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Autore: PrincessintheNorth    15/05/2020    1 recensioni
Nuova edizione della mia precedente fanfic "Family", migliorata ed ampliata!
Sono passati tre anni dalla caduta di Galbatorix.
Murtagh é andato via, a Nord, dove ha messo su famiglia.
Ma una chiamata da Eragon, suo fratello, lo farà tornare indietro ...
"- Cosa c’è?
Deglutì nervosamente. – Ho … ho bisogno di un favore. Cioè, in realtà non proprio, ma …
-O sai cosa dire o me ne vado.
- Devi tornare a Ilirea."
Se vi ho incuriositi passate a leggere!
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Morzan, Murtagh, Nuovo Personaggio, Selena | Coppie: Selena/Morzan
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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MURTAGH
 
 
Era passato un mese da quando Katherine aveva quasi ammazzato Nearia nei sotterranei, in preda alla rabbia: da quel giorno la situazione era precipitata.
Belle non aveva dato alcun segno di miglioramento, anzi: oramai la maggior parte delle sue coperte e delle federe dei cuscini erano macchiate di sangue, che le domestiche non riuscivano più a mandar via. Il dolore non le passava mai: c’erano momenti in cui era meno intenso, ma era sempre lì, non l’abbandonava neanche per un momento, nemmeno durante il sonno, quelle rare volte che riusciva a dormire. Non la vedevo fare un sorriso vero da ormai troppo tempo: l’ultimo forse era stato quando avevamo festeggiato l’anniversario di matrimonio dei miei genitori ed aveva potuto mangiare una fetta di torta al cioccolato. Se chiudevo gli occhi potevo vederla, così allegra, felice, con il viso tutto sporco dopo aver divorato il dolce.
Non può essere l’ultimo ricordo bello che ho di lei …
Rapidamente mi scacciai via una lacrima: non era il caso che mi vedesse così.
«Andiamo, piccola» sospirai prendendola in braccio. «È ora del bagnetto».
Belle iniziò a scuotere la testa: prima della malattia si era sempre divertita ad andare nella vasca, ma ora quello era diventato uno dei momenti peggiori della sua giornata. Nonostante il calore dell’acqua e del vapore la aiutassero un po’, liberandole le vie aeree ostruite dal muco del raffreddore che le era venuto (quando me n’ero accorto avevo riso istericamente per mezz’ora: la polmonite e la febbre non bastavano?), per entrare nella vasca doveva spogliarsi, e anche solo l’idea di sentire un attimo di freddo la faceva tremare.
«No papà …» iniziò a piangere, stringendosi più forte a me, anche se oramai di forza ne aveva ben poca. «Peffavole …»
«Vedrai che non ti verrà freddo» le promisi. «Faccio un incantesimo speciale, va bene?»
«Non possiamo fale domani?» mi pregò, con gli occhioni lucidi di lacrime.
«Lo sai che alla sera il bagnetto va fatto, Belle» mormorai cercando di scacciare l’orribile pensiero che mi era venuto in mente in seguito alla sua domanda: e se non ci fossi, domani? «Intanto dimmi cosa ti va di mangiare per cena, così lo dico alla mamma, che te lo prepara».
Lei sospirò. «Non ho tanta fame».
Non ce l’aveva mai. Da circa sei, sette giorni il suo appetito era crollato: anche farla mangiare stava diventando difficile, più che altro perché spesso vomitava tutto. Jasper aveva consigliato di darle cibo solido, il più secco possibile, ma quel piccolo cambiamento di dieta aveva avuto benefici altrettanto esigui.
«Non hai fame nemmeno di una bella bistecchina impanata?»
«Mi fa un po’ male qui» si lamentò, indicandosi la gola.
Di bene in meglio. Di bene in meglio!
«Allora qualcosa di fresco. Una focaccia farcita?»
Dopo qualche momento, lei annuì. «Col … coll’insalata e il plosciutto cludo pelò» chiese.
«Un po’ di formaggio?» la incitai, mentre un piccolo filo di speranza mi riempiva il cuore. Era da tutta la settimana che non faceva richieste alimentari.
Lei mosse la testa, annuendo, poi mi fece cenno di avvicinarmi, mentre la appoggiavo sul fasciatoio del bagno per aiutarla a spogliarsi.
«Dici alla mamma anche una fettina di salame peffavole?» mi sussurrò all’orecchio. «E magali … magali pel dopo i lamponi e i libes?»
«Certo, amore».
Evidentemente, proporle uno dei suoi cibi preferiti, la focaccia farcita (in questo aveva preso da me: era un piatto tipico della zona di Lionsgate), le aveva stimolato un po’ la fame, facendole venire voglia anche di qualcos’altro.
Katie?
