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Autore: _Lisbeth_    07/06/2020    2 recensioni
Dal prologo:
"- E anche questa giornata di lavoro è giunta al termine. - la frase della dottoressa Warren fece annuire la giovane tirocinante, che raccolse tutte le sue cose dal divanetto e le sistemò nella borsa.
- A che ora dovrei venire, domani?
- Domani... - Danielle Warren si alzò dalla propria sedia e diede uno sguardo al calendario appeso alla parete, mettendosi in punta di piedi per poter vedere meglio. – Domani non abbiamo pazienti. Però ho una buona notizia da darti: da venerdì potrai tenere tu stessa le sedute."
"Jake prese un sorso dal bicchiere. – Perché sono qui?
- Perché sono il tuo numero di emergenza e ieri sera eri praticamente in coma etilico."
"- Jake. – la ragazza puntò gli occhi in quelli del fratello. – Ti rendi conto che è qualcosa che potrebbe aiutarti?
- No! – si alzò dalla panchina su cui era seduto e sbarrò gli occhi. – Come dovrebbe farmi stare meglio parlare con una persona che non ho mai visto dei cazzi miei? E’ come prostituire i propri neuroni."
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Jacob Kiszka, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Comunque dovremmo venire a mangiare indiano più spesso.
Jake annuì all’affermazione di Josh, prendendo un sorso d’acqua dopo aver assaggiato la sua insalata. Sentiva il coriandolo sulle papille gustative e l’odore del locale gli inebriava le narici. Era ben tenuto, pulito e ben arredato: le pareti erano color ocra ed erano ornate con motivi morbidi e rilassanti alla vista, sulle tovaglie erano disegnati degli elefanti, le sedie erano di legno pittato di rosso e sopra alla porta della cucina era posto un quadro rappresentante il dio Shiva. Il genere di posto che piaceva soprattutto al suo gemello, che in quel momento si stava gustando il proprio antipasto.
Anche Danny e Sam sembravano gradire, nonostante il più piccolo avesse gli occhi incollati allo schermo del proprio cellulare. Josh colse la prima occasione per sfilarglielo dalle mani e infilarselo nello zaino, facendo strabuzzare gli occhi del fratello minore. – Ma che fai, idiota? Sto…
- Parlerai con la tua promessa quando te ne starai da solo in camera tua, non mentre siamo a tavola tutti insieme.
- Ma senti questo. Hai ventun anni e ti comporti come mia madre.
- Tua madre è anche mia madre, e mi ha insegnato che è irrispettoso fare sexting mentre si mangia.
- Non stavo facendo sexting!
- Sei fortunato, ho già messo il telefono in stand by e non so il tuo pin, quindi non posso controllare.
Lo scambio di battute fece apparire un sorriso sui visi di Jake e Danny, che si stavano godendo la scena. Jake, però, vedeva che effettivamente Danny aveva qualcosa che non andava. Da quando Joy e Sam avevano iniziato a frequentarsi, vedeva il povero batterista sempre un po’ abbattuto e se ne chiedeva il perché. Insomma, si notava che Danny fosse felice per il suo migliore amico, ma era sempre molto giù quando Sam parlava di Joy in quel modo così dolce.
- Gradite il vostro antipasto? – i pensieri di Jake furono interrotti da una voce femminile, e appena alzò la testa per guardare la cameriera davanti a sé il suo respiro si arrestò. Un sorriso luminoso piegava le labbra di una ragazza dai tratti orientali, con la pelle ambrata e lunghi capelli scuri. Le forme del suo corpo erano sinuose e morbide, armoniose. Le ciglia erano lunghe e scure, ma ciò che la fece risultare bellissima agli occhi di Jake era il suo sorriso: era sincero, associato allo sguardo per niente annoiato o scocciato, la lunga fila di denti allineati e bianchi emergeva dalle sue labbra rosate e due fossette le ornavano le guance. Jake si accorse di non riuscire più a respirare.
Letteralmente.
Tossì un paio di volte, sentendo gli occhi lacrimare e la gola bruciare. Riuscì a vedere lo sguardo della ragazza, di Danny e dei suoi fratelli cambiare e sentì Josh sbattergli il palmo della mano sulla schiena. Vide la cameriera arrivargli alle spalle e sentì una forte pressione tra lo sterno e l’ombelico per una, due, tre volte finché, finalmente, riuscì a tossire la foglia d’insalata che gli si era incastrata in gola. Respirò a fondo e recuperò fiato con i polmoni che lo ringraziavano.
