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Autore: PrincessintheNorth    13/06/2020    0 recensioni
Nuova edizione della mia precedente fanfic "Family", migliorata ed ampliata!
Sono passati tre anni dalla caduta di Galbatorix.
Murtagh é andato via, a Nord, dove ha messo su famiglia.
Ma una chiamata da Eragon, suo fratello, lo farà tornare indietro ...
"- Cosa c’è?
Deglutì nervosamente. – Ho … ho bisogno di un favore. Cioè, in realtà non proprio, ma …
-O sai cosa dire o me ne vado.
- Devi tornare a Ilirea."
Se vi ho incuriositi passate a leggere!
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Morzan, Murtagh, Nuovo Personaggio, Selena | Coppie: Selena/Morzan
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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MURTAGH
 
 
Erano passate circa due settimane dal giorno in cui Belle era guarita: i suoi miglioramenti, da allora, avevano fatto passi da gigante. Aveva immediatamente ripreso le forze ed era diventata ancora più curiosa e scalmanata di prima, tanto che stava già imparando a cavalcare un pony e a nuotare: in quell’attività stava raggiungendo, in bravura, Killian, che in acqua si muoveva come un pesciolino. Il mare, qualunque fosse la stagione, era troppo freddo perché ci si potesse nuotare dentro, ma per fortuna nella zona del Tridente c’erano parecchie fonti termali: nel castello eravamo abbastanza fortunati da averne una nei sotterranei, proprio come a Winterhaal, ed una nei giardini privati della residenza reale, a cui la corte non poteva accedere se non su espresso invito. Visto il frequente bel tempo, la volontà di Belle di imparare a nuotare e la passione di Killian per i tuffi ormai ci andavamo praticamente tutti i giorni. Se pioveva, c’era sempre quella al chiuso.
«GUADDA PAPÀ!» Belle protestò infuriata. «DEVI GUADDALE TI HO DETTO!»
«Ma lo sto facendo» sospirai. Stava imparando a sbattere le gambe nell’acqua, come Kate le aveva detto, ma pretendeva che osservassi per bene ogni cosa che faceva.
«GUADDA MELIO!»
«Non ho occhi che per te, amore».
Così lei rinforzò la presa sul bordo artificiale della conca e riprese a muovere le gambette con vigore, spruzzando l’acqua calda ovunque potesse e ripetendosi “sono blavissima!”, anche se ogni tre per due doveva sputare l’acqua che beveva per sbaglio.
Killian aveva superato la fase dell’apprendimento delle basi del nuoto da un pezzo: ridendo a tutto spiano, continuava ad entrare e uscire dalla sorgente per tuffarcisi dentro e nuotare sott’acqua, controllato a vista da mio padre, che ben più di una volta si era beccato un furibondo calcio del piccolo per averlo tirato fuori dall’acqua dopo che era stato sotto fin troppo.
Katie era seduta accanto a me, con Evan in braccio: lui era quel genere di bimbo che, prima di provare una cosa nuova, ha bisogno di pensarci su almeno venticinque volte, per cui ancora non era in grado di stare a galla. Da quando Katherine gli aveva fatto notare che se spingeva qualcosa di cavo nell’acqua questo tornava su con forza, non ci aveva visto più dallo stupore e dal divertimento: Katie aveva perciò bucato un uovo, fatto sì che non potesse riempirsi d’acqua e gliel’aveva dato per giocare. Così, da tre quarti d’ora, il povero ovetto veniva continuamente spinto sott’acqua e fatto saltar su.
Orrin impazzirebbe d’orgoglio nel vederlo, ridacchiai fra me e me.
Potrebbe prenderlo come pupillo, un giorno, fece Castigo. Ed insegnargli tutti i suoi bislacchi esperimenti.
Ad Evan sarebbe piaciuto tantissimo: eppure, quel pensiero mi mise un po’ di tristezza. Erano passati poco più di sei mesi da quando ero tornato a casa, eppure i bambini erano cresciuti moltissimo: il tempo sembrava essere volato via sulle ali di un drago. Ben presto avrebbero imparato a leggere, scrivere, far di conto, sarebbero venuti a conoscenza della storia della loro famiglia: avrebbero smesso di voler dormire con me e Kate, ed entro qualche estate sarebbero diventati grandi. Una parte di me trepidava per vedere cosa sarebbero diventati, e l’altra pregava perché il tempo si fermasse a quel pomeriggio assolato d’aprile, invaso dalle urla ridenti dei piccoli, dagli schizzi d’acqua, circondato da un giardino rigoglioso.
Ad ogni modo, ci pensò Evan a tirarmi fuori dal fiume di pensieri malinconici in cui mi stavo addentrando.
