Nel
corridoio di cemento
vuoto e ostile della prigione sotterranea i suoi passi rimbombavano di
un’eco
inquietante. Abituato com’era a lavorare all’aperto
e sempre in movimento,
Zenigata non si sentiva a proprio agio nel camminare in un tunnel
sottoterra
dove venivano rinchiusi e custoditi i peggiori criminali viventi, in
attesa
dell’attuazione della condanna definitiva.
Da
qualche parte, dietro
una delle porte blindate di spesso metallo, la sedia elettrica
aspettava
paziente il prossimo condannato su cui sfogare tutta la sua forza
distruttiva.
C’era
stato un tempo in
cui i suoi sogni notturni (in quelle poche notti che dedicava al
riposo) erano
colmi dell’immagine di Arsene Lupin che si contorceva sotto
le scariche
elettriche, mentre lui lo osservava nella soddisfazione di averlo
infine
catturato, ma ormai, dopo tanti e lunghi anni di inseguimento, si era
ritrovato
a desiderare di sbatterlo in prigione e potergli fare visita con
regolarità,
per poi invitarlo a bere una volta che avesse scontato il suo debito
con la
giustizia.
Non
desiderava la morte
di Lupin più di quanto non desiderasse la propria e Koichi
Zenigata era un uomo
fortemente attaccato alla propria vita, votata alla cattura del ladro
più
scaltro e pericoloso del mondo.
Non
la desiderava
nemmeno per i complici di Lupin, che, al contrario, aveva imparato ad
ammirare
(segretamente) per la fedeltà al ladro gentiluomo e per le
loro straordinarie capacità,
ma oramai il giudice si era espresso e per Goemon Ishikawa, catturato
in
flagranza di reato, il destino era stato scritto nei cavi che
alimentavano la
sedia elettrica.
Aveva
fatto del proprio
meglio, questo Zenigata lo sapeva, nel cercare di usare la sua
autorità
nell’ICPO e la sua competenza per convincere il giudice
Gaiman a ritirare la
condanna e a lasciare che fosse la giustizia giapponese a farsi carico
del caso
del samurai. Il gruppo di ladri, però, era stato colto a
mettere le mani sulla collezione
d’arte del governatore dello stato e, date la loro
pericolosità e la lista
infinita di reati clamorosi di cui si erano macchiati, la vittima del
furto
voleva farsi fregio della condanna di almeno uno dei famosi criminali
internazionali.
Così
Goemon Ishikawa,
catturato dopo essere stato ferito a un braccio dal fucile dello stesso
governatore, era stato giudicato colpevole e condannato alla morte con
rito
abbreviato e rinchiuso in quella tetra prigione fino al giorno
dell'esecuzione.
L’unica
cosa che
l’ispettore dell’Interpol aveva potuto ottenere era
stata la cura esclusiva del
condannato e la custodia della sua arma, così da prevenire
eventuali tentativi
di evasione. Tentativi che non c’erano stati, né
da parte del condannato, né da
parte dei suoi complici, che sembravano essere svaniti nel nulla.
Zenigata
si era scoperto
ad ammirare la dignità e la compostezza del samurai davanti
alla reclusione e
alla condanna a morte e a provare un’incontenibile rabbia nei
confronti di
Lupin e Jigen, che sembravano essersi dimenticati del loro complice il
cui
orologio della vita stava per battere l’ultima ora.
L’ispettore
si
identificò alla guardia messa alla sorveglianza della cella
del samurai e
attese che gli venisse aperta la porta, poi entrò in un
altro corridoio, in
fondo al quale Goemon sedeva in meditazione dietro un muro di sbarre di
metallo.
-Ti
ho portato la cena-
annunciò l’ispettore, senza però
aspettarsi una risposta. In un angolo della
cella vi erano i vassoi e i contenitori intatti dei pasti che aveva
portato al
samurai nei giorni precedenti e che lui non aveva nemmeno toccato -Da
queste
parti non è facile trovare del buon sushi- riprese -Ma ho
fatto del mio meglio.
Ho immaginato che non avresti voluto un hamburger come tuo ultimo pasto.
La
parola ultimo gli
uscì dalle labbra con l’amarezza di un veleno e ne
sentì il sapore in bocca
anche quando, aperta la guardiola, fece scivolare la confezione di
sushi
all’interno della cella.
Goemon
non mosse un
muscolo, anzi, sembrava proprio che non si fosse accorto nemmeno della
sua
presenza, ma Zenigata non era un ingenuo e sapeva molto bene che a
quell’uomo
silenzioso nulla sfuggiva, nemmeno mentre dormiva.