Lei era andata a prendere Killian ed Evan: da quando le condizioni di Belle erano peggiorate avevamo cercato di limitare i loro contatti con lei, per risparmiargli il dolore di vedere la propria sorella deperire in quel modo. Di solito passavano la giornata da Roran, da Eragon o dai nonni: ogni qualche ora andavamo, a turno, a trovarli, per vedere come stavano, ma ormai la maggior parte delle giornate (e delle notti) la passavamo con Belle. Sia Kate che io lo sapevamo, ma non osavamo confessarci quel timore che sembrava una verità: potevano essere gli ultimi giorni che passavamo con lei.
Dimmi, rispose. La sua mente era priva di qualunque traccia di felicità: ormai era così da un po’.
Belle … vorrebbe una focaccia farcita per cena. Anche una fetta di salame e dei frutti di bosco.
Davvero?, fece incredula, e anche un po’ sollevata.
Davvero.
È una bella cosa … ti sembra stare un po’ meglio?
Non tanto.
Nel sentire quella risposta, quella gocciolina di buonumore scomparve.
Mi metto all’opera. I ragazzi hanno già mangiato e sono anche già addormentati, hanno giocato all’aperto tutto il pomeriggio. Audrey e tua madre li stanno mettendo nei loro letti.  
La lasciai alle sue occupazioni e tornai a concentrarmi su Belle, che mi stava guardando attentamente.
«L’hai detto alla mamma?» mi domandò. Sapeva che, quando io o Kate sembravano assentarci con la mente, in realtà stavamo comunicando: era una realtà con cui conviveva da che era nata, ragion per cui la viveva come una cosa normale.
«Sì» confermai facendo sì, con la magia, che non provasse freddo mentre, dal fasciatoio, la mettevo nella vasca: questo faceva anche sì che la temperatura dell’acqua non le sembrasse poi così calda. «Ha detto che sarà contentissima di prepararti tutto quanto e … che sulla focaccia ti farà una faccina sorridente. La vuoi fatta di olive o pomodori?»
«Olive» mormorò. «Pelò non lo so se la mangio, la faccina».
Sentii Kate ridere quando la informai del “cambiamento” di menù: evidentemente era molto più speranzosa di me.
Allineati in uno scaffale c’erano sali da bagno ed oli essenziali: avevamo scoperto che per Belle era particolarmente benefico quello di menta. Le piacevano molto anche i sali alla rosa, per cui le passai il barattolo: si divertiva molto a buttare pugnetti di sale nella vasca.
«Papà?» fece dopo qualche minuto, mentre le lavavo i capelli. «Pecchè la mamma piangeva così tanto ieli sela?»
Merda, feci tra me e me. La sera prima il padre di Miranda, nonno di Kate, era stato ucciso: era stata proprio Katie a trovarlo. Si era recata da lui per chiedergli un consiglio, ma l’aveva trovato riverso a terra, con un pugnale nella schiena: non era riuscita a smettere di piangere fino a notte inoltrata, quando si era addormentata. Ero convinto che, mentre cercavo di consolarla, Belle stesse dormendo profondamente: forse non era così.
«Purtroppo … ha perso il suo braccialetto preferito» mentii. Belle si era legata a Peter, per quel poco che era rimasto con noi: sapere che non avrebbe più rivisto il suo “nonno bis”, come lo chiamava lei, le avrebbe fatto molto male, e nelle sue condizioni non era il caso.
«Ela tliste anche pel me?» domandò poi con intelligenza, la voce un po’ triste. «Pecchè non sto tanto bene? Anche io sono un po’ tliste pel questo».
«Anche, sì».
«Anche tu sei tliste?»
Sentivo il cuore in gola, le lacrime bruciarmi negli occhi, nel sentirmi porre quella domanda: annuii solamente, perché sapevo che se avessi parlato sarei scoppiato in singhiozzi. 
«Mi dispiace che sei tliste papà».
Ringraziai che lei fosse voltata dall’altra parte, perché a quel punto non riuscii a trattenere il pianto.
 
 
Per quando Kate arrivò con la cena,  circa mezz’ora dopo, Belle era già crollata dal sonno: non appena l’avevo tirata fuori dalla vasca era stata preda di un violentissimo attacco di tosse pieno di sangue. Il dolore e la stanchezza l’avevano vinta poco dopo: avevo appena fatto in tempo a metterle il suo nuovo pigiamino, che la sarta aveva fatto appositamente per lei, composto di un paio di pantaloni e di una casacca di filato di morbida lana, così che non prendesse freddo.
La sua fronte stava bollendo: mi si era addormentata in braccio e sentivo il calore della sua pelle contro il collo, un calore malsano. Era anche dimagrita, mi resi conto: abbracciandola, potevo sentire le coste sporgere leggermente.
Di nuovo, un attacco di tosse la colpì: nonostante la violenza, lei era talmente stanca che non si svegliò nemmeno.
«Com’è messa?» sussurrò Katie, sedendosi accanto a noi e facendole una carezza sui capelli. Cercava di trattenere le lacrime, mi resi conto: gli occhi erano umidi e la voce distorta tipica di quando non si vuole piangere.
«Male» le risposi sottovoce per non svegliare la piccola. «Ha detto di avere mal di gola e nell’ultima mezz’ora ha avuto almeno tre attacchi di tosse. Non era mai accaduto prima».
