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Autore: Summer__    22/05/2020    0 recensioni
In pochi istanti i ricordi delle emozioni e dei pensieri della me sedicenne si fecero più vividi che mai.
Conversazioni, momenti, persino odori e sapori e situazioni che, in un modo o nell’altro, avevo finito con l’associare a lui.
Come il profumo alle ciliegie che indossavo quotidianamente in quel periodo.
E, più di ogni altra cosa, il ricordo di quel sentimento che sbocciava.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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If you ever feel like

Something’s missing

Things you never understand

Little white shadows sparkle and glisten

Part of a system a plan
 

White Shadows, Coldplay

 
 
 
 

BIRDS
 
 
 
Era ottobre, i corsi del primo semestre all’università erano cominciati da quasi tre settimane, ma ero ancora impegnata nella ricerca dei libri di testo. Così quel pomeriggio, terminate le lezioni, avevo salutato frettolosamente i miei amici e mi ero avviata in direzione della fermata della metro invece di risalire verso Porta Nolana, dove prendevo il treno per tornare a casa.
Era un periodo relativamente tranquillo, le mie giornate si alternavano tra lezioni, studio, lavoro e uscite nel fine settimana, all’interno di una routine che non mi pesava, anzi, mi confortava. Non mi aspettavo nulla di quanto accadde di lì a poche ore.
Sebbene fosse pieno autunno, soffiava leggero un vento caldo e il sole splendeva in un cielo sgombro di nubi; fu per questo che alla fine decisi di raggiungere Piazza dei Martiri a piedi e di prendere la metro solo al ritorno. Era l’una in punto ed ero piuttosto affamata, ma poiché contavo di arrivare a casa per le quattro e recuperare così ore e ore di sonno arretrato – e per questo dovevo ringraziare libri e serie TV, che mi riducevo a leggere e a guardare la sera tardi – avevo rinunciato al pranzo e mi ero diretta subito in libreria.
Camminavo a passo svelto, senza fermarmi ad osservare alcunché, come invece ero solita fare ogni volta che mi capitava di passeggiare per le vie del centro. Arrivata a destinazione mi diressi a passo spedito verso la sezione di filosofia. Mi sarei risparmiata volentieri quella corsa, ma purtroppo quella era l’unica libreria, nel raggio di pochi chilometri, ad avere a disposizione i libri che mi servivano: due raccolte di saggi di filosofia politica introvabili persino nei meandri del deep web. Non avevo avuto il tempo di registrarmi al sito della libreria e di prenotarli, non potevo telefonare perché avevo finito i minuti, per cui l’unica alternativa che mi era rimasta era quella di recarmi lì di persona. Dopo aver consultato la sezione per almeno dieci minuti, mi ero arresa e avevo chiesto aiuto ad un addetto, il quale, dopo qualche altro minuto di viavai e consultazioni al pc e tra colleghi, mi aveva gentilmente consegnato i due volumi. Avevo pagato e avevo controllato nuovamente l’ora: le due meno dieci. Avrei dovuto prendere il treno poco più di un’ora dopo, dunque ne avrei approfittato per pranzare. Presi un panino con wurstel e patatine lungo la strada, fregandomene altamente di dieta e alimentazione corretta, e occupai un tavolino all’esterno della rosticceria privo di sgabelli e fin troppo alto per me, arrangiandomi come potevo. Solo allora ripresi in mano il mio telefono.
La luce del pomeriggio era accecante, ma quando riuscii a leggere le notifiche sullo schermo strabuzzai gli occhi. Mi erano arrivati 250 messaggi nell’arco di un’ora, tutti da parte delle mie amiche. Rinunciai subito a leggere i messaggi della chat di gruppo, anche perché Silvia mi aveva scritto in privato.
 
Amo ci sei? Leggi sul gruppo. Rispondiii. Luuuuuuuuu.
 
Confusa, le scrissi di getto.
 
Che succede??
 