-Ho
preso io in custodia
la tua spada- continuò Zenigata -Ho ottenuto che venga
riportata in Giappone
dopo l’esecuzione. Sarò io stesso ad occuparmi del
suo trasporto. Dove vuoi che
la porti?
Attese
qualche istante
che il samurai gli rispondesse. Sperando
ardentemente che il samurai gli
rispondesse, ma dopo l’ennesimo interminabile silenzio,
girò i tacchi e si
diresse all’uscita, sconfitto.
-Zantetsuke
è stata
tramandata nella mia famiglia per generazioni- sentì dire
alle sue spalle e si
voltò di scatto verso il samurai con una nuova ondata di
energia in corpo -Io
non ho eredi, ma sono certo che al tempio dove mi hanno addestrato
sapranno
formare un nuovo samurai degno della sua lama. Portala lì,
Zenigata. Zantetsuke
non merita di essere lasciata ad arrugginire in un museo o in qualche
archivio
della polizia.
Il
suo nome pronunciato
dalla bocca di un condannato a morte ebbe l’effetto di
scuoterlo e dovette fare
appello a tutta la sua forza interiore per non mostrare sul viso le
emozioni
che lo pervadevano in quel momento.
Annuì
con il capo e
attese che Goemon gli fornisse ulteriori indicazioni, ma ciò
non accadde e alla
fine fu lui a parlare: -So che non lo farai- esordì
l’ispettore sorprendendosi
del proprio tono di voce quasi paterno -Ma è mio dovere
dirtelo: se mi dirai
dove si nascondono Lupin e Jigen, potrò dichiarare la tua
collaborazione al
giudice e avere una base su cui lavorare per farti concedere il
rimpatrio.
E
salvarti dalla sedia
elettrica,
pensò, ma si tenne
quelle parole per sé.
-Ti
sei già risposto-
furono le parole del samurai e Zenigata dovette accettarle, pur a
malincuore.
Si disse che era un’ingiustizia che un suo connazionale
venisse condannato a
morte in terra straniera, ma la verità era che Goemon era
giovane e pieno di
vita, nonostante i giorni di digiuno, e l’ispettore odiava
che un uomo del
calibro del samurai, seppure un criminale, venisse spento con quella
brutalità
nel fiore degli anni.
Non
aveva neppure
fiatato quando l’infermiere della prigione, un uomo rozzo e
sadico, gli aveva
estratto la pallottola dal braccio senza anestesia e gli aveva
applicato il
bendaggio alla bell’e meglio.
Zenigata
aveva assistito
personalmente a quell’operazione e si era dovuto mordere
più volte la lingua
per impedirsi di intervenire. In Giappone una crudeltà del
genere non sarebbe
stata tollerata.
-Hai
un ultimo
desiderio?- gli domandò infine l’ispettore.
-Arriva
il giorno in cui
ogni uomo deve affrontare la propria morte e fare i conti con la
propria
coscienza- disse il samurai, aprendo gli occhi e puntandoli
direttamente in
quelli grandi e tondi di Zenigata -Vorrei fronteggiare la mia con
dignità,
anche nell’aspetto.
L’ispettore
annuì e
disse che avrebbe predisposto personalmente il necessario per
accontentarlo.
Uscì
dal corridoio e
fece ritorno dopo circa un’ora con una borsa tra le mani. Un
comando elettrico
fece scattare la porta della cella e Zenigata entrò:
-Inutile che ti dica che
le telecamere ci tengono d’occhio e che se cercherai di
aggredirmi avrai
addosso un centinaio di secondini nel tempo di un paio di minuti.
-Lo
so molto bene-
confermò il samurai e lasciò che
l’ispettore riponesse le vecchie confezioni di
cibo in un sacco della spazzatura e sistemasse la borsa in un angolo
pulito
della cella.
-Ti
ho portato gli abiti
con cui sei stato arrestato- spiegò l’ispettore
aprendo la borsa e svuotandola
del contenuto -Per ragioni di sicurezza dovrai cambiarti in mia
presenza e se
il braccio ti fa male, ti darò una mano. Ho portato il
necessario per farti la
barba e lavarti i capelli. Non ti darò in mano un rasoio,
pertanto mi occuperò
io di queste mansioni.
-Va
bene- acconsentì il
samurai -Ti ringrazio per la tua gentilezza.
-A un
condannato a morte
non si nega mai l’ultimo desiderio.
Si
avvicinarono al
lavello della cella e Zenigata gli dispose un piccolo asciugamano a
protezione
della divisa da carcerato che Goemon indossava, poi gli
applicò la schiuma da
barba e con attenzione iniziò a tagliare quella peluria
scura che era cresciuta
nei giorni in cella.