Kate annuì rapidamente, mentre Belle iniziava ad agitarsi e tremare: doveva avere freddo, o forse stava facendo un brutto sogno.
«Tu vuoi mangiare qualcosa?» mi domandò dopo qualche minuto.
Dovresti, mi suggerì Castigo. Dovreste entrambi.
Da quando Belle aveva avuto quel grave peggioramento i pasti, sia per me che per Katie, erano stati rari e piuttosto magri: non tanto perché non avessimo tempo per mangiare, ma perché entrambi avevamo lo stomaco chiuso. Avevo obbligato lei a mangiare, per via del bambino, ma erano almeno tre giorni che io non mettevo in bocca niente. Semplicemente, la fame era l’ultimo dei miei pensieri.
«No, amore».
Lei storse il naso, accigliata. «Stai digiunando da tre giorni» fece. «Non sto dicendo che devi divorarti un intero montone, solo … solo qualcosina».
«Papà …» Belle si mosse un po’, iniziando a svegliarsi: il sonno aveva deciso di non concederle molto ristoro.
Oltre al danno la beffa.
«Ciao, piccola» Katie la salutò, prendendole la manina. Nel vederla, Belle le regalò un piccolo sorriso. «Ti va un pochino della tua focaccia?»
Belle prese un cipiglio dubbioso, mentre decideva. «Ho un po’ poca fame pelò uno pezzettino sì» rispose infine.
Così smangiucchiò un po’ della sua cena, masticando lentamente i piccoli pezzettini di focaccia che Katie le passava, così che facesse meno fatica a deglutirli. Non arrivò nemmeno ad una decina: dopo qualche boccone scosse la testa e mi si accoccolò al fianco.
«Vuoi dormire un po’?» le chiesi, e lei annuì.
«Me la lacconti la stolia che il papà si è buttato giù da Cattigo e poi si è lotto la testa mamma?» domandò a Katie, facendoci sorridere entrambi: nonostante la malattia che la divorava, il suo caratterino, preso dalla madre, era sempre lì.
Ultimamente, quella era l’unica “storia della buonanotte” che la faceva almeno sorridere un po’: tutte le sere, Katherine le raccontava la romantica storia del nostro primo incontro, che io avevo vissuto completamente privo di sensi.
«Ma se raccontassimo una storia che riguarda la mamma?» proposi, come facevo tutte le volte, sapendo di fallire. Ormai quello era diventato il nostro rituale della sera: lei chiedeva la storia, io protestavo, le due ridevano ed infine arrivava la storia, alla quale Kate aggiungeva sempre qualche modifica (ai miei danni, sia chiaro). Ma se quello era il prezzo per vedere l’ombra di un sorriso sul volto della mia bimba, l’avrei pagato con gioia.
Lei scosse la testa e si avvicinò alla sua mamma, che prese a raccontare.
«Vedi, Belle, ormai quasi sette anni fa …»
 
 
 
KATHERINE
 
 
Belle e Murtagh dormivano profondamente: per fortuna, perché entrambi non si concedevano un sonno da troppo tempo. Quando, qualche ora prima, ero entrata nelle nostre stanze con la cena, ero quasi scoppiata in lacrime: lei gli si era addormentata in braccio proprio come quando era appena nata. Quella visione mi aveva spezzato il cuore: ricordavo quanto fossimo felici a quei tempi, felici e completamente tranquilli. Sembrava solamente un ricordo lontano, ormai, con Galbatorix che pur di colpire i suoi vecchi alleati si era fatto grande ai danni di una bambina di soli tre anni. L’idea che quel tempo non potesse tornare più, che fosse solo un illusorio momento di felicità, che potessi perdere la causa di quella gioia, era terribile.
Le coperte si alzavano e si abbassavano ritmicamente secondo i loro respiri: dove coprivano Murtagh si muovevano più lentamente, in maniera più regolare, mentre dove c’era la mia piccola andavano più veloci ed, ogni tanto, subivano un violento colpo dovuto alla tosse.
Era una notte diversa dalle altre, potevo vederlo: per prima cosa, Murtagh era riuscito ad addormentarsi dopo giorni passati a vegliare Belle ininterrottamente, persino quando non era il suo turno: non riusciva a dormire, diceva. I primi giorni avevo finto di dormire durante il suo turno di guardia, per non farlo preoccupare: alla fine, però, ci avevo rinunciato. In quei rari momenti in cui quasi mi si chiudevano gli occhi, l’orribile suono di un nuovo colpo di tosse cancellava come un colpo di spugna ogni traccia di sonno: di solito, quel rumore era seguito dal pianto della bimba, o da altri colpi.
Anche Belle dormiva tranquilla: accoccolata contro il fianco del suo papà, stringeva la mia mano nella sua, che sentivo fredda come il ghiaccio, l’esatto opposto della sua fronte che bruciava dalla febbre. La sentii muovere un piedino, che arrivò a sfiorarmi il ginocchio. Il contatto mi regalò un minuscolo sorriso: era ancora lì con me.
