Libri > L'Attraversaspecchi
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Autore: MaxB    19/05/2020    3 recensioni
Questa è una storia che ho iniziato a scrivere dopo aver finito di leggere il secondo volume, quando ancora doveva uscire il terzo.
La considero una prosecuzione della storia originale come se il terzo libro non esistesse, e narra quindi delle vicende familiari che si sono succedute dopo la fine de Gli scomparsi di Chiardiluna, con leggere modifiche alla trama.
Sostanzialmente, Thorn e Ofelia saranno alle prese con la vita quotidiana da coppia sposata, cercando di capirsi, vivere insieme e prendere confidenza l'uno con l'altra.
E con un inaspettato desiderio di Ofelia...
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ahah! Ci siamo! Più o meno...
Volevo solo precisare una cosa: non penso le cose che ho scritto circa il parto, solo che l'ambientazione dell'Attraversaspecchi, oltre che Steampunk e tutto quello che volete mi sembra anche otto-novecentesca. I personaggi li immagino un po' chiusi di menti e facili da scandalizzare, quindi ho cercato di caratterizzare la levatrice in questo modo. In realtà non credo proprio che un padre si senta... va be' non faccio spoiler. Concludo il discorso con un piccolo * sotto il capitolo.
Grazie a tutti e buona lettura^^


Capitolo 9

Il mattino seguente la colazione fu a dir poco insolita.
Berenilde cercava di smaltire i postumi della sbornia alternando infusi di tè e caffè forte, facendo smorfie a causa del miscuglio di gusti non proprio nelle sue corde. Il mal di testa la rendeva suscettibile e irritabile, quindi nessuno, nemmeno la zia Roseline, si azzardava a fare qualche commento o anche solo a rivolgerle la parola. Soprattutto perché, cercando di badare alla donna ebbra, aveva a mala pena chiuso occhio lei stessa. Ofelia sentì che Berenilde non era l’unica di pessimo umore, a giudicare da come tovaglioli e posate si allontanavano terrorizzati dalla zia, mentre altri si mettevano a bisticciare per un nonnulla.
Vittoria era ancora a letto, dopo aver passato la notte a gironzolare per il castello dei cugini, ignari di tutto.
Gli unici di buon umore, ossia silenziosi come se si stesse tenendo una celebrazione funebre e non una colazione in famiglia, erano Ofelia e Thorn. Dopo aver brontolato ancora un po’, i due si erano coricati subito, ognuno dalla sua parte di letto. Thorn non la toccava più da quasi tre settimane, perché Ofelia era diventata davvero enorme e lui temeva di far male al feto. Intimamente Ofelia credeva che in realtà il marito non fosse più attratto da lei a causa della sua mole imponente. Thorn nascondeva a malapena la sua contrarietà nei confronti degli uomini panciuti, che reputava incapaci di autocontrollo e così oziosi da non aver nulla da fare tutto il giorno se non ingozzarsi come maiali. E lei era grossa. Cercava di consolarsi rammentando che Thorn l’aveva vista con il viso sporco di sangue, tumefatto, con lividi ovunque. L’aveva vista quando era più vulnerabile, nuda, o quando aveva indossato i suoi cappotti giganteschi, e ancora, quando era con e senza occhiali, impolverata e con occhiaie così profonde da rivaleggiare con le sue. Eppure la cosa non lo aveva mai turbato, minimamente. Si era un po’ rassicurata la notte prima quando, dopo un impercettibile sospiro, lui si era girato verso di lei e l’aveva abbracciata, facendo aderire il suo petto caldo e solido alla sua schiena, passando le sue lunghe e ossute braccia sul suo ventre tondo. Le aveva posato un leggero bacio sulla testa quando ormai era scivolata nel mondo dei sogni, ma quel lieve contatto aveva scongiurato gli incubi e l’aveva aiutata a riposare.
Forse il problema era che voleva essere toccata. Ma non sapeva come farglielo capire. Si sforzò con grande impegno per non arrossire, data la natura ardita dei suoi pensieri. Erano gli ormoni, tutta colpa degli ormoni.
