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Autore: MaxB    31/05/2020    5 recensioni
Ossessionata dalla saga de La Passe-Miroir, non riesco a pensare ad altro da settimane.
E ho bisogno di approfondire alcune scene dei primi tre (e spoiler del quarto) volumi.
Ci saranno missing moments, scene descrittive relative a Thorn, soprattutto alla sua infanzia, e immersioni nei dialoghi tra Ofelia e Thorn, per come me li immagino io. Ed eventuali scene mancanti che ci starebbero bene.
Per possibili spoiler sul quarto volume verranno dati avvisi in cima alla pagina.
Aggiornamento irregolare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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E così questa (piccola) storia si conclude. Questo approfondimento, non l'intera raccolta, sia chiaro. E' una conclusione un po' dolceamara, spero tantissimo, davvero tantissimo che vi piaccia.
Come avevo anticipato nella parte 2, sono presenti alcuni spoiler, più che altro sotto forma di dialoghi (ho proprio preso parti di conversazioni traducendole) ma conto di averle mascherate bene in modo da non farvele capire (sperooo). Quindi, sì, andate sul sicuro, insomma. Sì, dai ahahah. Mi piacerebbe un sacco però spiegare gli spoiler, quindi credo che aggiungerò una piccola noticina a pié pagina quando sarà uscito il quarto volume.
Finisco il monologo ringraziandovi di cuore per i vostri feedback, i suggerimenti, gli sproni, i complimenti e l'entusiasmo, mi date davvero una gioia immensa e la carica per continuare a scrivere anche quando la voglia è poca ♥ 
Buona lettura, spero...


Le traineau - Fin

- Siamo a metà strada – la avvisò Thorn un po’ di tempo dopo, spronando i cani da slitta.
I capelli si muovevano ovunque come le alghe del lago rosso, il suo corpo si stagliava di fronte a lei, statuario, forte, solido.
- Puoi fermarti?
- Cosa?
- Puoi fermarti?
Thorn obbedì, facendo rallentare i cani poco alla volta, fino a fermarsi in una specie di passaggio naturale tra due montagne e due boschi.
Sembrava preoccupato quando si girò verso di lei, ma anche… elettrizzato dalla corsa. – Stai male?
- No, tutto bene – lo rassicurò Ofelia, allontanando il suo viso accigliato con un gesto gentile. – Posso guidare io?
Thorn sembrò perdere il controllo per un attimo, spalancando gli occhi e vacillando, ma durò un secondo.
- Come?
- Posso provare a guidare io la slitta?
- Non è facile e non è sicuro.
- Infatti tu guiderai me.
Lui era scettico, la cosa era evidente, ma Ofelia non si fece scoraggiare. Si allontanò dal suo posto e fece due passi avanti, prendendo in mano le redini. Thorn la bloccò con le proprie. – Che stai facendo?
Ofelia iniziava a spazientirsi. Voleva un po’ di fiducia. – Mettiti dietro di me e mostrami come si fa.
Thorn prese un lungo respiro, ma non esalò. Non sbuffò. Alla fine si premette contro di lei, alle sue spalle, e le passò le braccia attorno ai fianchi, prendendo le redini con lei. Con la sua alta figura alle spalle e le due enormi Bestie davanti, Ofelia si sentiva un po’ soffocare, ma non demorse. Assecondò i movimenti di Thorn, che le raccomandò più volte di tenersi forte e avvertirlo in caso volesse fermarsi, e partirono.
Dopo alcuni minuti i cani non stavano nemmeno andando al trotto, la cosa era ridicola. Ofelia diede una frustata alle redini, facendo accelerare un po’ l’andatura ai cani.
Thorn le posò le labbra sulla testa, facendole perdere la concentrazione. – Piano.
- Non arriveremo mai a casa, così.
Thorn la strinse più forte. – D’accordo, facciamo sul serio. Io non mi ritengo responsabile.
I cani da slitta partirono a tutta velocità, facendola sussultare per lo spavento. Da davanti era come se tutto sfrecciasse ad un ritmo doppio, ma era allo stesso tempo più consapevole di quello che la circondava. Sentiva vibrare ogni cellula del suo corpo. Quando si abituò a quell’andatura lanciò un’occhiata a Thorn.
Aveva sempre lo sguardo elettrico, metallo attraversato da fulmini, e la bocca era increspata, come se stesse facendo un minuscolo sorriso. Thorn si accorse del suo sguardo e abbassò la testa, scrutandola a sua volta. Poi riportò gli occhi davanti a sé, accigliandosi.
- Sarebbe una pessima idea distrarsi ora, Ofelia.
Il messaggio era chiaro: guarda avanti e concentrati. Poco dopo però sentì ancora le sue labbra tra i capelli, la barba che la solleticava, e rabbrividì. Thorn lasciò le redini quando la vide sicura, e le strinse le braccia in vita, tenendola stretta.
Il viaggio di ritorno le parve immensamente più lungo che all’andata, carico di una strana elettricità. Il sole era già quasi tramontato del tutto quando Thorn riprese il comando per fermare la slitta di fronte a casa. Scese senza dire una parola, senza un gesto o uno sguardo, come se fosse da solo. Tolse i finimenti alle Bestie e le portò di fianco all’ultima casa, all’estremità opposta rispetto alla loro, dove c’era una piccola stalla che Ofelia non aveva nemmeno notato. Diede loro la cena e l’acqua e raggiunse Ofelia cercando di sistemarsi i ciuffi di capelli sparsi.
In quel momento lei capì perché non l’aveva nemmeno guardata: i suoi occhi non erano meno feroci di quelli dei cani. La scintilla si era trasformata in qualcosa di travolgente che albergava negli occhi di lui come nella bocca dello stomaco di lei.
Thorn la fece scendere quasi bruscamente, la prese per mano dopo aver agguantato le loro cose e si diresse a casa. La fece entrare per prima, si chiuse la porta alle spalle e si tolse gli stivali, imitato da lei. Thorn fu rapido come una freccia, preciso e diretto, e non perse tempo nemmeno per accendere il fuoco ormai morto: tolse il suo cappotto di dosso ad Ofelia quando lei stava finendo di armeggiare con il secondo stivale, impaziente.