Stavo iniziando a leggere i messaggi sul gruppo quando mi arrivò la chiamata di Silvia.
«Lu.»
«Oh, e allora? Che è stato?»
«Hai letto sul gruppo?»
«No, troppi messaggi, dimmi tu.»
«Va’ a vedere un attimo.»
Silvia ovviamente era troppo pigra persino per farmi il resoconto di una conversazione, così, rassegnata, iniziai a leggere velocemente i messaggi quel tanto che bastava per seguire il filo del discorso, finché una foto inviata da Cris non attirò la mia attenzione; allora tornai alla chiamata.
«Leo sta qui?»
«Sì! Tu oggi avevi lezione?»
Leonardo era il nome del ragazzo che avevo conosciuto quando ero al secondo anno di liceo. Ci eravamo conosciuti totalmente per caso e forse il termine “conoscersi” non è nemmeno così adatto.
 
 
Two hearts
One valve
Pumping the blood, we were the flood, we were the body and
Two lives
One life
Sticking it out, letting you down, making it right
 
 
Era partito tutto con una stupida telefonata. Un sabato pomeriggio noioso come pochi, io Silvia e suo fratello Lorenzo sdraiati sul letto della camera di lui, davanti alla TV e alla Play. Uno di noi aveva avuto l’idea di chiamare dei numeri a caso, giusto per ingannare il tempo, e dopo svariati tentativi, tra risate e insulti da parte di interlocutori a cui mancava decisamente il senso dell’umorismo, ci capitò una persona che si trattenne al telefono per più di dieci secondi. Ed era il mio turno di parlare.
 
«Hei, ciao!» esordii entusiasta, sentendo la voce di un ragazzo.
Magari aveva la nostra età. Non avevo in mente nulla di particolare da dire, mi sarei affidata all’istinto e alle risposte del tizio dall’altro lato della linea.
«Chi è?» chiese Tizio.
«Adesso non riconosci nemmeno la mia voce? Male, decisamente male.»
Cercai di fingermi delusa, di nascondere quanto mi stessi in realtà divertendo.
«Sono sicuro di non averla mai sentita prima, questa voce.»
Anche lui sembrava piuttosto divertito dalla situazione. E a proposito di voci, la sua era proprio bella.
«E io dovrei crederci?»
Tizio ridacchiò per un po’, prima di rispondermi.
«Evidentemente non sei stata così importante per me da rimanermi impressa.»
Ma tu guarda che tipo, pensai.
«Mi sembri un po’ stronzo,» dissi, scatenando le risate dei miei amici, che avevano cercato di trattenersi fino a quel momento per non rovinare l’atmosfera, «un po’ tanto.» Parlai ad alta voce, cercando di coprire il baccano di quei due idioti.
«Non sei sola, eh?»
«No, infatti. Qui ci sono i miei amici. Ma se non ti ricordi di me, figurati di loro… stronzo» mi diedi la premura di aggiungere.
«Comunque adesso sono proprio curioso di sapere chi sei e perché ce l’hai tanto con me, lo sai?»
Era palese che in realtà Tizio non ci era cascato, mi stava soltanto reggendo il gioco, dalla qual cosa dedussi che molto probabilmente doveva essere un sabato pomeriggio noioso anche per lui.
«Perché non provi ad indovinare?» gli proposi.
Deve essere di Roma o giù di lì, pensai, basandomi sul suo accento.
«Allora, vediamo… sei napoletana.»
Sorrisi come una perfetta cretina, senza sapere bene perché. Sveglio. Bravo Tizio. Lorenzo e Silvia avevano smesso di ridere e mi fissavano ora incuriositi, con le orecchie ben tese.
«Questo è facile da capire.»
«In effetti… comunque qualche ragazza napoletana l’ho conosciuta. Forse mi sto ricordando di te.»
«Stai bluffando!»
«Ma come! Prima mi accusi di aver dimenticato, poi di dire cazzate?»
Rise tanto contagiosamente da far ridere anche me.
«Beh, devo ammettere che però è possibile che tu non ricordi… eravamo moolto ubriachi, sai?» Azzardai quella mossa sperando che ciò che avevo detto avesse un briciolo di plausibilità, quel poco che bastava per mandare avanti la messinscena.
«Impossibile, non bevo mai.»
Fail.
«Non ti ricordi nemmeno di aver bevuto?!»
«Magari potresti raccontarmi tu com’è andata…»
Epic fail.
Provai ad inventarmi qualcosa, restando sul vago, ma non risultai per nulla credibile, così fui costretta ad arrendermi.
«Va bene, ve bene, mi hai sgamata!» ammisi, mentre nel frattempo, e senza rendermene conto, cercavo un modo per non far morire la conversazione. «Comunque, tu sei di Roma.»
«Sì, ma questo è facile da capire» disse lui, facendomi accuratamente il verso.
«Mi prendi per il culo, adesso?»
«E questi doppi sensi?»
«È un modo di dire!» Mi finsi scandalizzata, facendolo ridere. «Dunque, vediamo,» iniziai a picchiettarmi l’indice sulle labbra anche se lui non poteva vedermi, «sei un po’ tanto stronzo, antipatico e pure pervertito.»
«Mi sono già rovinato la reputazione?»
«Ciao Tizio.»
Aveva parlato Silvia, che evidentemente si era stancata di stare in silenzio. E Lorenzo dov’era finito, all’improvviso?
«Questa è la tua amica?»
«Sì» risposi, un po’ seccata da quell’intromissione; mi ero dimenticata cosa volevo dirgli.
 