Animato dal fastidio e dall’imbarazzo di Ofelia, il cucchiaino da tè rotolò via, andando a sbattere contro la mano ossuta del soggetto di quelle elucubrazione, che scoccò ad Ofelia un’occhiata intensa e inquisitoria. Lei non rispose e continuò ad imburrare una fetta di pane tostato, come se nulla fosse. Ma Thorn non la mollava.
- Hai già informato il consigliere?
Ofelia ci mise alcuni secondi a capire che parlava con lei. Se ne accorse a causa del silenzio che si venne a creare. A dire il vero, silenzio c’era anche prima, ma nessuno, nemmeno le posate, facevano più alcun rumore.
Guardò Thorn addentando la fetta di pane, percependo gli occhi bramosi delle due zie, una sua e una di Thorn, addosso. Scosse leggermente la testa e non si arrischiò per nulla al mondo a guardare le due signore. Fortunatamente in quel momento entrò Vittoria, con il pigiamino e i capelli che le spiovevano sul viso, arruffati dal sonno, e si arrampicò in braccio alla mamma che si illuminò. Ofelia dovette riconoscerlo: per quanti difetti quella donna mondana avesse, era nata per essere madre. Nutriva un amore smisurato e incondizionato nei confronti delle sue creature, e Ofelia si augurava di poter imparare qualcosa da lei. Non tutto, di sicuro non voleva crescere tante piccole Berenildi, ma di sicuro la dama aveva dei buoni consigli da darle.
- Sarebbe il caso di informarlo quanto prima. Manca poco alla nascita – la pressò Thorn, strappandola dalle riflessioni e riportandola a tavola.
Ofelia provò a prendere del miele con il cucchiaino, senza ricordarsi che si era dato alla fuga per rifugiarsi accanto alla mano del marito. Più osservatore di quanto la gente si sarebbe potuta aspettare, Thorn glielo allungò prontamente, cercando di stabilire un contatto visivo che lei invece eluse. Non gli sfuggiva mai nulla. Un altro paio di occhietti che le stavano scavando un buco negli occhiali erano quelli di Vittoria, che la fissava con insistenza.
- Mancano ancora tre settimane come minimo, non angosciarti troppo. Ho tempo per parlargli. Volevo chiamare anche Gaela.
Le due signore erano fortunatamente troppo impegnate a coccolare e vezzeggiare la piccola Vittoria per dare retta ai due, così il dialogo si concluse con la risposta di Ofelia e un sopracciglio alzato di Thorn. Ma la bambina non era dello stesso avviso.
Quando Thorn si fu congedato per raggiungere l’intendenza e Berenilde e Roseline si furono alzate per andare a preparare il bagnetto per Vittoria, quest’ultima si avvicinò a Ofelia, seduta sul divano, che meditava sul modo migliore per chiedere a Renard di essere il padrino della figlia. La piccola si arrampicò accanto alla cugina e le toccò la pancia, come di consueto, ma Ofelia la vide chiudere gli occhi e concentrarsi, stranamente.
Poi la bambina, che con il viso pallido e lucente come porcellana e i capelli bianchi e sottili sembrava più eterea di quanto lo fosse il suo stesso padre, si aprì in un sorriso candido e disarmante. – Non vedo l’ora di conoscere la cuginetta – annunciò con un’adorabile vocina stridula, che se fosse stata una persona sarebbe stata una bambina paffuta e piena di fossette.
Ofelia rise all’idea di vedere una voce personificata, e disse: - Mi dispiace, ma dovrai aspettare ancora un po’ di tempo per poterla conoscere.
Vittoria scosse la testa, enigmatica, e scese dal divano. – Lo so. Ma fino a domani posso aspettare.
Ofelia le accarezzò la testa. – Dovrai aspettare più di un giorno, però, purtroppo.
Vittoria negò di nuovo. – Domani.
Berenilde andò a prenderla in quel momento, abbracciandola e portandola via, ma gli occhi delle due donne, una giovane e incinta e l’altra piccola e prematura, non si lasciarono mai.
Quel “domani” di Vittoria suonava più come una profezia che come un’aspettativa o un desiderio.
Ofelia ebbe un brivido e si avvicinò al fuoco del camino, mentre la sciarpa frustava l’aria, irrequieta, per poi allentarsi fino alla pancia della padrona per accarezzarne la creatura all’interno.
Possibile che…?
Ofelia scacciò il pensiero e si alzò.