Thorn gettò il giubbotto sul divano e la prese in braccio repentinamente, premendosi contro di lei, tuffando il suo naso freddo contro il suo collo, facendola rabbrividire; se di freddo o aspettativa, nessuno dei due avrebbe saputo dirlo. La sciarpa di Ofelia fu lesta a srotolarsi, per non essere d’impiccio, anche se era un pochino offesa da tanta irruenza.
Quando Ofelia sentì una superficie solida sotto il sedere aprì un occhio, scoprendo che Thorn l’aveva appoggiata sul bancone della cucina. Arrossì per qualche motivo sconosciuto anche a lei, e tirò Thorn per i capelli, dolcemente, allontanando i suoi denti e la sua lingua dal suo collo perché si concentrassero sulle sue labbra.
Non persero nemmeno tempo a svestirsi, Ofelia non si tolse i guanti. In quel momento non avevano bisogno di pelle e tenerezza, ma solo di starsi più vicino possibile, di dar sfogo al loro bisogno, di concretezza. Bastavano le mani per andare oltre i vestiti, tra i capelli, su petto, addome, braccia, collo, ovunque, eppure non abbastanza. Si consumarono come le ceneri del fuoco che aveva arso la mattina nel camino, dandosi calore a vicenda, respirandosi, assimilandosi.
Alla fine si ritrovarono ansimanti, con le fronti premute insieme, le bocche socchiuse, gli occhi spalancati. Quelli di Ofelia erano languidi, quelli di Thorn vivaci come durante la corsa di quel pomeriggio. Rimasero in quella posizione, lei seduta e lui in piedi tra le sue gambe, finché i loro respiri non si calmarono, e i cuori parcheggiarono le loro slitte.
Thorn le diede un altro lungo e morbido bacio prima di scostarsi, dopo averle succhiato a tradimento il labbro inferiore, cogliendola di sorpresa. Si riallacciò i pantaloni, ma lasciò sbottonata la camicia per quei pochi bottoni che Ofelia, con le sue mani goffe, era riuscita a disfare. Lei si risistemò il corpetto e scese dal tavolo rassettandosi la gonna e tutto quello che c’era sotto. Thorn riaccese il fuoco nel camino prima di guardarla. In penombra, scarmigliato, con le cicatrici che spiccavano bianche… Ofelia si sentì cedere le gambe. Rabbrividì, ma questa volta anche di freddo.
- Doccia? – suggerì Thorn con voce roca, facendo un cenno con la testa verso il bagno.
- Bagno – ripose Ofelia, imboccando le scale.
Thorn la seguì in silenzio.
 
Rimasero immersi nell’acqua calda fino a farsi raggrinzire la pelle, così rilassati che rischiarono di addormentarsi entrambi. Quando fu il momento di uscire impiegarono qualche secondo buono per capire come sbrogliare quell’intrico di braccia e gambe che avevano creato. Ofelia si infilò il pigiama pesante e scese al piano di sotto per preparare la cena mentre Thorn la seguiva con delle pratiche in mano. Le esaminò davanti al fuoco mentre lei si scervellava alla ricerca di qualcosa da cucinare che non fosse ancora panini. Optò per una frittata di verdure, la ricetta forse più semplice e innocua che potesse ideare. Almeno non rischiava di mandare a fuoco la casa. Usò le uova, il formaggio, le zucchine, le carote, la cipolla, persino un goccio di latte, giusto per sperimentare. Adocchiò l’onnipresente vasetto di estratto di mandragora e, senza che Thorn la vedesse, ne gettò l’intero contenuto nella frittata. Le avrebbe dato un sapore un po’ speziato.
Mentre si cuoceva apparecchiò, riflettendo sul fatto che le mandragore non erano davvero afrodisiache, dunque lei e Thorn non erano sotto un qualche influsso strano, però erano davvero piante usate in medicina per stimolare la fertilità, quindi perché non farsi aiutare un po’?
Ofelia spese il tempo rimasto per pelare qualche carota avanzata da mangiare cruda, in ricordo delle merende sane che ogni tanto sua madre le propinava quando era piccola e qualche amica le parlava di dieta e cibo salutare.
Mangiarono con calma, Thorn non si sperticò in complimenti sulla cena, ma Ofelia pensò che fosse buona per essere il suo primo tentativo di cucina. Commestibile quanto meno, non eccelsa ma nemmeno da buttare. Insomma, se la mangiò tutta.
Stava sgranocchiando la carota quando Thorn glielo chiese. - Hai usato ancora le mandragore, vero?
Lei si strinse nelle spalle. - Sarebbe stato comunque uno spreco non utilizzare quella crema.
Lui assottigliò gli occhi, serio. - Speriamo che facciano il loro dovere.
Ofelia era sempre un po’ a disagio quando parlavano dell’argomento figli. Lei non si era mai vista come una madre di famiglia e Thorn detestava i marmocchi, quindi per un certo periodo erano stati unanimi circa la decisione di non averne.  Poi però in Ofelia era scattato qualcosa. Vedeva donne incinte ovunque, anche al suo studio di lettura, prestava maggior attenzione a Vittoria e indugiava più del dovuto sulle foto dei tre figli di Agata, che non perdeva tempo in quell’ambito.
Era stata dura parlare a Thorn di quell’istinto di cui si credeva sprovvista, e che invece era sbocciato in lei come un fiore: prima invisibile, poi sempre più rigoglioso. Catturava la sua attenzione come una rosa in un campo d’erba. Lui si era mostrato comprensivo, anche se non aveva fatto nulla per incoraggiarla ad esprimersi. Ofelia era stata intimorita da lui per la prima volta nella sua vita. Paventava una risposta negativa, più che lui: un figlio non poteva certo farlo da sola o con un marito contrario.
Invece Thorn aveva accettato senza nemmeno rifletterci troppo, glielo aveva concesso come tutto quello che lei gli aveva chiesto agli albori. Solo in quel momento Ofelia si era resa conto di essere fortunata ad essere sposata con un uomo come lui, che la accontentava in tutto e le prestava davvero attenzione, anche se a modo suo. La amava più di quanto lei stessa avrebbe creduto possibile.