«Sotto sotto sotto …» bisbigliò mentre affondava l’uovo. «E PLUF!» strillò liberandolo.
Evidentemente l’aveva mandato troppo sotto, e con molta forza: il povero uovo schizzò in aria, descrisse una stretta parabola, e mi finì in testa, distruggendosi in mille pezzi, provato dalle torture a cui Evan l’aveva sottoposto.
Lui non la prese molto bene: fissò sconvolto i resti del suo giocattolo, mi accusò di averlo rotto e si girò dall’altra parte, a braccia conserte. A Katherine ci volle almeno mezz’ora per riportarlo alla serenità e a convincerlo che non avessi intenzionalmente ucciso l’uovo.
«Aspetta qua» disse una volta che fu più tranquillo, mettendolo in piedi sul gradino immerso nell’acqua su cui fino a pochi istanti prima era seduta e scivolando nella sorgente.
«Mamma dove vai?» Evan si preoccupò.
«Da nessuna parte, amore, sono proprio qua» lei lo rassicurò. «Vieni».
«Ma non tocco» protestò.
«Non aver paura, vieni in braccio».
Con un po’ di titubanza, Evan le andò in braccio e si lasciò trasportare nell’acqua, tenendosi stretto con forza a lei. Con calma e dolcezza, lei riuscì a fargli passare ogni timore che avesse, facendogli scoprire quanto fosse divertente giocare a “fare i pesciolini”.
Sembrava risplendere, in quel piccolo angolo di paradiso, intenta ad insegnare al piccolo una delle cose che amava di più: eppure, da due settimane nei suoi occhi potevo scorgere un fremito di paura che non l’abbandonava mai. L’ansia di non sapere cosa Galbatorix avrebbe preteso da lei la tormentava continuamente e le richiedeva un pesante prezzo: giorno dopo giorno il suo umore peggiorava, insieme alla sua forza. Era sempre più stanca, irritabile, logorata da quel continuo preoccuparsi riguardo a come avrebbe dovuto assolvere il proprio debito, e di certo la costante presenza di suo padre intorno non l’aiutava: pochi giorni prima era entrato nelle nostre stanze, dopo che i bambini si erano addormentati, per “mettere bene in chiaro le cose”. Sapeva benissimo, aveva detto, che era stato uno di noi due a salvare Belle, e voleva sapere chi fosse stato e come: dopotutto non era un idiota, mio padre mi aveva già detto che era sospettoso riguardo all’argomento. Mi ero preso io la “colpa”: era più plausibile. Per quanto ne sapeva, gli unici maghi in grado di usare la magia oscura con cui Katie fosse entrata in contatto eravamo mio padre, io ed egli stesso: nessuno di noi le aveva insegnato quel genere di incantesimi.
Meglio che non scoprisse la verità. Era sembrato soddisfatto della mia spiegazione: dopo un banale “sta attento agli incantesimi che usi”, ci aveva augurato la buonanotte e se n’era andato. Non era stata, chiaramente, una buona notte: Kate non aveva chiuso occhio, talmente era convinta che, nonostante la menzogna che avevo raccontato, lui sospettasse ancora di lei.
L’avevo rassicurata, chiaramente, ma in fondo nutrivo anche io lo stesso sospetto: prima di andarsene Derek le aveva lanciato un’occhiata molto eloquente, del genere “ti tengo d’occhio”. Il rischio che sapesse chi era la vera artefice dell’incantesimo c’era: Katherine era sua figlia ed era stato lui ad occuparsi della sua educazione magica fin dalla più tenera età, era ovvio che riconoscesse la magia della propria progenie senza problemi. Il fatto che però non avesse fatto parola a mio padre dei suoi sospetti mi faceva ben sperare.
«PAPÀ!» la piccola dispotica mi richiamò all’attenzione, fissandomi con uno sguardo furente.
Tale e quale a sua madre. Povero me.
«Ma ti sto guardando!»
«Bugia!» sibilò. Quando stringeva gli occhi in quella maniera, sibilando, mi era impossibile non paragonarla ad un draghetto.
Ha un’indole forte, commentò Castigo ridacchiando. Deve aver ereditato i tratti più … selvatici dei suoi genitori.
Selvatici?
Selvatici.
 
 
Belle continuava a tossire, a sanguinare, senza sosta, mentre io non potevo far altro che pregare che Katherine arrivasse in fretta. Potevo vederlo, anche se non volevo: alla piccola non restava più tempo.
Era raggomitolata contro il mio petto, in cerca di calore, avvolta nelle coperte: dormiva, perché ormai era completamente priva di forze. Erano ore, ormai, che le infondevo ogni oncia della mia energia, ma non le aveva portato alcun giovamento: anzi, sembrava ritorcersi contro di lei. Ogni volta che le trasferivo un po’ della mia forza, i colpi di tosse si facevano più intensi e colmi di sangue.