Vittoria era solo una bambina di quattro anni. Una vocina dentro di sé però non voleva saperne di stare zitta e continuava a pungolarla, lasciandola irrequieta.
Possibile?
 
Ofelia si aggirò per casa come un fantasma tutto il giorno. Il lavoro le mancava, in esso trovava uno scopo e una valida scusa per evadere dal castello, in cui non aveva nulla da fare a causa dei “domestici”. Sperava che la sua famiglia non rimanesse troppo sconvolta da quella novità. Su Anima tutti partecipavano alla gestione della casa, dalla cucina alla pulizia fino alla restaurazione. C’era manodopera a volontà dal momento che erano tutti parenti e i vicini era come se fossero di famiglia, se non lo erano letteralmente.
Però il suo malessere emotivo non dipendeva da niente di tutto ciò, né dalla famiglia in arrivo né dalla mancanza di un’occupazione. E nemmeno dal fatto che faticava a trovare il coraggio per chiedere a Renard di fare da padrino a Serena. Si sentiva strana. Qualcosa non andava.
La zia Roseline aveva cercato di minimizzare, rassicurandola circa il fatto che si trattava di ansia preparto e cercando di distrarla facendole fare esercizi respiratori in vista del grande momento. Ofelia si era chiesta come facesse la zia a sapere quelle cose, dal momento che non aveva avuto figli. E non era mai nemmeno rimasta incinta, per quanto ricordasse.
Quella notte continuò a girarsi e rigirarsi nel letto, senza requie, resa ancora più insonne dal fatto che sapeva che Thorn non dormiva a causa sua. Se ne stava zitto, con gli occhi a tratti aperti, la fronte perennemente aggrottata, preoccupato. Aveva sciolto l’abbraccio in cui di solito la ingabbiava quando aveva iniziato a sentirla muoversi convulsamente come di solito faceva la sua sciarpa, ed era rimasto accanto a lei ma a distanza.
Ofelia allora andò in bagno per lavarsi il viso e cercare di calmarsi; l’acqua fredda agiva spesso come un infuso su di lei, tranquillizzandola e aiutandola a mettere ogni cosa nella giusta prospettiva. In quel caso non servì e quando tornò a letto trovò Thorn seduto, con i capelli spettinati, che la seguiva con il suo sguardo da sparviero.
- Vado a prenderti un calmante, o a chiedere che ti servano una camomilla.
- No, non serve – lo trattenne Ofelia prima che avesse il tempo di muoversi dalla sua posizione, arroccato su se stesso. – Sono solo un po’ scomoda, tutto qui. E ingombrante.
- Non sei ingombrante – mormorò lui, con un tono che avrebbe potuto intendere tutto il contrario, sdraiandosi nuovamente con lei. Le posò una mano fredda sulla pancia, facendola rabbrividire. – Si muove?
Ofelia scosse la testa. – Penso stia dormendo anche lei, ormai non ha più molto spazio di movimento. Non sono così spaziosa.
Thorn rimase in silenzio e cercò di addormentarsi, sperando che Ofelia facesse lo stesso.
Uscì dal dormiveglia poco dopo, pensando che in realtà fossero passate ore, quando Ofelia tornò in bagno. Invece era trascorsa a mala pena mezz’ora. Aveva intuito che l’incontinenza fosse un effetto collaterale della gravidanza, ma quale essere umano poteva vivere andando in bagno ogni mezz’ora?
Quando non la vide tornare si preoccupò. Scattò a sedere e uscì dal letto, avvicinandosi alla porta chiusa del bagno.
- Ofelia? Stai bene?
Da dentro giunse solo un mormorio. Bussò piano alla porta, pressandola. Cosa stava succedendo?
Alla fine Ofelia ne aprì uno spiraglio, rossa in viso e scarmigliata. – Potresti svegliare mia zia, per favore?
- Cosa succede? – per quando fredda, nella sua voce c’era innegabilmente paura.
- Non lo so, mi scappa continuamente la pipì. Credo che… forse mi si siano rotte le acque.
Thorn si voltò così velocemente che Ofelia fece fatica a seguirne il movimento con gli occhi, e si precipitò fuori dalla stanza con la vestaglia in mano. Lei si rese conto con sgomento che, più del parto in sé, era in apprensione per il comportamento del marito.