Ancora una volta si accorse che lei era come la slitta per lui, l’ebbrezza della corsa, una scintilla di vita. L’amore che lo aveva cambiato, riempito, cancellando la sofferenza del passato.
In ogni caso, era rincuorante sapere che lui era partecipe nel progetto di avere un figlio, che si interessasse. Non se ne dimenticava, e di sicuro le mandragore non servivano a renderli più attivi sotto quel punto di vista, Ofelia ne era certa. Si impegnavano abbastanza anche da soli…
Il pensiero la fece arrossire, cosa che catturò l’attenzione di Thorn. La scrutò in silenzio, mentre lei dava un morso ad una carota.
Gli occhi di Thorn si accesero all’improvviso, come quella mattina sulla slitta, e lui bevve un sorso d’acqua per cercare di nasconderlo. Ofelia diede un secondo morso alla carota, cercando di capire cosa stesse succedendo, e capì che lo sguardo di Thorn puntava proprio alla sua bocca.
Estremamente imbarazzata e accaldata, era indecisa se mettere giù quell’innocua verdura o fare una cosa che non si era mai azzardata a fare: provocare il marito. Si sentiva disinibita ma non volgare, e avvampò ancora di più. Bevve anche lei, per cercare di calmarsi, ma Thorn non la mollava un attimo, non batteva nemmeno le palpebre, e lei rispose a quell’insistenza. Allungò una mano sul tavolo per prendere la sua, accarezzando le lunghe dita ossute, e Thorn scattò, letteralmente.
Ofelia non lo vide alzarsi e raggiungerla, ma si sentì investita, percepì la sua bocca ovunque sulla sua pelle. La luce del fuoco gettava sul suo viso un alone rossastro che ne lasciava in ombra metà, donandogli un’espressione ferale, da cacciatore.
La verità era che, per quante concessioni facesse, Thorn era abituato a farsi obbedire, ad impartire ordini, ad ottenere ciò che voleva. Ofelia non aveva alcuna intenzione di contrastarlo. Non capì molto di quello che successe dopo, distratta com’era dalle sue mani possessive che si insinuavano ovunque sotto il pigiama, ma si rese conto che erano davanti al camino.
Sul tappeto.
Lo allontanò con troppa forza, ansimando. Thorn la guardò con una strana espressione: il viso era accartocciato dallo stupore, ma nei suoi occhi illuminati si leggeva anche una certa... apprensione. Aveva paura di essere respinto. Ancora non aveva superato quel trauma, dopo tanto tempo, dopo lo sforzo immane di Ofelia di fargli capire che lo amava con anima e corpo.
- Non qui – gli disse soltanto. - Non...
Sbuffò, cercando di riprendere fiato, e lo prese per mano guidandolo al piano superiore. - Fidati, non su quel tappeto.
Non sul tappeto dove anche Berenilde e suo marito... Rabbrividì. Sentiva ancora il formicolio di quella sensazione sulla punta delle dita coperte dai guanti.
Una volta giunti in camera Ofelia mise la sciarpa sul letto senza tanti riguardi. Anche lì c’erano uno spesso tappeto morbido e un camino ardente, e Thorn parve apprezzare. Riprese da dove si era interrotto, calmandosi solo quando sentì Ofelia reagire con trasporto.
Che fossero le mandragore, la vacanza, quell’avamposto isolato, Ofelia non avrebbe saputo dirlo, ma avrebbe trascorso volentieri tutta la sua esistenza lì, tra le braccia di quel Thorn quasi selvatico che faceva fatica a riconoscere. Pensò di impazzire quando lui le mormorò all’orecchio di non trattenersi, per una volta che non li sentiva nessuno, e lei non si risparmiò, facendo bruciare quel bagliore vivace che il fuoco rifletteva nei suoi occhi metallici. Non avrebbe nemmeno saputo dire cosa fosse successo, dopo, quante volte loro... e come...
Si sentiva appagata e lasciva, sdraiata sopra di lui, sul tappeto, con una coperta a scaldarli e il fuoco a tenere loro compagnia. Avrebbe volentieri dormito lì, con il battito accelerato del cuore di Thorn contro il suo orecchio. Il letto freddo non l’attirava per nulla.
Thorn le sollevò il mento per darle un altro bacio pigro, minuti, ore, giorni, secondi dopo. L’orologio da taschino era da qualche parte nella camicia di Thorn, abbandonato.
- Dovremmo dare una sistemata giù - mormorò lui, in seguito, infilandole contraddittoriamente una mano tra i riccioli spettinati. - La cucina è ancora apparecchiata e io ho lasciato le pratiche sul divano.
- Mh... - mormorò Ofelia, per nulla incline a scendere da lui solo per riordinare. - Non so nemmeno dov’è il mio pigiama.
Thorn sbuffò dal naso, se divertito o rassegnato non era dato saperlo. - Te lo sei tolto un po’ per le scale e un po’ qui.
Ofelia alzò lo sguardò, seria. - Me l’hai tolto un po’ sulle scale e un po’ qui.
Thorn non rispose, ma si sedette, costringendola ad assecondarne il movimento. Ofelia si allungò per prendere i guanti, lasciati a breve distanza per ovvi motivi, e nel farlo, ancora una volta, sfiorò il tappeto con la punta del mignolo. Fu un attimo molto più breve di quello del giorno prima, ma i sentimenti di Thorn la investirono come la slitta trainata alla massima velocità, violenti, bramosi, impazienti. Anche se Thorn non lasciava trapelare le sue emozioni con il corpo o tramite le espressioni facciali non significava che non ne provasse. Aveva dei sentimenti così passionali e profondi ingabbiati dentro di sé... E Ofelia sentì con un semplice contatto che la maggior parte di essi era rivolta a lei. Dietro a quell’ardore, a quel bisogno travolgente e insopprimibile, inarrestabile, c’era una tale dolcezza. Un amore così puro e semplice che le fece venire le lacrime agli occhi.
Thorn non era ghiacciato, dentro di sé. Era il più caldo e umano di tutti.
- Ofelia?
Il tono preoccupato la spinse ad alzare gli occhi, dopo aver finito di infilarsi il guanto. Thorn era accigliato. Le passò una mano sulla guancia per asciugarle le lacrime che erano traboccate senza che lei se ne rendesse nemmeno conto.