Eppure, sapevo che non ci sarebbe rimasta a lungo, se non avessi agito: Nearia, nonostante le numerose sessioni di tortura a cui l’avevamo sottoposta, non aveva detto niente, e né Morzan, né mio padre, né alcuno dei maghi che avevo convocato erano riusciti a capire quale incantesimo fosse stato utilizzato e pertanto non erano stati in grado di formulare un controincantesimo, solamente qualche blanda cura palliativa per il dolore. Solo l’elfa sapeva come guarirla: bisognava tentare di nuovo.
Il respiro di Belle iniziò a farsi più affannoso e spezzato: l’attimo dopo, il cuscino era pieno di macchioline di sangue e muco, e continuavano ad arrivarne. Neanche a dirlo, Murtagh si svegliò di soprassalto, e così lei, che iniziò a piangere, raggomitolandosi tra le mie braccia.
«Mamma fa malissimo …» singhiozzò, senza aver nemmeno la forza di urlare.
«Adesso passa, amore, passa tutto» la rassicurai cullandola, ma servì a ben poco: il dolore al petto la tormentava, era talmente forte che l’unico modo che lei aveva per sfogarlo era agitare le gambe e stringersi più forte a me. Era un fascio di nervi: la sentivo tesa e rigida come una statua, mentre soffocava i lamenti ed il sangue nella mia spalla.
Murtagh ci abbracciò entrambe, accarezzandole i capelli che grondavano sudore, mormorandole nell’antica lingua parole di conforto: lei si calmò un po’, ma non potemmo far altro che attendere che la fase acuta e bruciante del dolore se ne andasse.
Un’ora dopo, il suo sangue mi si era coagulato sulla pelle, segnata dai lividi dove le sue manine si erano strette, cercando di allontanare da sé il dolore: il suo corpicino si afflosciò contro il mio. La febbre l’aveva abbandonata, ma in compenso ora era fredda come il ghiaccio: mai aveva avuto un attacco così.
Mi bastò guardare Murtagh per vedere nei suoi occhi il riflesso dei miei pensieri: la vita la stava abbandonando, e non troppo lentamente.
Devo andare ora.
Lui annuì lentamente: non avevo condiviso quel mio pensiero, ma evidentemente aveva intuito le mie intenzioni. Nel suo sguardo scorsi anche qualcosa che identificai come approvazione, come se anche lui sapesse dove la necessità di salvare Belle mi avrebbe condotta.
Aspettai che lei si addormentasse, per poi lasciarla nelle sue braccia: a quel punto mi alzai e indossai rapidamente una tenuta da caccia, per poi dirigermi verso la porta.
«Katie».
Nel sentirmi chiamare mi voltai: il viso di Murtagh era contratto nella preoccupazione.
«Sta attenta».
 
 
Quando la guardia aprì la porta della cella, vidi che l’elfa era riversa sul pavimento, gli occhi chiusi: forse dormiva. Durante il tragitto dalla residenza reale ai livelli sotterranei dove c’erano le prigioni mi ero a lungo interrogata, in quel piccolo angolino della mia mente dove non ero completamente terrorizzata dall’idea di non riuscire a salvare Belle in tempo, su cosa avrei provato nel rivedere Nearia e in che modo chiederle informazioni: non ne ero venuta a capo, mi ero solo procurata parecchie preoccupazioni.
Avevo immaginato di sentirmi preda della rabbia, delle emozioni: eppure, quando le rovesciai in faccia una caraffa d’acqua gelata per svegliarla, mi sentii perfettamente lucida e calma.
Lei si svegliò di soprassalto, boccheggiando ed annaspando in cerca d’aria, come se stesse annegando: i lunghi capelli le si erano appiccicati alla faccia, dandole l’aspetto di un cane bagnato. Lentamente si girò su sé stessa, spostandosi i capelli dal volto e aprendo gli occhi: quando mi vide, emise una risatina.
Quello mi fece perdere la freddezza.
«Jierda».
Con un suono secco, il suo radio si spezzò in due, facendo assumere al suo avambraccio un’angolatura innaturale: urlò talmente forte da farmi sperare che il baccano non svegliasse i bambini.
«Cosa volete?» sibilò, la voce spezzata dal dolore dell’osso rotto.
«Non si tratta di una cosa che voglio io, ma di una che vuoi tu» iniziai. «Jierda».
L’ulna dell’altro braccio si spezzò: un altro grido riempì e fece vibrare l’aria stantia dei sotterranei.
«Un corpo umano ha più di duecento ossa, una caratteristica che condivide con quello degli elfi … quindi avrei modo di divertirmi molto con te, eppure dubito che ti farebbe piacere sentire il tuo stesso corpo spezzarsi un osso dopo l’altro. Per questo ti offro un accordo: dimmi come salvare Belle, e potrai tenerti il resto del tuo scheletro intatto».