Come avrebbe fatto a tenerlo lontano da quella stanza?
 
Ofelia stava passeggiando nervosamente per la camera, quando Thorn arrivò con la zia. Lui era calmo e distaccato, mentre la zia Roseline trafelata e spettinata per via della corsa che aveva dovuto fare per cercare di tenere il passo sostenuto di Thorn. Ma Ofelia non si fece ingannare dal volto imperturbato del marito: gli occhi mandavano lampi d’acciaio ogni volta che il suo sguardo cambiava direzione, cioè molto spesso. Stava registrando ogni singolo particolare della stanza, dal letto sfatto alla sciarpa che era strisciata al collo di Ofelia e cercava di attorcigliarsi attorno alla sua testa, fino alla luce accesa del bagno e agli asciugamani che c’erano per terra.
Thorn si diresse verso il comodino e afferrò l’orologio da taschino come se solo quello potesse calmarlo. Erano le tre e sedici del mattino.
- Ofelia, come ti senti? Sii dettagliata come un libro di contabilità, ho bisogno di sapere a che punto sei – disse la zia Roseline afferrandole le mani, costringendola a guardarla negli occhi.
Ofelia si rendeva conto che la zia non aveva mai partorito, non mai avuto figli, ma nemmeno per un secondo dubitò della sua competenza, che la stretta stessa delle sue mani ruvide e calde le trasmetteva. Aveva aiutato Berenilde a partorire, ed era stata accanto a sua mamma con ogni singolo figlio. Se c’era qualcuno con delle competenze da levatrice, per quanto non ufficialmente riconosciute, quella era la zia Roseline.
- Mi si sono rotte le acque e…
- Quando?
- Non lo so con precisione…
- Circa quarantatre minuti fa – intervenne Thorn, posando una mano sulla spalla di Ofelia, in un gesto che lei non capì e interpretò come un semplice bisogno di toccarla per accertarsi che fosse tutto vero, che stavano per diventare genitori.
Che la loro primogenita stava per nascere.
- Cos’è successo? Come te ne sei accorta?
- Non è riuscita a chiudere occhio, se non a tratti – intervenne Thorn, pragmatico. - Il polso era leggermente accelerato ed è andata in bagno prima di coricarsi e verso mezzanotte. Poi alle due e trentacinque circa vi si è recata di nuovo ed è tornata a letto, per poi rialzarsi trentasette minuti dopo e rimanerci per sei minuti circa. È stato allora che se n’è accorta.
- Posso parlare anche da sola – bofonchiò Ofelia, irritata dalle continue interruzioni.
- Più preciso di voi ci sono solo il medico legale e la morte, figliolo, ma di sicuro non è il caso di discuterne qui. Le acque si sono rotte del tutto o è solo uno sgocciolio, Ofelia?
- Sgocciolio – affermò lei con sicurezza, imbarazzata dalla presenza del marito. – Abbondante ma non travolgente.
- Bene, sarà una cosa lunga, ma prima organizziamo il tutto e prima potrai rilassarti e goderti il parto.
Ofelia la fissò con occhi sgranati, stentando a credere a ciò che aveva appena sentito. Rilassarsi? Godersi il parto? Quella era sua sorella Agata, che aveva conversato con le levatrici e mangiato cioccolatini quando aveva partorito.
Lei invece sentiva già la tachicardia bussare alle porte del suo cuore, non tanto per il timore del parto come esperienza, quanto per le conseguenze che quel gesto avrebbero comportato. La responsabilità di essere madre, di crescere una creatura, la colpì in pieno, nonostante avesse riflettuto intensamente sull’argomento negli otto mesi e mezzo precedenti. L’assalirono i dubbi, i timori di non essere all’altezza, di sbagliare, di non essere abbastanza.
E poi sparì tutto. In un istante. Thorn si era chinato su di lei, posandole un leggero bacio tra i capelli prima di uscire dalla camera per andare a chiamare due domestiche, una delle quali aveva svolto il compito di levatrice prima di essere assunta da loro come governante. La zia Roseline gli aveva dato l’incarico senza che Ofelia se ne accorgesse, e lui era uscito in silenzio, efficiente come un automa, pratico come solo un funzionario poteva essere. Ma ad Ofelia era bastato il contatto impalpabile delle sue labbra sulla nuca per rassicurarla, gesto che la zia Roseline non aveva notato e che lei stessa temeva di essersi immaginata.
