Capitolo 2: Il portale
I muri della casa di Lina parevano rimbombare ancora dell’urlo che pochi secondi prima aveva interrotto me, Eva e tutti gli altri, dando il via alla serata, la vera serata, quella che sarebbe presto diventata la più incredibile della nostra vita.
Mi portai istintivamente una mano fra i capelli e chiusi gli occhi, in un gesto spazientito ma biologicamente necessario dal momento che l’alcol, la confusione e il ciclone di emozioni in cui mi ritrovavo mi stavano offuscando la vista.
“Che altro succede ora?”, domandai in un soffio.
Riaprii gli occhi e vidi Eva fissarmi incollerita, come se non avesse sentito nulla.
Il suo viso era così vicino al mio che per un istante pensai sul serio di stringerlo fra le dita, fregarmene altamente di Shawn e baciarla come volevo fare da anni. Forse sarebbe stata una spiegazione più convincente di qualsiasi parola.
“Dai, vieni, andiamo a controllare” dissi invece, voltandomi verso la porta con l’intento di evadere da quella stanza e da quella situazione opprimente.
Fu Eva a bloccarmi, per la seconda volta nella stessa sera: mi afferrò un braccio e lo strinse, costringendomi a rivolgere di nuovo l’attenzione su di lei.
“Dan…basta fughe”. Scosse la testa. “Basta fughe”.
Non potevamo ancora saperlo, ma quei pochi secondi in cui ci trattenemmo in bagno anziché tornare giù ci avrebbero salvati.
Io stesso alla fine mi convinsi che era meglio restare lì e affrontare quella discussione. Ne andava del mio rapporto con una delle persone più importanti della mia vita, e andassero al diavolo tutti quelli che si trovavano di là: probabilmente qualche stronzo aveva alzato troppo il gomito e s’era immaginato chissà quale creatura volante.
Iniziai a grattarmi la nuca, percependo il sudore che già da qualche minuto mi scorreva addosso.
“Eva, ciò che stavo cercando di dirti…e che avrei dovuto dirti molto tempo fa…è che…”.
Sospirai, non sapevo proprio come dirglielo. Poi, purtroppo o per fortuna, accadde qualcosa che fece passare tutto in secondo piano.
Venimmo improvvisamente travolti da un’onda d’urto, non tanto forte da farci cadere, ma forte abbastanza da generare delle strane e irrequiete vibrazioni dentro di noi, come se qualcosa nei meandri più profondi della terra fosse esploso e avesse scosso analogamente anche le nostre viscere. Sulle prime poteva sembrare un terremoto, ma era un fenomeno meno violento e tuttavia più inquietante, perché sembrava aver colpito l’atmosfera stessa.
Guardai Eva, e vidi dipinta sul suo volto un’espressione totalmente diversa: ora era turbata anche lei.
Aprii quella porta con tutta la fretta che avevo in corpo e insieme, correndo sulle scale, ci precipitammo al piano di sotto, dove ormai vigeva il silenzio, per capire cosa fosse stato.
Il salone era vuoto. Erano tutti fuori, ammassati come un gregge, con le teste inclinate verso l’alto e le bocche spalancate.
Fu allora che in noi la semplice inquietudine cedette il posto all’ansia, ma malgrado il contesto surreale trovammo comunque il coraggio di uscire a controllare.
Come per ritardare il momento in cui avremmo scoperto la fonte dello shock generale, ci concentrammo dapprima sui nostri compagni (Eva su Shawn, io su Keith e Randy): sembravano tutti in uno stato di trance, immobili come tante statue ma con le pupille che rimbalzavano da destra a sinistra, da sinistra a destra.
Eva stava ancora cercando di destare il suo ragazzo, dunque fui io il primo ad alzare lo sguardo al cielo. E finalmente lo vidi.
“Oh, merda…”.
Ad una prima occhiata appariva come una semplice sferetta, poco più grossa e poco più luminosa di una stella, ma guardando più a fondo e per più tempo essa sembrava acquistare spessore, finché non si formò al suo interno una cavità iridescente, che la rendeva molto simile ad un anello.
In più, non se ne stava fissa in un unico punto ma, come gli occhi dei suoi osservatori, si spostava da una parte all’altra e viceversa.
“Cosa…cosa credi che sia?” mi chiese Eva, con voce tremolante.
“Non ne ho la minima idea…”.