- Che cosa... è successo qualcosa?
Nonostante tutto, vedendolo in difficoltà le venne da ridere, ma si trattenne. Poteva anche amarla in un modo così intenso da farla vacillare alla sola idea, però rimaneva sempre l’orso che aveva conosciuto su Anima, in una notte piovosa: asociale, burbero, silenzioso, imbronciato e decisamente in difficoltà nel capire cosa passasse nella testa della moglie.
- No, nulla - sussurrò lei, con la voce tremante.
Le emozioni di Thorn le invadevano ancora mente e cuore, non era sicura che la voce le avrebbe retto. Scesero in silenzio, rivestendosi mano a mano che trovavano qualche capo d’abbigliamento abbandonato. Ofelia ripulì la cucina asciugandosi ogni tanto le lacrime che gocciolavano senza che lei glielo ordinasse e le appannavano gli occhiali. Thorn non produceva alcun tipo di rumore, al punto che Ofelia dovette girarsi alcune volte per assicurarsi che fosse ancora lì con lei, trovandolo sempre intento a scrutarla, con le sopracciglia aggrottate.
Quando tornarono in camera si diedero il cambio in bagno prima di andare a letto, e Ofelia fu grata che Thorn ci fosse andato per primo: avrebbe scaldato le coperte. Quando lei uscì e lo raggiunse aveva ancora gli occhi rossi, così si tolse gli occhiali per tentare di non vedere più l’espressione apprensiva sul suo volto di marmo. La sciarpa si agitava piano, contagiata dallo stato d’animo della padrona, e rimase al suo posto sul comodino come un gatto acciambellato.
Restarono sdraiati in silenzio a lungo, sapendo che nessuno dei due dormiva, mentre il fuoco scoppiettava nel camino, prossimo ad addormentarsi come loro.
Fu Thorn a cedere per primo. - Ofelia...
Non sapeva come continuare. Avevano passato una serata talmente bella... cosa l’aveva guastata? Era stata colpa sua? Di qualcosa che aveva detto o fatto? O non detto e non fatto?
In risposta, lei gli salì sopra e si aggrappò a lui, seppellendo il viso nel suo collo liscio, l’unica parte del corpo priva di cicatrici. Gli diede un bacio leggero.
- Va tutto bene. Davvero. È stata una bellissima giornata.
Thorn non rispose. Non sapeva come rispondere. Però non cedette. - Vuoi parlarne?
La sentì scuotere la testa contro il suo collo, solleticandolo con il naso. Cosa poteva dirgli? Che aveva letto il tappeto che lui aveva toccato, leggendo lui stesso? Leggendolo proprio nel momento meno indicato, quando era in preda all’eccitazione? Poteva dirgli che l’amore che aveva percepito in lui l’aveva quasi spaventata, perché nemmeno lei era sicura di ricambiarlo con la stessa intensità? Thorn era un’esagerazione umana: eccessivamente metodico, ossessivamente alla ricerca della perfezione, rifiutava le mezze misure e non tollerava che qualcosa sfuggisse al suo controllo. Anche nei sentimenti era esagerato ed eccessivo. Se lo tradivi, seppelliva tutto quello che avevi rappresentato per lui. Ma se lo amavi, lui viveva per te.
E lui viveva per Ofelia.
Non poteva rivelargli nulla di tutto quello.
- Te l’ho detto. È stata una delle più belle giornate della mia vita.
Non era tutta la verità, ma era sincera. Il pensiero che la vacanza fosse già finita le procurò una stretta al petto, e non piacevole come quelle provate durante la serata.
La barba di Thorn le si impigliò tra i capelli, le sue labbra le depositarono un bacio leggero sulla testa. Il suo muto modo per dirle che per lui era lo stesso. Rimase abbarbicata sopra di lui, cullata dal suo respiro. Poi sentì le mani di lui accarezzarla sulla schiena, sui fianchi, sulle cosce, non in modo invadente, ma delicato, come per riflesso. Non erano decisamente lascive, eppure il cuore di Ofelia sussultò; le venne caldo, di nuovo. Strinse forte gli occhi. Non poteva volerlo ancora, il suo corpo era sfibrato. Eppure...
Alla fine prevalse la stanchezza, e fu così anche per Thorn, perché quando Ofelia scivolò nell’incoscienza sentì le sue braccia stringerla per l’ultima volta e assestarsi sulla sua schiena, tenendola stretta contro di sé.
 
La mattina furono di nuovo svegliati dal sole. Aprirono gli occhi insieme, lentamente, nella stessa identica posizione in cui si erano addormentati. Erano talmente esausti che non si erano mossi di un centimetro, e non ne avevano nemmeno sentito la necessità. Rimasero a lungo immobili, respirando piano, cercando di non fare rumore o muoversi per rompere l’incanto. Illudersi che potesse durare per sempre.
Poi Ofelia starnutì.
- Sei sveglia – mormorò Thorn, come se non fosse ovvio, a mo’ di buongiorno.
- Già.
Ofelia si mosse piano per spostarsi da lui. Gli aveva dormito addosso tutta la notte; per quanto potesse essere leggera e Thorn forte, come minimo era in una posizione scomoda e tutto rigido. Cercò di non pensare al fatto che la conformazione fisica di Thorn seguiva delle regole tutte sue, che esulavano dalla normale concezione. Ogni tanto le sembrava che fosse composto unicamente da parti meccaniche.
Quando le sue mani la fermarono prima che lei scendesse, però, trattenendola per le natiche, ad Ofelia si mozzò il respiro. Decisamente non era composto di parti meccaniche. E se lo era, erano davvero di ottima fattura, doveva riconoscerlo.
La presa non si allentò.
Ofelia gli rivolse uno sguardo interrogativo, cercando di metterlo a fuoco. Tra la mancanza degli occhiali e la nebbia che la mattina per i primi minuti le impediva sempre di vedere chiaramente, era un’impresa rendere nitida l’espressione di Thorn.
- Aspetta almeno che mi lavi la faccia – mormorò lei, anche se non sapeva esattamente cosa il marito dovesse aspettare.
