza lui a guidarlo almeno.

Non pensa a quella scazzottata a scuola per anni, non ci pensa fino a quando durante una caccia, si trovano ad interrogare un ragazzino tremante, che sembra essere terrorizzato da un gruppo di bulletti. Dean si rivolge al bambino con quella premura che è a metà fra un “Guarda come sono bravo con i bambini!” e un “Oh, maledizione!”.

“Ehi Timmy, lo vedi mio fratello?” afferma, indicandolo con un dito. Ha uno strano cipiglio sul volto, che Sam ha imparato a conoscere negli anni di quella trincea che è la loro vita. “Sai, chiamavano strano anche lui, quando era piccolo”

Il minore alza le sopracciglia perché quando fa così è perché sta per combinare qualche casino. E’ tipico, è quasi scritto nella pietra. Si lascia andare ad un mezzo sorriso di circostanza solo quando il bambino lo squadra, come se fosse ai raggi X.

“Cos’è successo poi?” chiede Timmy, voltandosi nuovamente verso Dean.

Il maggiore dei Winchester inclina il capo ed esala una risata strozzata. Sam potrebbe aspettarsi una dichiarazione di affetto, un “Sono orgoglioso di lui”, uno dei suoi rari consigli seri da fratello maggiore, se non lo conoscesse. Ma lo conosce, conosce quel ghigno e -

“Nulla, lui è... solo diventato più strano” afferma alla fine, facendo spallucce.

Il minore sbatte appena le palpebre in un moto di indignazione perché davvero, si deve sempre far riconoscere e che senso ha?, e -

“Dean, stiamo lavorando” lo riprende, richiamandolo all’ordine, per poi guardare Timmy. “E stai facendo piangere il bambino”

Il maggiore lo osserva per un attimo con un sorriso colpevole, alzando le mani in segno di resa. Poi si volta verso gli occhi acquosi del bambino, con un’espressione di scuse.

“Ehi, tranquillo” gli bisbiglia allora, a mo’ di rassicurazione, consapevole che anche Sam lo sta sentendo. “Guarda il lato positivo: tu hai dodici anni. Quindi, a differenza sua, hai ancora speranza”

Sam non può fare a meno di trattenere il sorriso che gli affiora sulle labbra questa volta, perché certe cose non cambiano proprio mai e, dannazione, ovviamente prende nota di ricordargli quell’episodio, la prossima volta che si vanta di essere bravo con i bambini.)

 

 

***

La terza volta in cui Dean si sacrifica per lui, Sam ha sedici anni e Dean ne ha ventuno. E’ la più dura, perché suo fratello rischia di morire ed è solo colpa sua.

Non ha il tempo di appigliarsi a qualcosa o di chiudere gli occhi: vede tutto. Vede suo fratello che in un grido slitta in avanti, a frapporsi fra lui e il demone. Vede John che preme il grilletto della sua pistola. Vede Dean, i suoi occhi osservare la ferita che ha sul fianco e poi lui, senza sembrare arrabbiati. Vede suo padre, ancora, e vede oltre suo padre: vede sé stesso e suo fratello relegati nel buio di una stanza vuota e sicura di un qualche motel, e per un solo lungo attimo comprende il piccolo dramma racchiuso nello sguardo dell’uomo. La vita e la morte si incontrano in un lungo istante in un solo punto, sottile come il granello di polvere di una clessidra: un attimo, poi nient’altro.

Quando tornano in motel, con suo fratello addormentato sul letto e una benda a coprire i segni di quegli artigli affilati poco sopra il fianco, va in bagno e guarda la sua immagine riflessa nello specchio; si stupisce di non trovare sul suo volto le stesse ferite di guerra che costellano quello di Dean, gli stessi segni violacei e tumefatti. Si stupisce che sul suo fianco non vi sia traccia di quel pulsare infiammato che sente sulla pelle come una macchia sulla sua anima e che nessuna madre disinfetterà.