«La mia vita non conta più nulla» ridacchiò. «Io ormai ho quasi portato a termine il mio compito … e sarà stanotte che potrò concludere la mia missione».
Si sta prendendo gioco di me. Belle sta morendo e lei si fa beffe di me.
«Jierda». Quando le ruppi il femore, mi premurai di provocarle talmente tanto dolore da non aver nemmeno la forza di urlare: passò almeno trenta secondi a bocca aperta, senza emettere alcun suono, lo sguardo sbarrato fisso nel vuoto. «Perché non mi dici di più?»
Dovetti aspettare che recuperasse l’uso della parola per ottenere una risposta: nel mentre, mi feci portare dell’olio di Seithr dalla sala dove gli aguzzini tenevano i loro perversi “giocattoli”.
«Il mio padrone …» rise. «Non avrete modo di fermarlo, mai più».
«Questo lo dici tu. Sai cos’è questo, vero?» feci, agitando la piccola fiaschetta davanti a lei: come prevedevo, la paura scintillò nei suoi occhi verde giada. «Sì che lo sai. Ebbene, se non mi darai una risposta chiara, questo ti finirà direttamente in bocca … senza darti la possibilità di morire finchè non avrai cantato come un usignolo».
«Io non posso darti la risposta che cerchi» fece infine, dopo qualche altro osso rotto. «Non è il mio compito. È nei boschi che troverai la cura … ma come per ogni cosa, dovrai pagare un prezzo, e non in oro».
In fondo al mio cuore, la parafrasi di quella risposta enigmatica era già chiara: sebbene non ci fossero prove certe, istintivamente sapevo cosa si annidava nella foresta del Tridente. Lo sapevamo tutti.
Per salvare Belle, tuttavia, per riavere la mia bimba, avrei pagato qualunque prezzo mi fosse stato richiesto.
«Nei boschi dove?»
Nearia rise, sputando un grumo di sangue. «Quando giungerai alla porta della caverna di Adun Mùl pronuncia nell’antica lingua queste parole: vengo a te perché elimini il dolore nel mio cuore. Solo così otterrai ciò che desideri».
Conoscevo la strada per arrivare alla caverna: si narrava che un tempo vi dimorasse una temuta veggente senza occhi e dal sangue verde, mezza rettile e mezza donna, che scagliava terribili maledizioni su coloro che si rifiutavano di pagare il prezzo di una sua profezia, ovvero la mano di un neonato. C’ero già stata, con Sìgurd: ai tempi non credevo alla leggenda, ma quando eravamo entrati nella caverna e avevamo visto tutte quelle minuscole ossa sparse sul pavimento avevamo imparato entrambi a temere e rispettare le antiche storie.
«Odin» chiamai l’uomo deputato a sorvegliare la cella di Nearia.
«Sì, mia signora?»
«Lega la prigioniera al muro e bada che non si suicidi» gli ordinai. «Penseremo domani alla sua esecuzione».
Le stalle non erano molto lontane dalle segrete, ma con qualche scorciatoia, le raggiunsi in pochi minuti. Con sollievo mi resi conto che Antares, per fortuna, stava ancora dormendo: avrebbe tentato in tutti i modi di dissuadermi da quanto stavo per fare, asserendo che era come buttarsi dalla passerella di una nave sperando di non essere divorata dagli squali.
Più in fretta, più in fretta …
Le scuderie erano vuote: solamente un soldato era seduto su uno sgabello all’ingresso, ma era profondamente addormentato accanto ad una bottiglia vuota. Dentro, la maggior parte dei cavalli stava dormendo: l’unico ancora sveglio era Belfas, lo stallone di Murtagh, dal manto nero e lucido come la notte, che sbuffava irritato. Da troppo tempo non veniva cavalcato, e la cosa stava iniziando a dargli sui nervi: sfortunatamente era un cavallo dal pessimo carattere, che non si faceva montare da nessuno a parte Murtagh.
Per un attimo valutai l’idea di svegliare Idunn, la mia nuova giumenta bianca, ma nel vedermi avrebbe preso a nitrire, svegliando tutti gli altri destrieri e facendomi scoprire.
«Ciao, Belfas …» mi avvicinai piano allo stallone, allungando una mano per sfiorargli il muso, pregando che non me la mordesse. «Ti va di fare una cavalcatina?»
Belfas si lasciò accarezzare, anche se il suo sguardo era ricolmo di sospetto: Murtagh l’aveva trovato nella foresta del Tridente circa quattro anni prima, con una zampa rotta ed in pessime condizioni. Era magro, sporco, ferito, con profondi segni sul ventre che indicavano una sellatura troppo stretta da parte del suo precedente proprietario e ferite sanguinanti sui fianchi, provocate da speronate troppo vigorose. Era inciampato su una radice sporgente, cadendo e spezzandosi la gamba: il suo padrone non si era nemmeno premurato di togliergli i bardamenti e l’aveva lasciato lì a morire. Murtagh aveva avuto vita dura nel guarirlo e, poi, nell’educarlo a fidarsi di lui: alla fine, però, Belfas si era ripreso e si era affezionato a colui che l’aveva salvato da morte certa, fidandosi completamente e solamente di lui. Non si lasciava strigliare nemmeno dagli scudieri: solo a Murtagh permetteva di toccarlo.