In risposta lo sentì arcuarsi, in qualche modo, e il suo naso freddo le solleticò il collo, seguito a ruota dalle sue labbra. Ofelia si bloccò, e mise a fuoco tutto. Niente di meglio di una sana dose di sorpresa per riuscire a vederci meglio, letteralmente.
- Non ho intenzione di aspettare.
Fu tutto estremamente… nuovo. Ofelia si sentiva come una sposa alle prime armi invece che come una moglie navigata. Aveva scoperto così tanto su Thorn nell’arco di un giorno: novità sul suo passato, un nuovo lato del suo carattere, quanto sapesse essere appassionato…
E soprattutto scoprì, in quel momento, quanto un Thorn appena sveglio, riposato, con una lunga notte di sonno alle spalle e una moglie che gli aveva dormito addosso per ore potesse essere… insaziabile. Estremamente sensibile. Generoso. Capace. Erot…
Il cervello di Ofelia andò in cortocircuito per un po’. E le mandragore non c’entravano proprio nulla. Quando si ridestò, grazie alle dita leggere di Thorn che le percorrevano la spina dorsale, si chiese se in realtà non si fosse appena svegliata e quello appena vissuto fosse un sogno a colori troppo vividi. Arrossì, ma le mani di Thorn la smentirono. Era tutto vero. E lei adorava quelle mani. Dopo poco fu lui ad essere sdraiato su di lei, mentre Ofelia gli accarezzava le braccia e tracciava con le dita i solchi delle cicatrici che conosceva a menadito.
Si disse che avrebbero dovuto prendere l’abitudine anche a casa di fare certe cose la mattina appena svegliati. Solitamente si dedicavano del tempo la sera, quando Thorn rincasava e aveva un attimo libero. La mattina era sempre di fretta, e la sua mente già orientata verso i suoi calcoli e le sue pratiche non si lasciava distrarre facilmente.
Forse avrebbe cambiato idea dopo quella mattina. Le sembrava strano che se la prendesse tanto comoda, senza nemmeno fare un tentativo per vestirsi, lavarsi, pettinarsi, ordinarsi, togliersi di dosso l’odore della loro pelle…
Basta! Era tutta colpa di quella baita di montagna. La sciarpa sussultò sul comodino accanto a lei, spaventata da quello scatto di sensazioni incontrollate.
Al di là della sua tempesta ormonale, Thorn era davvero un’altra persona. Se quella versione di lui rappresentava il vero se stesso, Ofelia considerò che averlo sposato era un privilegio. Averlo conosciuto era un dono. Ed essere l’unica a sapere dell’esistenza di quella parte di lui era un miracolo.
Purtroppo, non tutto poteva durare in eterno.
- Cercherò di tornare a casa più spesso – disse, parlando dopo tanto tempo passato in silenzio.
Ofelia, giocherellando con i suoi capelli, glieli aveva spettinati e aggrovigliati tutti. Portava ancora i guanti, ma non li tolse. Intuiva che l’idillio fosse ormai al suo tramonto.
- È una promessa? – chiese lei, riscaldata da quelle parole.
Thorn fece una specie di smorfia, ma per il resto non cambiò espressione. Non sorrise, non si rabbuiò, niente, come al solito. – Io mantengo le mie promesse. Non prometto cose che non posso mantenere. È un proposito. Un augurio. Un impegno, chiamalo come vuoi.
Ofelia annuì contro il cuscino, lieta che lui non dimenticasse mai nulla: sarebbe sempre stato consapevole di quello che si era prefisso di fare. Ad Ofelia mancava già, come se fosse distante, all’intendenza, non sdraiato su di lei.
Alla fine fu costretto ad alzarsi. Le morse un fianco, facendola squittire in protesta, e si diresse al bagno.
Ofelia rimase a letto, avvolta nelle coperte. Allungò un braccio per attirare la sciarpa, che le strisciò lungo l’arto come uno strano serpente tricolore addomesticato. Le si accoccolò contro il petto intuendo il bisogno di conforto della padrona. Thorn non si era mai comportato in quel modo. Quasi non lo riconosceva. Era così… premuroso, accorto, presente. Le metteva una malinconia indicibile sapere che stava per finire tutto. Erano partiti che non facevano altro che bisticciare, e ora aveva il costante bisogno di strusciarglisi addosso come un gatto. O come un qualche animale durante la stagione dell’accoppiamento. Preferiva paragonarsi ad un gatto, sinceramente.
Cercò di trattenersi dal saltargli di nuovo addosso quando lo vide uscire dal bagno pulito, ordinato e vestito di tutto punto. Si chiuse dentro appena lui ebbe finito per evitare di fare la figura della selvaggia e nascondere ai suoi occhi l’espressione dimessa. L’idea di partire la stava uccidendo. Perché non era in grado come lui di nascondere i suoi sentimenti?
Ofelia rifece il letto, quanto meno per non lasciare che la fantasia dei domestici che sarebbero passati a ripulire vagasse troppo. Radunò le sue poche cose e scese di sotto portando tutto giù per le scale.
Thorn aveva apparecchiato, ma sembrava leggermente impacciato. Decisamente fuori dal suo habitat.
- Ho… preparato, intanto – disse. – Ma il resto non…
- Faccio io – lo rassicurò lei sorridendo, evitandogli l’imbarazzo.
Mangiarono quello che rimaneva delle provviste in silenzio, senza nemmeno guardarsi. Ad Ofelia veniva da piangere. Non voleva che finisse tutto. Quei giorni di riposo, l’essersi riscoperti nonostante non avessero alcun tipo di problema di coppia, l’alchimia che si era creata, la facilità con cui Thorn si era aperto…
Sparecchiarono assieme, senza proferire parola, e Thorn preparò la slitta mentre Ofelia lavava piatti e posate e controllava di aver preso tutto. Il fuoco era già spento nel camino, e lei si augurò che non fosse un presagio. Erano destinati ad essere anche loro due come una fiamma in un camino? Ardente solo quando l’attizzavi, ma fredda e inospitale se non la curavi? Thorn non era così. Lei nemmeno. Forse erano una candela, più pacata e lenta. Ardevano con il loro ritmo.
Anche una candela poteva accendere un fuoco, però.