“Kate, muoviti” mi ritrovai ad implorare. Castigo non poteva fare molto: custodiva la mente della mia piccola, proteggendola da turbamenti ed incubi, ma per la mia non poteva fare molto. Non c’era nulla da fare, per i miei tormenti.
La manina di Belle era gelida nella mia: sembrava di stringere un pezzo di ghiaccio.
Dopo qualche minuto, un suono: il rumore della speranza. Ero abituato a quel rumore, lo scalpitìo degli zoccoli di un cavallo sulle pietre del cortile, ma non a quell’ora: era Katherine, doveva essere Katherine.
“È lei” mi confermò Castigo.
 In lontananza rintoccarono le tre del mattino: in risposta, Belle tossì, emettendo quel suono soffocato che odiavo.
Pochi minuti dopo, la porta delle nostre stanze si aprì: Katherine corse dentro come un fulmine, ansimando, terrorizzata.
«Lei …» sussurrò.
«È ancora viva, ma non per molto» la informai raggiungendola, in piedi di fronte al letto. «Hai trovato quel che cercavamo?»
Lentamente, lei annuì: fu in quel momento che capii che il terrore sul suo volto non era dovuto solamente alla sorte della bambina.
Non ebbi bisogno di fare domande per capire: la sua espressione era chiara, trasmetteva una paura che solamente una persona era in grado di incutere.
Lo sapevo, istintivamente, che mandandola a cercare la cura per Belle l’avrei spedita fra le sue grinfie: eppure, non c’era altra soluzione. L’elfa aveva parlato solamente con lei: per salvare Belle, dovevamo assecondare i suoi piani.
«Lo faccio io» mi offrii, per cercare di proteggerla dagli effetti che compiere quella magia avrebbe provocato su di lei. «Ho esperienza con quel genere di magia. Non c’è bisogno che tu vi entri in contatto».
Lei, però, scosse la testa, con un’espressione triste. «Non si può fare diversamente, amore» sussurrò. «Ho commesso io il sacrificio. Sai che non c’è modo di trasferire a te il potere che quell’atto mi ha dato».
«Prenderò un’altra vita» feci, cercando una scappatoia, una qualunque. Non lei, non lei, continuavo a pensare. «Dimmi cosa ti ha fatto fare e lo farò, Katie, non …»
«Non si può!» replicò, con le lacrime agli occhi. «Mi ha fatto usare un pugnale magico, che non ho qui … devo farlo io. Non c’è altra via».
«Kate …»
«Non c’è tempo da perdere!»
L’attimo dopo aveva iniziato a parlare, a comporre un incantesimo oscuro di terribile potenza: non avevo potuto far altro se non guardare, mentre lei si condannava per guarire la nostra piccola.
Quando mi svegliai da quel sogno, mi resi conto che c’era qualcosa che non andava.
Ricordavo perfettamente di essermi addormentato con Katie tra le braccia: una delle ultime sensazioni vigili che avevo provato la sera prima era stata proprio quella di solletico che mi davano i suoi capelli.
Eppure, lei non era lì. Nel letto c’ero solo io.
«Kate?» la chiamai senza preoccuparmi di tenere la voce bassa. I bambini erano tutti e tre nella loro cameretta, e non si sarebbero svegliati a quell’ora della notte.
Non mi rispose.
Che strano.
Mi alzai ed iniziai a controllare le nostre stanze: magari aveva avuto bisogno della latrina, oppure le era venuta fame ed era nella stanza accanto a mangiarsi uno dei frutti che avevamo sul tavolo.
Niente.
Controllando la nostra sala da pranzo, mi resi conto che qualcos’altro mancava: il suo mantello. Sull’appendiabiti posto accanto alla porta d’ingresso dell’appartamento c’erano solamente il mio e quelli dei bimbi.
A quel punto iniziai a preoccuparmi: poteva non essere niente, certo, oppure poteva essere tutto.
«Che sta succedendo?» fece mio padre entrando, con un’espressione quantomeno sospettosa.
«Tu che ci fai qui?! Sono le due di notte!» replicai sconvolto. Non avevo fatto il benché minimo rumore, né avevo sentito alcunché provenire dalle altre stanze della residenza: era una sua abitudine, quella di entrare nella mia camera di notte?
Lui sospirò. «Una curiosa sequela di eventi: tua madre si è svegliata, il che ha portato al fatto che anche io mi svegliassi».
«Questa non è una risposta».
«Hai delle assi che scricchiolano, sul pavimento» fece. «Così ho ritenuto opportuno indagare. Perché sei sveglio?»
«Kate è scomparsa».