Non le importava. Non era da sola in quella situazione, come non era mai stata sola, né durante le serate in cui si era esibita per Faruk come vicenarratrice, con Renard al fianco, né quando aveva svolto l’indagine relativa agli scomparsi di Chiardiluna, con Thorn sempre accanto a lei.
Il marito era lì, si sarebbero divisi compiti e responsabilità. Sarebbe andato tutto bene.
Strinse i pugni mentre una prima lieve doglia le attraversava il ventre come una scarica di artigli, leggeri e quasi rassicuranti.
Stava arrivando. Serena stava arrivando. Il frutto dell’amore suo e di Thorn. Gli occhiali si tinsero di una leggera nota di indaco, malinconia e commozione mischiate fino ad essere indistinguibili.
Ofelia si estraniò dal suo corpo, senza rendersi conto che la zia Roseline le accarezzava i capelli maldestramente, poco propensa ai contatti fisici, mormorandole parole d’incoraggiamento che avevano a che fare con caffettiere, mantici e pezzi di vetro.
Quando si riebbe fu come mettere la testa fuori dall’acqua dopo una profonda immersione. I suoni la colpirono; le voci concitate, la presenza torreggiante di Thorn, seppur silenziosa, quelle mani che la toccavano. Istintivamente si ritrasse, sbattendo contro il petto del marito alle sue spalle. Le donne, le due domestiche e la zia, si zittirono quando videro le mani dell’intendente posarsi con possessività sulle spalle della futura puerpera.
- Cosa fa un uomo qui? – chiese la governante che, avendo già preso il comando e impartito le prime direttive, era senz’ombra di dubbio la domestica che aveva precedentemente operato come levatrice. – Fuori. E chiudete la porta.
La presa di Thorn sulle spalle della moglie si rinsaldò, come se trattenendola contro di sé con più forza quelle donne in procinto di far nascere un bambino potessero chiudere un occhio. La forza che le animava suggeriva ad Ofelia che in quel momento non si sarebbero fermate davanti a nulla, che fosse una Bestia, un anziano in difficoltà o l’intendente del Polo, ergo uno degli uomini che incuteva più timore sull’intera arca.
Non venne smentita. La levatrice si avvicinò a lei, che era posta come uno scudo tra la donna tonda e bassina, più bassina persino di lei, e lo spilungone dai tratti affilati alle sue spalle. Opposti come il sale e lo zucchero. Aveva un’aria minacciosa e Ofelia si ritrovò per la prima volta a temere una donna.
- Non mi muovo. Mia moglie sta per partorire – sancì Thorn, lapidario, come se stesse annunciando le previsioni del tempo.
- Proprio perché vostra moglie sta per partorire dovete muovervi.
- Sono il padre. Nessuna legge mi vieta di rimanere in questo momento.
Pragmatico come sempre, la sua scelta poteva in effetti essere limitata o inibita niente meno che dalla legislatura. Per Thorn non c’era zone d’ombra come la consuetudine non scritta ma osservata tacitamente da tutti, quegli usi quotidiani insiti nella natura stessa degli avvenimenti.
Nessun articolo normativo impediva a Thorn di assistere. Ma la consuetudine e la buona creanza sì.
- Nessun padre assiste al parto da anni. Decadi! E sapete perché, signor intendente? Per salvaguardare il matrimonio e la pace mentale della partoriente. I mariti pieni di buona volontà ed emozionati per questo momento spesso svengono, caricano ansia eccessiva sulle spalle della moglie perché non riescono a controllare il loro stato emotivo, o peggio, provano disgusto per lo stesso travaglio, per non parlare della fase finale, quella espulsiva.
Ofelia storse il naso al suono di quella parola. Espulsivo. Rabbrividì da capo a piedi, e Thorn se ne accorse, perché si fece ancora più vicino.