- Cristo, Jacob, impara a mangiare. – sospirò Josh sollevato e bianco in viso.
- Oh, Dio, tutto a posto? – gli chiese la ragazza con un tono di voce evidentemente preoccupato. Jake si accorse che chiunque nel locale lo stava fissando e, ancora ansimante, riuscì ad abbozzare un sorriso, facendo tornare lo sguardo della gente sui propri piatti.
Guardò la cameriera che gli aveva appena salvato la pelle – stava per morire in modo decisamente imbarazzante – e iniziò a balbettare, sentendosi ancora più stupido: - Io… Sì, sto bene, sto… Tutto a posto, insomma, grazie, tu… - cacciò un altro colpo di tosse. – Mi hai appena salvato la vita, dio, non so come…
La ragazza, però, sembrava comunque decisamente preoccupata. Certo, vedere un cliente rischiare di morire soffocato nel ristorante in cui lavorava non doveva essere proprio il massimo. – E’ sicuro? Le fa male da qualche parte o… Vuole dell’acqua?
- Sono a posto, davvero. – Jake la rassicurò sorridendole e la vide rilassarsi, ricambiando il sorriso.
- Vi lascio ai vostri piatti. Se avete bisogno di qualcosa, non esitate a chiedere. – sospirò la ragazza, sorridendo ancora per poi allontanarsi, non prima di aver pulito il disastro sul pavimento. E appena andò via, Jake sentì gli occhi degli altri tre puntarsi su di lui come zanzare. Li guardò uno ad uno, aggrottando la fronte. – Ma che cazzo guardate?
- Cazzo, chiedile di uscire! – esordì Josh. E se avesse avuto la bocca piena, probabilmente il chitarrista sarebbe soffocato di nuovo.
- Eh?!
- Abbiamo visto tutti come la guardavi, Jake. – sorrise Danny. E Sam, appoggiando il gomito sulla sua spalla, chiuse gli occhi. – Da togliere il fiato!
- Ma siamo sicuri che in questi piatti non ci siano funghi allucinogeni? – sospirò Jake.
Josh alzò gli occhi al cielo. - Tesoro, ti conosco meglio di quanto io conosca me stesso. E poi lo sappiamo tutti che non sai mentire. Molli adesso o quando arriviamo a casa, quando sarà troppo tardi per chiederle di uscire?
- Non posso semplicemente andare da lei e chiederglielo!
- E perché no?
-E’ inopportuno ed è stupido.
- Io lo farei.
- Appunto!
- Se non glielo chiedi tu, glielo chiedo io. E poi all’appuntamento ti presenti tu.
- Ma è Catfish.
- Stai zitto, Sam.
- Se glielo chiedo, devi darmi dieci dollari.
- Ma col cazzo.
- Cinque.
- E sia.
 
- Hai freddo? – sussurrò Jake, guardando Jita tremolare leggermente. Quella serata stava andando così bene. Erano in perfetto accordo, sentivano di poter parlare di tutto, riuscivano a ridere per qualsiasi cosa dicesse l’altro e le loro dita si erano già sfiorate diverse volte, facendo battere forte i cuori di entrambi. La ragazza annuì appena e gli sorrise, sedendosi sulla panchina e facendo cenno a Jake di raggiungerla. E lui non se lo fece ripetere due volte, prendendo posto e circondandole le spalle con un braccio, stringendola per trasmetterle un po’ di calore.
- Jake.
- Sì?
- In realtà non ho freddo. Volevo solo che mi abbracciassi.
Jake rise e appoggiò la testa sulla sua, chiudendo gli occhi. – Devo dire che l’avevo capito.
Restarono sulla panchina di quel parco in silenzio per minuti interi, a godersi l’uno il calore dell’altra e il silenzio della notte. Tirava un po’ di vento che faceva muovere le foglie degli alberi intorno a loro, ma non era eccessivo.
- Sono stata bene, stasera.
Jake accarezzò una spalla della ragazza e annuì. – Anch’io. E poi guarda che progressi che ho fatto, ho mangiato senza rischiare di morire.
- Dio, che spavento che mi hai fatto prendere.
- Però, se non te l’avessi fatto prendere, ora non saremmo qui.