A questo punto, ricordo, passò qualche attimo in cui stemmo tutti e tre in silenzio. Al pensiero di dover interrompere la telefonata fui pervasa da un qualcosa che definirei come uno stranissimo senso di dispiacere. Dico stranissimo senso di dispiacere perché non poteva essere un reale dispiacere, io quel ragazzo nemmeno lo conoscevo! Eppure, il dispiacere mi sembra la sensazione più vicina alla cosa che provai quel pomeriggio.
 
«Scommetto… che ti stai chiedendo se sono un maniaco?»
Aveva preso lui l’iniziativa di parlare, e la cosa mi fece sorridere sollevata.
«Ora sì, in effetti. Non avevo previsto che questa chiacchierata si protraesse tanto, nemmeno tu hai un cazzo da fare, eh?»
«Mi hai sgamato!»
«Ancora a farmi il verso?! Sei una scimmia o cosa?»
«Credo di essere almeno un po’ più bello di una scimmia…»
«Un po’ tanto stronzo, antipatico, pervertito, e pure vanitoso!»
«Ammazza oh, ormai mi odi proprio…»
 
Così era cominciata, tra me e Leo. Quella telefonata era andata avanti per circa tre ore, proseguendo anche dopo che fui tornata a casa. Non mi ero esposta rivelandogli il mio nome o la mia età, né lui mi aveva chiesto di farlo. Ad ogni modo, mi disse di sua spontanea volontà che aveva diciassette anni e che frequentava il liceo classico, senza l’intento, almeno così mi sembrò, di indurmi a fare altrettanto.
Quando chiudemmo la chiamata, lo facemmo entrambi con la consapevolezza che ci saremmo risentiti. Era quello che ci eravamo implicitamente ripromessi di fare durante la conversazione, tra una presa in giro e una battuta sarcastica.
 
«Adesso dobbiamo salutarci? Era ora!»
«Dopo blocca il mio numero, non sia mai che ti venga in mente di chiamare di nuovo e mi rintracci ancora…»
«Sai quante probabilità ci sono che questo accada?»
«Spero nessuna!»
Quando stavo per riattaccare – un quarto d’ora dopo, visto che sì, finimmo per parlare anche di statistiche e probabilità infinitesimali –, lo sentii dire: «Mi chiamo Leonardo.»
«Io Ludovica.»
 E misi giù.
 