- Se proprio volete che ve la racconti fino in fondo, signor intendente – continuò imperterrita la levatrice, infervorata e disinibita nel linguaggio, - nella maggior parte dei casi i mariti che assistono al parto poi non riescono più a guardare la moglie con gli stessi occhi. Rimangono scioccati e scandalizzati, e cercano rifugio sotto le gonne di qualche altra donna che non sia stata sottoposta all’esperienza trascendentale e unica del parto. Non voglio essere responsabile della rottura del sacro vincolo del vostro matrimonio, quindi uscite di qui. Non permetterò che commettiate sciocchezze o puntiate i piedi, salvaguarderò questo matrimonio e la dignità della madama vostra moglie. Con permesso.
Concludendo la sua arringa come un avvocato impettito e sicuro di vincere la causa, la levatrice si accinse a stendere un mucchio di asciugamani sul letto e per terra, ordinando poi alla collega di riempire due secchi di acqua calda nella vasca del bagno padronale. La zia Roseline si era immobilizzata, fissando la scena sbigottita: nessuno, nemmeno lei stessa, aveva mai osato parlare così a Thorn. Quella donna non era minimamente intimidita dalla minaccia di quell’uomo: artigli, altezza, sguardo gelido, mascella contratta. Non l’aveva scalfita nulla.
- Be’, cara Ofelia, se non è in grado lei di far nascere la piccola, non vedo chi potrebbe farlo! È più agguerrita di un coltello durante la Festa del Tacchino.
Suo malgrado, Ofelia sorrise, grata per la sua presenza lì. Non era sicura che la levatrice la tranquillizzasse, ma vederla così efficiente e sicura di ciò che faceva, così esperta, le fece capire che era in buone mani. Sempre che non la sgridasse perché magari non faceva qualcosa di giusto. Sarebbe stata in grado di sbagliare anche la respirazione, figuriamoci le spinte e quelle altre cose legate al parto.
Con una mano inguantata accarezzò le lunghe dita di Thorn, ancora ferme sulle sue spalle. La sciarpa la imitò, anche se non smetteva di muoversi e tremare per l’agitazione.
- Penso ti convenga fare come ha detto – mormorò a bassa voce, conscia che lui l’avrebbe sentita.
La levatrice era uscita e stava sbraitando ordini in corridoio, ma sapevano entrambi che non avrebbe tardato a rientrare.
Thorn la fece voltare verso di sé e si chinò per essere alla sua altezza. Ofelia lesse un tormento vivido e inquietante nel suo sguardo, una paura che non gli aveva mai notato addosso, e che traspariva solo dall’acciaio dei suoi occhi. –  E se ti succedesse qualcosa?
- Sono in buone mani.
- Voglio assistere. Davvero. È anche una mia responsabilità questa situazione.
Ofelia avrebbe voluto ridere di fronte alla formalità di Thorn. Non voleva chiamarlo distacco, sapeva che era sinceramente emozionato per ciò che stava accadendo. – Il parto non è una situazione, Thorn, e non si parla di responsabilità. Non è un’incombenza che possiamo dividerci, devo partorire io.
- Come se non lo sapessi – bofonchiò, quasi irritato. – Se però assisto e sto vicino ho la possibilità di partecipare. Mia zia non ha emesso un lamento quando ha partorito Vittoria, l’hai sentita, ma lei è l’unico caso che mi è capitato. Ho avuto la spiacevole occasione di svolgere alcune indagini sulla veridicità di certe pratiche in un istituto per donne all’ultimo stadio di gravidanza, all’inizio del mio impiego come funzionario, e sembrava di essere in un mattatoio. Urla ovunque, che riecheggiavano e infestavano quel posto come se fosse un luogo di tortura. Mi chiedo perché le donne si infliggano una sofferenza del genere, e mi sono trovato spesso a riflettere sui motivi che le spingono a desiderare più di un figlio. O i loro mariti non sono in grado di… controllarsi, o qualcosa nel processo procreativo mi sfugge. Se mi sarà permesso assistere almeno potrai contare su di me se vorrai prendere a pugni qualcuno. Potrai rompere piatti sulla mia testa. O maledirmi. Io…
- Per questo avevi così paura all’inizio? – lo interruppe Ofelia. – Un po’ di tempo fa, e ancora agli albori, quando ti ho messo a parte del mio desiderio. Paventavi il momento del parto?
Thorn si raddrizzò, e si passò una mano tra i capelli spettinati. Era così agitato da non aver fatto caso al suo stato “disordinato”. Ofelia lesse anche una profonda stanchezza nei suoi occhi, come se quel momento gli stesse risucchiando la vita poco a poco.