Al suo ritorno nella loro stanza, suo fratello è sveglio e per qualche ragione Sam non riesce a sostenere il suo sguardo.

“Dobbiamo cambiare la benda” dice, indicando il suo fianco, e la voce gli esce più roca di quello che vorrebbe.

Non aspetta una risposta di Dean e si dirige di nuovo verso il bagno, a prendere la cassetta delle emergenze. Prende una garza, una pomata antibatterica e si siede sul suo letto, scoprendo l’area del fianco sinistro interessata. Dean lo osserva: ha gli occhi rossi e può vederlo sussultare quando, sostituendo la benda vecchia, vede finalmente il risultato di quella giornata. E’ colpa quella che vede nei suoi occhi?

“Ehi, vacci piano” gli dice con l’intenzione di distrarlo, quando Sam comincia a passare la pomata sulla ferita, per poi coprirla con una garza pulita.

E’ la voce di suo fratello, è la ferita che avrebbe potuto non star medicando a farlo sussultare. Non alza nemmeno gli occhi, mentre continua a pensare che se quella ferita fosse stata un po’ più su, avrebbe potuto -

Avrebbe potuto. Copre quella lacerazione come se bastasse il coprirla a cancellarla.

“Hai dei lividi sul braccio sinistro” gli risponde, incurante delle sue proteste, senza distogliere lo sguardo dalla nuova benda.

Nella voce non ha più la stessa veemenza che aveva quella mattina quando litigava con papà: sembra abbastanza sconfitto da qualsiasi cosa sia successa durante la caccia. Dean lo osserva, interdetto e preoccupato, quando i loro sguardi si incontrano per un veloce attimo.

“Sammy, non è stata colpa tua. Guardami, maledizione” ripete, trattenendo un lieve gemito di dolore, nel protendersi un po’ in avanti.

Suo fratello minore gli sembra star boccheggiando in cerca d’aria, di una fuga o di chissà cos’altro. Poi finalmente prende parola, guardandolo negli occhi.

“Non posso più vivere qui, Dean” Un sussurro che nasce non dalla gola, ma più in basso, dove dimora la verità “Alla fine vi odierei. Mi odierei”

E’ quella la vera tragedia: suo fratello ha sempre cercato di trasmettergli che il miglior riconoscimento per la fatica fatta non è ciò che se ne ricava, ma ciò che si diventa grazie ad essa. Ma a volte guarda sé stesso, suo padre e Dean, e non vede nient’altro che la tragica parodia della famiglia che avrebbero potuto essere e che non sarebbero mai stati.

“Non puoi o non vuoi? Smettila con queste cazzate, Sam. Non parlare come se fosse la prima volta che succede qualcosa del genere” gli risponde Dean, un che di rabbioso nella voce. “Tu non te ne andrai. Mi hai capito?”

Il maggiore dei Winchester accompagna quelle parole con un gesto, appoggiandogli una mano sulla spalla perché lo guardi, perché sia costretto a guardarlo.

“Non voglio più vivere qui” ammette, davanti agli occhi tutto d’un tratto impazienti e rabbiosi di Dean.

“Ehi, tu non te ne andrai. Mi hai capito?” ripete, con un’improvvisa urgenza. Nemmeno per un attimo riflette sulla lieve imposizione nascosta, sulla lieve punta di egoismo che è celata dietro al chiedergli di restare.

Sam esita prima di rispondere.

“Sì” promette, mentre Dean lo osserva con la mascella serrata e poi, esausto, lascia andare la testa sul cuscino.