Jake vide il viso di Jita alzarsi e i suoi occhi puntarsi nei propri. La vide sorridere e drizzarsi sulla panchina. Sentì le dita morbide appoggiarsi sulle sue guance, accarezzandogli gli zigomi. Restò a guardarla posando le proprie mani sulle sue, mentre il cuore sembrava voler scappare via. Jita rise e fece incontrare le loro fronti. – Adesso dovresti baciarmi, Jake.
E, dopo essere scoppiato a ridere, Jake appoggiò le labbra su quelle della ragazza, che infilò le dita tra i suoi capelli, accarezzandoli dolcemente.
 
 
- E com’è stato per te rivederla? – il sorriso di Tracy era divertito e dolce. Quella ragazza aveva il potere di far apparire ogni seduta come una conversazione tra amici di vecchia data, con i suoi modi gentili e un po’ timidi e i suoi sguardi delicati, mai invasivi o giudiziosi. Jake riusciva a sentirsi a proprio agio.
- Be’, ecco… Bello, credo. Mi ha fatto piacere, insomma. Ma non ho… Provato niente. Non sentivo nulla, le mie sensazioni non erano neanche lontanamente vicine a quelle di uno o due anni fa.
Vide la giovane psicologa annuire, la sua espressione cambiò facendosi più riflessiva e pensierosa. – Non ti ha stimolato in alcun modo?
- No. Ero felice di vederla, ovviamente. Era e resta una persona importante, ma… - Jake strinse i denti, sentendo il cuore battere più velocemente. – Ma credo di essere cambiato così tanto, da quel… - non doveva piangere. Non poteva. Non doveva pensare a Josh, a Sam o al fatto che non vedesse né sua madre né suo padre da mesi. Anche se, effettivamente, come Ronnie gli aveva ripetuto tante volte, era proprio quello lo scopo della terapia. Aprirsi su delle cose che lo stavano logorando.
- Jake, tu non devi sentirti in dovere di dirmi nulla. Qui sei tu ad essere qui perché vuoi una mano, un consiglio. E io non sono qui per costringerti a dirmi qualsiasi cosa ti passi per la testa. Sono qui per cercare di darti sollievo o per farti stare un po’ meglio, quindi non sei obbligato a dire o fare nulla. Però ricorda che se tu dovessi aver voglia di tirare fuori anche solo una briciola del peso che ti porti addosso, io sono qui apposta per ascoltarti, per cercare di aiutarti.
- Ricordi quando ci siamo incontrati in clinica? – balbettò Jake con un nodo alla gola.
- Certo.
- C’è mio fratello, lì. Si chiama Sam ed è schizofrenico. – Jake sentiva lo sguardo di Tracy su di sé. Affondò le unghie nei propri jeans col cuore che gli batteva forte e le lacrime che ormai scendevano copiose. – Lui è stato coinvolto in un incidente stradale, l’anno scorso. – strizzò gli occhi. – La macchina in cui era la stava guidando il mio gemello. Stavano tornando a casa e… L’auto è finita fuori strada, si è schiantata contro un tronco e ha preso fuoco. – ormai singhiozzava, quasi non riusciva a parlare. – J-Josh è morto. Non c’è più e… E io non so cosa fare, non… Sento di non essere più me stesso, non riesco a star bene nemmeno più con Jita. E anche se Veronica sta facendo tutto il possibile, mi sento così perso. Così… Diverso, smarrito.
- Gli volevi molto bene, vero?
Un singhiozzo particolarmente forte gli scosse il petto, strinse gli occhi facendo scivolare via le lacrime. – Era tutto quanto. Mi conosceva meglio di chiunque altro, mi faceva stare bene. E’ sempre stato dalla mia parte, mi ha difeso a spada tratta davanti a tutti giorno dopo giorno, non ha mai mollato. – trasse un respiro profondo – Era la mia unica sicurezza. La mia strada verso casa.
 
 
- Ma che cazzo sta dicendo?! – esclamò Josh, balzando in piedi e sbattendo i pugni sul proprio banco.
- Kiszka, questo comportamento verrà sanzionato severamente. – sbottò il professore in tono gelido.