- Non è una facezia il parto. L’idea che ti abbia messo io in questo ginepraio non mi permette di rasserenarmi. Non ho mai tollerato che tu soffrissi, né in passato, né ora, né in futuro. Lo ammetto, è un desiderio egoistico. Assistere al parto mi farà sentire meno inutile, in qualche modo partecipe della tua agonia. Andarmene fuori, lasciarti sola, mi sembra un venir meno alle mie responsabilità.
- Parole come agonia, urla e mattatoio non dovrebbero essere usate con una donna in procinto di partorire, Thorn – lo redarguì Ofelia in risposta, per stemperare l’atmosfera. Anche se quel commento non era del tutto ironico…
Lui infatti non apprezzò e le scoccò un’occhiata glaciale dalla fessura visibile dei suoi occhi strizzati.
- Le cose stanno così, Thorn. Io ho accettato tutte le conseguenze del mio desiderio nel momento stesso in cui te ne ho messo a parte. Non è una mancanza da parte tua, è un mio compito. Il tuo è quello di vegliarmi, da fuori.
- Spero che tu non abbia dato peso alle parole della levatrice – la incalzò lui, ignorando la sua velata richiesta di uscire. – Credi che mi scandalizzerei nel vederti partorire? Sai bene qual è il numero delle cicatrici che solcano la mia pelle. Le conosci quasi meglio di me per forma e ubicazione. Tu convivi con esse, per quanto siano raccapriccianti, io posso decisamente sopravvivere alla tua vista nel momento dell’espulsione.
Ofelia si chiedeva sempre, a distanza di anni, come potesse Thorn parlare di argomenti delicati in maniera così seria e imperturbata.
Arrossì da sola immaginando se stessa mentre si accingeva a mettere al mondo la loro figlia. La visione, nella sua immaginazione, era intollerabile già solo con Thorn alle sue spalle; con lui di fronte a lei ad osservare tutto sarebbe stato così umiliante da costringerla ad affrontare un parto d’inferno.
Scosse la testa. Era sicura che Thorn non si sarebbe schifato, ma lei non era pronta perché lui assistesse. – Lo so che non fuggiresti e non rimarresti traumatizzato, ma credo davvero che tu debba uscire. Sarai il primo ad entrare quando Serena verrà al mondo, il primo a vederla e tenerla.
Thorn capì di aver perso la battaglia e si irrigidì ulteriormente. – Ma non la vedrò entrare letteralmente nel mondo.
Ofelia storse il naso. – Non credo sia un bello spettacolo quello.
- Ancora qui voi? – berciò la levatrice entrando a passo di marcia, uno sguardo assassino negli occhi, nonostante si accingesse a far nascere una nuova vita. – Andate fuori subito signor intendente, a meno che non vogliate che maledica il giorno in cui vi ho fatto nascere.
Ofelia ci mise qualche secondo per registrare le parole della donna. Lei aveva fatto nascere Thorn?
Intuendo il suo sgomento, lei bloccò le sue domande sul nascere. – Non è il momento per chiacchierare di questo, madama, avete un bambino da far nascere. Sedetevi sul bordo del letto. Dove sono i cuscini che ho chiesto? Non può stare con la schiena ad un’angolatura sbagliata, volete che soffra anche di male alle giunture oltre che per il resto? Chiudete quella porta!
Ofelia accarezzò il viso di Thorn e gli sorrise, dispiaciuta, mentre si allontanava per obbedire ai comandi abbaiati dalla levatrice. Temeva quasi per la sua incolumità, con quel sergente in camera.
Lui abbandonò in silenzio la stanza, senza badare a nessuno, o notare l’occhiata di sincero rammarico della zia Roseline.
La porta si chiuse alle sue spalle senza quasi aspettare che lui fosse uscito del tutto.
Prendendosi la testa tra le lunghe dita ossute, con indosso ancora la vestaglia, si preparò ad udire e sopportare sulla pelle le urla di Ofelia.
 
Quando rimasero solo loro quattro, Ofelia, le due domestiche e la zia Roseline, il clima divenne decisamente meno teso. Senza le altre serve che portavano asciugamani, cuscini e infusi e senza Thorn, che agitava la levatrice, nella stanza piombò il silenzio per qualche istante.