Quando Thorn rientrò per dirle che era tutto pronto, Ofelia non riuscì a trattenersi. Aveva ricominciato a nevicare e tra i capelli argentei e biondo pallido del marito era incastrato qualche fiocco di neve. Il pizzetto, stranamente ancora al suo posto, non raso, sembrava invitarla a ad avvicinarsi. Ofelia lo fece di gran carriera, con un’intenzione ben chiara dipinta negli occhi.
Cadde. Se Thorn non l’avesse presa in tempo, si sarebbe trovata lunga distesa. La sciarpa agguantò gli occhiali che le erano caduti prima che Thorn la raddrizzasse.
- Che avevi in mente di fare? – chiese lui, con un sopracciglio inarcato, visibilmente perplesso.
Rossa di vergogna, Ofelia non si fece scoraggiare. Lo baciò con foga, esitando quando calpestò il tappeto di Berenilde. Non avrebbe mai potuto vederlo in altro modo. Alla fine lo trascinò sul divano, o lui trascinò lei, o lo fecero a vicenda. In ogni caso, come la prima volta, il giorno prima, non fecero in tempo a spogliarsi. Fu rapido, struggente, un bisogno primordiale, la necessità di colmare un vuoto in cui Ofelia stava precipitando.
Si rese conto che stava piangendo solo quando Thorn le infilò una mano tra i capelli e la strinse a sé con l’altro braccio. Era troppo rigido, non la cullava, ma Ofelia apprezzò lo stesso il suo tentativo di consolazione.
- Scusa – mormorò alla fine, quando i singhiozzi si placarono.
Gli occhiali erano storti e macchiati di un blu infinitamente triste, la sciarpa non sembrava nemmeno animata da quanto era floscia. Aveva urgente bisogno di un fazzoletto.
- Ti ho fatto male? – domandò lui con una voce burbera e cavernosa che voleva solo essere carezzevole, ma non ci riusciva.
Thorn sapeva di essere stato un po’ brusco poco prima, leggermente incontrollato. Le reazioni di Ofelia lo avevano fatto impazzire, ma si maledisse vedendo le sue lacrime. Forse aveva frainteso, rovinando tutto. Come sempre.
- No – disse però lei, senza spostarsi da lui. – No, per niente.
- Sei strana da ieri sera.
Nessun invito a continuare, nessuna frase di conforto. Thorn non era bravo in quelle cose, ma Ofelia accettò lo sforzo.
- Non voglio andare via – ammise alla fine. – Tu appartieni a questo posto. Qui sei te stesso.
Lui si irrigidì. Ofelia lo sentì allontanarsi da lei, anche se la teneva stretta tra le braccia. Era una distanza interna, intima, molto più dolorosa di quella fisica.
- Non possiamo stare qui. Lo sai.
Ofelia tremava. – Cambierà qualcosa tra di noi?
Avrebbe tanto voluto vederlo in volto, cercare di leggergli le espressioni mascherate, ma al tempo stesso ne era terrorizzata.
- Vuoi che cambi qualcosa? Una volta ti ho detto che mi avresti dovuto avvisare se avessi fatto o detto qualcosa che non ti aggradava. Perché non volevo dovermi chiedere come mai mia moglie non fosse felice. Cosa devo fare, Ofelia?
Quella bontà immeritata e quello slancio verso di lei la commossero al punto che si mise di nuovo a piangere sommessamente.
- Io ti ho detto che ero già felice, ricordi? Anche qualcosa di più.
Alzò la testa per guardarlo: la fissava con gli occhi più aperti del solito, in cui sembravano balenare mille emozioni. Ma la mascella era contratta dalla tensione e il solco tra le sopracciglia era più profondo del solito.
- Non devo cambiare nulla?
- No, Thorn, ti amo come sei.
In risposta, lui nascose il suo volto ai suoi occhi posandole un bacio in fronte. Rimase con le labbra ferme sulla sua pelle, senza muoversi. Ofelia intuì che avesse bisogno di riprendere il controllo di sé.
- Io appartengo al posto in cui sei tu. Che sia Anima, il Polo, Babel, o il mare di nuvole. Torneremo qui.
Ofelia annuì piano. Thorn aveva parlato ad un soffio dalla sua testa, non si era mosso. E lei non voleva che lo facesse. – Me lo prometti?
Questa volta, Thorn annuì con decisione, un solo movimento del mento appuntito. – Sì.
Ofelia sorrise asciugandosi le lacrime.
- Ricordati la promessa – mormorò, citando la frase che aveva detto tanto tempo prima, nel suo studio da intendente, di fronte ad altre richieste. Era tutta una richiesta, con Thorn.
E lui le ricordava tutte. – Io non dimentico mai nulla – concluse infatti.
Ofelia gli diede un bacio leggero e si alzò dalle sue gambe, rassettandosi i vestiti. Prima, però, si spostò dal tappeto. Thorn la imitò, riallacciando e riabbottonando quello che doveva. Prima che Ofelia andasse a sciacquarsi il viso, la trattenne per il polso.
Non parlò.
- Cosa c’è?
Thorn era pensieroso. In cerca delle giuste parole.
- Il tappeto.
Ottimo come esordio.
Ofelia lo fissò con tanto d’occhi.
- Non ti piace questo tappeto. L’hai evitato per tutta la permanenza qui. Devo farlo cambiare?
Il tappeto di Berenilde. Ofelia si mise a ridere alla domanda. Lei e Thorn non erano stati molto più indulgenti con il resto dell’arredamento, quindi con quale coraggio si arrogava il diritto di criticare Berenilde?
Le piaceva, quel tappeto. In fondo, era solo intriso d’amore nella sua forma più pura e insieme parossistica.
- Non serve, mi piace il tappeto. Pensavo solo che non fosse il caso di contaminarlo.
Ulteriormente, aggiunse.
Thorn era sbigottito, ma non lo diede a vedere. Le lasciò il braccio e le permise di andare in bagno, sentendo la sua risata soffocata riecheggiare per il salotto. Aveva pianto pochi minuti prima…
Senza interrogarsi oltre sistemò le ultime cose, chiuse le imposte, l’aspettò.
Quando Ofelia uscì era raggiante.