- Non si capisce nulla nemmeno quando parla, ma si sente? Per lei sarebbe questa l’intelligenza? Vantarsi del proprio vocabolario forbito davanti a dei diciassettenni brufolosi e puzzolenti, facendoli sentire inferiori? Facendoli sentire dei vermi? – riprese fiato per un attimo, puntando il dito verso il proprio gemello. – La persona che ha appena umiliato davanti a tutta una classe e che ha appena minacciato di bocciare, è il ragazzo più intelligente che io conosca. E’ sensibile, è buono, forte, e lei non ha idea di quello che passa ogni volta che a casa deve leggere un cazzo di testo. Si impegna, fa del suo meglio per riuscire ad andare bene in questo posto di merda, per riuscire a prendere almeno una sufficienza. E voi, massa di idioti. – esordì girandosi verso i propri compagni di classe. – Vi credete tanto onesti e fighi perché pensate di poter dominare il mondo e di poter essere liberi di fare quello che cazzo volete, e ve la prendete con una persona che si spacca il culo ogni giorno per riuscire ad essere accettato in questa società. E che è molto meglio di voi. – rise, scuotendo la testa. – Saper suonare ogni canzone di Elmore James senza sbagliare neanche una nota, questo è figo. Questo è talento. Non imparare due stronzate a memoria e dire la lezioncina al professore. – tornò a guardare l’insegnante. – Professore che deve avere proprio un bel coraggio a volersela prendere con un diciassettenne dislessico. Ma dove crede di essere? In “Matilda sei mitica”?
L’uomo alzò le sopracciglia e fissò Josh con la solita espressione gelida. Era di almeno venti centimetri più alto del ragazzo, forse trenta, ma Josh non si lasciò intimorire nemmeno per un secondo. – In presidenza. Adesso, Kiszka.
Josh abbozzò un sorrisetto soddisfatto, prendendo il proprio zaino e avvicinandosi alla porta. – Ho vinto io. -Si sporse per fare un occhiolino al gemello che, all’ultimo banco, lo guardava confuso, ma non sorpreso. E a Josh sembrò anche di vedere un sorriso sotto alle lacrime che gli scendevano sulle guance. Uscì dalla classe, non prima di aver puntato di nuovo lo sguardo sull’insegnante. – E comunque, fisica è una materia di merda.
 

 
Tracy sentì il cuore sprofondare nel vedere il ragazzo in quelle condizioni. Solo ora riusciva a capire tutto il dolore che gli si intravedeva nello sguardo, l’enorme peso che si portava sulle spalle, la morte di una persona per lui fondamentale, una guida, una sicurezza. Il fardello di dover badare non solo a se stesso, ma anche a quel fratello che, in ospedale, aveva bisogno di lui. E molte cose le erano chiare. Era lui Josh, il suo gemello. Quello a cui aveva accennato la prima volta, ciò che aveva scaturito quel dolore così forte nel cuore di un ragazzo che, così giovane, avrebbe dovuto solo divertirsi e costruire il proprio futuro. Lo lasciò sfogarsi, piangere e singhiozzare, tirare fuori un po’ di quel dolore che, però, forse non sarebbe mai andato via. E, una volta che i singhiozzi furono cessati, gli porse un fazzoletto dalla scatola, sorridendogli con dolcezza e malinconia. Tracy non si era mai ritrovata a doversi confrontare con una situazione così pesante, dolorosa e opprimente, davanti a degli occhi così stanchi e una voce così spezzata. Aveva visto crollare una corazza già debole, l’aveva vista rompersi in mille pezzi lasciando Jake così vulnerabile ed esausto. Uno sguardo simile non poteva appartenere a un ragazzo di ventiquattro anni, non doveva.
- Mi fa piacere che tu ti sia aperto e sfogato. Molte volte, abbiamo bisogno di tirare fuori tutto. Di dire cose che dentro ci danneggiano come tossine. – Tracy si allungò ad appoggiare una mano su quella del ragazzo, sperando di non farlo sentire a disagio. – E so che sfogarti non farà tornare Josh, purtroppo lo so. Non guarirà Sam. Però, Jake. – gli sorrise dolcemente, vedendolo tirare su col naso. – Per renderci davvero coscienti di ciò che succede dentro di noi, per riuscire a sbloccare qualcosa che ci impedisce di stare bene, abbiamo bisogno di capirla e buttare fuori tutto. Con il pianto, con le parole, con la rabbia. Come quando hai qualcosa in gola che ti blocca il respiro, e per riprendere fiato hai bisogno di tossirla fuori. – rise al proprio esempio e vide un piccolo sorriso anche sulle labbra del ragazzo. – E so che ora magari stai malissimo, forse hai anche la sensazione di stare peggio di prima, ma vedrai che riuscirai a respirare un po’ meglio.