E poi la levatrice le sorrise dolcemente. – Bene, cara, ora cerchiamo di rendere la cosa più facile e comoda possibile. Ora vi spiego…
La donna la cullò con la sua voce d’un tratto ammaliante, trattandola come una bambina, in modo rassicurante, affinché potesse calmarsi. Le tenne le mani, l’aiutò a spogliarsi, la confortò. Ofelia dubitava che fosse la stessa signora piccola e grassottella che aveva tenuto testa al marito pochi minuti prima.
Senza farsi udire, l’altra domestica riuscì a spiegare ad Ofelia il perché della sua reazione alla richiesta di Thorn di poter assistere: all’epoca in cui era stata la governante a partorire, molti, molti anni prima, il suo stesso marito aveva voluto assistere. Non era finita bene. Non aveva fatto altro che vomitare per tutta la durata del travaglio, chiedendo supporto alla moglie invece di darglielo. Alla fine si era allontanato perché non reggeva più la tensione, proprio all’ultimo momento, quando la donna stava dando alla luce suo figlio, il loro figlio.
Il neonato era morto poco tempo dopo la nascita per un problema ai polmoni. Il padre si era dato al bere, lasciando sua moglie ad occuparsi da sola del funerale e del suo dolore. Alla fine, dopo un paio di settimane, aveva smesso di gozzovigliare, ma non era più tornato a casa per la notte. Se n’era andato definitivamente dopo sei mesi, in seguito a pesanti litigi e confessioni abominevoli. Lei sapeva che lui l’aveva tradita molteplici volte. E lui, al momento di andarsene, aveva dichiarato di non volere mai più figli, perché era disgustoso e aberrante ciò che accadeva al corpo di una donna durante il parto.
La levatrice si era dedicata a far nascere i bambini altrui. Non aveva più voluto né figli né un uomo. Il disprezzo per i maschi non l’aveva mai più abbandonata.
Ofelia non poteva nemmeno capire cosa quella donna potesse provare nei confronti degli uomini. Ma capì perché aveva reagito così alla richiesta di Thorn di poter partecipare: temeva che potesse succedere lo stesso alle partorienti che assisteva. Che il loro marito le vedesse sotto una luce diversa, come una specie di mucca da latte, dandole meno rispetto e cercando consolazione altrove. Era una visione brutale, la sua, che poteva avere solamente chi dalla vita era stato trattato altrettanto brutalmente.
Oltre a distrarsi dal fastidio delle contrazioni, Ofelia si chiese se in realtà la levatrice e Thorn non avessero in comune più di quanto loro stessi avrebbero voluto ammettere.
- Vi ringrazio per essere qui e per l’assistenza che mi state dando – mormorò alla donna dopo un paio d’ore, ammirando la sua pazienza e instancabilità.
Aveva allestito nella camera da letto una vera e propria sala parto. La zia Roseline era dietro di lei, sorreggendole la schiena e accarezzandole i capelli aggrovigliati. Per una volta non parlava, le cullava semplicemente la testa, e Ofelia fu più che mai grata della sua presenza nella sua vita.
- Non datevi troppe noie, madama. Accetto i ringraziamenti e mi farò scudo con quelli quando, tra qualche ora, inizierete a maledire me, vostra zia, vostra madre e vostro marito. Soprattutto vostro marito.
Ofelia non voleva pensarci, così chiuse gli occhi e cercò di godersi la quiete temporanea. Per quanto possa essere quieta una stanza con due donne indaffarate, una che poteva mettersi a chiacchierare ininterrottamente per ore e lei stessa, attraversata dalle contrazioni e con le doglie da un’ora abbondante.
Poco dopo entrò Berenilde, che urlò di gioia ancora prima di mettere piede nella stanza.
Ofelia seppe allora con certezza che la pace era finita.



*...non credo proprio che un padre si senta schifato alla vista della moglie che partorisce, così come non si sente ripugnato da lei in seguito. Ma cercate di capire la brutta esperienza della levatrice e il fatto che non voglia rischiare ahahaha. Mi fa tenerezza quella donna. E poi Thorn che assiste proprio non me lo vedo, scusate xD
  
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