Salvare il suo numero in rubrica fu la prima cosa che feci. Subito dopo, aggiornai i miei contatti Whatsapp, curiosa di vedere che faccia avesse. Potevo vedere foto e nome del contatto, perfetto.
Non mi aveva raccontato stronzate: si chiamava davvero Leonardo e la foto… accidenti, erano in due! Lui chi dei due era? Alle spalle notai dei banchi e una cartina geografica. Bene, doveva avere davvero diciassette anni, non che non gli avessi creduto, comunque. Ero sempre stata una tipa molto cauta, non avevo mai conosciuto gente online, figuriamoci tramite una telefonata a casaccio, eppure…
Non mi era mai capitato, nemmeno una volta in tutti i miei sedici anni di vita, di riuscire a parlare così facilmente e con tanta spontaneità con un ragazzo. Era stato davvero bello.
Mettendo insieme le informazioni ottenute, riuscii a trovarlo su Facebook. Tutto combaciava: nome, altre foto con l’amico della foto di Whatsapp, liceo classico. Nessun maniaco, era davvero un semplicissimo ragazzo dei dintorni di Roma che avevo casualmente rintracciato componendo il numero a caso. Assurdo, pensai, detto così sembra proprio assurdo.
Mentre sorridevo incredula e divertita, cliccai su “Aggiungi agli amici”.
 
 
Seasons they will change
 Life will make you grow
Dreams will make you cry, cry, cry
Everything is temporary
Everything will slide
 
 
Pensai a Leo, mentre camminavo in direzione della metro. Dopo quel sabato pomeriggio avevamo iniziato a sentirci regolarmente. Lui aveva accettato la mia richiesta su Facebook e da lì a sentirci regolarmente tramite messaggi e chiamate il passo era stato breve. Eravamo così in sintonia, passavamo ore a punzecchiarci e a chiacchierare, talvolta del più e del meno, talvolta di argomenti più seri. Io avevo conosciuto i suoi amici e lui i miei, sebbene virtualmente. Io gli raccontavo le mie giornate e i miei interessi e lui faceva altrettanto; grazie a lui mi ero convinta a leggere i libri di Harry Potter, mentre io gli avevo fatto scoprire il mondo dei manga e degli anime, a partire da Death Note, ovviamente. E altrettanto tempo passavamo a provocarci, facendo emergere poco a poco, ma senza mai dircelo esplicitamente, la natura di ciò che stava nascendo tra di noi.
Anche adesso non saprei ben spiegare di cosa si trattasse o forse, più semplicemente, una parte di me ancora non riesce a capacitarsi di come sia possibile che certi sentimenti nascano improvvisamente dal nulla mentre sei lì seduta sul letto in un pomeriggio qualsiasi. Perché io avevo provato qualcosa per lui fin dal primo istante. La parte più inconsapevole di me aveva iniziato a credere – per quanto quella cosciente e razionale si rifiutasse di farlo – che in fondo era destino.
E fu proprio improvvisamente che finì tutto, esattamente come era iniziato. Dopo aver discusso più seriamente di ciò che provavamo l’uno per l’altra e della distanza che ci divideva, la frequenza con cui ci sentivamo si ridusse fino ad azzerarsi. Fu lui il primo ad allontanarsi, a dare inizio ad una lunga serie di tira e molla, e io ci soffrii tantissimo, ma poiché ero troppo orgogliosa per chiedergli spiegazioni più di una volta, finii per rassegnarmi, se pur con tutti i mille dubbi, le domande senza risposta e i “come sarebbe andata se”. Se lui aveva scelto di allontanarsi fingendo impegni a destra e a manca e di non voler discutere con me della cosa, io non l’avrei rincorso. Dai social, su cui comunque non era mai stato particolarmente attivo, vedevo che la sua vita continuava tranquillamente, proprio come la mia.