Jake tenne lo sguardo sulla scrivania. Non era uno sguardo vuoto, vacuo. Era triste, questo sì. Triste ma anche pensieroso, riflessivo. E Tracy riuscì ad intravedere un Jake diverso da quello che aveva conosciuto, quello con la schiena curva e i modi bruschi: lo vide calmo, quasi analitico, in un certo senso. Le sembrava che stesse riflettendo su un quesito matematico. Probabilmente pensava alle parole da dire, scavava in se stesso per trovare delle risposte da dare. Si disse che doveva essere così, il vero Jake. Quello che lui stesso diceva di non riconoscere più, che era smarrito: riflessivo, dotato di un elevato raziocinio. Gli sfiorò appena le dita, con estrema delicatezza. – Sei speciale, Jake, lo so. L’ho capito e lo credo. E anche se sembra l’unica via d’uscita dalla tue emozioni, non vale a pena nasconderle. Ti riconosci, ora? Nel tuo pianto, nella tua rabbia, lo trovi? Trovi quel Jake?
Jake puntò lo sguardo nel suo, traendo un profondo respiro e appoggiando le mani sulla scrivania. Si asciugò nuovamente gli occhi, ancora un po’ umidi. – Io non… Non credo che possa più esserci.
Gli occhi di Tracy lasciavano trasparire un leggero senso di confusione, ma aveva intenzione di capire quel ragazzo, di comprenderlo a fondo per dargli una mano. – Come mai?
- Chi sono, senza Josh? E’ come se mi avessero tolto metà del mio corpo. Era la mia controparte ma allo stesso tempo la mia anima gemella. Mi bastava lui per capire chi ero, per ritrovarmi dopo essermi perso.
La ragazza respirò profondamente, per poi alzare gli occhi al soffitto. – Okay, Jake. Facciamo un gioco, ti va?
Vide il ragazzo annuire, titubante.
- Bene. Sei nella foresta, devi tornare a casa tua. Non c’è un tempo o una data di scadenza, devi solo arrivare. C’è un problema, però: a metà strada perdi la tua bussola, unico mezzo che hai per orientarti. Allora, a questo punto, hai tre opzioni: la prima è quella di tornare a casa, senza la tua bussola. Perché, infondo, se perdi la bussola, la tua casa svanisce?
- No.
- Giusto. Quindi, potresti decidere di tornare fondandoti sulla tua memoria, mettendoci del tuo. La seconda opzione è quella di perdere le speranze e restare nella foresta, perso e al buio, da solo. Oppure, la terza. La bussola non ce l’hai, la strada di casa non la ricordi. Non ti rimane nulla, vero?
- No.
- E invece sì. Potrai cercare un altro rifugio in cui andare, cambiare completamente meta. Camminando, camminando, di luogo in luogo. E potrebbero volerci mesi, forse anni. Alla fine, però, troverai un posto dove stare. Perché avrai lavorato con tutte le tue forze e tutta la tua determinazione per arrivare a stare bene, al sicuro e al caldo, ma non per forza dove sono situate le tue radici. La tua casa sarà completamente cambiata, ma anche se dovrai abituarti sarà comunque il tuo posto. E sarà frutto del tempo e della determinazione che ci hai messo per arrivarci. E capirai che la bussola sì, ti sarebbe servita, ma per non perderti hai bisogno soprattutto di te stesso.
 
 
Il modo in cui Tracy era cambiata, era ormai chiaro un po’ a tutti: restava sempre la ragazza timida e un po’ impacciata che era, ma dimostrava molta più sicurezza. Certo, non si destreggiava nelle relazioni sociali come facevano tutti i suoi coetanei, ma riusciva ad attaccare bottone e a non restare completamente zitta, senza sapere cosa dire, non sentendosi a disagio come quando era più piccola. Teneva le spalle dritte e sorrideva spesso, i suoi occhi sembravano un po’ più vispi. Dopo anni e anni passati all’ombra dell'insicurezza, entrata in università sembrava essere uscita allo scoperto, lasciandosi sfiorare anche solo appena dai raggi del sole. Lo avevano notato suo fratello, i suoi genitori, i suoi amici. E, soprattutto, l’approccio che ora aveva con i ragazzi della sua stessa università, era completamente diverso.