Speriamo che sia bendisposto, stanotte.
Lentamente aprii la porta della sua stalla e lo accompagnai fuori dalla celletta, continuando ad accarezzargli il collo e trasmettendogli tranquillità e fiducia con la mia mente.
«Bravo … bravo, cavallo …» mormorai mentre iniziavo a sellarlo. Per fortuna non si irritò, lasciandosi bardare senza muoversi, scuotendo solamente un po’ la coda: alla fine riuscii persino a montargli in groppa. Forse, avendomi vista spesso con Murtagh, mi identificava come una persona amica.
Ci dirigemmo al passo fuori dalle scuderie: nonostante il rumore degli zoccoli, la guardia, ubriaca com’era, non solo non si svegliò, non accennò il minimo movimento.
Uscire dal castello fu facile: le sentinelle non fecero domande sul perché la seconda donna più in vista della famiglia reale stesse uscendo dal castello, diretta alla foresta, nel cuore della notte. Sentii i loro sguardi sospettosi sulla schiena, ma nessuno di loro mi rivolse parole diverse da “buonasera, Altezza Reale”.
Una volta all’interno della foresta spronai Belfas al galoppo: avendo sfruttato la porta delle mura che dava diretto accesso al bosco, non avrei impiegato più di un’ora a raggiungere la caverna. Era a metà strada di una scorciatoia che portava alla radura in cui, un tempo, portavo i bambini a giocare: non percorrevo mai quella strada con loro. Ricordavo perfettamente ciò che avevo visto in quella caverna, e passarvi accanto con due bambini così piccoli mi turbava molto.
Era una notte nuvolosa, priva di luce: dovetti far strada al cavallo facendo galleggiare di fronte a noi un fuoco fatuo. Per quando giungemmo di fronte alla caverna, tuttavia, le nuvole permisero alla luna di illuminare la piccola conca, dandomi modo di essere sicura che fosse il posto giusto.
Non ero più stata in quell’orribile posto da quel giorno con Sìgurd: mentre scendevo da cavallo mi pareva di rivederci, due stupidi bambini di dodici e dieci anni che giocavano ad essere più grandi di quel che erano. Per andare lì, per affrontare quella che ritenevamo essere una prova di coraggio, avevamo rubato il cavallo di mio padre: ero stata io a condurlo, perché Sìg non era ancora molto bravo a cavalcare. Eravamo entrati nella caverna un po’ spaventati ed un po’ ridacchiando, forse per sconfiggere la paura ed ingannare noi stessi: se ridevamo, non poteva essere nulla di male, no?
Eravamo usciti urlando. Per fortuna mio padre e lo zio Jasper ci avevamo seguiti e ci avevamo rassicurati, invece di sgridarci per la marachella.
Ora che ero più grande, ora che il mio carattere era profondamente mutato, ora che ero una madre, vedevo benissimo cosa fosse quel luogo: un covo di Male. Eppure, solamente lì, nel luogo che aveva tormentato i miei sonni per anni, avrei trovato la cura per Belle.
L’ingresso della grotta era coperto da liane d’erica: un piccolo torrente scorreva lì accanto, formando una piccola cascata sul lato ovest della conca: la luce della luna creava un arcobaleno argenteo alla base della cascata, simile ad una corona. Era impensabile che un luogo tanto ameno celasse una così profonda malvagità.
Resisti, amore. La mamma arriva.
Raccolsi il coraggio e andai di fronte all’ingresso della caverna.
«Eka kausta eom ono eom aurboda du kverk fra pömnuria ranr!»
Non appena pronunciai la formula che mi era stata detta da Nearia la caverna sembrò sospirare: uno sbuffo d’aria calda giunse dal suo interno, scostando l’edera e permettendomi di accedervi.
Non appena vi entrai mi resi conto che me la ricordavo perfettamente: le pareti viscide, l’aria umida e pesante, l’oscurità, il disgustoso rumore degli ossicini che si spezzavano sotto i miei stivali. Ad ogni passo, sebbene mi sforzassi di non guardare in basso, un brivido gelido mi percorreva la schiena nel sentire quel suono, e ben più di una volta dovetti asciugarmi le lacrime: non riuscivo a non pensare che ciò su cui stavo camminando erano ossa di bambini, bambini proprio come i miei, come quello che portavo in grembo.
«Chi giunge in cerca d’aiuto a questa tarda ora?»
La voce era la stessa che avevo sentito tante volte negli incubi di Murtagh: dolce, calda, avvolgente ed ammaliante, sembrava il bacio di un amante. E nel sentirla, ogni mia inconscia consapevolezza prese forma.