Era difficile per me afferrare il senso di quanto accaduto. Per molto tempo pensai che avrei trovato definitivamente pace solo se avessi capito cosa fosse scattato di preciso nella sua testa. Mi sbagliavo.
Ci volle un po’, ma crescendo finii per comprendere che quasi sempre il tempo guarisce anche le ferite che sembrano insanabili. A quel punto smisi anche di credere che un giorno ci saremmo inevitabilmente incontrati, come un cerchio che necessariamente si chiude.
Perciò, se quel giorno di ottobre Silvia e le altre mi avevano avvisata del fatto che Leo si trovasse nei paraggi era stato soltanto per spettegolare un po’, nulla che, tra l’altro, non fosse già accaduto. Da quando non ci sentivamo più, lui era sceso a Napoli diverse volte, però quella era la prima volta che mi trovavo in città nello stesso momento in cui ci si trovava anche lui; vivendo in provincia, mi ci recavo soltanto per frequentare l’università. Per di più, la foto che mi avevano inviato le mie amiche era stata scattata a Garibaldi quello stesso pomeriggio, quindi non era del tutto assurdo pensare di incrociarlo. Certo, non sarebbe mai accaduto. Io dovevo tornare a casa e non avevo il tempo di girovagare, inoltre con lui c’erano i suoi amici e la sua ragazza, Marta. Non avrei potuto lanciargli qualche sguardo senza rischiare di destare sospetti. Non mi sembrava il caso, e per che cosa, poi? Semplice curiosità?
Giunta alla fermata di Toledo, mi affrettai a recuperare il mio abbonamento da dietro la cover del telefono. In quel momento fui fermata da una disorientata e anziana coppia di turisti inglesi in cerca di informazioni e proprio non ebbi il cuore di ignorarli, malgrado mancasse appena mezz’ora alla partenza del mio treno. La coppia andò via almeno un quarto d’ora dopo avermi fermata, lasciandomi un enorme sorriso di gratitudine che comunque non avrebbe potuto restituirmi le mie tanto agognate ore di riposo pomeridiane.
Dirigendomi rassegnata verso le scale mobili mi accorsi di sentirmi abbastanza inquieta. Rivolsi l’attenzione al flusso di persone sulla scala adiacente alla mia, che risaliva verso l’ingresso della stazione, mentre io scendevo verso i binari.
Volti stanchi, felici, indifferenti, stupiti.
Valigie, macchine fotografiche, zaini.
Occhi rivolti al luminoso soffitto celeste, occhi persi nel vuoto, occhi fissi sullo schermo di un cellulare.
La mia attenzione fu catturata da un gruppetto di ragazzi ancora in fondo alle scale.
No.
Li vidi avvicinarsi con il cuore che accelerava inspiegabilmente i suoi battiti, perché da quella distanza ancora non potevo distinguerli chiaramente.
Iniziai ad intravedere una ragazza dalla riccia e folta chioma corvina; un ragazzo con una camicia bianca e i capelli castani.
La ragazza e altri due del gruppetto avevano gli occhi rivolti al soffitto; uno di loro, invece, guardava dritto davanti a sé. Dritto verso di me. E continuò a guardare, finché lo scalino su cui mi trovavo io, in discesa, e quello su cui si trovava lui, in salita, non furono allo stesso livello.
Sì, invece.
I suoi occhi erano castani, molto più chiari e molto più grandi di quanto avessi immaginato.
Lo sguardo che mi rivolse era così intenso e così vivo, e mi chiesi perché, forse perché rifletteva il mio stesso stupore, o forse perché lo avevo visto sempre e soltanto attraverso una foto, su di uno schermo.
Ci sono cose che da una foto non riuscirai mai a captare.
Come il susseguirsi delle emozioni su un volto.
Solo quando arrivai in fondo alla scala mi resi conto di quanto mi stessero tremando le gambe e di quanto il cuore avesse iniziato a battermi forte nel petto.
 