Non avevo ancora avuto particolare bisogno di riferirgli delle stranezze nel comportamento di Katie: non c’erano stati sostanziali cambiamenti nella sua situazione, nell’ultimo periodo. Come lui già sapeva, era spaventata. Tuttavia, non era mai uscita di notte.
Mio padre aggrottò le sopracciglia. «Qual è la tua opinione a riguardo?»
«Non ce l’ho, un’opinione! Mi sono svegliato e ho visto che non c’era» sbottai esterrefatto: mia moglie, che secondo lui dovevamo “tenere d’occhio”, era scomparsa e lui si preoccupava di chiedere la mia opinione?!
«Ed è la prima volta che lo vedi accadere?»
Quella domanda mi lasciò senza parole: “lo vedi accadere”, non “accade”.
«Tu l’hai vista uscire altre volte» mi resi conto, sentendomi improvvisamente preso per i fondelli: solo io, dunque, dovevo correre a dirgli come si comportava Kate? Lei era mia moglie, eppure lui non aveva ritenuto necessario informarmi delle sue osservazioni a riguardo.
«Solo una» fece. «Due settimane fa. Non era notte inoltrata, per cui immaginavo che lo sapessi».
«Avresti comunque dovuto dirmelo!»
«Discutiamone dopo» intervenne accantonando la questione. «Adesso la cosa più importante è trovarla. Non … non riesco a percepire la sua mente» si accorse, prendendo un cipiglio preoccupato.
Insospettito, provai anche io a sondare il castello in cerca della sua coscienza: era come se non ci fosse.
Perché ti nascondi?
«Pensi che …»
«Che Galbatorix abbia deciso di riscuotere proprio ora? No, è troppo presto» commentò. «Credo che lascerà passare del tempo, per far cadere ogni sospetto. È più probabile che lei stia facendo qualcosa che non vuole si sappia in giro. Sfortunatamente per lei, ha a che fare con me».
Pochi minuti dopo, già aveva la risposta.
«È in biblioteca» disse.
«Come hai fatto?»
«Le guardie» replicò scrollando le spalle, ma senza nascondere una sottile vena di soddisfazione. «Kate è una strega potente ed un Cavaliere. Lascia tracce ovunque vada, anche se invisibile. I soldati potranno non averla vista, ma hanno inconsciamente percepito il suo passaggio. Lasciamo tua madre con i bambini e andiamo».
Mamma arrivò pochi secondi dopo: il bambino, che di lì a pochi mesi sarebbe arrivato, non era uno di quelli tranquilli e si divertiva a tenerla sveglia di notte.
«Oh, guarda» fece non appena mi vide, ridacchiando. «Murtagh uno e Murtagh due» ed indicò prima me e poi il pancione. «Non so quale sia il peggiore».
«Magari Eragon» tentai.
Inutile dire che mi beccai un’occhiata di fuoco. «Ma no!» sospirò lei. «Lui era bravissimo! Tu invece … da che sei nato, ma che dico, concepito non mi hai fatto passare una giornata tranquilla! Mi sembrava di avere un puledro nella pancia. Era palese che fossi un maschio».
Dopo che Morzan si fu assicurato che lei si trovasse comoda sulla poltrona nella camera dei piccoli, potemmo finalmente uscire e dirigerci verso la biblioteca: nel farlo, però, ci rendemmo invisibili.
«Se Kate non vuole essere scoperta» aveva riflettuto mio padre. «Starà all’erta che nessuno la stia cercando. Meglio prendere precauzioni».
Non ci volle molto a raggiungere la biblioteca: distava pochi minuti dalla residenza reale. Nell’entrare, facemmo attenzione a non far cigolare la porta, così da non tradirci e non metterla in allarme.
Ad ogni passo che facevo, mi sentivo sempre peggio: non mi era mai capitato di doverla spiare, né di trattarla come se fosse una minaccia. Mai avrei pensato, un giorno, di dovermi comportare così da metterla spalle al muro.
Mi sentivo come se, in qualche modo, la stessi tradendo: ed era così. Quel suo comportamento, lo scomparire durante la notte cercando di far sparire le proprie tracce, faceva sì che non mi potessi fidare di lei e che mi toccasse spiarla.
La libreria del Tridente era immensa, la più grande del Nord: forse era persino più grande di quella di Uru’Baen, che vantava di occupare un’intera ala del castello. Ricordavo di averci passato svariate ore, da bambino e ragazzo. Non era un posto molto frequentato, dunque perfetto per uno come me, non voluto dalla gente e che, reciprocamente, non apprezzava molto la compagnia dei membri della corte: Tornac e Marlene erano a conoscenza di tutti i miei “nascondigli”, per cui sapevano sempre dove trovarmi se per caso non tornavo nei nostri alloggi per cena.