- Ciao, sono Margareth! Ma chiamami Maggie, il mio nome intero sembra quello di un superalcolico scadente. – la ragazza che Tracy aveva davanti era sorridente e raggiante. Era più bassa di lei e aveva una marea di capelli neri e lisci. Degli occhiali rotondi lasciavano intravedere i suoi occhi scuri e allungati, il sorriso a trentadue denti le ornava le guance diafane. La studentessa ricambiò il sorriso e le strinse la mano.
- Ciao, Maggie. Sono Tracy.
- Oh, lo so come ti chiami. Ti ho sentita mentre parlavi da sola per preparare la tua presentazione.
Le guance di Tracy diventarono completamente rosse. Aveva fatto una figura di merda anche il primo giorno. Però Maggie le sorrideva sinceramente: non era l’espressione di qualcuno che aveva intenzione di prenderti in giro, solo, le sembrava divertita.
- Sono iscritta a biologia. Anche tu?
Tracy scosse la testa. – Psicologia.
Maggie la prese per un braccio, trascinandola con lei per il cortile dell’università di Detroit. – Ce l’hai la faccia da psicologa.
- Sì?
- Mhmh. Con quegli occhiali trasparenti con i naselli sei perfetta.
- Di solito non li porto, sono da riposo.
- Anche senza potrebbe andare.
 
 
- Spero che la tua giornata di lavoro sia stata brillante ma dimmi, perché cazzo te ne torni in casa mia alle tre del mattino? Certo che i tuoi orari sono allucinanti. – sbuffò Maggie, seduta alla scrivania della sua stanza con una pila di libri davanti a sé. Tracy scrollò le spalle e si sedette sul letto della ragazza, sospirando esausta. – Devo proprio raccontartelo?
- E’ il minimo, dato che pago l’affitto con te e che questa è anche casa mia.
- Ecco, bene. Hai presente che ieri ho parlato al telefono con una certa “Piper”? L’ex del mio ex?
- Sì.
- Ha organizzato un piano strano e geniale allo stesso tempo per liberarsi (e liberarmi) di Alex.
- Sarebbe?
- Mi ha letteralmente baciata davanti a lui.
Maggie aggrottò la fronte e strabuzzò gli occhi scuri, voltandosi a guardarla. – Eh?
- Già.
- Mi prendi per il culo.
- No, Meg, no. Te lo giuro su Princess Carolyn.
- Ma perché devi giurare sul tuo gatto?
- Perché le voglio bene.
La coinquilina si passò le mani sul viso, espirando dal naso. – Tu sei proprio una cretina.
- Grazie, Meg.
- Come cazzo ti viene in mente di seguire il consiglio della ragazza con cui Alex ti ha tradita? Potrebbe volerti ingannare e soffiartelo di nuovo.
- Be’, prima di tutto di chi si scopa Alex poco me ne importa. E poi, era incazzata tanto quanto me. Se dovesse essere così, peggio per lei.
L’espressione di Maggie si fece ancora più accigliata. – E non ti sei incazzata con lei nemmeno un pochino per averti baciata senza un apparente motivo?
- Questo sì, ma poi è finita lì. Ho altro cui pensare.
Maggie alzò le sopracciglia e incrociò le braccia al petto. – Non ci credo minimamente.
 
 
- Sei completamente impazzita?!
- No, Nome di merda. – Piper rise, scuotendo la testa. – Mi sono anche divertita.
- Cristo, ma… Hai svegliato un quartiere intero! Che hai risolto così? Gesù, mi trovo in una gabbia di matti… - Tracy sospirò e si sedette sulla moto di Piper, massaggiandosi le tempie.
- Tesoro, se ti dà fastidio che una ragazza ti abbia baciata, sei un po’ un pezzo di merda.
- Ma… Non è assolutamente per questo. Anche se tu fossi stata un ragazzo, questa cosa sarebbe stata inopportuna, infondata e… - sentì il dito indice di Piper posarsi sulle proprie labbra e vide la ragazza sorridere di scherno. – Immagina quanto si è sentito bruciare il culo, Tracy.
- Ma non m’importa se si sia sentito bruciare o meno, non potevi usare un metodo meno… Plateale? Senza svegliare un benedetto quartiere in piena notte?
- Plateale è il mio secondo nome, Tracy Ziegler. – la ragazza indossò il casco e salì a bordo della moto, facendo cenno a Tracy di raggiungerla. La giovane psicologa alzò gli occhi al cielo e si passò una mano sulla fronte, imprecando sottovoce dopo essersi arresa raggiungendo Piper sulla moto.
 

 
   
 
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