Lei si portò le mani perlacee alla bocca, in preda alla paura. “Dan…Shawn non si riprende...nessuno si riprende…che diamine succede? Cosa dobbiamo fare?”.
Le cinsi le spalle cercando di scacciare la sua angoscia: “sta’ calma, Eva. Riflettiamo…”.
Stavo solo prendendo tempo. La verità è che io stesso ero stordito e preoccupato per i miei amici.
Non sapendo da dove cominciare, ripresi esattamente da dove avevo lasciato: dando delle energiche pacche sulle braccia e sul petto di Keith e di Randy, un po' come durante le amichevoli zuffe che scatenavamo per sfotterci l’un l’altro, chiamandoli con voce più alta e sperando che dessero un qualunque segnale di ripresa.
Non ne diedero nessuno, ma in compenso un nuovo suono catturò la nostra attenzione: un’improvvisa e violenta inspirazione, come di qualcuno che abbia appena riassaporato l’aria dopo un’interminabile apnea, seguita da un sordo tonfo.
Immediatamente ci voltammo, e scorgemmo poco distante la figura di un ragazzo inginocchiato a terra, con la schiena ricurva ed il respiro affannato.
“Ben!” riconobbe subito Eva, catapultandosi verso di lui e seguita a ruota da me.
“Ben…Ben, mi senti? Stai bene?”.
Decisamente non stava bene. Tremava come una foglia, era pallidissimo e si stringeva le tempie con le ruvide dita.
“E-Eva!” riuscì comunque a pronunciare, con non poca difficoltà. “A-aiutami, ti…ti prego!”.
Lo rimettemmo in piedi, ciascuno sollevandolo per un braccio, e lo portammo dentro casa, facendolo sedere sulla prima sedia che ci capitò a tiro; ci scordammo momentaneamente degli altri “ipnotizzati”, così come lui parve non accorgersene affatto.
Non appena si fu seduto, Eva gli domandò a bruciapelo: “Ben…sai dirci cosa cazzo ti è accaduto e cos’è quella cosa in cielo?!”.
Ben rispose prima alla seconda domanda e poi alla prima, ma il risultato fu ugualmente assurdo.
“Q-quella c-cosa è…n-non so, una specie di…portale” balbettò, stringendosi spasmodicamente le ginocchia. “E…e quando ci ho g-guardato dentro ho…ho v-visto…”.
Non riusciva a regolarizzare la voce, così fui io a spronarlo: “amico, che cazzo hai visto?”.
“Ho visto i-il m-me stesso…di un altro m-mondo!”.
“Che altro succede ora?”, domandai in un soffio.
Riaprii gli occhi e vidi Eva fissarmi incollerita, come se non avesse sentito nulla.
Il suo viso era così vicino al mio che per un istante pensai sul serio di stringerlo fra le dita, fregarmene altamente di Shawn e baciarla come volevo fare da anni. Forse sarebbe stata una spiegazione più convincente di qualsiasi parola.
“Dai, vieni, andiamo a controllare” dissi invece, voltandomi verso la porta con l’intento di evadere da quella stanza e da quella situazione opprimente.
Fu Eva a bloccarmi, per la seconda volta nella stessa sera: mi afferrò un braccio e lo strinse, costringendomi a rivolgere di nuovo l’attenzione su di lei.
“Dan…basta fughe”. Scosse la testa. “Basta fughe”.
Non potevamo ancora saperlo, ma quei pochi secondi in cui ci trattenemmo in bagno anziché tornare giù ci avrebbero salvati.
Io stesso alla fine mi convinsi che era meglio restare lì e affrontare quella discussione. Ne andava del mio rapporto con una delle persone più importanti della mia vita, e andassero al diavolo tutti quelli che si trovavano di là: probabilmente qualche stronzo aveva alzato troppo il gomito e s’era immaginato chissà quale creatura volante.
Iniziai a grattarmi la nuca, percependo il sudore che già da qualche minuto mi scorreva addosso.
“Eva, ciò che stavo cercando di dirti…e che avrei dovuto dirti molto tempo fa…è che…”.
Sospirai, non sapevo proprio come dirglielo. Poi, purtroppo o per fortuna, accadde qualcosa che fece passare tutto in secondo piano.
Venimmo improvvisamente travolti da un’onda d’urto, non tanto forte da farci cadere, ma forte abbastanza da generare delle strane e irrequiete vibrazioni dentro di noi, come se qualcosa nei meandri più profondi della terra fosse esploso e avesse scosso analogamente anche le nostre viscere. Sulle prime poteva sembrare un terremoto, ma era un fenomeno meno violento e tuttavia più inquietante, perché sembrava aver colpito l’atmosfera stessa.