«Non c’è bisogno di questi giochetti» dissi, anche se dentro di me tremavo dalla paura. «Hai orchestrato tutto per giungere a questo momento, no?»
Dopo qualche secondo, da un angolo comparve una figura, che lentamente mi si avvicinò, mostrandosi alla fioca luce del mio fuoco magico: di fronte a me comparve un uomo alto, robusto, dalle spalle larghe, all’incirca dell’età di mio padre e di Morzan, ma più esile di loro. Era vestito di pesanti abiti di lana neri, della stessa tonalità dei suoi occhi: la barba ed i capelli erano curati, nonostante la permanenza in una caverna, e sarebbero stati neri come gli occhi se non avessero avuto qualche striatura grigia e bianca.
 Il volto era molto austero, quel genere di volto che ti farebbe desiderare di essere una formica e nasconderti sotto una roccia: le labbra sottili erano tese in un sorriso che a prima vista poteva sembrare gentile, ma a guardar meglio era lo stesso che avrebbe fatto un predatore che avesse infine messo all’angolo la sua preda. Tutto quel nero sembrava catturare e risucchiare ogni luce e speranza nel mondo in un terrificante abisso di tenebre, come se fosse ciò di cui si nutriva.
Dei, abbiate pietà di me e concedetemi la forza. Lasciate che almeno salvi Belle.
«Principessa Katherine» sorrise. «O regina della Tramontana e del Maestrale, come siete anche nota nelle mie terre. Devo dire che il Nord vi dona molto di più. O forse è la maternità … vi ho mandato un biglietto d’auguri per la nascita del principino Killian, ma temo non l’abbiate ricevuto, ed è una sfortuna, perché era molto bello».
«Oh, l’ho ricevuto» commentai senza riuscire a trattenere l’odio nella mia voce. «Mia figlia non ha dormito decentemente per due anni».
«Ah, sì, gli incubi della dolce Belle. Mi rincresce che la vostra piccola abbia dovuto patire così tanto, ma non ho potuto farci niente. Purtroppo è figlia di Cavalieri ed è una creatura magica, e si è trovata a contatto con me proprio mentre riacquisivo i miei poteri. È stato un effetto collaterale … quando me ne sono reso conto mi sono premurato di recidere quella sorta di collegamento».
«Murtagh ed io abbiamo risolto la cosa» sibilai, ma ottenni solamente di farlo ridere.
«Come se voi bambini poteste davvero fare qualcosa contro di me» ridacchiò, come se fosse sinceramente divertito. «Se Belle non ha più quegli incubi non è né per quel diamante che le avete messo sulla porta né perché dorme con voi. Non ritenevo che una vita così piccola dovesse sopportare tutto quel dolore».
Ad ogni parola che pronunciava, sentivo l’ira crescere sempre di più in me, come un drago: insieme ad essa cresceva la magia, e non sapevo fin quando sarei riuscita a controllarla.
«Gli incubi no ma una polmonite mortale sì?» ringhiai, sconvolta e disgustata dalla perfidia e malevolenza di quell’uomo.
Di nuovo, rise. «Nearia è sempre stata … fantasiosa. Mia cara, se avessi voluto Belle morta l’avrei uccisa parecchio tempo fa. Ciononostante devo ammettere che la mia amica si è spinta oltre quanto le avevo chiesto e dunque sì, vostra figlia giace fra la vita e la morte proprio in questo momento, mentre chiacchieriamo. Si rende dunque necessario un rimedio … non ortodosso».
«Datemi la formula dell’incantesimo per salvarla e non allerterò mio padre e Morzan» dissi.
Un sorrisetto sardonico gli comparve all’angolo della bocca, mentre scuoteva lentamente la testa. «Non sei nella posizione di poter dare ordini» fece. «Solamente di subire la decisione della tua scelta. Se vuoi salvare la tua bambina, farai come ti dico; altrimenti, puoi tornare pure a casa e vederla morire soffocata nel suo sangue».
Il mio tentativo di impormi non era andato a buon fine: temevo quel risultato, ma avevo voluto provarci lo stesso. Dopotutto io ero la principessa del Nord e lui un fuorilegge nel mio territorio! Avevo tutto il diritto di parlargli in quel modo, sì: ma non mi conveniva.
«Ora» proseguì quando vide che non gli rispondevo. «Capirai bene anche tu che l’aiuto che ti darò non sarà, come dire, gratuito».
«Avete messo voi Belle in questa situazione!» urlai a quel punto, sapendo di quanto fosse inutile e forse dannoso farlo, ma incapace di trattenermi un secondo di più. «Con quale diritto mi chiedete anche un pagamento per esservela presa con una bambina?!»
«Io ho tutti i diritti: sono l’unica speranza di Belle» replicò divertito. «Ora, vuoi proseguire nel dimostrare stupidità e superbia? Non ho mai apprezzato queste caratteristiche. Potrebbero indurmi a non aiutarti».
Idiota, mi maledissi. Sapevo che Belle stava morendo, eppure i miei istinti continuavano a prevalere, allontanandomi da ciò che desideravo di più, la sua guarigione. Controllati!