Al Tridente, sebbene non occupasse un’ala intera, la biblioteca ospitava moltissimi volumi, accuratamente catalogati e suddivisi con una tale meticolosità da far invidia a mia madre, e la particolare disposizione degli scaffali faceva sì che ci fossero moltissimi spazi privati dove poter leggere in pace (ovviamente non era l’unica attività che si poteva condurre lì: anzi, avevo il forte sospetto di aver messo incinta Katie in uno di quegli anfratti particolarmente privati). Conoscendola, Kate doveva essersi appartata in uno di quelli più nascosti, e non in quello dove di solito si ritirava se voleva prendersi qualche minuto per sé: sarebbe stato troppo ovvio.
Nell’addentrarmi sempre di più dentro la biblioteca, però, percepii qualcosa che non sentivo da parecchio tempo, e che inevitabilmente mi riportò alla mente ricordi indesiderati: l’aria era pesante, e a tratti sembrava crepitare. Era piena di magia oscura.
Mi bastò lanciare un’occhiata a mio padre per capire che anche lui l’aveva percepita: sfortunatamente non era una mia allucinazione.
Maledizione, Kate!
Poche svolte dopo, ci ritrovammo davanti ad un tavolo, nascosto da tre grandi scaffali: vi si accedeva da uno stretto passaggio ricavato dalla disposizione dei mobili, che consentiva il passaggio ad una sola persona per volta.
Accanto al tavolo c’era un grande baule foderato di cuoio, da cui traboccavano decine di pergamene; sopra, la scrivania era quasi completamente occupata da numerosi tomi. Era sufficiente leggerne il titolo per capire di cosa si trattasse.
Alla fine, me l’ha portata via. L’ha corrotta. Dovevo prevederlo.
Sulla sedia, il mantello di Kate era buttato alla bell’e meglio; quanto a lei, era arrampicata su una scala, intenta a recuperare qualcosa dalla sommità dello scaffale.
Pochi secondi dopo, aveva in mano un piccolo libretto: in volto, un’espressione soddisfatta e di sfida.
«Cosa stai facendo?!» mio padre intervenne, cogliendola sul fatto e rendendosi visibile, come aveva deciso. Per Katherine, io ero il suo unico alleato: non potevamo far saltare quel legame di fiducia. Non doveva sapere che ero lì, che sapevo. Ero dunque rimasto invisibile e, per buona misura, dietro ad uno scaffale.
Quando lei si accorse di lui, non furono la sorpresa o la paura le prime emozioni che potei leggerle sul viso: furono la rabbia e il fastidio.
Non mi sarei mai voluto trovare lì: in quel momento, avrei dato qualunque cosa per tornare nelle mie stanze e dimenticare qualunque cosa.
Come ho potuto non accorgermene? Come?!
Hai tre figli, Castigo mormorò cercando di darmi pace. Tuttavia, in lui sentivo la stessa preoccupazione che provavo io. Non puoi vedere tutto. E lei è molto brava a nascondere quel che vuole.
È Katie … è mia moglie! È compito mio proteggerla!
Non potevi proteggerla sia da Galbatorix che da sé stessa, Murtagh.
Era mio dovere. E non l’ho assolto.
«Cosa ci fai qui?!» sibilò scivolando giù dalla scala.
«Oh no, cara, tu cosa ci fai qui» sbottò Morzan. In volto aveva un’espressione così furente che mai mi sarei voluto trovare di fronte. «E soprattutto, cos’è questa roba?!»
«Nulla» ringhiò Kate, sulla difensiva. Il suo sguardo era colmo di rabbia e risentimento e lo trovai estremamente difficile da sostenere, anche se non era rivolto a me, visto che lei non poteva vedermi. Sì, l’avevo tradita: non l’avevo protetta. Quel disastro era causa mia.
Potevo dirle di venirmi subito a dire cos’aveva detto l’elfa. Se l’avessi fatto sarei finito io da Galbatorix, non lei …
Murtagh, Belle stava morendo, Castigo sospirò. Non era e non poteva essere il tuo primo pensiero.
Davvero? Guarda che è successo. Io credevo che fosse spaventata dalla magia nera, e invece …
Non è ancora una schiava, né del re né della magia. C’è tempo per salvarla. C’è ancora speranza. Ce n’era per noi, e ce n’è anche per lei.
Morzan le lanciò un’occhiata di fuoco. «Non prendermi in giro, ragazzina» la avvisò. «Io lo so benissimo cosa stai combinando. Se te l’ho chiesto è per darti modo di giustificarti, prima che vada da tuo padre».
Non puoi dirglielo!
È solo una minaccia, mi rassicurò. Per farla parlare.