 
Sunsets
Sunrises
Living the dream, watching the leaves, changing the seasons
Some nights
I think of you
Reliving the past, wishing it’d last, wishing and dreaming
 
 
In pochi istanti i ricordi delle emozioni e dei pensieri della me sedicenne si fecero più vividi che mai.
Conversazioni, momenti, persino odori e sapori e situazioni che, in un modo o nell’altro, avevo finito con l’associare a lui.
Come il profumo alle ciliegie che indossavo quotidianamente in quel periodo.
Le sere passate a messaggiare in giardino, la brezza fresca pervasa dal profumo dei fiori d’arancio e il gelato alla nocciola e al caffè.
Tutte le canzoni che gli avevo mentalmente dedicato, l’album X&Y dei Coldplay che era stata la colonna sonora di quel sabato pomeriggio, quando avevo composto accidentalmente il suo numero.
E, più di ogni altra cosa, il ricordo di quel sentimento che sbocciava.
Se avessi ignorato i messaggi delle mie amiche finché non fossi arrivata a casa, come facevo di solito, e se solo non avessi fornito informazioni a quei due turisti, io e Leo non ci saremmo mai incrociati.
Quasi mi mancò la terra da sotto ai piedi quando mi resi conto di che giorno fosse: il ventiquattro ottobre, lo stesso giorno in cui avevo fatto la telefonata anni prima.
Le chiamavano coincidenze, una combinazione casuale di fatti talvolta insignificante, talvolta fortunata, talvolta fortunosa.
Mi ero sempre rifiutata di credere che gli eventi più significativi della mia vita altro non fossero che il prodotto di una banalissima, fortuita e stupidissima combinazione.
Solo una serie di incroci a casaccio.
Un incrocio di numeri premuti a casaccio.
Quella verità mi piombò addosso d’improvviso – d’improvviso – come se il mio stesso inconscio l’avesse sputata fuori. 
Arrivai al binario con lo sguardo perso nel vuoto, il rombo del treno in arrivo captato soltanto vagamente dai miei sensi, la testa leggera come se fluttuasse all’interno di una bolla.
Quando il treno si fermò e le porte di un vagone si aprirono di fronte a me, attesi finché non si furono richiuse; poi, rimasta sola sulla banchina, tornai indietro.
 
 
I know that oh
 Birds fly in different directions
Oh, I hope to see you again
 
 
Davvero non sapevo cosa avessi intenzione di fare in quel momento, né cosa mi aspettassi, o cosa sperassi.
Probabilmente nulla.
Probabilmente mi muovevo come un automa.
Raggiunsi l’ampio spazio che si estendeva ai piedi delle scale mobili principali, al di sopra della banchina.
Mi sembrò di essere inghiottita da tutto quel blu, dalle onde del mare raffigurate lungo le pareti.  Magari era soltanto la proiezione di quel che sentivo nel profondo. Un’ondata che risaliva travolgendomi, come accadeva sempre in uno dei miei sogni ricorrenti.
Mi bloccai vedendo che anche lui era lì, che si guardava intorno, solo.
Non mi chiesi perché fosse tornato indietro, perché se anche l’avesse fatto per il mio stesso motivo… io non sapevo perché l’avevo fatto. Volevo vedere lui, certo, ma perché?
Rimasi immobile dov’ero e attesi, attesi finché non si accorse della mia presenza.
Era distante da me, ma non abbastanza da impedirmi di distinguere con chiarezza il suo volto.
Aveva la stessa espressione stupita e vagamente confusa di poco prima. Mi aveva riconosciuta, era palese, eppure restava fermo, come me, senza accennare ad avvicinarsi, ma nemmeno ad allontanarsi.
Avevo fantasticato un’infinità di volte su come sarebbe stato incontrarlo e in nessuna delle mie fantasie restavamo muti l’uno di fronte all’altra.
Perché nelle fantasie non si devono fare i conti con la realtà.
E la realtà era che la nostra storia apparteneva ad un passato che non aveva più niente da spartire con il presente, se pensavo alla me di quasi sei anni prima riuscivo a cogliere le differenze rispetto alle me del presente molto più di quanto riuscissi a cogliere le somiglianze.
Se gli avessi rivolto la parola, probabilmente avrei provato nei suoi confronti la medesima sensazione di estraneità.
O magari l’avrei riconosciuto?
Magari avrei ritrovato lo stesso ragazzo di quel pomeriggio, e lui avrebbe ritrovato me.
Magari ci saremmo ritrovati entrambi.
Avrei voluto davvero sapere che cos’era a farmi quell’effetto, a scavarmi quella voragine nello stomaco.
Sei tu o il ricordo di quel che eravamo?
Se fossimo stati in un film, a quell’ora probabilmente saremmo già corsi l’uno tra le braccia dell’altra, invece, nella vita reale, era assurdo anche solo pensare all’eventualità di avvicinarsi e di parlare, perché quando una cosa è superata, che senso avrebbe?
 