E dunque chiesi perdono, anche se farlo mi costò moltissimo: almeno, però, Galbatorix fu soddisfatto.
«Cosa desiderate da me?» mormorai dopo che mi ebbe aiutata a rialzarmi.
«Mia cara» sorrise. «Non ti chiederei mai nulla di più di quanto tu sia disposta a dare. Dunque, sarà un favore la mia richiesta: non certo di tacere a tuo padre la mia posizione, perché me ne andrò da qui non appena avremo concluso il nostro affare; ragion per cui riscuoterò il mio debito quando lo riterrò necessario».
Agli occhi di uno stolto, o di una persona poco accorta, poteva sembrare una proposta vantaggiosa, ma sapevo che in realtà quello era il più subdolo degli accordi, che colpiva proprio quando si era più felici e ci si era dimenticati del patto.
Tuttavia, dovetti accettarlo: il sorriso perverso, disgustoso, che gli si formò sul volto mi fece ben intendere che avrei pagato cara quella sottomissione.
«Molto bene. Possiamo, dunque, cominciare. Avete affinità con la magia oscura, Altezza? L’avete mai praticata?»
Dal momento in cui avevo stretto quell’accordo mi sembrava di aver perso la voce: dunque, scossi solamente la testa.
«Un terribile spreco» commentò fra sé e sé. «Una strega con così tante potenzialità … completamente sprecate. Se tuo padre ti avesse concessa in sposa a Murtagh quando glielo chiesi sarei diventato, con voi due al mio fianco, ben più potente di quanto osassi immaginare, e sotto la mia guida saresti diventata la più potente fra le maghe, superiore persino alla regina Islanzadì in persona. Ma è inutile rivolgere tristi pensieri al passato. Per spezzare l’incantesimo che Nearia ha scagliato sulla tua creatura è necessario un sacrificio, ed in particolare quello di un consanguineo».
Non appena sentii quella parola iniziai subito a tremare, disgustata all’idea di dover scegliere qualcuno da sacrificare, ma ancor più disgustata dal fatto che già avessi dei candidati in mente.
«Fortunatamente me ne sono già procurato uno».
Tese un braccio in direzione delle profondità della caverna: dall’ombra uscì Kjellgrim, il fratello di mia madre, padre di Aslaug ed Astrid, le orchesse che si fregiavano di essere mie cugine ma di cui presto mi sarei sbarazzata.
Nonostante la distanza che mi separava da quel povero inetto, potevo sentirne il fetore come se ce l’avessi avuto accanto: complice la gravidanza, sentii subito lo stomaco sottosopra.
«Lui» fece Galbatorix. «Ha assassinato suo padre proprio ieri, tuo nonno. La sua morte non sarà una grande perdita, e con essa la sua vita assumerà finalmente uno scopo decente, ovvero quello di salvare tua figlia. Sarà sufficiente un taglio netto alla gola, con questo pugnale sacrificale».
Dalla cintura che sorreggeva la sua veste estrasse un lungo coltello ricurvo, dal manico d’osso nero e la lama di cristallo.
«I materiali di cui è composto non sono casuali» mi spiegò. «La lama è stata estratta dal cristallo madre di Eoam, che è intriso di una magia antica quanto la terra stessa, mentre il manico è stato ricavato da rarissimi resti, ritrovati da Durza, dello scheletro di un membro del Popolo Grigio. Ora tu ucciderai tuo zio, Katherine, Duchessa del Tridente, Cavaliere di Antares, e con il potere che il sacrificio ti darà tu salverai tua figlia».
Poi pronunciò una frase, in una lingua strana, gutturale, simile ad una bruttura dell’Antica Lingua: come con quella, però, compresi istintivamente il significato delle parole, che mi rimasero impresse a fuoco nella mente: costituivano la formula per salvare Belle.
Galbatorix mi porse il pugnale dalla parte del manico, facendomi cenno di avvicinarmi a Kjellgrim, che in conformità al suo carattere aveva preso a frignare e rannicchiarsi in un angolo, per sfuggire al proprio destino. La freddezza che mi aveva abbandonata nel momento in cui Nearia aveva iniziato a ridere di me ritornò, svuotandomi la mente e permettendomi di concentrarmi solamente su ciò che andava fatto: rimasero nel mio cuore solamente la soddisfazione per aver trovato il modo di riprendermi mia figlia e un sottile, perverso piacere nel poter togliere la vita a quella creatura con cui stentavo a credere di condividere il sangue. Avrei salvato Belle e vendicato mio nonno: doppia vittoria.
«Per favor …» fece per singhiozzare quando lo presi per i capelli per scoprirgli il collo: non finì mai quella frase. La e che stava per pronunciare scomparve nel suono viscido della pelle che si lacerava, nel gorgoglio del sangue che prese a scaturirgli dalla gola e che mi macchiò il volto e gli abiti.
L’attimo dopo, nella caverna ero sola.
 
   
 
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