Ancora, decise di non interrogarsi. Quella faccenda non era matematica; per quanto si fosse spremuto le meningi non sarebbe arrivato a nessuna soluzione accettabile. Non c’erano condizioni di esistenza che tenessero. Con Ofelia era sempre così.
Illogicamente, lei era l’unica condizione di esistenza di cui avesse bisogno.
 
Ofelia stava per salire sulla slitta quando si rese conto di aver dimenticato una cosa. Corse giù, rischiando di inciampare nella neve alta, e bloccò Thorn che stava chiudendo la porta di casa.
- Mi sono scordata… ehm… – balbettò, elusiva.
Lui aggrottò le sopracciglia, ma non replicò. La fece passare, rimanendo però sulla soglia ad osservarla. Ofelia si diresse verso il camino, sulla cui mensola era poggiata la foto di Thorn da piccolo. Estrasse solo la foto, non prese la cornice, che rimase vuota, nuda. Avrebbe portato una foto nuova la prossima volta che fossero tornati. Magari una di loro due insieme, se fosse riuscita a convincerlo a farsene una. Impossibile.
Thorn la seguì con lo sguardo in ogni movimento, senza fiatare, e chiuse la porta quando lei uscì. La vide prendere la sua piccola valigia e infilare la foto tra le pagine di un libro, per non sgualcirla. Si fermò alle sue spalle, intimamente commosso da quel gesto, senza però darlo a vedere. Nessuno aveva mai sentito il bisogno di tenere una foto di lui, di custodirla, di appropriarsene. Quando Ofelia si alzò, sussultò nel rendersi conto che la sua alta figura si stagliava alle sue spalle, vicinissima.
Lo fissò. Thorn era esitante. Sollevò una mano che poi fece ricadere, risollevandola infine per grattarsi la gola. Dopo alcuni secondi si chinò e la baciò, un contatto lieve ma morbido, che la colse di sorpresa. I gesti dolci di Thorn erano rari, vederlo in difficoltà in quel campo la inteneriva sempre. Thorn era un tipo pratico: non era uomo da carezze, abbracci o contatti in pubblico; anche quando erano soli era parco di tocchi, la maggior parte delle volte. Si limitava ai baci, o all’atto pratico vero e proprio, in cui non si risparmiava. Ma un bacio davvero romantico era raro quanto un suo sorriso, e Ofelia si ritrovava sempre con il cuore a mille dopo quegli istanti.
Il tragitto di ritorno fu breve, nemmeno cinque minuti grazie alla slitta. Ofelia non si offrì di guidare e Thorn non glielo propose. Rimasero in silenzio, l’uno perso nei propri pensieri, l’altra impegnata ad imprimersi a fuoco nella mente la vista di quegli alberi giganteschi carichi di neve, in un miscuglio di verde e bianco. I colori erano sempre gli stessi, non come a Città-cielo, Anima o Chiardiluna. Bianco, marrone, verde a profusione. E un cielo carico di nuvole grigie poco rassicuranti.
Anche Jan il guardacaccia e sua moglie non furono di molte parole, per una volta. La padrona di casa salutò Ofelia caldamente, però, e riprese indietro il cesto con gli alimenti che aveva fornito loro, ormai vuoto.
- Era davvero tutto buonissimo, vi ringrazio – le disse Ofelia, timida. Cercò di non pensare all’estratto di mandragore.
- Di nulla, è un piacere poter lavorare per il vostro buon marito.
Ofelia sorrise leggermente e annuì, allontanandosi prima che la donna le chiedesse qualcosa su come avevano trascorso la notte o si sperticasse in spiegazioni sull’utilità delle radici di mandragora.
Si trattennero un paio d’ore, Thorn doveva finire di far compilare alcune carte al guardacaccia. Fortunatamente sua moglie aveva da fare in un’abitazione vicina. Ofelia passò il tempo leggendo e guardando la foto di Thorn da piccolo, pensando che sarebbe stato davvero bello avere un bambino simile a lui. Magari un po’ più paffuto, e con una capacità migliore di esprimere i propri sentimenti, ma un piccolo pargoletto biondo con gli occhi grigi non le sarebbe dispiaciuto. Quando ebbero finito il guardacaccia lo convinse a mangiare qualcosa di veloce e Thorn acconsentì più per assecondare la moglie che per vero appetito.
Questa volta Jan portò le valigie e Thorn guidò la slitta con Ofelia. Lei indossava il suo cappotto enorme come se fosse il suo; aveva rinchiuso il pellicciotto in valigia con sguardo truce, considerandolo un traditore. Lui si era animato, colpevole, ma Ofelia aveva chiuso la sua borsa senza degnarlo di un’occhiata. Era grata a Thorn per non aver fatto commenti in merito. Doveva riconoscergli almeno il fatto che non fosse un uomo che girava il dito nella piaga.
In realtà lo era. Anzi, sembrava che provasse gusto nel rinfacciare gli sbagli altrui, ogni tanto. Ofelia decise di sorvolare e si preparò a sentire lo stomaco finirle in gola quando i cani corsero a tutta velocità per prendere lo slancio e alzarsi in volo.
Le sembrò che andasse meglio, per una volta. Magari era solo questione di abitudine.
Cercò di salutare Jan cordialmente, come al solito, ma la tristezza le mordeva il cuore come se quel sentimento fosse stato un oggetto che lei stessa aveva animato. Si rilassò solo quando salirono in carrozza, uno di fronte all’altra.
Fu Thorn a parlare per primo, stranamente.
- Ci torneremo con i nostri figli.
Era una constatazione più che una domanda, un invito o un’ipotesi. Ofelia tossì, soffocata dalla sua stessa saliva. La sciarpa le diede delle leggere pacche sulla schiena da sotto il cappotto.
Ci torneremo con i nostri figli. Figli! Più di uno. Ofelia non sapeva se lo avesse fatto in un tentativo di tirarle su il morale o se fosse serio, ma sperò di cuore che lo fosse. Era così rassicurante sentirlo parlare in quel modo. Le faceva annodare lo stomaco e bruciare gli occhi; riuscì a non piangere solo perché si impegnò al massimo per trattenere le lacrime. Cos’era tutta quell’emotività di punto in bianco? E cos’era quell’abitudine di Thorn di parlare sempre in modo tanto serio?