Guardai Eva, e vidi dipinta sul suo volto un’espressione totalmente diversa: ora era turbata anche lei.
Aprii quella porta con tutta la fretta che avevo in corpo e insieme, correndo sulle scale, ci precipitammo al piano di sotto, dove ormai vigeva il silenzio, per capire cosa fosse stato.
Il salone era vuoto. Erano tutti fuori, ammassati come un gregge, con le teste inclinate verso l’alto e le bocche spalancate.
Fu allora che in noi la semplice inquietudine cedette il posto all’ansia, ma malgrado il contesto surreale trovammo comunque il coraggio di uscire a controllare.
Come per ritardare il momento in cui avremmo scoperto la fonte dello shock generale, ci concentrammo dapprima sui nostri compagni (Eva su Shawn, io su Keith e Randy): sembravano tutti in uno stato di trance, immobili come tante statue ma con le pupille che rimbalzavano da destra a sinistra, da sinistra a destra.
Eva stava ancora cercando di destare il suo ragazzo, dunque fui io il primo ad alzare lo sguardo al cielo. E finalmente lo vidi.
“Oh, merda…”.
Ad una prima occhiata appariva come una semplice sferetta, poco più grossa e poco più luminosa di una stella, ma guardando più a fondo e per più tempo essa sembrava acquistare spessore, finché non si formò al suo interno una cavità iridescente, che la rendeva molto simile ad un anello.
In più, non se ne stava fissa in un unico punto ma, come gli occhi dei suoi osservatori, si spostava da una parte all’altra e viceversa.
“Cosa…cosa credi che sia?” mi chiese Eva, con voce tremolante.
“Non ne ho la minima idea…”.
Lei si portò le mani perlacee alla bocca, in preda alla paura. “Dan…Shawn non si riprende...nessuno si riprende…che diamine succede? Cosa dobbiamo fare?”.
Le cinsi le spalle cercando di scacciare la sua angoscia: “sta’ calma, Eva. Riflettiamo…”.
Stavo solo prendendo tempo. La verità è che io stesso ero stordito e preoccupato per i miei amici.
Non sapendo da dove cominciare, ripresi esattamente da dove avevo lasciato: dando delle energiche pacche sulle braccia e sul petto di Keith e di Randy, un po' come durante le amichevoli zuffe che scatenavamo per sfotterci l’un l’altro, chiamandoli con voce più alta e sperando che dessero un qualunque segnale di ripresa.
Non ne diedero nessuno, ma in compenso un nuovo suono catturò la nostra attenzione: un’improvvisa e violenta inspirazione, come di qualcuno che abbia appena riassaporato l’aria dopo un’interminabile apnea, seguita da un sordo tonfo.
Immediatamente ci voltammo, e scorgemmo poco distante la figura di un ragazzo inginocchiato a terra, con la schiena ricurva ed il respiro affannato.
“Ben!” riconobbe subito Eva, catapultandosi verso di lui e seguita a ruota da me.
“Ben…Ben, mi senti? Stai bene?”.
Decisamente non stava bene. Tremava come una foglia, era pallidissimo e si stringeva le tempie con le ruvide dita.
“E-Eva!” riuscì comunque a pronunciare, con non poca difficoltà. “A-aiutami, ti…ti prego!”.
Lo rimettemmo in piedi, ciascuno sollevandolo per un braccio, e lo portammo dentro casa, facendolo sedere sulla prima sedia che ci capitò a tiro; ci scordammo momentaneamente degli altri “ipnotizzati”, così come lui parve non accorgersene affatto.
Non appena si fu seduto, Eva gli domandò a bruciapelo: “Ben…sai dirci cosa cazzo ti è accaduto e cos’è quella cosa in cielo?!”.
Ben rispose prima alla seconda domanda e poi alla prima, ma il risultato fu ugualmente assurdo.
“Q-quella c-cosa è…n-non so, una specie di…portale” balbettò, stringendosi spasmodicamente le ginocchia. “E…e quando ci ho g-guardato dentro ho…ho v-visto…”.
Non riusciva a regolarizzare la voce, così fui io a spronarlo: “amico, che cazzo hai visto?”.
“Ho visto i-il m-me stesso…di un altro m-mondo!”.