Goemon
si arrese alle
cure dell’ispettore senza fiatare né fare
resistenza e un silenzio strano ma
confortevole li avvolse. Zenigata per un attimo dimenticò di
essere in una
prigione e di essere davanti a uno dei criminali più
pericolosi al mondo, ed
ebbe la sensazione di trovarsi in compagnia di un vecchio amico, di
quelli con
cui non serve parlare per intendersi.
Quand’ebbe
finito con la
barba e il volto del samurai fu tornato liscio, gli fece cenno di
girarsi e
azionò l’acqua calda. Quando il getto ebbe
raggiunto la temperatura idonea,
Zenigata si arrotolò le maniche della camicia fino ai gomiti
e spostò i capelli
neri dell’uomo sotto l’acqua.
Li
bagnò e li frizionò
con cura con uno shampoo per pulirli dalla polvere e al sudiciume della
cella,
poi li risciacquò abbondantemente e li strizzò
con delicatezza.
Usò
l’asciugamano che
aveva disposto sulla divisa da carcerato del samurai per sfregare i
capelli ed
asciugarli. Fu un’operazione piuttosto lunga, data
l’umidità della stanza, e
l’ispettore non faticava ad immaginare le guardie che li
osservavano sui
monitor ridere a crepapelle davanti a quello spettacolo, ma non se ne
curò.
Quegli uomini non erano in grado di capire il rispetto che un
giapponese prova
nei confronti di un valoroso avversario, soprattutto nel momento della
sconfitta, e nulla sarebbe stato più disonorevole e
irrispettoso del negare a
Goemon Ishikawa la dignità che meritava di fronte al suo
boia.
Conclusa
quell’operazione, l’ispettore lasciò che
Goemon indossasse i suoi abiti e non
fu necessario il suo intervento.
Soddisfatto,
Goemon
ringraziò l’ispettore con un cenno del capo, che
Zenigata ricambiò e i due si
separarono, in attesa di ritrovarsi il giorno dopo nella stanza
dell’esecuzione.
A una
notte insonne
seguì una mattina inquieta per l’ispettore
Zenigata, sul cui viso si leggeva la
disapprovazione per la condanna mentre veniva scortato nella sala
dell’esecuzione.
Ad
assistere all’ultimo
atto della vita di Goemon Ishikawa vi erano il governatore, il giudice
Gaiman,
una mezza dozzina di ufficiali militari, un medico e, naturalmente, il
boia.
Lo
stomaco gli si
attorcigliò quando vide il condannato venire condotto nella
stanza e fatto
sedere sulla sedia elettrica, mentre il giudice Gaiman leggeva da un
foglio di
carta la condanna che aveva emesso poco più di una
settimana prima.
Gli
occhi di Zenigata
incrociarono quelli del samurai e non videro nemmeno l’ombra
della paura, al
contrario gli parve di vedere la fiamma dell’orgoglio
e… dell’attesa?
Qualcosa
dentro di lui
lo mise in allarme e il suo istinto di poliziotto iniziò a
fremere: il medico
che stava esaminando lo stato di salute del samurai non aveva forse
qualcosa di
familiare? Quei lineamenti simili a quelli di una scimmia e le folte
basette ai
lati della mascella non somigliavano forse a quelli di qualcuno di sua
conoscenza?
E non
aveva forse già
visto la barba nera e pettinata in avanti del boia, sui cui occhi era
calato un
cappello a nasconderne l’espressione?
Guardò
di nuovo il
samurai, che non aveva smesso per un istante di osservarlo, e vide che
sul suo
viso si era aperto un accenno appena percettibile di sorriso davanti
alla sua
realizzazione.
Zenigata
capì e quando
venne azionata la sedia elettrica e al posto della corrente venne
emessa una
spessa coltre di fumo che invase la stanza, iniziò a ridere
di gusto.
Nota
dell’autrice:
Ciao a tutt* e benvenut* alla fine del
terzo capitolo di questa raccolta. Grazie mille a Fujikofran per la sua
recensione del capitolo precedente!
Devo
ammettere che
questa oneshot mi ha reso piuttosto emotiva nello scriverla e spero
davvero che
vi sia piaciuta. Non capita spesso di vedere Goemon e Zenigata
interagire tra
loro e ho immaginato che in una situazione come quella che ho
descritto,
l’ispettore avrebbe mostrato un lato quasi paterno. Cosa ne
pensate? Credete
che le cose sarebbero andate diversamente?
Fatemelo
sapere, se
vorrete, in una piccola recensione, che farà la gioia del
mio cuore.
Il
prossimo capitolo si
intitolerà Falling asleep in other’s lap
e non vedo l’ora di ritrovarvi
lì!
A
presto,
Desma