Ofelia trovò la forza di annuire e abbozzò anche un piccolo sorriso. Passato lo sbigottimento iniziale, si rese conto che il sorriso era sincero. L’idea di tornare in quella baita era esaltante, ma la prospettiva di tornarci con i loro figli… una chimera.
- Volentieri – aggiunse anche a parole, vedendo che Thorn si era un pochino rabbuiato di fronte al suo scarso entusiasmo. – Sarebbe bellissimo.
Thorn si passò una mano tra i capelli, evitò il suo sguardo. Appoggiò i gomiti alle ginocchia, rigido. – Se dovessero tardare… c’è una clinica, su Babel. Una specie di Osservatorio medico molto all’avanguardia. Potremo farci suggerire lì, eventualmente, che comportamento adottare, o quale…
Ofelia si alzò nello spazio angusto e gli si raggomitolò addosso, zittendolo. Era impossibile spiegare cosa provasse in quel momento. Lo stupore sovrastava tutto, però. Thorn, così restio a vedere dottori e prendere medicine, che le proponeva addirittura di andare su un’altra Arca solo per farsi visitare? Il pensiero la esaltava e terrorizzava insieme. Esaltava, perché prendeva davvero sul serio la questione di avere dei figli. Terrorizzava, perché con lui non c’erano mezze misure. Se cercava strade di quel tipo, così estreme secondo i suoi canoni, voleva dire che era preoccupato per il fatto che lei non era ancora rimasta incinta. La cosa la spaventava, anche se sapeva che era normale.
- Ne riparleremo – gli rispose, laconica come lui. – Intanto vediamo che effetto fanno le mandragore.
Thorn annuì piano. – Lo dicevo solo per farti capire che ci sono delle buone cliniche e…
- Thorn, non c’è nulla che non vada. Non serve che ti prodighi così tanto per cercare qualcosa di cui forse non avremo bisogno.
Il tono le era uscito più tagliente del necessario, ma non sopportava quel pensiero. Che ci fossero problemi. Non voleva essere pessimista.
- Vorrei solo esserti indispensabile – mormorò, così piano che Ofelia dubitò di averlo sentito davvero.
Si immobilizzò contro di lui. Alzò lo sguardo e vide che aveva gli occhi rivolti verso l’esterno, oltre il finestrino della carrozza, ma lei sapeva che in realtà non stava davvero guardando fuori. Aveva i lineamenti contratti, il profilo era affilato. Non era a suo agio.
Ofelia gli posò una mano sulla guancia, quella attraversata dalla cicatrice, per coprirgliela. – Lo sei, Thorn. Come potresti non essermi indispensabile?
Lui assottigliò gli occhi, chiudendo quasi del tutto le palpebre, ma il luccichio metallico era ben presente. Attento. – Sei una donna più forte di quanto avessi creduto all’inizio. Mi sono fatto un’idea del tutto sbagliata di te, al principio. Tu non hai bisogno di nessuno.
- Se non avessi bisogno di nessuno, sarei sola. Non avrei portato Archibald a celebrare il nostro matrimonio in una cella. Me ne sarei tornata su Anima, senza nessun vincolo, senza di te. Non ho potuto farlo. Tu eri, mi sei e mi sarai sempre indispensabile, Thorn.
Gli baciò le cicatrici a una a una, prima quella sulla guancia, poi sul sopracciglio e infine sulla tempia. Lo strinse a sé, per non dover più guardare la voragine nei suoi occhi.
- Nessuno ha mai avuto bisogno di me. Vorrei ottemperare ai miei doveri. Il fatto che tu non sia… non abbia ancora…
Ofelia sentì dal suono smorzato della sua voce quanto fosse in difficoltà. – Non è un dovere, Thorn. Devi calmarti, smetterla di fasciarti la testa. Rilassati. Arriverà, per alcuni passano anni prima di riuscire ad avere un figlio. Io non ho bisogno di te per questo, Thorn. Cioè, sì, ovviamente ho bisogno di te per questo, perché da sola… insomma…
Si era incartata nelle sue stesse parole, la valanga di emozioni che era rovinata dentro di lei la faceva straparlare.
- Non ho bisogno di te solo per questo. Sono forte solo perché ho te accanto. Prima di conoscerti non ero così. Sei molto più che indispensabile per me.
Lui non rispose, ma almeno non allontanò lo sguardo dal suo. Annuì gravemente, come se Ofelia avesse appena annunciato un decesso, invece di parole che lo avevano fatto vibrare nel profondo.
- Sei mesi. Se entro sei mesi non ci riusciamo, allora…
- Allora vedremo fra sei mesi. Discorso chiuso.
Ofelia ripensò alla foto tra le pagine del suo libro, al piccolo Thorn spensierato che era stato massacrato crescendo. Che contro di lei, però, insieme a lei, rimaneva il bambino bisognoso di affetto che era stato tanto tempo prima. Si accoccolò ancora meglio tra le sue braccia, lasciandosi cullare dal suo respiro e dall’incedere della carrozza.
Gli strinse una mano. Lo sentì rilassarsi poco dopo, per quanto Thorn potesse essere rilassato. Le posò le labbra sulla testa. Aveva ancora il pizzetto, che Ofelia aveva scoperto di adorare. Le piaceva la sensazione di sfregamento contro la pelle del viso. Alla fine cedette del tutto e la circondò con le lunghe braccia, ingabbiandola.
- Concesso – mormorò piano, un sussurro che la strada dissestata si portò via.
Ma Ofelia aveva sentito. Sorrise.
Finché avesse avuto Thorn al fianco, non c’era impresa che non potesse compiere.
Erano insieme, e lo sarebbero stati per sempre, attraverso cicatrici, dolore, delusioni, scherni e tutto quello che di malevolo la vita poteva riservare loro.
Non le importava. Avrebbe affrontato decine di Faruk pur di averlo al fianco.
Chiuse gli occhi e si abbandonò ai movimenti della carrozza, immaginandosi di essere ancora sulla slitta. Quella slitta che scorreva nelle vene di Thorn, e che lei voleva guidare ogni giorno della loro vita.
  
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