Nel sentir nominare Derek, Kate impallidì: sapeva benissimo come suo padre avrebbe preso la notizia del suo nuovo passatempo.
«Questi» proseguì Morzan sollevando uno dei tomi posti sul tavolo. «Sono manuali di magia nera. Mi sbaglio, forse?»
«No».
Non c’era remissività o dispiacere nel tono di Kate: solo consapevolezza.
«Dove li hai presi?»
Kate sostenne il suo sguardo, sedendosi in una poltrona. «A Winterhaal. Ho usato la magia per farli arrivare fino a qui».
«E come li hai introdotti nel castello, superando le difese di tuo padre?»
«Sono la duchessa del Tridente. Ci sono passaggi segreti sconosciuti persino al re».
Morzan sospirò, prendendo posto nella seconda poltrona. «Non ho intenzione di trattarti come un’idiota» fece. «Voglio che parli chiaro. Cosa stai combinando?»
Il labbro inferiore di Katie tremò: era evidente che voleva confidare qualcosa.
«Tuo padre non lo verrà a sapere» mio padre aggiunse, cogliendo quel piccolo segnale.
E alla fine, lei parlò, raccontando di come davvero avesse salvato Belle.
«Nella caverna» mormorò infine, come se volesse liberarsi un gran peso dal cuore. «Ha detto che … beh, ha fatto chiaramente intendere che disapprovasse il fatto che papà non mi abbia mai insegnato certi tipi di magia» fece accennando ai libri riposti sul tavolo. «Che in tal modo il mio potere era sprecato. E poi ha detto che con la sua guida sarei potuta diventare la più potente delle maghe. Dunque ho pensato … insomma, si è teso una trappola da sé! Praticamente mi ha detto che con la magia nera posso sconfiggerlo. Perché non sfruttarla?»
Non c’era traccia di paura o pentimento nella sua voce: negli occhi aveva un brivido di eccitazione e trepidazione, quel brivido di chi ha scoperto qualcosa di fantastico e non vede l’ora di sfruttarlo.
Sono un idiota, mi ripetei sedendomi contro lo scaffale.
Murtagh Castigo sospirò.
No. Ero convinto che fosse terrorizzata dalla magia nera, ed ora scopro che … che è tutto tranne che spaventata.
Ti ha ingannato. Non è colpa tua.
Sì che lo è. Dovrei capire quando mi mente.
Sentii Morzan sospirare pesantemente, come se si preparasse a fare una ramanzina che reputava inutile ma che era necessario fare ad una testa dura. Negli ultimi giorni, quel sospiro l’avevo sentito parecchie volte, ma indirizzato a me e seguito quasi sempre da “cosa ti ho detto riguardo all’uso che fai della tua magia?”.
«Perché» iniziò a spiegarle con il tipico tono da paternale. «Tu non hai la più pallida idea di cosa sia. Una volta che inizi ad usarla, non riesci più a smettere. Lo capisci, questo?»
Lei annuì lentamente, la testa bassa.
Non potei far altro che sperare che capisse veramente, e che non stesse dando a Morzan il contentino, così da farlo stare zitto e poter continuare su quella strada.
«Sono sicuro che uccidere Kjellgrim ti ha dato molto piacere, ma d’altronde l’avrebbe dato a chiunque viva qui» fece, giocando sulla complicità. Kate fece un mezzo sorriso condiscendente. «Ma ti piacerebbe dover sacrificare tuo padre?» il sorriso le morì sulle labbra, sostituito da un’espressione sconvolta. «O tua madre? Che ne dici di Murtagh? Sai che ci sono incantesimi che prevedono il sacrificio dei propri figli?»
Sembrava in procinto di vomitare: personalmente avrei scelto una maniera appena più leggera per farle capire i rischi della magia nera, ma sperai che funzionasse.
«Non …» sussurrò lei, cercando di trattenere le lacrime. «Non lo farei mai …»
«No, certo» mio padre le diede ragione. «Ma vedi, continuando su questa strada arriveresti ad un punto in cui ogni tua morale scomparirebbe. La necessità di continuare a praticare la magia oscura attraverso incantesimi di sempre maggior forza ti indurrebbe a fare cose terribili e distruggerebbe chi sei. È ciò che vuoi?»
«Quello che voglio è vedere la sua testa su una picca! E non dover rispettare quel … quel patto!» singhiozzò lei. Nel vederla in quel modo, dovetti lottare contro ogni mio istinto che mi suggeriva di raggiungerla e confortarla per restarmene lì, invisibile, nascosto.
Pensa a ciò che le serve davvero. Se sapesse che la sto spiando distruggerei ogni fiducia che ha in me.