 
Death can make you hard, hard, hard
Everything is temporary
Everything will slide
Love will never die, die, die
 
 
Di una cosa ero sempre stata certa. E quel giorno me ne convinsi totalmente, guardandolo in faccia per quei pochi istanti che però mi sembrarono l’eternità, prima che Marta apparisse sulle scale dietro di lui, richiamandolo. Ci eravamo incrociati nel momento sbagliato, nel modo sbagliato e nel mondo sbagliato. Due ragazzini che non avrebbero mai potuto gestire una relazione a distanza, perché semplicemente non era il momento.
Può sembrare molto poco romantica la vita reale, ma i sacrifici e le rinunce che comporta una relazione a distanza non sono roba da ragazzini immaturi, di certo non erano roba per noi, che passavamo le ore a fantasticare e a parlare di quando – quando, non se – ci saremmo visti, delle cose che avremmo fatto insieme, dei posti che avremmo visto, io a Roma e lui a Napoli.
No, decisamente quello non era il momento dei sacrifici. Volevamo soltanto viverci il momento, quelle prime emozioni, volevamo vivere e basta.
Avrebbe potuto esserci qualcosa di meraviglioso. Ogni emozione che avevo provato con lui mi era sembrata così autentica, così naturale, così dannatamente giusta.
Per tutto il tempo in cui lui aveva fatto parte della mia vita mi ero sentita come se ogni cosa sarebbe dovuta andare esattamente in quel modo. La nostra rottura, invece, mi era sembrato quanto di più sbagliato potesse esserci al mondo. Una nota stonata, una macchia d’inchiostro su di un disegno altrimenti perfetto.
Che senso aveva avuto vivere tutto quello, se poi era dovuto finire in quel modo?
C’erano troppe cose che non avrei mai capito e sicuramente la storia tra me e Leo era una di esse.
Come una trama illeggibile, come un filo aggrovigliato di cui era impossibile intravederne l’intreccio e le estremità.
Avevo sempre creduto che dovesse esserci un fine, uno scopo. Che noi due avessimo un senso, che l’amore, dovesse avere un senso, invece non ne avevo trovato proprio nessuno.
Mi lanciò un’ultima occhiata prima di andare via con Marta, mano nella mano, e sapevo che non si sarebbe voltato indietro. Lo sapevo perché i miei presentimenti, quando si trattava di lui, non erano mai errati.
Le lacrime che per un istante mi offuscarono la vista, mentre osservavo la sua schiena che si allontanava, il suo braccio che cingeva affettuosamente la vita di Marta, la testa di lei che si appoggiava contro il suo torace, non erano lacrime di gelosia, né di tristezza, né tantomeno di delusione per non esserci nemmeno scambiati mezzo saluto. Probabilmente era dispiacere per l’occasione che non avevamo avuto.
Forse, in fin dei conti, era stato quello il destino della nostra storia. Incrociarsi solo per separarsi, come se fossimo stati il punto di contatto di due rette incidenti. Intravedere soltanto le scintille di un fuoco che non sarebbe mai divampato, ma che avrebbe potuto ancora, e che avrebbe potuto forse sempre. Ma in un altro mondo, un mondo che non ci avesse tolto sin dal principio tutti i presupposti.
Forse avrei capito un giorno, o forse no perché la verità era che non c’era nulla da capire.
Ma che io e Leo fossimo stati parte di un piano, un disegno macchiato o una trama già scritta che fosse, o che invece fossimo stati frutto del caso, e che pertanto un gesto, una parola o una mossa diversa avrebbero potuto cambiare le nostre sorti delineando per noi una strada del tutto diversa, tutto questo non aveva nemmeno più importanza.
Perché, se c’era almeno una cosa che avevo imparato grazie alla nostra storia, era quella di fare i conti anche con i finali aperti.
 
 
I know that oh
Birds fly in different directions
Oh I hope to see you again
Birds fly in different directions
So fly high, so fly high
So fly high, so fly high
So fly high, so fly high
 
Birds, Imagine Dragons


 
***
 
Di solito non pubblico mai quello che scrivo, ma in questo caso ho voluto fare un tentativo.
L'idea è nata mentre ascoltavo questa bellissima canzone degli Imagine Dragons, che ho associato subito ad una persona, alla quale è dedicata ogni singola parola di questa storia.
A chiunque arrivi fin qui, grazie per aver letto!

Summer__ 

 
  
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