 

(Non passano due anni prima che infranga quella promessa. Ma Dean non lo ferma quel giorno e forse persino quello è un altro sacrificio che fa per lui. Qualunque sia la verità, Sam non la pensa mai in quei termini, si rifiuta di pensarla in questi termini e si dice che non avrebbe comunque potuto fare niente per fermarlo – che nulla sarebbe bastato per fermarlo. )

 

 

***

La quarta volta è solo il culmine ed è quella in cui dà la sua vita per lui ed è incredibilmente doloroso non solo perché è suo fratello, ma anche e soprattutto perché ogni volta che ripensa a Dean, ogni volta che torna indietro con la mente a quella che è stata la sua vita, riesce a realizzare che ogni giorno della sua esistenza è stato effettivamente un sacrificarsi per lui.

Bobby non gli dice che andrà meglio, non gli dice che andrà tutto bene e Sam gli vuole un po’ più bene per questo. Un ricordo lo colpisce all’improvviso e pensa a tutte quelle volte in cui aveva sentito parlare della morte con quelle frasi generiche come “E’ in un posto migliore” ed erano banalità – stupide frasi di circostanza, Sammy - eppure gli sarebbe piaciuto avere una banalità del genere dietro la quale nascondersi, invece di saperlo per certo all’Inferno per colpa sua. E’ così, a volte, l’affetto per suo fratello: intenso e straziante, disposto a tutto pur di colmare certi vuoti.

“Non lo bruceremo” afferma ad un certo punto, e Bobby vorrebbe dire che è rischioso per le ragioni che conosce benissimo, ma non lo fa. L’espressione che gli si dipinge sul volto ha il sapore dell’erba dei boschi in cui si trovano in Illinois e che avvolgono come mani i terreni circostanti. Un bosco lontano miglia da dove si sono persi e chissà se e quando si sarebbero ritrovati – non certo in un posto migliore.

Quando Sam si chiude alle spalle la portiera dell’Impala, ha la sola intenzione di lasciarsi alle spalle Pontiac: gli pare di sentire nell’aria la voce di suo fratello, con quel tono un po’ presa per il culo e un po’ carezza, dire Ehy, Sammy, se mi riduci la macchina ad uno schifo, tornerò e ti farò desiderare che io sia rimasto all’Inferno, dannazione!”. Ma i morti non parlano.

Era stato suo fratello a dirglielo una volta, quando dopo un caso era voluto tornare a tutti i costi sulla tomba di sua madre, a Lawrence. Dean era rimasto a distanza, come se la sola tomba potesse bruciarlo o la sola immagine fosse troppo dolorosa per essere sopportata. Sam aveva recitato una preghiera ed era finito a fare domande ad una tomba.

“Le tombe servono a chi resta, Sammy” aveva affermato il maggiore, scetticismo misto a dolore a impregnargli la voce. “I morti non parlano. E se parlano, fratellino, è solo un problema da risolvere”

Dean aveva fatto qualche passo, senza arrivare troppo vicino, intuendo che in quel momento non gli sarebbe piaciuto. Non sorrideva, non vi era né scherno né gioco nel suo volto.

Sam aveva asserito mestamente e il maggiore aveva sentito i suoi muscoli contorcersi. Il più piccolo si era voltato verso di lui, senza risparmiargli nulla, scuotendo la testa in senso di diniego.

“Ma ascoltano, Dean” aveva risposto semplicemente, allontanandosi.

Suo fratello si era risparmiato qualsiasi protesta avesse pronta sulla lingua.

 

NDA
Eccomi qui, con una fic che è abbastanza banale e classica nel mio stile e ricorda sicuramente almeno un po' "Un giorno capirai". Il tema centrale doveva essere quello del sacrificio e allora ho cercato di ripercorrere solo alcuni dei sacrifici che Dean ha fatto per Sam nel corso degli anni, che sono indubbiamente molti. Spero che non vi abbia fatto proprio schifo, ecco. Ah, giusto: la scena finale fa riferimento a quando Dean e Sam vanno davvero a Lawrence, in quel periodo avevano anche una serie di dibattiti di fede in cui Dean era cinico e Sam no: da lì il titolo della OS. Alla prossima. 
D. 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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