«È ciò che vogliamo tutti» Morzan la rassicurò. «E faremo qualunque cosa per ottenerla, la sua testa. Ma questo» ed indicò i libri posti sul tavolo. «Questo è il modo sbagliato. Praticando certi incantesimi fai il suo gioco. Secondo te perché ti ha detto quelle cose riguardo al tuo potere ed alla magia nera? Credi di aver davvero scelto volontariamente di venire qua e cercare questi libri?»
Nel rendersi conto di essere stata manipolata in maniera così facile, lei sbiancò. Tuttavia, non proferì parola: iniziò a tormentare un filo che sporgeva dalla manica dell’abito verde che indossava, torcendolo fra le dita per scaricare la tensione.
Sarebbe il caso che iniziassi ad avviarti verso le vostre stanze, fece mio padre. Se non ti trovasse, potrebbe sospettare qualcosa. Non temere, avrò finito in breve tempo con lei. Te la restituirò integra e sana. Forse meglio di come l’hai trovata stasera.
Non avevo alcuna voglia di andarmene: Kate … era lì di fronte a me, con le lacrime agli occhi, chiaramente vulnerabile, e voltarle le spalle e uscire dalla biblioteca mi sembrava la cosa più sbagliata che potessi fare.
Eppure, mi alzai ed iniziai a camminare lentamente fra le file di scaffali, in direzione delle nostre stanze.
Non ci fu un minuto dei dieci che impiegai per fare dalla biblioteca al letto libero dalle emozioni: a tratti sprofondavo nel disprezzo per me stesso, per non essere riuscito a proteggerla, a tratti la paura mi sopraffaceva a tal punto da farmi venire la nausea. E a tratti ridevo come un ubriaco: per diamine, stavo andando a letto ad aspettare mia moglie, quando in ogni altra famiglia sarebbe accaduto il contrario.
Quando mi vide rientrare, mia mamma si avviò verso la porta, senza chiedermi cosa fosse successo: probabilmente, dalla mia faccia aveva capito che non ero in vena di chiacchiere. Si limitò a sfiorare la mia mente con la sua, trasmettendomi un po’ di calma e serenità, per poi richiudersi la porta alle spalle.
I bimbi dormivano ancora, mi resi conto, allungando la mia coscienza verso le loro: non era necessario che andassi nella loro cameretta a disturbarli. Due dei migliori cani-lupo della muta da caccia di mio padre, estremamente docili e divertenti con chi conoscevano (persino con Mellie) e letali con gli estranei, sonnecchiavano acciambellati sul tappeto, a fargli la guardia.
Katherine entrò nell’appartamento pochi minuti dopo che mi ero messo a letto: avevo passato circa dieci minuti a rimuginare sul come accoglierla. Affrontarla, dicendole che sapevo tutto? Aspettare che i sensi di colpa le facessero confessare i suoi misfatti? Fingere di dormire e lasciar correre?
Alla fine avevo seguito il consiglio di Morzan: mi ero spogliato e cacciato sotto le coperte.
Dovrò far oliare la porta, pensai fra me e me nel sentire i cardini cigolare sotto la leggera spinta di Kate. È insopportabile, quel rumore.
Si diceva in giro che il castello fosse infestato: macché. Erano solo le porte vecchie.
Lei raggiunse lentamente la camera da letto e, con un sommesso sospiro, si spogliò. L’abito verde scivolò a terra, lasciando il suo corpo coperto solamente da una corta e leggera sottoveste argentea, che sotto i raggi lunari che entravano dalla finestra riluceva di una luce liquida. Non le arrivava nemmeno a metà coscia, ma non è che coprisse molto di più il resto: per un attimo, quella visione bastò a farmi dimenticare qualunque cosa avessi visto in biblioteca. La vidi dare una rapida, ma affettuosa, carezza alla pancia, ormai quasi di quattro mesi, e poi venne a letto.
«Murtagh?» la sentii sussurrare. Pochi momenti dopo sentii il suo tocco, fresco e delicato, sul braccio.
Non deve sapere, la voce di Morzan risuonò come un monito nella mia mente.
Perciò proseguii nella mia interpretazione: per rendere più credibile il mio sonno, finsi di russare, in una maniera che credevo molto realistica.
Evidentemente, non lo era per lei. «Quello lo chiami un russare?» ridacchiò piano. «Lo so che sei sveglio. Lo so che eri lì, in biblioteca».
Nel sentire quelle parole mi raggelai. «Come?» chiesi, senza più preoccuparmi della farsa.
«Siamo sposati» mormorò mentre mi voltavo verso di lei. È sempre così bella. «Percepisco te così come tu percepisci me. Eri dietro la libreria d’ebano». 
Fece un sorriso, uno di quei sorrisi con cui riusciva sempre a convincermi di qualunque cosa: va tutto bene, non succede niente. È tutto a posto, davvero, sembrava dire.
Eppure, non era vero.
«Cosa credevi di fare?» sospirai. Non ero in vena di urlare, litigare: in verità, mi sentivo solamente molto stanco. Dormire: ecco cos’avrei voluto fare. Mettermi a dormire, risvegliarmi accanto a lei il mattino dopo e far finta che tutto fosse stato solo un brutto, bruttissimo sogno. Gliel’avrei raccontato e lei avrebbe riso, per poi baciarmi e dubitare della mia sanità mentale.
Ma non sarebbe accaduto.
Katherine aveva abbassato lo sguardo, come se non avesse il coraggio di incontrare il mio: presa dalla preoccupazione, continuava a torcere la stoffa della mia maglia.
«Aiutare» mormorò infine. «Ma anche fregarlo e … svicolare da tutta questa situazione».
«Usando la magia nera? Facendo il suo gioco?»
Fu in quel momento che me ne accorsi: ero arrabbiato con lei. Morzan poteva anche credere che lei non si fosse resa conto della manipolazione di Galbatorix, ma io no: Kate non era solo sveglia, era un’ottima incantatrice proprio come il re. Riconosceva un tranello quando lo vedeva.
Lei sapeva benissimo che cercare di batterlo facendolo incastrare nella sua stessa tela era inutile, per mia esperienza. Sapeva cosa faceva la magia nera alle persone, a chi la praticava: gliel’avevo mostrato, anni prima.
Perché diavolo si era messa a fare esperimenti con quella roba?! Era estremamente consapevole del proprio potere, sapeva che utilizzandola sarebbe diventata un pericolo!
Si era messa in pericolo volontariamente: almeno aveva pensato, per un secondo, alle sue responsabilità? Ai bambini, i nostri bambini, che dormivano nell’altra stanza? A quello che portava in grembo?
Katie strinse gli occhi: aveva percepito l’astio nella mia voce.
«Capisco che tu sia arrabbiato» fece. «Ma …»
«Non sono arrabbiato. Mi da fastidio che tu faccia delle idiozie pur essendo abbastanza intelligente per riconoscerle come tali! Lo sapevi benissimo, che lo scopo di Galbatorix era indurti ad usare la magia oscura. Lo sapevi cosa quella merda ti avrebbe fatto e …»
«Non volevo fare nulla di male!»
Le lacrime le scorrevano copiosamente sulle guance: nei suoi occhi non c’era traccia di menzogna, solo un disperato bisogno di essere creduta. L’istintuale bisogno umano di sapere di avere qualcuno che possa comprendere.
E la comprendevo, altrochè: anche io, in passato, avevo fatto quei ragionamenti, tentato gli stessi esperimenti. Sapevo benissimo come si sentiva e cosa le passava per la mente. Era spaventata a morte, voleva scappare, voleva salvarsi: non potevo biasimarla per questo. In realtà non c’era nulla per cui la biasimassi: ce l’avevo con lei perché si era messa inutilmente in pericolo, nonostante sapesse che non avrebbe funzionato.
«Lo so» cercai di tranquillizzarla. «Davvero».
Discutere non sarebbe servito a nulla: il discorsetto di Morzan aveva già avuto i suoi effetti. Darle addosso ancora di più sarebbe stato solamente deleterio. Tremava come se stesse congelando, e la sua espressione era contratta nel rimorso.
«Mi dispiace» sussurrò dopo qualche minuto.
Fu nel sentire quelle parole che nel mio cervello risuonò una campana d’allarme: non avevano alcun senso.
Perché le dispiaceva di aver cercato di sconfiggere Galbatorix? Le dispiaceva di aver usato la magia nera? Non era vero, l’aveva ammesso lei stessa: non voleva far nulla di male.
Le dispiaceva di non aver considerato i rischi della sua scelta? Falso: li conosceva benissimo, quei rischi.
È venuta in contatto con Galbatorix, ricordai le parole di Morzan. Non sappiamo fino a che punto l’abbia influenzata. Togliti i paraocchi.
Era venuto il momento, mi resi conto: dovevo vederla.
E d’improvviso mi resi conto quanto dei suoi comportamenti, nelle ultime settimane, fosse stato studiato: l’aura di tranquillità e calma che emanava, i sorrisi, le parole … persino in quel momento, in fondo ai suoi occhi mi parve di scorgere il suo vero intento: rassicurarmi, farmi credere che andasse tutto alla grande.
L’ha distrutta.  
Fu quello il mio unico pensiero: alla fine, Galbatorix si era vendicato del mio tradimento senza nemmeno sfoderare una spada. Si era preso Kate.

 
   
 
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